Sappiamo tutti a chi appartengono i personaggi di SD, dunque a me non resta che sottolineare il fatto che io non ci guadagno nulla col loro utilizzo, ma che all'interno della fic ci sono anche alcuni (tanti ^^;;;) personaggi originali che sono solo miei (Sizuku *_*).

Grazie a Ria che, dopo aver provato ad utilizzare un infame programma per creare pagine web, ammiro ancora di più per il lavoro immane che si sobbarca... grazie! ^*^*^

Grazie anche a Naika e San-chan per aver letto questa cosa mentre la stavo scrivendo e per non avermi ucciso ^^;;

E grazie a voi che la leggerete... avete un gran bel coraggio! O_o

 


Passion and Obsession

parte II

di Alessia 


I ragazzi giocavano davanti ai suoi occhi e lui avrebbe dato qualsiasi cosa per unirsi a loro, ma non poteva. Non se voleva continuare a camminare sulle proprie gambe.

La squadra di Caitlin e Colin era sotto di una decina di punti, ma non si arrendevano, continuando ad attaccare, cercando di segnare i punti del distacco sebbene la difesa avversaria fosse a dir poco impenetrabile.

Quando il primo tempo finì e si sedettero sulle gradinate accanto a lui erano distrutti, ansimanti dalla fatica.

"Resistenza zero, eh?"

Tre paia d’occhi gli lanciarono occhiate inceneritrici, mentre i suoi cugini gli dettero un pugno in testa.

"Ehi!"

"Perché non provi a giocare?" Caitlin lo guardava con occhi speranzosi, mai dimentica delle lettere che Hanamichi le scriveva parlando della sua squadra e delle partite giocate.

Stava per ribattere quando uno dei giocatori dell’altra squadra intervenne "Ma piantala, Cat! Quando mai si è visto un muso giallo giocare decentemente a basket?"

Tutti e tre – Hanamichi, Caitlin e Colin – erano rossi di rabbia, il loro sangue irlandese stava velocemente rompendo gli argini. Sakuragi stava per fargli rimangiare tutto a suon di testate, ma sua cugina fu più veloce di lui.

"Come ti permetti, brutto deficiente?!? Hanamichi era il capitano della sua squadra, lui può stracciarti quando vuole!"

Freddy, questo il nome del ragazzo, scoppiò a ridere e poi iniziò a far girare il pallone sulla punta dell’indice "Che lo dimostri, allora!" strafottente.

La ragazza si girò verso il cugino con occhi lucenti "Avanti, Hanamichi, umilialo! Fagli vedere di cosa è capace il tensai!"

Sakuragi abbassò gli occhi "Io… io non posso" mormorò. Lo avrebbe voluto, tutto il suo corpo gridava dalla voglia di mettere piede in campo, di palleggiare quella sfera, di buttarla dentro il canestro, ma… non poteva più permetterselo.

"Cosa dici? Perché non vuoi? Hai davvero paura di quel pallone gonfiato?!" non capiva suo cugino, pensava che sarebbe stato entusiasta all’idea di poter giocare a basket in America, di andare allo stadio per seguire l’NBA, e invece persino per convincerlo a guardare la loro stupida partita c’era voluto un mezzo miracolo.

"Non è questione di non volere…" cercò qualcosa che potesse convincerla senza doverle dire la verità, ma fu interrotto.

"Allora?! Che fai muso giallo? Giochi o ti arrendi? D’altronde… voialtri non siete capaci d’altro, no?" e scoppiò a ridere, seguito dal resto della squadra.

A questo punto Sakuragi non poté più stare zitto "Senti, brutto deficiente, io ti disintegro come e quando voglio, chiaro?"

Freddy gli lanciò il pallone "Dimostralo, allora! O hai troppa paura di fare la figura dell'inetto?"

Hanamichi si rigirò la sfera tra le mani. Gli era mancata immensamente quella sensazione di ruvidità, il poterlo stringere…

Guardò il suo avversario negli occhi "Ai trenta?" non era solo per sé stesso, per il suo orgoglio, ma in un certo senso anche per la sua kitsune. Non voleva che Kaede subisse gli stessi pregiudizi che stava ora vivendo lui.

"D'accordo" il ragazzo entrò in campo, ma prima di seguirlo Hanamichi prese alcuni antidolorifici, spacciandoli per vitamine, pregando che agissero in fretta.

