Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali, solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.





 


 

 

Poisoned Milk

 

parte IV

 

di Nacchan

 




Quand'ero piccolo, la mamma diceva sempre: "Non dare confidenza agli sconosciuti."
Qualche giorno fa uno sconosciuto mi ha detto: "Diffida dalle persone che conosci. Non sempre sono ciò che sembrano."
Mai parole furono più vere.

Quel venerdì non me lo scorderò mai.
Non scorderò quando la porta si aprì di nuovo, lasciando entrare un Al con faccia dubbia, mentre scioccato mi osservava, capendo ma senza voler far capire di sapere qualcosa che non doveva esser altro che un segreto tra me, William, e le pareti della mia stanza.
"Fratellone..."
La voce scossa da qualcosa che dalla gola, mandato giù a fatica, si adagiava nello stomaco come un mattone. Lo sapevo, era successo anche a me.
"Quel William..."
E il cuore accelerò...
"... non mi piace..."
... per poi fermarsi, qualche attimo, e riprendere a battere.

Tuttavia, il giorno dopo mi ritrovai a stare decisamente meglio. La febbre sembrò essersene andata del tutto, e parte della mia mente fu portata a pensare che forse, quando William ripeteva "Tra poco starai meglio", intendeva dire questo.
Che il giorno dopo, ogni sintomo sarebbe scomparso, lasciando solo un senso di spossatezza che, tuttavia, sarebbe poi venuto a mancare tra il sabato e la domenica.
Così, quel lunedì, quando lo rividi, non potei fare altro che sorridergli, agitando la mano in un cenno di saluto, prima di entrare in classe per essere accolto tra i "Bentornato, Elric!" dei miei compagni di classe.
E le ore passarono, tra la Gray che mi chiedeva se avessi bisogno di appunti, o Douglas che sorrideva sotto i baffi, dandomi il ben tornato.
E alla fine delle prime ore di lezione, William mi aspettò fuori dalla classe, fischiettando.
"Tutto bene?" mi chiese, senza non prima avermi dato un amorevole colpo sulla testa. Grattai sotto la coda, sentendo le guance pizzicare in un tiepido rossore.
"Si, sto... decisamente meglio, grazie."
Evitammo di parlare di ciò che era successo quel venerdì. Anche perché ormai pareva solo un triste e lontano ricordo.
A quei tempi, ricordo bene, tendevo sempre a giustificare il suo comportamento, quell'interesse che spesso mostrava nei miei confronti. Perché quando tra noi non c'era contatto fisico, stavo bene. Quando tra noi c'erano chiacchierate, passeggiate nei parchi, pacche sulle spalle e gelati mangiati sulle panchine, era come aver trovato l'amico che avevo sempre desiderato.
E per qualche mese dimenticai perfino cosa avevo provato in quei giorni di malattia, sotto quelle coperte che, seppur lavate tante volte, ancora mi ricordavano quel momento, l'odore di lui che impregnava ogni fibra del tessuto.
Poi, l'inverno arrivò.
Di quei mesi, impresso nella mia mente, fu il gelo di inizio dicembre.
Non per la bora in sé, o per le piogge che spesso e volentieri si trasformavano in fiocchi di neve, no. In poche settimane, ero riuscito ad allontanare Al da me.
Ero certo che quel giorno mi avesse visto, avesse assistito alla scena, perché non era da lui esprimere pareri negativi sulle persone, non da lui che trovava sempre un lato buono in ognuno.
Forse, alla fine, era lui che si stava allontanando da me, piano piano, e non il contrario.
Al mattino, le chiacchierate si facevano sempre più rade.
I pomeriggi stava spesso fuori casa, con Julia, Michael e il resto della sua compagnia.
Non veniva più in camera a darmi la buonanotte, né la mattina a svegliarmi se non quando vedeva che non mi alzavo dal letto.
Mamma attribuiva la cosa al fatto che stese crescendo, che papà non tornasse più a casa da mesi, che fosse alla ricerca della sua indipendenza, dei suoi spazi, della sua libertà.
Ma sapevo che non era così. Al non aveva mai voluto essere libero. A lui bastava avere me, e stava bene.
No, non sto peccando di presunzione, lo dico perché lui me lo diceva. Sempre.
Almeno fino a quel giorno.
E da lì in poi fu un muro che lentamente veniva a costruirsi, mattoni di ghiaccio gelidi, duri, fautori di una barriera che sarebbe diventata, forse, indistruttibile.
Ma in fondo, a me andava bene così.
Al doveva restare immacolato. E il fatto che si allontanasse da me, mi frustrava e mi rendeva felice. Perché a lui non sarebbe mai toccata la mia stessa sorte.
E sarebbe sempre stato spensierato, senza il mio aiuto, senza il mio inutile sostegno.
Non sarebbe mai stato macchiato di quella che era la mia vergogna e il mio peccato.
Ricordo ancora i suoi sorrisi rivolti alla mamma, la mattina di Natale, mentre scartava felice il suo piccolo regalo.
E quando venne da me, a darmi un bacio d'augurio e a porgermi il suo regalo...
Beh, quella fu l'ultima volta che sentii il cuore sciogliersi nel petto.
Per poi gelarsi.
Io... sinceramente ora non so dire cosa provassi per Al. Era stato il mio migliore amico, la spalla su cui piangere, il diario a cui confidare ogni mio segreto, la luce che illuminava la mia strada, che faceva dissipare le paure, la mano che stringeva forte la mia.
Un piccolo e tenero corpo, che la notte si infilava nel mio letto, mi cingeva la vita; una voce che sussurrava "Stiamo vicini...", "Ti voglio bene, fratellone.", "Non sarai mai solo.".
E invece eccomi qui.
A volte seduto su una sedia a dondolo, altre sdraiato su un letto, a fissare il soffitto.
A pensare.
Solo.

