Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali, solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.





 


 

 

Poisoned Milk

 

parte III

 

di Nacchan

 



Il dolore alle tempie, pulsanti di stanchezza e di febbre che pian piano si alzava, mi costrinse a riaprire lentamente gli occhi, lasciandomi intravedere qualcosa che non era più la mia scuola.
La mia mano, prima stretta a soffice stoffa di una camicia che profumava d'acqua di colonia, era ora stesa sulla morbidezza delle coperte bianche, piene di quel profumo di fiori di lavanda che la mamma usava per tener profumata la biancheria riposta nei cassetti.
"Mh..."
Tastai il materasso, gli occhi infastiditi dalla luce che entrava dalle persiane, e tra il fresco delle lenzuola sentii una mano calda, che si mosse al mio tocco.
"Ah, fratellone, come stai?"
... Al? Oh, certo. Ero a casa.
"Al...phonse...?"
Ero ancora intontito. Davanti agli occhi avevo ancora le immagini di quel bagno azzurro, di William che mi chiedeva scusa, dei compagni che si domandavano cosa avessi.
Già. Cosa avevo?
Ricordo solo di aver sentito il calore appropriarsi delle mie guance, le forze venire a mancare lentamente, le braccia di William che mi stringevano e il suo calore che mi aveva fatto assopire.
E poi, silenzio assoluto. Il mio era stato un sonno senza sogni. Mi accadeva spesso da bambino, e ancora oggi capita che, in preda a un'influenza, o cose così, i miei riposi siano pieni di desolazione.
Sentii qualcosa di umido bagnarmi la fronte. Sollevai a fatica gli occhi, vedendo un lembo di garza che gocciolava, acqua fresca che scivolava lungo le mie guance roventi.
"Che... Cosa è successo?"
Dio, che straccio. Non riuscivo nemmeno ad articolare bene le parole.
"Mamma ha detto che ti ha portato qua un ragazzo...Un tuo compagno, credo...Ha detto che sei stato male e lui ti ha riportato a casa...Mamma si è presa uno spavento, pensa che ha chiamato a scuola per dirmi di tornare a casa..."
Mi rimboccò le coperte, coprendomi fino alla gola, mentre il mio corpo sputava aria con colpi di tosse poco delicati.
"Vado ad avvertire mamma che ti sei svegliato, faccio in fretta, eh?"
E la porta si poggiò, leggera, mentre la tenera voce di Al riempì la casa, chiamando la mamma.
Poi il silenzio.
I miei occhi, abituatisi finalmente alla luce, cominciarono a guardarsi attorno, quasi come se fossi stato là per la prima volta.
William non c'era. Il suo tepore mi aveva abbandonato nel momento in cui mi aveva poggiato sul letto sfatto da Trisha, ma addosso ai miei vestiti c'era ancora quel buon profumo che aveva impregnato ogni fibra della camicia.
Probabilmente era dovuto tornare a lezione. In fondo lui non aveva alcun motivo per stare fuori dall'istituto, anzi.
Si era mostrato così gentile a portarmi a casa, così gentile e così delicato da non turbare il sonno che mi aveva colto alla sprovvista. Mi ritrovai a chiedermi diverse volte a chissà cosa pensasse lui in quel momento.
Quando mamma entrò in camera, seguita da Al, la guardai sforzandomi di sorridere. Non mi andava di compatirla per il suo viso scavato, né di rimproverarla per essersi esageratamente preoccupata per me.
A dire la verità, mi rincuorava sapere che quelle pastiglie non le stavano facendo dimenticare l'esistenza dei suoi figli.
"Edward, come stai?" disse, togliendo la garza dalla fronte e passandoci amorevolmente la mano.
"Eh... Sono stato meglio, credo..."
Parlare e sorridere erano due cose che mi veniva difficile da fare, insieme. Tossii tra un respiro e l'altro, senza riuscire a portare una mano alla bocca e per questo nascondendo per parte il viso sotto le coperte.
Mi verrebbe quasi da dire Non sono mai stato peggio, ma non sarebbe stata la verità, quindi ritentai di dire le stesse parole di prima in maniera più...udibile?
"Fratellone, hai bisogno di qualcosa?"
Scossi la testa, al momento l'unica cosa che volevo era solo riposare un altro po', giusto un altro pochino... In fondo non facevo niente di male, no?
"Solo riposare..."
"Ok..."
Mentre la mamma mi risistemava la garza, dopo averla inumidita e strizzata con cura, Al mi rimboccava le coperte fin sotto al mento, e per un attimo mi sentii di nuovo bambino, quando Alphonse veniva in camera e mi faceva un po' da mamma, un po' da fratello; quando zitto zitto entrava nel mio letto ("Va meglio, fratellone?), e si stringeva a me, col suo corpicino caldo che mi avvolgeva e mi riscaldava ("Si, Al, grazie..." Bacino sulla fronte.).
"Grazie..." bisbigliai, con voce appena alta per farmi udire da entrambi, che sorridendo toccarono le mie braccia da sotto le coperte e mi ricordavano che se avessi avuto bisogno di qualcosa, avrei dovuto solo chiamarli.
Non feci in tempo neanche a vederli uscire dalla stanza che già mi ero riaddormentato.