 

 

La palla entrò nel canestro col suo morbido fruscio. Si asciugò il sudore dalla fronte e riprese il pallone per continuare ad allenarsi coi tiri da tre. Il buio era già calato, ma il suo campo privato era illuminato quasi a giorno da due fari.

Tutte le sere si allenava sino a sfinirsi, sino a non avere più la forza neanche per sollevare il pallone. Doveva migliorare. Doveva farlo se voleva raggiungere il suo traguardo e realizzare il suo sogno.

Sentì la macchina dei suoi genitori rientrare e dopo pochi minuti li vide comparire sulla soglia della porta secondaria della cucina che lo osservavano sorridendo.

Rukawa tornò a giocare senza degnarli di ogni ulteriore attenzione. Certo, loro gli davano tutto ciò che si poteva desiderare, ma suo padre e sua madre non potevano ignorarlo per trecentocinquanta giorni l'anno e usare le ultime due settimane per giocare a fare i bravi genitori.

 

 

Il pallone cascò attraverso il canestro dopo aver fatto diversi giri sul cerchio di ferro, Freddy lo recuperò velocemente e dopo essere tornato indietro tentò di andare all'attacco, ma si ritrovò davanti quel muro umano che era Sakuragi.

Batterlo non sarebbe poi stato così semplice come aveva pensato. Quel maledetto anticipava le sue mosse, come se conoscesse il suo modo di giocare. Ok, lo aveva visto in azione prima, ma non poteva essere così bravo! Uno che sbagliava nei fondamentali come lui non poteva essere in grado di analizzare in modo così perfetto il suo gioco.

Sembrava di star giocando col tappo. Velocità e precisione. Ma Rukawa gli aveva insegnato come contrastare quel tipo di gioco e lui stava mettendo a frutto quegli insegnamenti.

Il punteggio era di diciotto a venti per l'altro, e per il momento riusciva ancora ad ignorare il dolore, ma doveva sbrigarsi a vincere se non voleva stramazzare al suolo.

Con una finta degna della kitsune gli rubò la palla e segnò uno spettacolare tiro da tre punti che fece andare in visibilio gli spettatori. Alcuni di loro erano semplici passanti che dopo qualche occhiata avevano deciso di fermarsi e godersi la sfida.

Freddy era oramai fuori di sé dalla rabbia e quando lanciò la palla questa colpì il cerchio tornando in gioco. Il rimbalzo fu preso da Hanamichi che dopo una veloce finta a sinistra corse verso il canestro e saltò per buttarla dentro.

Ma qualcosa doveva essere andato storto, perché si ritrovò sdraiato a terra, la schiena attraversata da indicibile fitte di dolore, Colin accanto a lui che cercava di aiutarlo a rialzarsi, mentre Caitlin gridava contro quell'animale che gli era saltato addosso commettendo fallo. Riuscì a rimettersi in piedi, ma dovette subito mettersi seduto altrimenti sarebbe svenuto lì davanti a tutti.

"Allora, signorina?!" Freddy gli si era piazzato davanti con sguardo di sfida "Vuoi continuare o la leggera botta che ti ho dato ti ha messo ko?"

Leggera botta?! durante una partita un simile fallo avrebbe comportato l'espulsione immediata! A malincuore, recitando tutte le maledizioni che conosceva in entrambe le lingue, gli schiaffeggiò la mano "Hai vinto…"

Bene, voleva proprio la prova che quel gioco lui non se lo sarebbe più potuto permettere? Eccola lì! Almeno… aveva realizzato in parte il suo piccolo sogno di giocare su un campo americano.

Poco a poco tutti quelli presenti se ne andarono, anche gli amici di Colin e Caitlin, mentre quell'idiota di Freddy decantava ai suoi come un americano non si sarebbe mai fatto mettere i piedi in testa da uno straniero, specialmente quando si trattava di basket.

Sakuragi sorrise caustico. Certo che la gente in quel paese era strana, si consideravano tutti americani quando erano in realtà solo figli di immigrati e gli unici veri americani erano gli indiani. Mah…

"Perché cavolo ti sei arreso? Stavi vincendo! Avresti potuto batterlo anche con una mano dietro la schiena. Ora quel cretino penserà che…"

"Caitlin!" Hanamichi quasi urlò il nome della ragazza, ma riuscì a farla stare zitta "Non penso che sarei riuscito davvero a vincerlo. Vedete, io…" prese un profondo respiro e si preparò a raccontare loro tutta la verità.