Mentre Al si allontanava, William si faceva sempre più vicino. In ogni senso.
Ogni giorno, con l'arrivo della primavera più tiepida, si fece più caldo, più vivo, più colorato. Mentre mio fratello prendeva le distanze, io nascondevo nell'angolo più recondito del mio cuore ogni sensazione negativa, lasciando spazio soltanto a una finta gioia costruita solo per compiacere quell'amico che tanto avevo desiderato.
William si era mostrato gentile e disponibile, in cambio di qualcosa che ormai ero disposto a dargli, purché continuassi a tenere su quella maschera che ben mi ero premurato di costruire.
In fondo, il dolore non si avvertiva, quasi. Si affievoliva sotto le sue parole tenere, per poi galoppare come una furia nel petto ad ogni suo tocco, ed esplodere una volta abbandonato lì, sul mio o sul suo letto, con le mani piene della sua volontà.
Ma in fondo, la colpa era mia, che mi ero fatto convincere a stare al suo gioco.
Gioco che, nonostante tutto, non andava mai oltre una certa soglia.
Rare volte andava sotto i vestiti, forse perché non eravamo mai completamente soli, mai in...intimità? Non so. Combinava le cose sempre in modo che, in caso di necessità, si potesse fare semplicemente finta di niente.
Qualcosa comunque era destinato a cambiare. Non mi ero mai illuso del fatto che a William sarebbe bastato toccare il mio corpo qualche volta, senza avere nulla in cambio.
Come quella stupida regoletta che i grandi ripetono fino alla nausea ai bambini quando si vuole che facciano qualcosa.
"La mamma ti vuole bene, tu falla felice, aiutala!", "Ti compro quel giocattolo se porti dei bei voti da scuola.", "Se fai il cattivo, ti punirò.".
Se ti fai toccare, io ti sarò amico finché sarò in vita.
Non lo diceva a parole, ma lo faceva intendere perfettamente. Perché ogni volta che mi viziava e coccolava, si prendeva la sua parte, e poi ricominciava.
Così, quasi fosse un circolo vizioso.
E forse perché ero sempre stato buono, gli ero sempre stato accanto, che quel giorno, quando scoppiò qualcosa di più simile a una discussione che non a una lite, le cose andarono come andarono.
"Sei un menefreghista, Ed."
Così, dal nulla. Senza ragione, senza motivo apparente. Solo perché quella mattina avevo deciso di uscire cinque minuti prima dall'aula perché non digerivo più la Gray, solo perché ero andato da Mary Rose a prendermi la solita cioccolata e dopo su quella panchina dove ci sedevamo sempre.
Ad aspettare lui.
E solo per questo, solo per la mia stanchezza, mi ero preso un menefreghista.
Io.
Che gli ero stato appresso fino al mese di maggio, accondiscendendo alle sue pretese, assecondandolo in ogni suo gesto, allontanando la persona a me più cara al mondo per proteggerla, e proteggerlo. Io, che lo avevo ormai dentro fino alle ossa.
Mi arrabbiai con lui, tanto. Così tanto che parte della mia cioccolata gli si riversò in faccia. Così tanto che gli urlai di andare al diavolo, tornando in classe prima della fine dell'intervallo, mandando al diavolo persino il bidello che la sua solita voce diceva "E' proibito salire prima della fine!", a cui aggiunse "Che maleducazione i ragazzi d'oggi."
Ed entrando in classe, sedendomi al mio banco, sentivo la rabbia mischiarsi al dolore, e farsi forte, dolorosa. Avrei voluto sfogare tutto con un pianto, come facevo sempre quando la sopportazione eccedeva il limite, ma non potevo.
