Per
violino solo
di Yuukan
Ti ho
ascoltato – ancora prima di vederti.
Suonavi, ad un angolo.
La musica scivolava via sul canale. Credevo di poterla vedere – scorreva
sull’acqua scura dell’inverno, tagliava le spirali basse della nebbia, e si
perdeva – non so dove.
Forse ho saputo sin da allora.
Da quella prima nota – quando mi fermai sui gradini del ponte. E poi, quando
ti vidi.
Pura musica.
Tu – eri pura musica. E lo sei ancora, ovunque tu sia. Lo sarai sempre.
(Il suono del tuo cuore che batte – è musica. Il luccichio del tuo sguardo –
desiderio. Il sangue nelle tue vene – visione.)
Qualcuno si era appoggiato alla balaustra del ponte, e ti guardava. Ricordo di
altri – camminavano lentamente, e gettavano qualche moneta verso il tuo angolo
d’ombra.
E anch’io mi sono fermato – solo per poterti guardare. E non vedevo i tuoi
pantaloni arrotolati al ginocchio, né gli strappi di una camicia che un tempo
era stata bella.
Come potrei farti capire, ora? Non sono mai riuscito, e ancora non posso.
Vedevo solo la tua musica – la tua visione – la sola cosa che tu sia
realmente.
Vedevo la linea del tuo polso che si muoveva veloce, il disegno delicato
dell’osso, il fuoco bianco delle dita sottili – e in un attimo ho saputo che
non avrei mai più trovato nulla di tanto elegante.
Vedevo la tua fronte contratta, il rossore sugli zigomi, le labbra socchiuse,
i capelli sulla curva del collo nudo.
E ho cominciato a passare di lì ogni giorno. Ogni giorno – stesso ponte,
stesso angolo – per poterti guardare.
Per quanto tempo? – non saprei dirlo. Mi dicevo che era la strada più breve –
la più breve per arrivare alla chiesa, questo mi dicevo. Poi, un giorno, ho
capito – ho capito che eri bello come l’angelo nel dipinto sull’altare – ho
capito che eri ancora più bello. E ho smesso di mentirmi.
E quel giorno stesso, mentre ti guardavo, ho pensato improvvisamente che
forse, mentre facevi l’amore, avevi la stessa espressione.
Tutto quel piacere – finchè non fa male.
Vivevo per quei momenti. Aprivo gli occhi per aspettarli, e li chiudevo
sognando che un giorno ti avrei preso con me, e avrei potuto guardarti, sempre
– forse avrei persino potuto sfiorarti.
E a un tratto non ti ho più visto – per due giorni.
Due giorni.
Passati ad aspettarti, cercarti a caso – ogni porticato, ogni calle, ogni
strada più dimenticata, frugando i mucchi di stracci accartocciati sulle scale
che muiono nell’acqua dei canali. E mi sono reso conto, per la prima volta,
che non ti conoscevo. Che tu eri il mio angelo dell’altare, e io il tuo
Nessuno più assoluto – e il dolore che ti faceva contrarre la fronte,
l’eccitazione che ti arrossava il viso, l’emozione che ti bruciava le dita,
non avrei mai potuto conoscerli.
Ed era insopportabile.
Per questo ho promesso. Dopo una notte senza sonno – ho promesso che lo avrei
fatto.
Quando sei riapparso – con quel livido sul labbro – te l’ho detto. “Vieni con
me”. E che Dio mi perdoni – eri così vicino che potevo sentire il tuo calore.
Forse mi tremava la voce, ma tu non te ne sei accorto. Hai fatto di no con la
testa, semplicemente, a labbra strette, e ti sei chinato a raccogliere le
monete che qualcuno ti aveva lanciato – indifferente, guardando altrove.
Quanti altri ti avevano fatto la stessa domanda? – e forse ti eri fidato di
loro – non te l’ho mai chiesto. Ma stavolta sarebbe stato diverso – doveva
essere diverso – semplicemente, doveva essere. Ti ho trattenuto per un polso,
e prima che tu ritirassi la mano ho visto la punta delle tue dita rossa di
sangue. “Avrai delle lezioni vere. Quante vorrai. Da chi vorrai. I migliori
maestri di Venezia” – l’unica cosa che poteva convincerti, sì. Ti sei stretto
il violino contro il petto, e mi hai guardato – per così tanto tempo. E io mi
sentivo qualcosa, nella testa, che mi stordiva – l’eco della tua musica,
immagino. Quando le tue labbra si sono mosse, non ho sentito niente – ma ho
capito la tua domanda – ‘in cambio di cosa?’