Quando sentii bussare dolcemente alla porta della mia stanza, pensai davvero che ignorare quel rumore sarebbe stata cosa giusta per tutti. Mugugnai qualcosa di indefinito, probabilmente rivolto più al sogno che stavo facendo, che non alla realtà che si stava profilando in quel momento.
"Edward, posso entrare?"
Mamma, altri cinque minuti...
"Forse sta dormendo...vuoi che lo svegli?"
Era una voce così lontana...
"Ma no, poverino...Si vede che ne ha bisogno..."
...Decisamente stavo ancora sognando.
"Posso rimanere con lui?"
"Certo...Fai pure."
Erano voci così lontane, eppure così distinguibili.
Il rumore di una porta che si apriva e si richiudeva. Passi soffici che impregnavano il pavimento della loro presenza, quel dolce profumo di acqua di colonia che tornò a riempire le mie narici, con pacatezza.
Una sedia che si muoveva di pochi centimetri, lasciando che un corpo longilineo ci si accomodasse, portando la schiena verso di me, povero malato costretto a letto.
Il mio corpo, che prima dava le spalle a quella porta ora socchiusa, si voltò dalla parte opposta, ancora assopito. Per quanto volessi davvero aprire gli occhi, e vedere se sogno e realtà combaciassero, le palpebre erano ancora troppo pesanti.
Potevo sentire un leggero pizzicore sulla nuca. Mi accadeva sempre quando qualcuno mi osservava senza che io vedessi.
"Ehi..." sentii, leggero come un soffio.
E al tocco della sua mano sui miei capelli, occhi dorati si aprirono, lenti, lucidi, affaticati. Incontrando i suoi.
"W...William...?"
"Ciao..." e lo vidi sorridere tra le lacrime di sonno. La voce debole, gentile, la stessa che mi parlava poche ore prima su un gelido pavimento.
Sembrava tutto così...caldo. Così quieto.
"Ciao..." risposi, tra l'intontito e...qualcosa di indefinito.
Non sapevo con precisione, ma di sicuro era stata una bella sorpresa trovarlo al risveglio.
Mi passai una mano tra gli occhi, cercando di assumere un po' di contegno, mentre lui aveva dipinto sul volto un sorriso sornione.
"Come stai?" domandò, mentre gentile mi sistemava le coperte.
"Una chiavica..." risposi, mentre il pizzicore alla gola si faceva intenso, il catarro che andava su e giù per la gola facendomi rantolare ad ogni respiro. Si, Cielo. Nonostante fossi in un luogo fermo, sentivo ancora il pavimento ballare, la stessa sensazione che avevo avuto quando papà ci aveva portato in Francia con quello stupido battello che traversava la Manica.
Stupido, stupido battello.
"Hai preso qualcosa?"
"No... Ho solo mandato giù mezzo litro d'acqua... Mamma è fissata con certe cose, dice che... cough... dice che fa bene..."
"E ha ragione..."
"Non riesco...a mandare giù niente...ho le tonsille che sembrano...cough cough... due palloni..."
Con la poca forza che avevo in corpo, tentai di mettermi seduto sul letto, ma lui mi guardò, scuotendo la testa, e mi poggiò la mano sulla spalla fermandomi.
"Stai sdraiato, è meglio..."
E, in quel momento, non potei far altro che obbedire, da bravo, e tornare alla mia posizione originaria. Sollevai le ginocchia, avvicinandole un poco al petto, che intanto sobbalzava, scosso dai battiti del cuore reso veloce dalla febbre alta e da quel po' di paura che avevo in quel momento.
Solo con lui, una seconda...terza volta.
Eppure ora sembrava così gentile...così premuroso...Sembrava davvero essersi pentito di...ciò che non aveva un perché.
"Hai bisogno di qualcosa?"
"No...Grazie."
Sorrisi.
"Grazie...per essere venuto...Non...cough...non me lo aspettavo..."