Per evitare domande, per non sentire risate alle mie spalle, per non essere deriso o compatito.
Ingoiai a vuoto, aspettando il trillo spento della campana e la ripresa delle lezioni.
Che riniziarono e si conclusero in modo troppo veloce per esser vero. Quando il professor Johnson, Biologia, ci congedò dalla sua ora, quasi non credei alle sue parole.
Poi la molla scattò. In tutta fretta riposi la mia roba nella cartella, la chiusi senza fare attenzione, e scattai in piedi, salutando in tutta fretta e allontanandomi da lì il più in fretta possibile.
Non dovevo incrociarlo, neanche per sbaglio. Uscii perfino dalla parte opposta, pur di non rischiare di incontrarlo.
E invece, forse sbagliai proprio lì.
Una stretta forte al braccio mi costrinse a fermarmi, lasciandomi far cadere a terra la cartella, che si aprì lasciando uscire fogli, quaderni e chi più ne ha più ne metta.
"Edward."
Mi voltai di scatto, osservandolo basito.
E dire che pensavo di evitarlo.
"William, lasciami!"
E lui tirò forte, attirandomi a se.
"Dobbiamo parlare!"
"NON VOGLIO PARLARE!" sbraitai. Ma la sua presa era forte, i suoi occhi piccoli e infuriati.
Avevo davvero, davvero paura.
Cominciò a trascinarmi dietro la scuola, lasciandomi abbandonare la cartella sull'erba, a chiedermi che bisogno c'era, se davvero voleva parlarmi, di portarmi altrove.
E poi, aprì la porta della palestra con un calcio, mi spinse dentro, e la richiuse debitamente.
Quella settimana non c'erano attività pomeridiane. Oltretutto il turno dei bidelli finiva prima per cause a me totalmente ignote.
"Non vuoi?" chiese, guardandomi dall'alto in basso, avvicinandosi sempre di più, sempre di più.
Finché la mia schiena non urtò il muro di cemento, scaldato dal debole sole che vi batteva contro.
"Cosa dovrei dirti?!" buttai lì, senza capire perché le sue mani facessero presa sui miei polsi, andando ad inchiodarli contro il muro.
"Tu nulla. - mormorò. - Ascolta quello che ho da dirti io."
E le sue labbra sul collo nudo, e i denti che acchiappavano la carne, bastarono a mettermi a tacere. Sentii il fiato mozzarsi come ad aver ricevuto una mazzata sullo stomaco, un pugno o qualunque cosa vi somigliasse.
"Sei la mia droga."
Un morso, leggero. La pelle che veniva letteralmente risucchiata nella sua bocca, la punta della lingua che la sfiorava, inumidendola della sua calda saliva, i denti che parevano bucarla, piano, per sentire dolore.
Era come il fuoco, scottante, vivo. Era come la roccia che mi inchiodava a quel luogo, e mi impediva di fare il minimo movimento.
La rabbia che mi era montata in petto in quelle ore sembrò sciogliersi come neve al sole, sotto il tocco delle sue labbra, che mi marchiavano come si faceva con gli schiavi, nell'antichità.
Un marchio di sangue, di peccato. Un marchio di noi.
Il nostro rapporto, quel qualcosa che ci univa, era come un candido, dolce, nauseante bicchiere di latte.
Che ogni giorno, goccia per goccia, si inquinava di un veleno passionale, forte, trasparente. E il bicchiere da fuori sarebbe sembrato immacolato, sempre puro, sempre dolce, ma chiunque avesse avuto la possibilità di berlo, avrebbe ben sentito quel retrogusto amaro, prima di morire.