Non volevo nulla in cambio. Nulla. Solo poterti guardare – e sapere che avevo
smesso di essere nessuno per te. Sapere di aver raggiunto il limitare del tuo
mondo, il confine del tuo paradiso disperato. Eppure ho risposto, come se
l’avessi saputo da sempre – “è inutile. Saresti disposto a qualsiasi cosa in
cambio.”
Ed era la verità. Probabilmente lo è ancora.
Hai guardato le monete opache che tenevi in mano, hai premuto le labbra contro
il ricciolo del violino, l’hai accarezzato con una guancia, come se cercassi
consiglio. Non mi hai detto nulla. Solo, mi hai seguito quando mi sono mosso
per primo. E avevi gli occhi lucidi.
Avevi sempre gli occhi lucidi, quei primi giorni.
Mentre ti facevo lavare, e rivestire, mentre ti mostravo le stanze. Avevi gli
occhi lucidi, e non parlavi. Ti mordevi le labbra e mi seguivi. Quando eravamo
soli indietreggiavi fino alla parete. Io cercavo di sorriderti con le labbra
che tremavano, tendevo una mano per dirti che era tutto a posto. Tu abbassavi
la testa, e stringevi il violino – non lo lasciavi mai.
Ti trovai un maestro – il migliore. Il migliore di tutta Venezia – per te. E
tu – eri il migliore degli allievi che avrebbe mai potuto avere. Me lo diceva
spesso. E con lui parlavi, perfino. A volte mi fermavo ad ascoltare fuori
dalla porta, per sentire la tua voce.
Hai cominciato a suonare per me, la sera. Solo per me. Niente più occhi con
cui doverti dividere, niente più monete da raccogliere. Solo io – solo i miei
occhi, e la mia anima. Forse era il tuo modo per ringraziarmi – forse credevi
di dovermelo. Ma io le vedevo ancora, la disperazione e la follia mute nel
luccichio dei tuoi occhi socchiusi, mentre suonavi. Le sentivo, ancora –
sempre. La voglia di urlare che ti bruciava le vene, le visioni vaghe che ti
consumavano. Potevo sentire il tuo sangue scaldarsi – perché il tuo profumo
diventava ancora più forte.
E non capivo cosa ancora ti mancasse per essere felice – per me eri già così
dolorosamente perfetto.
Solo ora ho capito che non ti manca nulla – che non ti potrà mai bastare
nulla.
Resterai così per sempre.
Infelice – e perfetto.
Tutto in te sapeva di disperazione. Ed era dolce, e bello – infelice e
perfetto, sì.
Perché non era il dolore a consumarti.
Eri tu che lo inseguivi lungo le corde – tu che lo catturavi mentre ti
guardavo suonare in una vertigine – eri tu a bruciarlo, sempre più in alto, e
più veloce, con le guance in fiamme e gli occhi lucidi – eri tu.
E non ci sarà mai nulla di più disperato e forte.
Povero angelo. Quando vidi per la prima volta le cicatrici lucide sulla tua
schiena pensai che ti avessero strappato le ali e ti avessero dato un violino
in cambio – le tue nuove ali, le uniche che ti erano rimaste.
Non ti ho mai chiesto il perché di quei segni – né quando – o dove. Ero
convinto che non mi avresti risposto. Forse non volevo che mi rispondessi. Eri
il mio angelo dell’altare – ricordi? Non avevi passato – e non pensavo che
forse non avresti avuto neppure futuro.
Io non avevo bisogno d’altro. Il mio egoismo si accontentava di guardare la
tua figura scura contro la luce del fuoco – di sognare il momento in cui avrei
potuto sfiorarti.
È successo una sera.
Eri appoggiato a un davanzale. Guardavi le luci delle barche riflesse
nell’acqua scura della laguna, mentre il cielo diventava nero. Non ti sei
accorto di me. Hai solo sussultato appena, quando hai sentito il mio mento
contro i tuoi capelli, e hai sospirato. Forse pensavi che sarebbe stato
inevitabile – presto o tardi.
Stavo per allontanarmi di nuovo, quando ti sei appoggiato contro di me.