"Douglas mi ha chiesto di portarti gli appunti della sua lezione, se potevo...E anche la Gray...così ne ho approfittato...Ti ha dato fastidio?"
No.
"No."
Se mi avessi odiato non saresti venuto, no?
"Mi fa piacere che tu...sia venuto, davvero...Dovrò essere...debitore a Douglas..."
E lui rise, di quella risata cristallina che avevo sentito da poche persone. Forse solo da Al, prima di conoscere lui.
Mi riaccarezzò i capelli, guardandomi da capo a piedi, con fare preoccupato.
"Non è...colpa mia, vero?"
Dio, che domanda è? Perché sparisci sempre quando ne ho più bisogno? Ieri mi hai abbandonato tra gli alberi, oggi tra le sue domande.
"Ma..che dici...certo che no..."
A dire la verità, non ne ero poi così sicuro. Ma davvero, era meglio non caricarlo di colpe.
Pareva averne già abbastanza, in quel momento.
Sospirò, lo sguardo carico di...tristezza, sensi di colpa, frustrazione. Puntellò i gomiti sulle sue stesse ginocchia, per poi far cadere di peso la testa fra le sue mani, ciocche di capelli che sfuggivano, andando a fargli da riparo.
"Will...William..."
Scosse la testa, ancora ben poggia sulle sue mani, mugugnando qualcosa che non riuscii a capire.
E quasi mi venne di istinto, poggiare poco saldamente la mano sul materasso, e spostarmi con i fianchi fuori dal letto. La mano libera, tremante, si poggiò sulla sua spalla, che sussultò, leggera, sospresa, e il mio volto si avvicinò alle sue mani, sfiorandole con la fronte.
"Ed..."
Sollevò lo sguardo, e io il mio.
"Non è colpa tua...Davvero."
E per la terza volta, la sua mano affondò nei miei capelli, sciolti e disordinati sulla schiena. Mi spinse dolcemente a sé, lasciandomi adagiare sul suo petto, il battito regolare, quasi facesse concorrenza a un orologio.
Così troppo tranquillo, così rilassante... Il suo profumo persistente entrava nelle mie narici, e quasi pareva placasse l'incessante grattare della gola.
Restammo così per un bel po' di tempo, credo. Quel ragazzo pareva decisamente avere uno strano effetto su di me.
Era stata una calamita, fin dal primo giorno.
Era una droga dal quale no, non avrei avuto scampo.
Quando feci pressione sulla spalla, lui mi aiutò a rimettermi composto sul letto.
"Devo andare...Al bagno..." mormorai, grattandomi la testa.
"Vuoi che chiami tua madre?"
"No...Ce la faccio...è la stanza accanto..."
Scostai con lentezza estenuante le coperte, lasciando scivolare fuori le gambe, e mi chiesi se avrebbero mai retto per pochi passi. Sentivo le gambe molli, mentre peso della mia schiena cominciava a gravare su di esse, e poggiandomi alla spalla di William, azzardai i primi passi verso la porta.
Dopo di che, mi ritrovai rovinosamente a terra.
"Ouch..."
"Ed!" fece lui, alzandosi dalla sedia e venendo in mio aiuto.
Aveva delle mani così calde...
"Meno male che ce la facevi." aggiunse poi, prendendo il mio braccio e lasciandolo passare dietro le sue spalle, sollevandomi poi con forza.
"Scusa..." fui capace di rispondere, mentre mi aggrappavo. Non gli chiesi neanche di accompagnarmi, fu una cosa che capì lui da solo. E passo passo, la porta della mia camera si aprì quasi contemporaneamente a quella del bagno, di fronte a me.
"Su, ti aspetto."
E fu tempo di cinque minuti, che mi ritrovai di nuovo sul letto, a discutere del più e del meno, della noiosa lezione di algebra di Douglas, delle opere preferite della Gray, del cortile ora decisamente più pulito e alla febbre che sembrava essere diventata più tollerabile.