"Sei la mia vita."
Un bacio dove prima c'era il dolore, la tensione che piano scivolava via lungo le braccia, lungo il busto, lungo gli arti.
Che senso aveva?
Sei la mia vita, cioè? Che senza essere padrone non ti saresti sentito vivo? Che senza il tuo schiavo la noia sarebbe stata la peggior morte?
Che tu avevi bisogno di me, per sentire la vita fluirti nelle vene?
Un bottone, due bottoni, tre bottoni. E già la camicia scivolava lungo la spalla, lenta, accarezzando la pelle, rinfrescandola prima che venisse irrimediabilmente scottata.
Mollò la presa, sicuro che ormai non avrei più tentato di scappare, lasciando che le mie mani si avvinghiassero tra i tessuti del mio indumento, mentre con la punta delle dita sfiorava la spalla nuda, con la bocca mordeva il lobo dell'orecchio.
"Ho bisogno di te..."
Lo aveva ammesso, dunque. Con voce debole, col fiato caldo che colpiva il collo, le orecchie, muoveva ciocche di capelli. Con quella stessa bocca, riacchiappò la mia pelle facendone sopra un altro marchio.
E le mie dita si muovevano, tentando di acchiappare la manica della camicia per sfilarla. Non mi piaceva sentirmi in trappola, non volevo sentirmi come incatenato.
Anche se prigioniero di qualcuno, ormai, lo ero già da tempo.
"... del tuo corpo..."
Scivolò lenta, la mano sul petto. Ad accarezzare coi polpastrelli umidi d'eccitazione i capezzoli, premendoli con delicatezza, stringendoli tra indice e pollice, come fossero soltanto piccoli, inutili pulsanti. E non ebbi la forza di replicare una sola delle sue parole, se non con un singulto sommesso, quasi impercettibile.
"... dei tuoi gemiti..."
E in quel momento mi stupii di quanto la sua voce, in quello spazio chiuso e grande, rimbombasse. Di come la sua voce rimbalzasse dal mio timpano alla parete, e di nuovo al timpano, e di nuovo alla parete, venendo poi assorbita dai muri, qualche secondo dopo.
Sentivo la bocca impastarsi, fastidiosa. Sentivo la gola quasi far male, a mandar giù la saliva che si accumulava e che mi rifiutavo di mandare giù per non fargli capire quanto, in verità, il mio corpo apprezzasse quelle attenzioni.
La sua lingua passò sulle mie labbra, gentile, senza neanche chiedere di entrare.
"... del tuo sapore..."
E poi scese giù, a sostituirsi alle dita in quel piccolo, stupido gioco.
La sua lingua scottava, Cristo. Scottava come l'olio bollente. Era ustionante, penetrava nelle carni, opprimeva il cuore. Ogni suo gesto, ogni tocco, era tensione che andava ad accumularsi tra le gambe, in uno scalpitio frenetico, che voleva soltanto essere liberato.
"... della tua anima..."
La sua gamba, a diretto contatto col muro tramite il ginocchio, si muoveva con lenti movimenti sul cavallo dei pantaloni, lasciando che una scossa si liberasse e scuotesse l'intero corpo.
"Di tutto."
Lingua, denti, lingua, denti. Senza mai esagerare, ma sapendo benissimo quale effetto sortiva quel suo dannatissimo gioco. Risalì il petto con la lingua, tracciandovi una linea poco dritta con una scia di saliva, ritornando al collo, stimolando quel rossore che ora accentuava soltanto il piacere.
"Nh..."
E rimbombai in ogni parete della palestra.