 

 

L’acqua che lo avvolgeva lo faceva sentire in paradiso. Era sdraiato nella vasca da bagno da almeno mezz’ora e non accennava minimamente ad uscire di lì. Il liquido trasparente faceva scivolare via dal suo corpo tutta la fatica e la stanchezza.

Le vacanze estive erano finite, il giorno successivo sarebbe ricominciata la scuola, e fra qualche settimana il campionato scolastico.

Chissà quando sarebbe tornato? Aveva detto che sarebbe stato via solo qualche mese… ma cosa diavolo andava a pensare?! A lui non doveva interessare cosa facesse o meno quell’idiota, non faceva più parte della sua vita, di conseguenza tutto ciò che lo riguardava non era più affar suo.

Però… a dispetto di tutti i suoi buoni propositi a volte non poteva impedirsi di pensare a lui. Probabilmente era tutta colpa della natura umana!

La sua parte irrazionale voleva, a tutti i costi, sapere dove fosse, cosa facesse, con chi, perché l’avesse lasciato… nonostante il suo lato razionale potesse tranquillamente continuare a vivere senza tutte quelle risposte, che comunque non avrebbero cambiato lo stato delle cose.

Si sdraiò sul letto, accanto a sé un pallone che faceva rotolare sulle lenzuola.

Chissà chi sarebbe capitato nel loro girone?

Sperava non squadre come il Kainan o il Ryonan. Non aveva certo paura di loro, ma prima di affrontare alcune delle squadre più forti avrebbe fatto bene loro un po’ di allenamento con delle squadre minori.

Si girò su un fianco e il suo sguardo andò ad incontrare i libri di scuola. Aveva fatto tutti i compiti che erano stati assegnati, tranne quelli d’inglese.

Non riusciva più ad avvicinarsi a quel libro. Ogni volta che lo faceva si ricordava di lui, di quando facevano i compiti insieme. Sapeva che non aveva mai avuto la sufficienza, però quando leggeva… il tono, l’accento, la cadenza, gli sapeva tutto di già sentito, di familiare. Ed ora sapeva il perché.

Afferrò il pallone e lo lanciò contro la parete opposta.

"Hanamichi Sakuragi, perché diavolo non vuoi uscire dalla mia testa?!?!" urlò.

 

 

L’annunciatrice chiamò per l’ultima volta il volo per Tokyo, con scalo ad Honolulu, che sarebbe partito fra meno di quaranta minuti.

Suo zio e i suoi cugini erano lì con lui e sua madre, per l’ultimo saluto.

"Sei proprio sicuro, Hanamichi?"

Il ragazzo annuì sorridendo "Sicurissimo mamma"

La donna si asciugò una lacrima e lo abbracciò forte "Quando vuoi tornare basta che mi chiami e ti prenoto subito il biglietto, d’accordo?" si allontanò circondandogli il viso con le mani "Mi mancherai così tanto…"

"Anche tu… ora vai…"

Dopo aver salutato suo fratello e i suoi nipoti la donna finalmente varcò il controllo passaporti per poter tornare in Giappone, mentre suo figlio sarebbe rimasto in America a studiare, fino a quando non avrebbe deciso di essere pronto per tornare a casa.

Colin e Caitlin gli batterono una mano sulla spalla per incoraggiarlo. Non sapevano perché avesse deciso di rimanere, ma ne erano contenti. Amavano quel cugino che non riuscivano a vedere tanto quanto avrebbero desiderato e se avesse frequentato la loro stessa scuola… beh, gli altri avrebbero dovuto iniziare a tremare!

Uscirono dall’aeroporto e salirono in macchina per tornare a casa.

Non appena fossero arrivati i documenti dal Giappone Colin lo avrebbe portato a scuola per l’iscrizione, per fargli fare un giro dell’istituto, per ambientarsi e iniziare a capire come funzionasse la scuola in America.

Entrò nella sua stanza, quella stanza in cui aveva pensato di vivere solo per qualche mese, ora invece ci sarebbe rimasto per un tempo indefinito. Fino a quando non avrebbe trovato il modo per poter tornare a casa e ricominciare a vivere senza le due cose che amava di più.

Sentì qualcuno bussare e invitò chiunque fosse ad entrare. Caitlin irruppe nella stanza con la sua solita irruenza, buttandosi in ginocchio sul letto, osservando lui che stava in piedi davanti la finestra.

"Allora?! Come ti senti?!"

Hanamichi si strinse nelle spalle "Non so… secondo te come dovrei sentirmi?"

