Personaggi: Edward Elric, Envy, un po' tutti xD
Rating: Nc-17
Avvertenze: Nya!°.° E' una AU. Niente alchimia, niente bracci artificiali,
solo i personaggi di FMA mossi un po' come mi pare. O meglio, secondo un filo
logico pressohé INESISTENTE. Tutto accade per caso.<3
I personaggi sono tutti (c) Hiromu Arakawa-sensei, purtroppo per me, fortuna
per loro. La storia si basa su eventi realmente accaduti, ma non starò a
menzionare né quali, né chi è stato la causa di tutto ciò. Spero apprezzerete
comunque, anche se è squallida. *inchino*
Piccola nota: Anche se EnvyEd, in questa fic non troverete Envy. O meglio, non
proprio lui. L'idea di utilizzare il suo corrispettivo umano, ossia William, è
nata dal fatto che un ragazzo coi capelli verdi, in un liceo abbastanza
rinomato, e per di più ai primi del 1900, sarebbe stato un po' subdolo e fuori
luogo. Sappiate che comunque, William e Envy sono la stessa, medesima cosa.
Poisoned Milk
parte II
di Nacchan
Il vuoto cosmico.
O qualcosa di simile.
Quando quella sera arrivai a casa, le parole, le chiamate, le richieste, i
racconti di Al, tutto mi scivolò addosso, senza neanche preoccuparsi di
entrare nelle mie orecchie e farsi elaborare da un cervello che ormai
proiettava, davanti ai miei occhi, sempre lo stesso film.
"Vado in doccia." bisbigliai, senza dire ciao, o sono tornato.
Salii le scale con così tanta pesantezza che i miei passi rimbombavano per
l'andito, finché non entrai in bagno e chiusi la porta alle mie spalle.
Guardai la vasca. Così… bianca, pulita.
E mi guardai, i pantaloni ancora sporchi, un leggero alone bianco lì, sul
basso ventre.
Dunque non era stato solo un sogno.
Avanzai barcollando fino al lavandino, aprendo con esasperata lentezza il
rubinetto e ascoltando lo scroscio dell'acqua che si infrangeva violenta sul
lavello.
A cosa stavo pensando...?
Ah, sì.
Rinfrescai il viso, chiudendo il rubinetto del lavabo per aprire quello della
vasca.
Mugugnai di dolore, mentre le mie dita acchiappavano i lembi del maglione
scuro e lo sfilavano via dal mio corpo, e sbottonavano la camicia, che
scivolò, lenta, lungo le mie braccia, cadendo a terra.
Quando poggiai le mani sul bottone dei pantaloni marroni, deglutii.
Avevo paura di vedere quale era stato il risultato di... di... Non riuscivo
neanche a dargli un nome.
Guardando al soffitto, piano, troppo piano, li calai, lasciando che si
afflosciassero sul pavimento freddo. E poi, le mie dita si infilarono tra
l'elastico dei boxer e la pelle ardente, indecise sul da farsi.
Non sapevo neanche perché fossi così timoroso. Forse vedere avrebbe confermato
tutto quanto, mentre invece ero ancora in tempo per annullare tutto, e credere
soltanto che quell'albero, quei capelli biondi, quella mano, quel dannatissimo
pomeriggio ambientale...in realtà esistessero solo nella mia fantasia.
E mentre l'intimo scivolava lungo le mie gambe, sentivo l'umido che si
spostava, fastidioso, invadente, quasi non volesse staccarsi dal mio corpo.
Quasi dicesse guarda che ci sono, sono qua, presente, e non ti libererai di
me così facilmente.
Già.
Come se avessi bisogno di sentirmelo dire, poi.
Mi passai una mano lungo il sesso sporco, sentendo quel liquido imbrattare le
mie dita, chiedendomi se tutto ciò fosse giusto, se fosse stato solo un
momento, se...
Se cosa?
Era stata colpa mia, in fondo. Invece che mandarlo via prima che potesse
succede quel che poi è successo, mi ero stato zitto e lo avevo lasciato fare.
Ma, Dio, che altro dovevo fare?! Non me la sentivo di spingerlo via, non me la
sentivo di dirgli basta, non...
Non volevo vederlo andare via.
Si, cazzo, avevo avuto paura.
Ma se l'avessi respinto, se gli avessi detto no...Mi avrebbe odiato, Cristo,
mi avrebbe odiato. Lo so.