"E' un tuo amico?"
"Si...Fa la terza...Mi ha aiutato quando...cough...quando sono stato male il primo giorno di scuola..."
"Capito..."
Mamma sorrideva.
Mamma pensava che fosse un bene.
Mamma non sapeva.
Mamma non avrebbe mai creduto.
E io non avrei mai parlato.

Quando lo vidi piombare in casa il secondo giorno, mentre Al mi faceva compagnia raccontandomi di quanto isterica fosse diventata Julia, quasi non ci credetti. Era stata una gioia per me, averlo in casa la sera prima, ma non pensavo che sarebbe venuto anche l'indomani.
E l'indomani ancora.
Era stato così gentile da aver portato persino dei dolci per la mamma e per Alphonse.
A me ne aveva portati altri, a parte.
"Hai bisogno di mangiare, per riprenderti!", scherzava, mentre mi porgeva il vassoio. E le sue piccole cure parvero fare decisamente più effetto di due stupide pastiglie al mattino e due alla sera.
Piacevolmente stupito, mi ero lasciato viziare e coccolare durante quel periodo di degenza, fino a quando al mio fisico non fu concesso di reggersi in piedi senza il bisogo del sostegno di nessuno.
Era il quarto giorno.
"Sembri stare meglio, eh?"
"Si, decisamente..."
"Potresti tornare a scuola, domani... - e mi toccò la fronte, gentile - La febbre sembra passata..."
"Magari a cena ne parlo con mamma...e vedo cosa dice..."
"Wow, se parli di cenare, significa che stai davvero meglio allora!"
"Si, prendimi in giro...", e gli diedi una leggera gomitata sul fianco, mettendo a rischio quel povero pasticcino che si trovava tra le sue mani.
"Ma io sono serio..."
"Se tu sei serio, io sono alto..." e stupido, tanto da prendermi in giro da solo.
Ma a lui scappò solo un sorriso divertito, e lo stesso successe a me.
Poi Al venne a bussare dicendo che la cena era pronta, e William, prendendo le sue cose, si congedò e si augurò di vedermi la mattina dopo di fronte al cancello della scuola.
E con un cenno della testa e l'agitarsi della mano, gli augurai la buonanotte e un arrivederci all'indomani mattina.