Mi arresi a liberarmi dalla camicia. I bottoni erano allacciati, e di certo William non si sarebbe fermato per aiutarmi a sbottonarli, anche perché la cosa poteva tornargli favorevole. La mia testa si chinò involontariamente di lato, a dar spazio a quell'organo caldo che riempiva l'incavo della mia spalla della sua voglia, mentre la mano, veloce, andava a sbottonare i pantaloni, per poi intrufolarsi dentro i boxer, e cominciare a giocare con qualcosa di più sostanzioso.
La sua mano si aggrappò al mio sesso, carico già d'eccitazione, e con un leggero movimento del polso cominciò a scorrerne la lunghezza. Piano. Piano. E il mio mugolare, simile al miagolio di un gatto, diventò un gemito più forte, mentre le gambe si piegavano, lasciando che il mio corpo si adagiasse sulla sua gamba.
"Non chiudere gli occhi."
Era forse la punizione per avergli risposto male?
Era alquanto frustrante non avere le mani libere. In quei momenti sentivo sempre il bisogno di stringere qualcosa, forse per istinto, forse per scaricare la tensione. Ma il quell'istante potevo solo affondare le unghie nella mia stessa carne, mentre le mani di lui cominciavano a farsi umide per la mia eccitazione.
"William... ahn..." sospirai, mentre con l'altra mano mi faceva adagiare al muro, il bacino sporto in avanti, le gambe leggermente divaricate sul suo arto.
"Come sei bello, Edward..." mormorò, portando per un attimo fuori la mano, una sottile linea di liquido che ancora univa a lui il mio membro, e mi sfiorò il viso, sorridendo, scendendo al petto, al ventre, e riaccarezzando lì da dove era partito, da sopra i tessuti.
Le guance, quasi sicuramente colorite, diventarono di fuoco alle sue parole. Era imbarazzante, sentirmi e farmi vedere in quelle condizioni da lui.
Ma d'altro canto, lui sembrava davvero apprezzare, a giudicare da quel rigonfiamento, per il momento appena abbozzato, che aveva tra le gambe.
Incrociò il mio sguardo per pochi fuggevoli secondi, e poi mi tornò addosso, la sua mano bollente che tornava a sfiorare il mio sesso con talmente tanta voglia da far si che i pantaloni scivolassero giù, e i boxer andassero a piazzarsi poco sopra il ginocchio.
I miei ansiti, sempre più forti, cominciarono a riempire l'aria. La sua mano rapida pareva non avere la benché minima intenzione di staccarsi da quel corpo, di abbandonare la lunghezza che si faceva sempre più umida.
Con movimento lento piegò le ginocchia, poggiandole al pavimento con un lieve rimbombo. Accostò la bocca al mio pene, respirandoci sopra mentre l'indice molestava la punta. Alla sua mano, pochi secondi dopo, si sostituì la sua lingua che, a brevi tocchi, accarezzava la carne, marchiandola al suo passaggio.
Un altro brivido percosse il mio corpo, violento, e quando lui prese a succhiare con forza la mia schiena si inarcò in avanti, le unghie che continuavano ad affondare nelle carni.
"William... William... mhf..."
Dio, volevo stringerlo talmente forte da farlo sanguinare. La mia gamba sinistra si mosse da sola, quasi fosse automatizzata, e si stirò, assieme ai nervi, ai tendini, ai muscoli.
Avevo troppa tensione in circolo, così tanta da farmi male, così tanta che se non fosse stata sfogata io... io...
La sua bocca si fermò. Quando io stavo per venire.
Leccò con avidità la punta, raccogliendo le gocce di quell'eccitazione che voleva solo esplodere.
"Dimmi di continuare, Ed."