E io non volevo vedere l'odio nei suoi occhi, non per me.
Non così presto.
"Che schifo..." mormorai, più rivolto a me stesso che a quella roba che aveva
riempito la mia mano. E finalmente, immersi il mio corpo nel piacevole tepore
di una vasca piena d'acqua bollente.
Dapprima chiusi gli occhi, alla ricerca di un po' di conforto in quel buon
calore, così diverso da quello che prima si era impossessato del mio viso, del
mio corpo. Era calore fraterno, che mi abbracciava, mi avvolgeva e...
Fraterno...
Al.
Dio.
Presi la spugna in mano, imbevendola di sapone e cominciando a passarlo
lentamente sulle braccia...
Come avrei potuto riguardarlo in faccia?
... sul petto...
Non avrei potuto reggere il suo sguardo, non avrei potuto rivolgergli la
parola.
... e poi tra le gambe. Prima piano, e via via sempre più in fretta.
Cancellati, eliminati, vattene, non esistere più.
Non sei mai esistito, non è mai accaduto niente, è solo la mia mente che vede
cose che non ci sono.
Mi morsi il labbro, mentre la spugna scivolava sempre più in fretta,
liberandomi da quella orribile sensazione di appiccicoso.
E poi, mi scivolò via dalle mani, e la morsa allo stomaco si fece sempre più
stretta.
"Dio... Dio... "
Le gambe si piegarono quasi automaticamente, raggiungendo il petto che vibrava
per ogni battito del cuore, e io le abbracciai, stringendole vicino a me,
sentendo le lacrime che scendevano da sole lungo le guance, confondendosi con
le altre infinite gocce odoranti di frutta rossa.
"Mamma?"
"Si, che c'é, Edward?"
"Non... non mi sento molto bene, non mi va di mangiare... vado a letto..."
Mi sentii gli occhi di Trisha sulla nuca, ero troppo immerso nella vergogna
per poter anche solo incrociare quel verde acqua stanco, ma sicuramente puro
dei suoi occhi.
"Mh, cosa ti senti?"
Sentii i suoi passi morbidi farsi sempre più vicini, e il suo tocco soffice,
anche se sfinito dalla magrezza, si posò sulla mia fronte.
"Non sembri caldo..."
"Ho... Mal di testa... un po' di nausea... Forse ho preso freddo..."
Il che non sarebbe completamente una bugia, visto e considerato... l'umido.
"Mh...Non vuoi neanche del the?"
"No. Non me la sento... "
Sentii il suo sospiro, leggero, poi posò una mano sui capelli sciolti, ancora
leggermente umidi, e li scompigliò un poco.
"Ok... Se hai bisogno, chiama."
"Va bene..."
A passo cadenzato, andai là dove il mondo veniva arginato, ed esistevamo solo
io e la mia solitudine. Le tapparelle erano semichiuse, lasciando che da quel
piccolo spiraglio entrasse soltanto una falce di luce arancio, lampioni che si
accendevano lentamente per illuminare le vie di Londra.
Mi lasciai cadere a peso morto sul letto, sentendo un leggero calore provenire
dalle coperte, ed attorno ad esse strinsi le mie mani, debolmente. Mi misi a
pancia in su, avvicinando le ginocchia e cingendole in un abbraccio, mentre il
peso mi portava a dare le spalle alla porta, e ad affondare metà testa nel
cuscino.
Avevo assoluto bisogno di mettere ordine nella mia testa. Dovevo dar un nesso
logico a tutte quelle azioni che si erano susseguite velocemente,
apparentemente senza motivo.
...Pensavo a tutto ciò dal momento in cui la sua mano abbandonò il mio basso
ventre, eppure tuttora, quel nesso logico, non sono riuscito a trovarlo.
Era come cercare un ago in un pagliaio, era come...come che cosa?
Era la sensazione più strana, più orribile che avessi mai provato in tutta la
mia vita.
Strinsi le braccia al petto, sospirando.
Se domani l'avessi rivisto...Se lo avessi di nuovo incontrato...Cosa avrei
dovuto fare? Cosa avrei dovuto dirgli?
Più ci pensavo, e più la sua voce diventava chiara nella mia mente, e i tocchi
parevano quasi tornare reali. Quella morsa allo stomaco, che a tratti si
rilassava, come se non fosse successo mai niente, tornava a farsi viva non
appena un flash sfrecciava nel mio cervello, e nitide si ripetevano le
immagini di quel momento.