Caitlin chiuse gli occhi estatica, iniziando a gesticolare "Al settimo cielo! Sei in America! Da solo! Puoi fare praticamente tutto ciò che vuoi senza che nessuno te lo impedisca! Oohh…" si lasciò cadere a peso morto indietro sui cuscini "…pagherei per avere la tua fortuna…"

Sakuragi alzò un sopracciglio "Tutto ciò che voglio, Caitlin? Con tuo padre? L’uomo che mi starà alle costole per controllare tutto ciò che farò?"

La ragazza saltò in piedi e chiuse a chiave la porta "Ok, forse mio padre è molto simile ad un cane da guardia… ma c’è sempre il modo per ingannare i cani…"

Il ragazzo sorrise "Cos’hai in mente?"

 

 

Varcò il cancello dell’istituto poco dopo l’inizio delle lezioni. Il preside le aveva fissato un appuntamento per le nove e lei era in perfetto orario.

Avevano mandato a suo figlio i documenti necessari per iscriversi al Marshall High, ma avrebbe dovuto comunque firmare alcune carte per così rendere effettivo il ritiro di Hanamichi.

Finì tutto molto presto e si era dovuta persino sorbire un discorsetto del preside su come gli sarebbe mancato Sakuragi. Solo per decenza non gli era scoppiata a ridere in faccia. Se ripensava allo sguardo pieno di sollievo che aveva visto negli occhi dell’uomo quando erano partiti…

Uscì dall’ufficio ringraziando una volta di più di non aver frequentato la scuola in un paese come questo. Sarebbe diventata un’isterica paranoica nel giro di cinque minuti.

Suonò la campanella della fine della seconda ora e a malincuore si ritrovò in mezzo a tutti quegli studenti che la guardavano come fosse un’aliena appena sbarcata da Marte.

"Signora Sakuragi!" si voltò sentendo chiamare il proprio nome e a pochi metri da sé vide il miglior amico di suo figlio.

"Ciao Yohei!" se fosse stata nel suo paese gli avrebbe stretto la mano o l’avrebbe baciato, qui se ci avesse provato il ragazzo sarebbe probabilmente svenuto a terra.

"Buongiorno, signora. Sono felice di vedere che siete tornati" guardò alle spalle della donna come se da un momento all’altro dovesse spuntare il suo amico "Dov’è Hanamichi?"

"Beh… lui…" un sospiro profondo e poi lo guardò negli occhi "Hanamichi ha deciso di frequentare la scuola in America, almeno per quest’anno" sorrise dispiaciuta "Mi spiace, la sua è stata una decisione improvvisa"

Yohei annuì "Capisco, certo…"

"Senti…" gli prese una mano stringendogliela affettuosamente "…a casa ho tutti i regali per te e gli altri che Hanamichi vi ha mandato. Quando volete venite, anche senza avvisare, sarò felice di stare un po’ con voi, va bene?"

Il ragazzo arrossì "La… la ringrazio signora"

La donna gli lasciò la mano e sorrise felice "Bene, ora devo proprio andare, il lavoro mi chiama! Ciao Yohei" e si allontanò in fretta.

"Eheh… ehi, Mito!" Noma gli dette una pacca sulla spalla "Quando volevi dircelo che ti piacciono le vecchiette, eh?"

"Già…" Takamiya gli si piazzò di fronte "…a noi potevi dirlo!"

Yohei li guardò torvo "Idioti… quella è la madre di Hanamichi!" e voltandosi rientrò nella sua classe.

 

 

Socchiuse la porta della stanza e sbirciò nel corridoio per controllare che non ci fosse nessuno. Si sentiva una specie di ladro. Quattro quatto andò nella stanza di Colin, dove trovò già Caitlin, che lo aspettava.

"Pronto?"

Annuì e vide sua cugina, in minigonna e tacchi alti, uscire dalla finestra e scendere giù per l’albero come se non avesse fatto altro in vita sua. Colin lo spinse ad essere il prossimo e dopo quasi cinque minuti, con consigli bisbigliati sia dall’uno che dall’altra su dove mettere i piedi riuscì a toccare terra. Il ragazzo lo seguì, chiudendo la finestra, e li raggiunse. Si allontanarono in fretta, fino a raggiungere una macchina che li aspettava a qualche metro di distanza.

Quei due sembravano assolutamente tranquilli, quasi non ci fosse alcun problema. Non che lui avesse paura, ben inteso, però ricordava quelle due volte in cui aveva visto Sean, suo zio, infuriato e non ci teneva a ripetere l’esperienza.