Aprii la bocca, basito e sconcertato. Non sarei mai riuscito a farlo. Sarebbe stato accettare permanentemente quella condizione. Sarebbe stato dire addio a quell'unico barlume di lucidità, di coscienza, che ancora mi teneva prigioniero del mondo.
Ma lui reclamava la sua vittoria, lui mi guardava con occhi affamati, lui voleva sentire la mia voce sciogliersi in una pietosa supplica.
E la sua mano risalì la lunghezza con lentezza estenuante, accentuando il piacere, aggravando il peso sul cuore.
"Su..."
Si fermò di nuovo, lasciando che l'indice tamburellasse sulla punta, giocoso.
Non potevo, non potevo, non potevo. Non dovevo cedere, avrebbe significato perdere. Ma poi...
... perdere cosa?
Mossi la testa in avanti, annuendo. Non potevo parlare, non avrei detto nulla. Doveva bastargli un cenno, doveva accontentarsi.
Dio, accontentarsi e William erano due parole che decisamente non andavano d'accordo.
"No, Edward. Dillo. Su. E' facile."
E anche il dito smise di giocare, lasciandomi in bilico tra la voglia e la ragione.
"...W...William..." lo guardai, implorante, mentre gli occhi si facevano liquidi, offuscati dal bramare quel contatto, dal dolore, dalla debolezza della carne.
E alla fine, la voglia prevalse.
"C-Continua... ti... ti prego..."
E subito dopo gli incisivi affondarono sul labbro umido della sua saliva, mentre lui riprendeva i suoi movimenti, stavolta più decisi, più veloci.
Avevo abbandonato tutto con tre parole. Avevo lasciato l'ultimo brandello di ragione che mi era rimasto da quando tutto ciò aveva preso inizio.
Alphonse...?
Uno schiocco sulle mie labbra, gli occhi che per un momento si chiusero, captando la sua ombra giungere così vicino al mio volto.
"Non ci voleva tanto, vero?"
Già. Tanto era limitativo. In un solo colpo avevo detto addio alla mia dignità, alla mia vita, a mio fratello. Tutto era scivolato via. Tutto stava rapidamente diventando un circolo vizioso senza un senso, senza via di scampo.
Autodistruzione indotta.
Rimase in piedi, concedendomi di poggiare la testa sulla sua spalla, le mani ancora dietro la schiena, mentre lui giocava col mio sesso, dando un ritmo irregolare; mentre mi leccava il collo, mordeva l'orecchio, sussurrava il mio nome.
Edward, Edward, Edward.
Edward non c'era più. Edward non era che un involucro, una bambola vuota, un burattino scivolato dalle mani di Dio.
"Liberati, Ed."
E da bravo, eseguii l'ordine. Piccoli ansimi precedettero un gemito più forte che mi liberò da quella tensione. Lì, sulla sua mano. E fregai più volte la fronte sulla sua spalla, pregando le lacrime di non scivolare giù per il viso, a rendere l'immagine ancor più patetica di quel che già era.
La mano libera, che prima posava sul muro, ora accarezzava tenera la mia testa, mentre l'altra si muoveva ancora lungo il mio pene, raccogliendo tutto il liquido che poteva.
Poi, con cauta delicatezza, sollevò il viso, andando a passare il dito bagnato sul mio labbro, tacito invito a farlo entrare.
"Ahm..." mormorò, come fossi un poppante a cui dar da mangiare controvoglia, mentre il dito si insinuava tra le labbra, accarezzando i denti, lasciando che il sapore mi penetrasse con violenza in bocca.