Non lo odiavo. No.
Avevo avuto così pochi contatti con le persone, che sentimenti come l'amore, o
l'odio, o la repulsione per qualcuno per me erano soltanto grosse incognite,
qualcosa che non sarei mai stato in grado di capire semplicemente perché non
le avevo vissute.
Fino a pochi giorni prima, per me c'erano solo Alphonse, mamma e papà.
E poi, il cambio di scuola, e lui che mi portava in giro, mi faceva vedere
ogni angolo dell'istituto, mi portava in giardino, mi...
Mi stava vicino, a modo suo.
Ma quelle mani che toccavano, quella lingua che mi sfiorava...quella voce che
implorava il mio nome...
Io non riuscivo a capire. No, davvero.
Non aveva senso.
Non aveva senso quanto i miei pensieri.
Perché prima mi chiedevo perché lo avesse fatto, poi cercavo un motivo per
odiarlo, e dopo ancora tentavo di giustificarlo.
Non era normale, no.
Era solo tutta dannata, orribile, schifosa confusione.
"Sei un tipo strano tu!"
"Tu dici?"
"Si, ma mi piaci! Quindi va bene!"
Gli piacevo in quel senso già dal primo giorno?
Non riuscivo a pensare a niente di cattivo da abbinare alla sua persona.
Mi era sembrata una persona così...squisita, dolce.
Era stato un amico solo per...solo per...
"Fratellone?"
... Per cosa?
Girai la testa, tenendo immobile il resto del corpo, e dopo neanche due
secondi tornai alla posizione d'origine.
"... Vai via, Al."
La porta si socchiuse, con tocco leggero.
Ma lui non se n'era andato, no. Sentivo la sua presenza bella e viva, dietro
di me.
Un passo, due passi, tre passi, un ginocchio sul letto, il materasso che si
piegava leggermente all'indietro.
"No."
Sentii il suo tocco gentile sulla spalla, e rabbrividii.
Non so perché. Davvero.
Sollevai il braccio, colpendolo e allontanandolo, sentendo il materasso
rimbalzare.
Io non volevo, davvero.
"Al, vattene."
Pensai che se si fosse avvicinato troppo, sarebbe riuscito a leggermi dentro,
avrebbe visto quello che era successo, avrebbe frainteso, avrebbe...
Avrebbe capito tutto.
"No, non me ne vado."
Non feci più una mossa. Lo sentii distendersi, a fatica, in quel piccolo
spazio che separava il mio corpo dal vuoto totale. Lo colmò lui, con la sua
presenza, col suo corpo che emanava tepore, col suo respiro che, soffice,
trapassava la mia camicia, e si stendeva sulle mie spalle.
"Al..."
"No."
... Quand'è che era cresciuto? Non me ne ero accorto. Per me Al era sempre
stato qualcuno da tenere sotto la mia ala protettiva, qualcuno da proteggere,
da coccolare, da accudire. E invece...
Che spettacolo.
Non mi ero reso ancora conto che la differenza tra noi due sfiorava appena
l'anno. Per me, lui era rimasto sempre un bambino. E invece ora...
Ora ero io il piccolo, fra noi due. Ero io quello che aveva bisogno di
attenzioni che tuttavia non desideravo. Non volevo che vedesse qualcosa di cui
neanche io conoscevo bene la natura.
Il suo braccio sovrastò i miei fianchi, stringendoli a se, stringendosi a me.
Sentivo il suo battito calmo, soffice tra i tessuti che separavano le nostre
pelli, sentivo il suo sguardo farsi sempre più intenso sulla mia nuca.
"Non me ne vado."
Sentivo un nodo alla gola ingrossarsi sempre più. Sentivo il dolore andare su
e giù per lo stomaco, bruciando ogni cosa che toccava, una volta, due volte,
cento volte.
Sospiro pesante, sospiro di chi non riesce a far distinzione tra il giusto e
il sbagliato.
"Che cosa c'é?"
E arrivò il mio turno di negare ogni risposta alle sue domande. Non doveva
sapere, Al. Non prima che io mi fossi schiarito le idee. L'unica risposta che
potei dargli fu un cenno di diniego con la testa, niente di più.
"Edward, parla..."