E fu questione di ore, di ore soltanto.
"Te lo avevo detto, Edward, non dovevi andare fuori."
Era necessario infierire? No, perché...
"Fratellone, come stai?"
Sinceramente parlando? Una merda. Ma di quelle brutte.
Ma non potevo dirtelo, no.
Non riuscivo nemmeno ad aprire la bocca. Annaspavo, cercando aria laddove ve ne fosse, stringendo convulsamente le coperte, gli spasmi provocati dalla tosse che scuotevano il mio corpo infreddolito, la temperatura sballata a causa della febbre.
E a quest'ora probabilmente lui era andato nella mia classe per cercarmi, e non mi avrebbe trovato, e non avrebbe capito.
O forse avrebbe capito troppo.
E intanto soffocavo, sotto le coperte a volte troppo calde, a volte troppo inutili a riscaldarmi. E dire che quella mattina mi ero svegliato con tutta l'intenzione di andarci, a scuola.
Fallimento.
Misero fallimento.
Al venne nella mia stanza, portandomi della zuppa di verdure calda e sistemandomi con pazienza la garza, che continuava a muoversi, a cadermi sugli occhi, a scivolare a terra ogni volta che un colpo di tosse troppo forte mi faceva muovere.
Era persino peggio del primo giorno.
Le tonsille parevano talmente gonfie da ostruire il passaggio dell'aria, sentivo il catarro graffiare e infettare, portando alla mia bocca quel fastidioso sapore di sangue che non sentivo da tempo, ormai.
Quand'era stata l'ultima volta che ero stato così male ..?
Se avessi avuto la possibilità di vedere la scena da un punto qualsiasi della stanza, sarebbe stato piuttosto divertente. Al reggeva il cucchiaio pieno di quella sostanza verde, portandolo cautamente alla mia bocca, evitando di soffocarmi con le sue stesse mani. E io che, ad ogni ingoio, facevo una smorfia schifata, e una di dolore.
Difficile assaporare qualcosa in maniera decente, in quelle condizioni.
Quando poi finii di mangiare, e Al se ne andò, il mio cervello smise per un attimo di pensare, e si limitò ad ascoltare le voci che animavano la casa, in cucina.
Al sarebbe uscito con Julia e Michael, come ogni venerdì.
"Torno per le sei e mezza!", come ogni venerdì.
Sarebbe andato al parco al centro della città, come ogni venerdì, avrebbe preso un cono fragola e cioccolato, come ogni venerdì, e poi sarebbe tornato a casa, si sarebbe seduto a tavola, e armeggiando con la forchetta, avrebbe raccontato dell'ennesima rissa tra Jack l'ubriacone e il propretario della drogheria sulla 12esima.
Come ogni venerdì.
"Stai attento, Alphonse..."
Le solite raccomandazioni del venerdì.
E oggi che era venerdì, più tardi papà avrebbe chiamato dallo Yorkshire per avvisarla che non sarebbe tornato prima di lunedì, e lei avrebbe gridato qualcosa come "Non c'é bisogno di inventare scuse per restare con la tua puttana.", e poi giù a farmaci.
Come ogni venerdì.
...Abbastanza monotono.
La porta si chiuse in un lontano rumore, mentre l'orologio batteva le quattro.
I miei occhi si persero a guardare il soffitto, mentre la cucina si riempiva di rumore di piatti sbattuti con poca grazia sul lavello, e di qualche colpo di tosse, ogni tanto.
Il calore rendeva le palpebre pesanti, ma non volevo dormire, non potevo dormire.
Se William fosse arrivato, non avrei voluto farmi trovare in queste condizioni. Avrei voluto che mi vedesse allegro, in piedi, guarito.
Non ridotto alla stregua di uno straccio.
"Edward, sei sveglio?"
...Mh?
"Nh..."
"Esco a fare spesa. Ti compro le medicine. Tu non ti muovere da qua, ok?"
Come se fosse facile.
"Nh... Ok..."
La vidi avvicinarsi e darmi un bacio tra i capelli, tentando di comportarsi come la madre che doveva essere, e che invece vedevo solo a sprazzi qua e là. Poi chiuse la porta alle sue spalle, frugando dentro un orribile vaso cinese formato mignon per scovare le chiavi nascoste sotto le lettere di papà.
E quando la serratura scattò, lasciando che la porta di ingresso, la sentii sussultare.
"Ah, ciao! - sentii a distanza - Tu sei il compagno di Edward, vero?"
Voci confuse.
Non cedere, Ed, non cedere.
"Arrivi giusto in tempo...Sto uscendo un momento, potresti badare a lui mentre sono via?"
Non cedere.
Ancora voci confuse.
"Si, stanotte è peggiorato...Spero che in farmacia qualcuno sappia consigliarmi per bene...Non starò via molto, grazie!"
E poi, la porta che si chiudeva.
Mamma era andata?
No, sentivo ancora dei passi.
"M....Mamma...?"
La porta si aprì, piano, il cigolare dei cardini penetrava nelle mie orecchie come una trivella, andando ad alimentare il mal di testa crescente. I passi si fecero sempre più distinti, più chiari, e quando la sua figura si erse davanti a me, per un momento il respiro, assieme alla voce, morì in gola.