Sentivo le linee del tuo corpo attraverso la stoffa, il calore del tuo viso
contro il mio collo. Dove avrei potuto trovare le forze per non toccarti,
anche stavolta? Ho premuto le mani sui tuoi fianchi – e non ti sei mosso. Non
ti sei divincolato, non ti sei allontanato. Cotinuavi a guardare il canale, e
i bagliori che ondeggiavano sull’acqua. Solo – il tuo respiro – era veloce,
come quando suonavi. Ho cominciato a stringerti, ed accarezzarti – e ti
sentivo diventare sempre più caldo. Ti ho tenuto stretto per non farti cadere,
mentre premevi la testa contro la mia spalla, e pulsavi nella mia mano.
E ricordo – ricordo che ti sei aggrappato al mio braccio – e che allora tutto,
di nuovo, mi parve perfetto.
Eri perfetto mentre respiravi forte – perfetto mentre ti scostavo i capelli
dalla fronte – perfette le tue labbra socchiuse, e i tuoi occhi lucidi che
guardavano la notte e che poi hanno fissato me.
Senza parole – come sempre.
Non so perché non ti ho baciato, in quel momento. Ho continuato a pensarci per
tutta quella sera. Ti guardavo mentre osservavi i violinisti del concerto. Li
ascoltavi ad occhi chiusi, e il tuo petto si alzava e si abbassava veloce – e
la tua fronte contratta, attraversata dalla stessa linea che poco prima avevi
premuto contro il mio collo – e le tue labbra rosse, le stesse che poco prima
avrei voluto baciare. E la tua mano che tremava appena, quando mi hai stretto
forte il braccio – di nuovo – all’improvviso.
Sei stato tu a baciarmi, al rientro. Sei stato tu – mi hai fermato sulla porta
delle mie camere, quando non c’era nessuno, e mi hai sfiorato le labbra con le
tue. Semplicemente, leggermente. Erano calde.
Cos’altro potrei dire? – che non sia sciocco, né inutile?
Ti ho tratteuto per un polso – come quella prima volta, nella calle, ricordi?
Ti ho trattenuto, e ti ho baciato di nuovo – perché non mi bastava. Mi sono
spinto dentro di te, e tu mi hai lasciato fare, stordito. Ho accarezzato la
tua lingua che non mi aveva mai parlato – l’ho succhiata forte, e speravo di
succhiare via un po’ della tua disperazione – dei tuoi segreti. Ho continuato
finchè ho potuto – sono rimasto ad ansimare con la fronte contro la tua.
Sentivo il tuo respiro agitato contro le mie labbra, e non ho avuto il
coraggio di aprire gli occhi per guardare nei tuoi. Ti ho semplicemente
lasciato andare, e ho ascoltato i tuoi passi scivolare via dopo un silenzio
infinito. E i miei occhi – ancora chiusi.
Da allora hai cominciato a sorridere, poco alla volta. All’inizio solo
un’ombra veloce sulle labbra. Anche il tuo maestro era contento. Suonavi
sempre.
È stato così che lui ti ha visto. Attraverso lo spiraglio di una porta.
Faceva caldo, quel giorno. Eri vicino ad una finestra, e ricordo il velo
sottile della tenda che si gonfiava dietro di te – e il sole fra i tuoi
capelli sciolti. Suonavi lentamente, qualcosa che il tuo maestro aveva scritto
per te.
Ed eri bellissimo. Come sempre.
Lui si fermò a guardarti. Sentii un morso al cuore quando ti indicò con il
mento: “Vi siete preso un demonio in casa.”
Io ricordai il dipinto dell’angelo sull’altare, e mi venne da sorridere: “Non
mi è mai sembrato un demonio.”
Ma lui era serio. Così – orribilmente – serio. “Le creature più belle sono
demonii.” Mi prese il braccio – le ossa delle sue dita che mi scavavano la
pelle.
(Tu hai guardato verso di noi, allora. Mi hai visto, e ho riconosciuto la luce
nei tuoi occhi. Hai cominciato a suonare più veloce – più profondo – come solo
tu puoi fare.)
“E gli angeli?” chiesi.
I suoi occhi si dilatarono appena. Si passò la lingua sulle labbra: “Non
bestemmiate.”
Ma l’unica bestemmia era il suo sguardo su di te.
Fisso sulla tua spalla scoperta, sul piacere e sul dolore che ti arrossavano
il viso.
Vidi i tuoi occhi preoccupati, mentre allungavo il braccio e richiudevo la
porta.
“Io non l’ho mai fatto” risposi.