Edward? Dio, era proprio cresciuto. O forse era un modo per farmi desistere e
farmi cinguettare?
Oh no, Al, non potevi farlo, non eri così malvagio da sapere come fare.
Zitto zitto, come un cadavere dentro una bara.
"Non... non è... nulla..."
"Non ci credo."
E facevi bene, Al, facevi bene a non credermi. Ma come potevo dirtelo? Come
spiegarti? Non potevo renderti partecipe della cosa, non volevo.
"Non è..."
Niente.
Solo il nodo che si scioglieva, l'aria che usciva tra singhiozzi spasmodici,
calde lacrime che smettevano di spingere contro i miei occhi, scivolando dalle
mie guance, macchiando il cuscino, ammirando lo spettacolo che si prostrava al
momento.
Quanto ero ridicolo, Dio?
Quanto dovevo sembrare debole agli occhi di mio fratello, perché lui smettesse
di domandare la verità e si limitasse semplicemente a cullarmi e a dirmi senza
sosta che tutto andava bene?
Quanto stanco dovevo essere per addormentarmi tra le braccia dell'ultima
persona che volevo mi vedesse in questo stato?
Passo, passo, passo, fitte allo stomaco, passo, stop.
Ero ancora in tempo per tornare a casa.
Prendi i piedi e prendi il tram per tornare da dove sei venuto. Ficcati
sotto le coperte e stacci finché non senti la muffa crescerti addosso.
No. Non dovevo.
Non era nemmeno certo che lui fosse a scuola, magari era stato male, magari
era partito per le Indie, magari, magari...
Entrai.
Tutti gli occhi mi si puntarono contro. Non ero in ritardo, ma solitamente
arrivavo prima di tutti, mi sedevo, mi facevo un po' gli affari miei, e
intanto pensavo a cosa fare al pomeriggio, se passarlo con Al oppure uscire da
solo e andare a studiare al parco.
Stavolta invece, si era venuta a verificare una situazione totalmente opposta.
Ma non ci diedi tanto peso e, sussurrano un "Buongiorno" appena udibile, andai
a sedermi al solito posto. Lasciando che l'orologio prendesse a ticchettare,
come di norma, il più lentamente possibile.
Cosa che, quel giorno non mi dispiaceva affatto.
Non era una bella situazione, quella che si andava profilando quella mattina.
Tre ore di matematica, due di letteratura inglese, e un fastidioso prudito
alla gola che non mi lasciava vivere meno agitato di quanto non fossi in
realtà.
La pausa.
La pausa incombeva su di me come la lama di una ghigliottina sul peccatore.
Si, sentivo la paura strisciarmi nello stomaco, scorrere nel sangue, la
sentivo tangibile nell'aria.
Sarei corso via non appena la campana sarebbe suonata. Sarei corso al bagno
del secondo piano, e mi ci sarei chiuso finché l'intervallo non fosse finito.
Che ci voleva, in fondo, a scappare da qualcuno?
Che ci voleva ad allontanare il pericolo giusto per quindici minuti?
Niente, no?
... Magari.
Quel trillo incessante perforò le mie orecchie con violenza, ma mi aiutò per
lo meno a reagire prontalmente. Buttata la roba dentro la cartella, scattai in
piedi e corsi via dall'aula, sentendomi sulla schiena 13 paia di occhi che
osservavano, immaginando nella mia testa ciò che loro effettivamente stavano
pensando in quel momento.
Oggi Elric è strano.
Così strano da spaventarmi io stesso, a dire la verità.
Era una rampa di scale, formata da quaranta gradini concreti e altri mille
immaginari. Era una stupida porta in legno pregiato che voleva giocare al cane
e al gatto con me. Ma io ebbi comunque la fortuna di essere più veloce, e di
acchiappare quella sua coda che era la maniglia, di tirare con forza ed
entrare dietro quell'antro deserto.
Mi poggiai alla porta, ansimante.
Probabilmente qualcuno mi aveva guardato come un folle, altri avevano
certamente gridato "E' l'intervallo, non si può stare nell'edificio!".
Ma non li avevo sentiti. E adesso che ero solo, non mi interessava nulla. Solo
stare là, in silenzio, per quindici fottutissimi minuti. Scivolai piano lungo
l'asse color ebano, entrando a contatto col pavimento e avvicinando a me le
ginocchia.