Entrarono nella discoteca e dopo trenta secondi già non vide più i suoi cugini, trascinati sulla pista dai loro amici, così si risolse a sedersi ad un tavolino del soppalco e ad ordinare un’acqua brillante.

Batteva il tempo col piede, ma non si sarebbe mai messo a ballare, un elefante era più aggraziato di lui.

"Ehi, ciao!"

Girò la testa verso quella voce e alzando lo sguardo si ritrovò specchiato in due limpidi occhi azzurri. Il suo cuore perse un battito.

"Posso sedermi?" indicando col dito il posto accanto ad Hanamichi.

Annuì, cercando di sorridere. Non poteva fare la figura del maleducato sin dal primo istante "Prego"

La ragazza gli porse la mano "Io sono Luyi. Sei nuovo?"

Annuì di nuovo "Hanamichi. Inizio quest’anno a frequentare il Marshall High. Prima vivevo in Giappone"

Luyi sorrise "Dove in Giappone? Io ho vissuto per quasi cinque anni a Kyoto, per via del lavoro di mio padre. Lui è un diplomatico cinese"

"Kanagawa, lungo la costa a sud di Tokyo" bevve un sorso d’acqua "Se tuo padre è un diplomatico chissà quanti bei posti avrai visto"

Si strinse nelle spalle "Abbastanza. Sai, non è male come vita, ma devi imparare a non affezionarti troppo alle persone che incontri" abbassò gli occhi, ma subito dopo ritrovò il sorriso e saltò in piedi tendendogli la mano "Ti va di ballare?"

"Certo!" e si buttarono in pista, scatenandosi insieme agli altri.

 

 

Se ne stava poggiato contro il muro ad osservare la casa di fronte ai suoi occhi, ascoltando la voce di Ville che cantava.

No one will love you

No one will love you the way I do

No one will love you

Love you like I do

Era tornato.

In palestra aveva sentito Mito dire di aver incontrato la madre di Sakuragi nei corridoi della scuola e a quell’informazione per poco non aveva mancato un passaggio di Yasuda.

E così era venuto a casa sua, anche se si chiedeva per fare cosa.

Se Hanamichi non voleva più vederlo che diritto aveva lui di continuare a obbligarlo alla sua presenza?

Calciò un sasso e si voltò ritrovandosi davanti la madre di Hanamichi con in mano le buste della spesa.

"Sai, stavo iniziando a chiedermi se per caso non ti fossi addormentato. Eri così immobile" gli sorrise e si protese verso di lui mettendogli in mano le buste fra le braccia "Ti spiace? Io non ce la facevo più, sono così pesanti" aprì il cancelletto e gli fece cenno di seguirla. Dopo aver aperto la porta lo fece andare in cucina per poi subito seguirlo.

"Allora, come stai? E’ un sacco che non ci vediamo. Beh, non che l’unica volta che ci siamo visti sia stata particolarmente felice…" l’ultima frase appena sussurrata, ma si voltò sorridente "Comunque io sono Cara. Dubito mi chiamerai mai col mio nome, ma almeno lo conosci, no?" si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio "Vuoi qualcosa? Non so, hai fame, sete?"

Rukawa scosse la testa per poi pronunciare le prime parole da almeno mezz’ora "Dov’è Hanamichi?"

"Lui… lui è rimasto a Chicago"

Buio. Vuoto. Silenzio.

Solo questo intorno a sé.

"Ma mi ha dato una cosa per te, vieni" e vedendo che non lo seguiva lo prese per mano portandolo in salotto. La stanza era luminosa, e su un tavolo di cristallo se ne stavano diversi pacchi e pacchettini. Cara ne prese uno avvolto in una lucida carta blu e fermato da un nastro rosso fuoco "E’ per te. Hanamichi ci teneva molto che tu lo avessi"

Rukawa, lo prese e fece un paio di passi indietro "La ringrazio" ed uscì di corsa da quella casa, stringendo il regalo in una mano, fermandosi solo quando non ebbe più fiato per respirare.

Si sedette all’ombra di uno dei tigli del parco, e posò il pacco davanti a sé, squadrandolo quasi dovesse rivelargli i segreti della vita. Alla fine, sbuffando, lo afferrò e strappò la carta, aprendo con foga la scatola per poi rimanere immobile.

RUKAWA

Il suo nome. Scritto a caratteri neri su sfondo rosso. E sotto il numero 10.