"Ciao Ed..."
Si avvicinò, piano, lo sguardo grave sul viso. Aprii la bocca, ma non ne venne fuori nulla. Non avevo le forze.
Mi poggiò la mano sulla spalla, lasciandola scorrere lungo il braccio, poggio a peso morto sopra le coperte bianche.
"Stai di nuovo male?"
Un brivido. Leggero cenno con la testa.
"Scusami, è colpa mia. Avrei dovuto lasciarti rimanere a letto, ieri."
Feci uno stanco cenno di diniego con la testa. Non era colpa sua, no.
Dopo forse.
Coi polpastrelli, leggero, prende la garza, immergendola dentro la bacinella, e lasciandola lì, a galleggiare. Lento, inarcò la schiena, poggiando le sue labbra sulla mia fronte.
"Sei così caldo..."
Deglutii a vuoto. Quella voce che andava incrinandosi, non mi convinceva. E mi convinse sempre meno, fin quando il cuore saltò uno, due battiti.
E la confusione tornò a bussare alla porta.
Fuoco. Niente di più simile. Fuoco.
Come la febbre che lentamente mi consumava. Come la legna che arde al camino d'inverno. Come il sole d'agosto ai Tropici, che batte caldo.
Fuoco.
Le sue labbra erano così morbide, e così calde, che non capii più nulla. La sua lingua, che gentile mi accarezzava la bocca, lasciava una scia umida che sapeva di menta.
E bruciava, Dio come bruciava.
"Ed..." sussurrò, il respiro che solleticava la pelle.
Perché?
Ti avevo creduto...
"Non... non succederà più."
E la tua bocca rimbalzò sulla mia con pacata leggerezza, più volte, mentre la lingua tentava di entrare, in silenzio, senza permesso.
Ma no, ero ancora abbastanza cosciente da riuscire a tenerla chiusa.
Prese tra i suoi denti la carne, torturandola con lentezza. E un brivido cominciò a percorrere la mia schiena, in alto e in basso, in alto e in basso, su e giù, sbattendo nel cervello e ricolando a picco.
Poi, finalmente, lasciò la presa, con un piccolo schiocco.
La sua mano scivolò tra i capelli, mentre l'altra entrava sotto le coperte, toccando il petto ansante, esplorandolo, toccandolo, stimolando e tornando ad accarezzare il collo.
"Scusa..." mi ripeteva, con la stessa voce di quella volta, con lo stesso tono carico di quel qualcosa che non riuscivo a capire. Lì, sull'orecchio, respirava e mordeva e leccava, e mordeva e respirava.
Il mio respiro, grave di per se, si fece se possibile ancora più pesante.
"Stai tremando..."
Questa era colpa tua, William.
Eri tu che mi facevi tremare, quel giorno.
E quel lobo che non smettevi di torturare, alla fine lo abbandonasti per il collo, bianco cadavere per la malattia, umido della tua saliva.
Erano piccoli baci sul petto, sulle spalle che lentamente denudavi, spostando con impazienza la maglia del pigiama.
Era un respiro che diventava gemito, dapprima appena udibilie, e poi sempre...
Sempre più forte.
"W...Will..."
Ci provai a fermarlo, ma ero davvero troppo debole, e forse la mia mano poggiata sulla spalla non fece che alimentare quel fuoco che non si sarebbe più spento.
Non di nuovo, per favore...
"N-no...William..."
Ma lui non sentiva, non udiva, non seguiva nulla, se non quell'istinto primordiale che ogni tanto bussava alla sua testa, come se la spina venisse staccata, e la logica si perdesse in un turbine di sensazioni indefinite.
Io in quel momento non c'ero. Lui neanche. C'era solo il suo corpo, le sue mani calde che esploravano ogni centimetro della mia pelle, e c'era il mio corpo debole, distrutto, scosso da brividi di varia natura.
Paura, freddo e caldo, eccitazione.
Non pensare, Edward. Non. Pensare.>
Sentii i suoi polpastrelli caldi infilarsi sotto le mie vesti, e andare a sfiorare con calma i pettorali, soffermandosi dove la pelle era più sensibile, dove provocava scosse di tensione che dal cuore, andavano a concentrarsi sempre più in basso.
Odiavo non avere controllo del mio corpo.
Un gemito scappò dalle mie labbra, e lui si voltò a guardarmi, sorridendo, mentre le dita della mano libera giocava con una ciocca di capelli.
"Shh..." fu solo capace di mormorare, mentre di nuovo baciava la mia fronte.
Che contrasto assurdo.
"Vedrai...tra poco starai meglio..."
Non capivo, non volevo capire, era solo un incubo.
Si, era solo la febbre, non era la realtà, non era la verità.
...Cristo, si che lo era. Ed era così tangibile da fare quasi schifo.