E per tutto quel giorno – le sue parole mi rimasero nella testa. Ogni volta
che rivedevo il tuo viso – preoccupato – pensavo. E forse avevo paura.
Paura quando ho chiuso gli occhi, quella notte – e quando li ho riaperti
d’improvviso.
E ti ho visto inginocchiato sul letto, accanto a me. Eri un’ombra nell’aria
azzurra, lontano dalla luce della candela che tenevo accesa vicino al letto.
Ne accesi altre due, in silenzio, e mi sollevai a sedere, per guardarti.
Preoccupato, e silenzioso – e triste. Da tempo i tuoi occhi non brillavano in
quel modo.
Ti ho posato una mano sulla guancia – bruciavi. “Cosa c’è?” ti ho chiesto – ma
sapevo che non avresti risposto.
Hai voltato il viso e mi hai baciato il palmo, con la bocca socchiusa. Ho
sentito la tua lingua sfiorarmi e ritrarsi.
E ho capito per cosa eri venuto.
Mi ha preso la stessa vertigine che avevo quando ti sentivo suonare.
Mi sono avvicinato a te, e ho continuato a guardarti in silenzio – la verità è
che non credevo fosse possibile.
E tu? – cosa pensavi?, cosa sentivi? Avrei voluto chiedertelo – avrei voluto
sentirti parlare con me, almeno quella volta. Ma non l’hai fatto. Mi guardavi
con gli occhi lucidi, e tenevi le mani strette intorno al mio polso, mentre
prendevo fra due dita il nastro che ti legava i capelli e lo scioglievo. Mi
hai lasciato il polso per allentare i lacci della camicia, e te la sei fatta
scivolare giù dalle spalle.
La guardavo accarezzarti i fianchi, e ricordo il dolore improvviso ai lombi
mentre realizzavo che potevo, e le
altre paure sbiadivano.
Mi sono piegato per baciarti – liscio, e caldo – fremevi, e sentivo le tue
dita sottili fra i capelli.
E ricordo tutto – tutto. Ma non saprei più ripeterlo.
Ricordo – l’onda perfetta dei tuoi capelli sulla spalla, mentre la mordevo.
Ricordo il tuo fremito mentre percorrevo le tue cicatrici con la punta delle
dita. Ricordo la tua mano che mi avvolgeva, e il colore dei tuoi occhi
nell’ombra arancio delle poche candele, mentre ti stendevo sotto di me.
Ricordo le tue lacrime silenziose, e il tuo gemere soffocato.
Il tuo calore infinito, per tutta la notte – il tuo viso – e sempre – sempre –
la tua musica – il tuo desiderio – la tua follia. Ho conosciuto tutto di te, e
ho saputo chi eri.
Non lo dimeticherò mai.
Mi addormentai all’alba, mentre ti stringevo, e pensavo che ci sarebbero state
altre notti, e altri giorni.
Che tutto sarebbe stato sempre perfetto.
Quando mi svegliai sentii l’aria fredda lì dove c’era stato il tuo calore.
E capii d’improvviso, mentre mi mancava il respiro.
Ma ci sono voluti giorni, per rendermene veramente conto.
Il tuo violino era scomparso con te – e questo sarebbe dovuto bastarmi. Ma ho
continuato a cercarti. All’inizio il tuo maestro veniva insieme a me. Ovunque.
Poi ho continuato a cercarti da solo. E la verità è che non ho mai smesso di
farlo.
Mai – mentre attraverso i canali – mentre ascolto qualche musica sciocca
suonata da qualcuno che non soffre per lei.
Mai – mentre ricordo il tuo ultimo saluto, quella notte – mentre cerco di
capire il motivo, e penso che forse ti sei preoccupato per me, quell’ultimo
giorno, quando lui ti vide. Quando ci vide.
Mai – mentre lascio Venezia senza rimpianti, perché l’unica certezza che ho,
dopo tutto questo tempo, è che non sei più qui. Non ho più sentito la tua
musica correre veloce sull’acqua immobile della laguna, non ho più visto il
bagliore della tua pelle fra le pietre grigie della città.
Forse potrebbe essere stato un sogno – interminabile, doloroso – niente di
più.
Potrei aver sognato la perfezione – sognato di poterla ascoltare, abbracciare,
e possedere. E al mio risveglio era svanita.
Ma cosa può fare un uomo che ha assaporato il dolore della perfezione in
sogno?
Cercarla – sempre – ovunque. Finché non la ritroverà – volesse anche dire per
sempre.
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