Tirò fuori la maglia e la girò facendosela sfuggire dalle mani.

Un disegno. La testa di un bue.

Una scritta. Chicago Bulls.

Perché?

Tirò fuori i pantaloncini, rovesciò la scatola, guardò nel coperchio, fra la carta. Nulla. Non c’era una sola, schifosissima riga scritta.

Sola la divisa della sua squadra preferita col suo nome.

Perché lo aveva fatto?

Lo aveva lasciato, perché gli aveva fatto un regalo del genere?

Non capiva e si chiese se mai sarebbe riuscito a farlo.

 

 

Diciotto a destra. Quattro a sinistra. Nove a destra.

Ed era ancora bloccato!

Riprovò di nuovo, la sua pazienza era decisamente agli sgoccioli.

Nulla di nuovo!

"Serve una mano?"

Guardò l’amica sorridergli. Scosse la testa, alzò le mani in segno di resa e fece un passo indietro "Prego. Quel dannato lucchetto deve avercela con me"

Luyi gli mise in mano i propri libri e sorrise "Lascia fare a me" dopo pochi secondi lo sportello era aperto.

Hanamichi la guardò sconcertato "Ma come cavolo hai fatto?!"

La ragazza gli fece l’occhiolino e si mise un dito sulle labbra "Sore wa, himitsu desu" imitando uno dei suo personaggi preferiti.

Lui alzò un sopracciglio "Il tuo giapponese fa pena, sai?"

Luyi si riprese i propri libri, offesa "Sempre meglio del tuo cinese!"

Si guardarono e scoppiarono a ridere.

"Fammi vedere" la ragazza gli strappò dalle mani l’orario delle lezioni, confrontandolo col proprio "Uhm… saremo nella stessa classe durante Letteratura, Biologia e Storia" annuì e gli ridiede il foglio "Forza, abbiamo lezione di Storia e non voglio fare tardi il primo giorno!"

Hanamichi chiuse l’armadietto, raggiungendola e preparandosi alla sua prima lezione in America.

 

 

Stavano funzionando.

L’intesa non era perfetta – ma quando mai lo era stata nello Shohoku? – e il nuovo centro, Gin Hayasi, non faceva minimamente rimpiangere il predecessore, Akagi.

La squadra avversaria era un club formatosi da poco e sebbene fossero pieni di entusiasmo, buona volontà e persino talento mancavano di quell’esperienza che altrimenti li avrebbe resi estremamente pericolosi.

Il fischio finale dell’arbitro colse i loro avversari increduli, non credevano di poter perdere in questo modo.

I giocatori dello Shohoku decisero che la loro prima vittoria al campionato andava festeggiata, e persino Rukawa si unì a loro. Passarono la serata in un locale di karaoke, dove tutti cantarono. Ryota una canzone d’amore per la sua Ayako che subito dopo la prima strofa lo colpì col suo ventaglio per il divertimento degli altri; Mitsui si buttò sul rock puro, con somma disperazione delle orecchie dei suoi compagni; e alla fine riuscirono a convincere persino Rukawa che, con una vecchia canzone d’amore di Elton John, fece sfoggio di una voce dolce e melodiosa.

Alla fine si separarono, in coppia o da soli, per tornare a casa o continuare la serata in qualche altro locale.

Camminava sul lungo mare, lo sciabordio del mare nelle orecchie e la penombra intorno a sé. Si fermò sotto un lampione spento, sedendosi sul muretto, chiudendo gli occhi e ascoltando i suoni dell’oceano.

Le onde, la sirena del porto e quelle delle navi.

Sarebbe dovuto tornarsene a casa, ma si stava così bene qui. La mentre sgombra, nessun pensiero che lo assillasse. Sospirò, abbandonando la testa sul petto, socchiudendo gli occhi e osservando la punta delle proprie scarpe, appena distinguibili nell’oscurità.

"E’ da molto che sei qui?" lo sussurrò, ma il ragazzo a cavalcioni sul muro lo udì ugualmente.

"Solo qualche minuto" si mise in piedi, stiracchiandosi e sorridendogli "Ho visto la partita, complimenti"

"Mh…" con un ultimo sguardo al mare nero riprese la propria strada con l’altro ragazzo al suo fianco.

"Lo sai, non è vero?"

Non rispose. Non si risponde ad una domanda retorica.