Sarebbe bastato tutto ciò? Sarebbe davvero bastato ad arginare il problema?
No. No, sarebbe servito soltanto a tenermi lontano dai problemi per almeno
altre ventiquattro ore, dopo di che il ragno sarebbe arrivato, e avrebbe
banchettato con una stupida mosca che, invece di mantenere la calma e trovare
un modo per fuggire alla sua morsa, si ingarbugliava ancora di più nei fili
della sua tela.
Scollegando il cervello da quei pensieri, per un momento pensai, nonostante
sapessi che quel bagno era peggio di un deserto, che forse stare seduto
davanti a una porta non era il massimo della comodità, né per me, né per
qualche ipotetica persona che avesse deciso di venire qua.
Così, sospirando, mi sollevai, e optai per una comoda, splendida, a tratti
sporca tazza del cesso.
Quanti minuti erano già passati da quando ero entrato lì?
Due, tre minuti?
A me parevano già ore.
Dio, quanto potevano durare quindici minuti per una persona presa dal terrore?
Quanti per qualcuno che in quel momento avrebbe voluto essere in qualsiasi
luogo tranne che lì?
Quante persone in quindici minuti potevano decidere che il bagno al secondo
piano, quasi sempre inutilizzato, poteva tornare utile una volta tanto?
Lo scattare di una serratura, il chiudersi di una porta.
Ecco, il tempo aveva smesso di scorrere. Perfetto.
Deglutii a vuoto più e più volte, pensando intensamente che no, non poteva
essere certo lui.
Passi lenti, incerti, riempirono l'aria.
Il pavimento d'improvviso si era fatto decisamente interessante. Ma c'era
qualcosa che disturbava quell'armonia che si era formata tra le pianelle
bianche, il battiscopa color ciliegio e quel poco azzurro dei muri che da
quella posizione si poteva vedere.
Punte di un paio di scarpe scure che si fermarono davanti a me.
"Edward..."
Punte di scarpe che si girarono verso di me.
"Ed..."
Non è possibile, non è possibile, non è possibile.
"Vai... via..."
"Edward, ascoltami, io..."
Vidi la sua ombra allungarsi su di me, percepii sempre più vicino il calore
della sua mano. Lo sentii sfiorarmi la spalla.
"NON MI TOCCARE!"
Un fremito.
No, davvero, William, io non ti odio, no. Ma non riesco. Non adesso. Per
favore stammi lontano. Stammi. Lontano.
"Non mi... toccare."
"Ed, per favore, ascoltami."
"No."
"Edward..."
"... Io... cosa dovrei..."
"... Le mie scuse."
... Scuse?
"Scuse?"
Silenzio.
"Non so cosa mi sia preso ieri. Te lo garantisco. Non volevo farlo. Non... Io
non lo so. Tu eri lì, io ero lì... E basta, è successo. Per me... Dio, per me
è stata una cosa automatica. Non ci ho pensato. Non mi sono fatto neanche
tanti problemi, dopo. Mi fa schifo dirlo, ma davvero. Non voglio mentirti."
... Automatica?
"Non... non succederà più."
No, William, sapevi benissimo che quelle parole erano pura falsità.
Ma io ancora non lo sapevo, a quel tempo.
"Non... succederà più. Si..."
Le mie gambe si mossero da sole, prendendo il peso del mio corpo lentamente e
portandomi a pochi centimetri dal suo viso, teso, spaurito e chissà quant'altro.
Quanta verità c'era nei tuoi occhi quel giorno, William?
Lo spinsi fuori dal bagno, vedendolo sbattere contro il muro.
"TU non ti sei fatto problemi, William! TU te ne sei fregato, Cristo! Hai
semplicemente fatto quello che volevi! - Un'altra spinta. - Tu non immagini
neanche come sia stato male ieri! Ero uno straccio, William, UNO STRACCIO.
Non credo di essere mai stato peggio - Un'altra - neanche quando ho visto mia
madre che si impasticcava! - Cosa gliene poteva importare? - Pensavo ci
tenessi a me! - Stupido, stupido Edward - Pensavo fossi importante per te! -
Un'altro colpo - Pensavo che mi fossi AMICO... Io non capivo più
niente! Non sapevo neanche cosa pensare... Io... Io avevo... "
E le mie mani si aggrapparono alla sua camicia bianca, al golfino marrone con
l'emblema della scuola, le mie dita si strinsero ai tessuti dei suoi vestiti,
mentre mi trascinavo a terra, e con me portavo lui.