"Su, apri la bocca..." continuò poi, sollevando verso di sé il viso con la mano libera, costringendomi a guardarlo mentre quel dannato dito continuava a scorrere, lasciandomi dischiudere involontariamente le labbra.
Mi ero illuso di poter controbattere, almeno per una volta, le sue volontà. E invece mi ritrovai ad obbedire, quasi fossi un animaletto. La mascella cedette un poco, lasciando tanto spazio quanto bastava per permettere a Wiliam di entrare, il dito accarezzato dai denti, lo sperma che si posava viscido sulla lingua.
Non ero più padrone di me stesso. Ero succube di qualcosa di troppo pesante da affrontare per un ragazzino di quindici anni. Ero succube del suo potere, succube delle sue mani, dei suoi gesti.
Se la bocca fosse stata chiusa, i denti avrebbero digrignato con quel movimento che il suo dito sorbiva. La lingua prese a muoversi per conto proprio, avvolgendolo, accarezzandolo, pulendo via ogni traccia di peccato. Viscido, caldo, un sapore di amara sconfitta.
Quando cominciai a succhiarlo, lui mi sollevò il viso, sorridente, e io scostai lo sguardo, una lacrima che scivolò via per raggiungere le labbra occupate.
"Edward, guardami."
Perché, perché, PERCHE'?
Chiusi gli occhi un attimo, ricacciando indietro la voglia di piangere, e sollevando gli occhi, incrociando i suoi, quel colore così spaventosamente simile al mio. E mentre un altro dito entrava in bocca senza preavviso, la sua mano scivolò lungo il petto, incontrò la mia grandezza che andava rilassandosi, e colse ancora quel frutto proibito.
Poi una leggera spinta col suo corpo.
"Girati."
... Come?
"C-Cosa..."
"Girati, Ed. Ti fidi?"
Fidarmi?! Fidarmi di cosa? Delle sue frottole? Dei suoi "Non succederà più"? Dei suoi gesti carini e affettuosi?
Non mi stavo auto-umiliando abbastanza così? Cosa voleva ancora?
Tremai leggermente, guardandolo confuso. Non capivo, o forse non volevo capire.
"Edward..." cantilenò, sorridendo.
Non potei fare altro che sospirare, assecondando la sua richiesta, continuando a non capire, mentre i miei occhi si incollavano al muro, forse in cerca di una risposta, forse solo in cerca di un qualcosa dove svuotare la mente. Per far sì che diventasse bianca, come quel muro. Poi, di nuovo le sue dita in bocca, mentre il suo corpo aderiva al mio, ancora vestito, ma bollente sotto gli indumenti. E mosse il bacino, lasciando che qualcosa di duro si strusciasse tra mie natiche, portandomi a succhiare con forza le dita.
"Lo senti, Ed...?" mormorò al mio orecchio, leccandolo poi, lasciando che il suo fiato caldo provocasse l'ennesimo brivido dopo.
Oh sì, se lo sentivo. E la cosa non mi piaceva, no, no. La testa cadde in avanti, in segno di affermazione, mentre le mie braccia spingevano in avanti, tentando di raggiungere il muro senza successo. E fu ancora questione di pochi secondi, quel contatto, prima di interrompersi.
Sentii il suo corpo allontanarsi, le dita che ancora tenevo intrappolate tra le mie labbra scivolarono via, e poi, qualche attimo di silenzio.
"Fai un respiro profondo..."
Non feci neanche in tempo a capire cosa volesse dire, che presto realizzai dove le dita che poco prima stavano dentro la mia bocca fossero andate a finire. Gemetti, infastidito, mentre un dito penetrava con pacata insistenza dentro di me, grattando, ruotando, entrando e uscendo.
"Ah... che..."