"Sono stato a casa sua oggi, mi aveva telefonato Cara per darmi il mio regalo" si mise le mani nelle tasche posteriori dei jeans "Hanamichi ha sempre avuto buon gusto. Mi ha regalato un maglione di lana in stile pescatore nei toni del blu e del grigio chiaro. Bello…"

Continuarono a camminare in silenzio sino a quando non giunsero davanti la casa di Rukawa.

Stava per augurargli la buona notte, quando Sendoh lo prese per un polso e lo attirò a sé per baciarlo. Un bacio dolce, morbido, quasi casto, un lieve sfiorarsi di labbra, ma Kaede non gli rispondeva, rimaneva immobile fra le sue braccia.

Gli posò le mani ai lati del collo, poggiando la propria fronte su quella dell’altro, specchiandosi in quegli occhi blu così simili ai suoi, ma infinitamente più belli.

"Ci hanno insegnato che non si deve mentire alla persona che amiamo" sussurrò sulle sue labbra "Ma a volte è proprio in nome di quell’amore che lo facciamo" gli diede un ultimo piccolo bacio prima di allontanarsi e scomparire nell’oscurità, lasciando Rukawa sulla soglia della porta a chiedersi cosa stesse succedendo alla sua vita, ma soprattutto cosa sapesse Sendoh.

 

 

Sei mesi dopo

 

 

Hanamichi entrò in casa all’alba posando il borsone sul tavolo. Sbadigliò, stanco come non lo era più da molto tempo.

"Buongiorno, tesoro"

Il ragazzo si voltò sorridendo alla donna "Buongiorno, zia" sottovoce, per non svegliare gli altri che ancora dormivano "Non sei stata in piedi tutta la notte ad aspettarmi, vero?"

Gli diede una tazza di caffè, facendolo sedere su uno degli sgabelli dell’isola della cucina "Non ho fatto nulla che non avrebbe fatto anche tua madre. A proposito…" lo guardò negli occhi, preparando l’impasto per le frittelle "…non credi sia ora che la chiami? Da quanto non lo fai? Saranno almeno tre settimane" tono di rimprovero.

Hanamichi guardò l’orologio, calcolando l’ora di Kanagawa – quattordici ore in avanti rispetto a Chicago – decise che poteva chiamarla. A quell’ora – le otto di sera – l’avrebbe trovata probabilmente a leggere un libro sul divano, in salotto.

Non la vedeva da Natale, due mesi prima, quando era venuta per trascorrere lì con loro le feste. Le mancava un sacco, Hanamichi adorava sua madre, e se tutto andava come sperava entro la fine dell’anno scolastico forse sarebbe potuto tornare in Giappone. Aveva trovato il modo di poter vivere senza il basket, ora doveva trovare quello per stare vicino a Rukawa senza soffrire, anche se ogni giorno che passava vedeva il suo obiettivo sempre più irraggiungibile.

Attaccò la cornetta quando sua zia aveva quasi finito di preparare la colazione e dal piano di sopra s’iniziavano a sentire le voci di Colin e Caitlin sul possesso del bagno per la doccia.

 

 

Erano seduti in un locale quasi deserto, due tazze di caffè fumante davanti a loro. All’esterno la pioggia e il vento continuavano ad infuriare. Loro si erano nascosti lì dentro alle prime avvisaglie, ma stranamente quasi nessun altro era entrato, ma era meglio così, non gli piaceva la confusione.

Da quella sera non aveva più rifiutato gli inviti di Sendoh ad uscire una volta ogni tanto, voleva cercare di sapere da lui ciò che Hanamichi non gli aveva voluto dire ma che, a quanto sembrava, non si era fatto scrupoli a confessare a Sendoh. Ma tutto ciò che era riuscito ad ottenere era la conferma del fatto che lui sapeva ma che non gli avrebbe mai detto nulla. Avrebbe saputo quando Hanamichi sarebbe stato abbastanza pronto da rivelargli tutto.

Però era riuscito a farsi dire il tipo di rapporto che li legava, perché lui chiamasse la madre di Sakuragi per nome.

Durante le scuole medie avevano lavorato entrambi per qualche mese nello stesso negozio, diventando amici. Poi Sendoh ci aveva anche provato con Hanamichi, ma questi aveva declinato l’offerta adducendo come scusa che non stava bene amoreggiare col nemico.

Gli era quasi venuto da sorridere a quella frase.