Quando avevo cominciato a singhiozzare?
"Io avevo... paura..."
"Edward..."
Si inginocchiò, stringendomi a se, mentre il mio pianto si faceva spasmodico,
irregolare, mentre le mie mani continuavano a chiudersi sulla stoffa bianca.
"Avevo paura che... se... se non... fossi rimasto... - un colpo di tosse fra
le lacrime - mi avresti odiato... Che per me non ci sarebbe più stato posto...
Che... ti saresti stufato..."
Sentii le sue soffici labbra posarsi sulla mia fronte tiepida, e la sua mano
scorrere lungo la mia schiena.
"Scusa, Edward... Scusa..."
Monocorde, in quel momento. Nei gesti e nelle parole.
E per i restanti attimi, fino al suono della campanella, non osò muoversi di
un centimetro, nonostante le scosse del mio petto, e pugni che davo al suo,
deboli, disperati.
Nonostante il prurito alla gola che si stava facendo sempre più fastidioso, e
diedi due forti colpi di tosse prima che la campanella suonasse, decretando la
fine di quei dannatissimi, temuti quindici minuti.
Dopo di che, silenzio. Per due, tre secondi, non di più.
"Tutto ok?"
Ancora due colpi. No, decisamente no.
"S-si..."
Mi accarezzò i capelli, dolce, premuroso, e finalmente presi il coraggio per
guardarlo in faccia. Prima, mentre urlavo, non ci ero riuscito. Lui non fece
altro che abbozzare un sorriso dispiaciuto, pentito, così puro da sembrare
finto.
"Non hai un bel colore..."
"Mi stai... prendendo in giro, William?"
Lasciai andare la camicia, poggiando le mani sulle sue spalle e tentando di
rimettermi in piedi. Ma mi costò davvero tanta fatica. Andai avanti di qualche
passo, lasciando che anche lui si mettesse in piedi e mi stesse dietro. I miei
passi erano così incerti, così... da ubriaco, che quasi non mi accorsi di
pendere all'indietro.
"No, Edward, tu non stai bene..."
"Ho solo... fastidio alla gola, tutto qua. Davv..." ero. Non conclusi la
frase, preso alla sprovvista dai colpi di tosse che si facevano sempre più
violenti, sollecitati da quel fastidio alla gola che ora stava tramutandosi in
vero e proprio dolore. Le braccia forti di William mi presero in braccio e io,
senza voglia di ribellarmi, mi aggrappai al suo collo, poggiando la testa
sulla spalla.
Dalla posizione in cui ero finito guardai la porta del bagno aprirsi,
lasciando entrare uno spiraglio di luce.
Quel bagno era stato abbandonato dal mondo.
William chiuse la porta con un colpo d'anca poi, tenendo salda la presa, si
diresse verso le scale, rispondendo a tutte le domande di studenti e bidelli
che probabilmente si chiedevano cosa ci facessi in braccio a lui.
Le scese piano, gradino per gradino, con una cadenza così regolare da
provocarmi un leggero torpore. Cominciavo a vedere confuso.
Sentivo i suoi passi sempre più lontani, così come le voci dei compagni che
tornavano alle aule, gridando per gli anditi.
"Ehi, ti stai facendo pesante..." mi disse all'orecchio, potevo sentire un
tono di divertimento nella sua voce.
Non ebbi più forza di quella necessaria a mugugnare qualcosa di indefinito.
Le ultime cose che ricordo di quella mattina furono le parole dei miei
compagni ripetersi fino alla nausea ("Elric sta male?", "Cos'ha Elric?", "Moore
cosa è successo?"), le poche parole scambiate tra William e il professor
Douglas che, per quanto poco lucido ero, mi pareva decisamente preoccupato, e
una mano che passava tenera fra i capelli.
Quando poi William si richiuse la porta della mia classe alle spalle, dopo
aver avuto l'autorizzazione di portarmi a casa, e dopo essersi fatto dare
l'indirizzo, si, voci, suoni e colori si fecero un'unica cosa, la realtà
si fece sempre più lontana e io, dato l'ultimo colpo di tosse, accettai di
seguire la voce che mi chiamava, pronta ad attendermi davanti ai cancelli di
Morfeo.
-fine seconda parte-
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