Senza preavviso, la sua mano scivolò fuori dalla maglia del pigiama, e lui si rimise in posizione eretta, guardandomi. E io spaurito, senza capire, sibilai qualcosa, ma quel qualcosa morì sulle mie labbra prima che un suono potesse fuoriuscire, quando lui si inchinò davanti al letto, sorridendo, toccandomi la spalla umida delle sue carezze, gentile.
"Tra poco starai meglio."
E la sua mano si aggrappò alle coperte, sollevandole, e vi andò sotto, lasciandosele cadere sulla schiena.
Panico.
Il mio braccio cominciò a muoversi sulle coperte, alla disperata ricerca della sua testa. Cosa...
"W... William... no..."
Un bacio sulla pancia, la lingua che giocava con l'ombelico, inumidendolo, e i denti che, senza stringere, acchiappavano lembi di pelle da lì, e sempre più giù. Piano.
Piano...
Sentii i tessuti scivolare lungo le mie gambe, trascinati dalle sue mani con calma, senza fretta.
Senza fretta.
Un sigulto scappò dalla mia bocca, un suono acuto che non sortì alcun effetto, mentre il mio viso si inumidiva, un po' per il sudore, un po' per la febbre, un po' per le lacrime.
La mano scivolò leggera sul basso ventre, dolce, perfida, impaziente. La pelle tesa fu tempestata di teneri baci, usata come foglio su cui lasciare tracce che sarebbero state indelebili. Le mie gambe si muovevano da sole.
Scappa, Ed, scappa!
Troppo debole, troppo sconvolto. Tramortito da questo e quell'altro sentimento.
Quando avvertii la sua mano sopra di me, sopra la mia involontaria eccitazione, sentii una piccola parte di me morire, e strinsi gli occhi, terrorizzato, mentre i denti affondavano nelle mie labbra, a trattenere i gemiti.
E di nuovo quel su e giù martoriante, distruttivo, stavolta diverso, senza indumenti a fare da barriera, senza la protezione inutile di boxer, o pantaloni. E il mio petto cominciò a sobbalzare convulsamente, senza quasi far entrare aria nei polmoni, talmente i respiri erano veloci. Mentre una mano mi accarezzava il'interno coscia, l'altra molestava la pelle pulsante, massaggiandola con il pollice, distendendola, graffiandola con le unghie.
"Nh..."
Morsi più forte, sangue che inumidiva le labbra.
"Edward... - un suono reso ovattato dalle coperte - Non trattenerti, Edward..."
Il labbro scivolò dalla presa nel momento in cui qualcosa di umido avvolse il tutto, con rapidità tale che quasi non me ne resi conto. E lì non ressi più, e un gemito scappò via dalla gola, risalendo fino alle labbra, liberandosi nell'aria.
Il contatto si interruppe - "Bravo, Ed..." - per poi riprendere. E la punta della lingua titillava quella del mio membro, bagnandolo, lasciando che saliva colasse lungo tutta la lunghezza.
Lo sentivo, lo sentivo, era disgustoso quasi quanto la mia voce ansante.
"Aah...B-basta..."
E tra un lamento e un gemito, mi parve di sentire un rumore esterno, ma così lontano, così soffice, che non ci diedi peso.
La sua mano si muoveva sempre più veloce, mentre la bocca baciava e succhiava con forza crescente, mozzandomi il fiato, strappando via il coraggio di aprire gli occhi anche solo per un istante.
Tra una leccata e una succhiata, sentivo il suo fiato caldo su di me, quasi al mio stesso ritmo, gemiti forti che riempivano l'aria.
E mi accorsi che la sua mano, quella prima libera, non poggiava più su di me.
Cominciò a pulsare, doloroso. Cominciai a sentire un vuoto allo stomaco, che si accartocciava su se stesso, e il caldo che mi avvolgeva in una morsa asfissiante, la testa che girava. E un leggero formicolio sul viso, poi sul petto, e poi sul resto del corpo, come se qualcuno stesse osservando e giudicando, disgustato.
E con un gemito forte, stringendo gli occhi, quasi urlando, mi liberai di tutta la tensione che avevo in corpo, venendo nella sua bocca, sentendomi sommerso dalla paura, dalla vergogna, da quel liquido bianco.
E fu cosa di poche decine di secondi. La sua lingua ripulì là dove io avevo sporcato, il mio corpo sembrò essere diventato insensibile a qualsiasi cosa, e anche lui gemette, forte, e dopo uno, due minuti, forse, risbucò da sotto le coperte.
Gli occhi ancora chiusi. Stretti stretti, come quando eravamo piccoli io e Al, e la mamma entrava silenziosamente per vedere se dormivamo.
Ma non dormivamo.
Come quando papà gridava contro di lei, nel cuore nella notte, e io non volevo sentire.
Il formicolio sparì.
E dopo aver sentito la sua mano sfiorarmi la testa, la porta si aprì, si richiuse.
"Oh, ciao Alphonse!"
E il cuore si fermò ancora.
E da lì in poi capii che tutto era perduto.
Nessuna via di scampo.
Nessuna promessa che avesse tenuto.
Solo buio, dolore, e mani e bocche avide.
Nulla di più.


-Fine Terza Parte.