Spinse più infondo, mentre il suo corpo aderiva al mio, e le sue labbra bombardavano il mio collo di piccoli baci. Era fastidioso. Tremendamente fastidioso. Era qualcosa di estraneo, di insolito, qualcosa che lì non doveva starci. E agitai le gambe, nel panico, tentando di allontanare William da me, spingendo indietro con la schiena.
Ma non ottenni che l'effetto opposto, mentre anche un secondo dito affondava, tranquillo.
"No, no, Edward... non ti preoccupare... non ti faccio male... non ti faccio male..." mormorò, spingendomi nuovamente contro il muro, la mia faccia poggiata per un lato alla parete, mentre con la coda dell'occhio guardavo il suo viso, leggermente colorito.
Mentre quelle dita continuavano a giocare dentro il mio corpo, la mano libera si portò all'altezza dei suoi pantaloni, andando a sbottonarli e a portarli leggermente in basso, lasciando che il suo sesso allargasse appena l'elastico delle mutande.
"Mi... mi da... ahn... f-fastidio..."
"Adesso passa, Ed... ora passa..."
Adesso passa, adesso passa.
Un'altra bugia.
Le dita scivolarono velocemente fuori, mentre venivano sostituite con poca grazia con qualcosa di ben più grande. E scappò un urlo, e un suo gemito mentre spingeva entrando completamente in me, mentre il corpo aderiva ancor di più al muro, e quasi si poteva sentire il mio cuore battere su di esso.
Rimbombarono diverse volte, prima di dissiparsi nel nulla.
"F-fa... male..."
"Sei così... caldo... - bisbigliò, mentre le sue mani scorrevano lungo il mio petto, aggrappandosi ai capezzoli - Passerà... - mentre si muoveva piano, la voce che si faceva più roca - Passerà..."
E le spinte aumentavano, e il fastidio diventava dolore, sempre più forte. Bruciava dentro, bruciava tutto.
"Vado piano, Ed... - molestò l'altro orecchio con la lingua, tenendo il lobo fra i denti - Piano... ti abitui..."
Piano, ma sempre più giù, sempre più in fondo. E un gemito tra il dolore e il piacere scivolò dalle mie labbra, un rivolo di saliva andò a sporcare il mento, ancora qualche rimasuglio di liquido.
Il bacino sfuggì al suo controllo quando finalmente riuscii un poco ad abituarmi alla sua presenza. Il ritmo incontrollato, le mani che avevano raggiunto nuovamente la mia eccitazione, i gemiti che riempivano la palestra, il loro rimbombo infinito sulle pareti, la saliva che colava, lo sperma che impregnava le mani, i muri, riempiva il corpo.
Tutto era l'insieme di un'unica sensazione. Che poi erano frammenti di altre sensazioni che si univano, e rendevano lo stomaco pesante, il cuore gonfio, il cervello saturo di...
Tutto.
E i miei gemiti si trasformarono in respiro rapido, mentre lui mi stringeva a sé, senza uscire dal mio corpo, sedendosi lentamente a terra e cullandomi, il mento poggiato sull'incavo della spalla, i muscoli che si tendevano in qualcosa di simile a un sorriso.
"Sei stato... magnifico... - dondolò, abbracciandomi forte - ... auguri Ed."
... già.
Buon Compleanno.

"Ed, la cena è pronta."
Niente più fratellone?
"Non ho fame."
Un sospiro sommesso, quasi rassegnato.
Un corpo abbandonato nel suo letto, vuoto, spento.
"Come vuoi. Ah, fratellone..."
Oh, eccolo.
"Mh?"
"... buon compleanno."
Il formicolio alla testa, intenso doloroso.
Alphonse, non guardarmi, ti prego.
"... grazie."
Già.
Buon Compleanno.


-fine quarta parte.