"Siete stati bravi oggi. Una partita davvero eccezionale, però non so perché tu mi sembravi sotto tono" Rukawa alzò gli occhi dal bordo della tazza guardandolo interrogativo, ma l’altro liquidò la faccenda con un gesto della mano "Comunque Mitsui dovrebbe smetterla di stuzzicare Hayasi di continuo. Quando lo fa il vostro centro perde la concentrazione, si fa fregare e inizia a sbraitare" assaggiò il caffè e aggiunse dell’altro zucchero "Quando fa quelle scenate mi ricorda…" si fermò, guardandolo contrito, ma Rukawa gli fece un mezzo sorriso posando la tazza sul piattino.

"Guarda che puoi dire quel nome, non è stato dichiarato illegale, sai?" guardò un attimo fuori prima di riprendere a parlare "Hai ragione, anche a me ricorda Sakuragi in alcuni momenti, ma la somiglianza si ferma lì. Per il resto Hayasi è molto più bravo. Abbiamo fatto un buon acquisto con lui in squadra"

Sendoh annuì, ascoltando Rukawa parlare con voce spenta, vuota. Come sempre "Ti manca, vero?"

Kaede abbassò lo sguardo, cercando di sorridere "In fondo mi ci sarei dovuto abituare, giusto? Voglio dire, oramai è più il tempo che siamo separati che non quello in cui siamo stati insieme, ma una parte di me continua ad amarlo" sospirò "Sai, Sendoh, credo sia il fatto di non aver avuto voce nella nostra rottura che mi impedisce di accettare la cosa e andare avanti. Mi sono limitato ad usare l’orgoglio come difesa, senza cercare di capire realmente, di parlare con lui" si strinse nelle spalle "Beh, oramai è andata…" bevve un paio di sorsi prima di tornare a parlare "Domani tocca a voi. Batterete lo Shoyo?"

Sendoh si esibì nel suo sorriso più luminoso "Assolutamente. Così poi noi" gli sfiorò il dorso di una mano con un dito "Ci ritroveremo in finale. Preparatevi ad essere sconfitti"

Rukawa alzò un sopracciglio "Nh…"

 

 

"Io vado, ok?"

Hanamichi e Luyi sorrisero alla ragazza – Kelly – che si avvicinò alla pista per ballare e ben presto fu lei al centro dell’attenzione, che col suo corpo sinuoso e il talento di ballerina attirava su di sé gli sguardi di tutti.

"Ti piace?" Hanamichi annuì, il fatto che fosse gay non significava che non sapesse riconoscere la bellezza "E’ la mia ragazza" buttato lì con noncuranza, mentre beveva un po’ del suo drink.

Per poco Sakuragi non si strozzò. Guardò Luyi, poi Kelly e di nuovo la sua amica "Cosa?" non aveva capito bene. Ovviamente.

La ragazza sorrise "Kelly sta con me, è la mia ragazza, fidanzata, compagna di vita, amante, ispiratrice di giochi perversi… ti è più chiaro adesso?"

Hanamichi aveva gli occhi sgranati "Cioè… tu… e lei siete…" arrossì vistosamente.

"Lesbiche? Cinque su cinque"1 continuando a seguire il ritmo col corpo e ad osservare Kelly sulla pista.

Luyi era lesbica? Beh… questa sì che era una notizia! E significava anche che… beh, sì, che poteva dirle di sé.

"Luyi?"

"Uh?"

"Io… io sono gay…" confessò per la prima volta a qualcuno dopo sua madre.

"Lo so…" la ragazza gli sorrise "Mi chiedevo quanto ancora ti ci sarebbe voluto per dirmelo"

"E tu come diavolo fai a saperlo?!" era stato attentissimo, avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco che nessuno sapeva nulla, e adesso…

"Scherzi, vero?" stavolta fu la ragazza a rimanere sorpresa "Ignori ogni ragazza che ti si presenta davanti, non vuoi uscire con le amiche di Caitlin che farebbero qualunque cosa per te, ogni volta che lo vedi ti mangi con gli occhi Karl, e mi chiedi come faccio a saperlo?" gli batté una mano sulla spalla "Però, tranquillo, me ne sono accorta solo io. Per gli altri sei solo uno dai gusti molto, molto difficili"

Gli lasciò il tempo di assimilare quelle notizie, finendo il suo drink, guardando Kelly e pregustandosi la notte che avrebbe trascorso con lei visto che i suoi genitori erano a New York per un convegno.

"Andiamo?"

Hanamichi aveva ripreso colore e adesso sembrava molto più sereno. Annuì, e insieme raggiunsero l’altra, divertendosi a dare vita ad una scena di ballo da cardio palma.

 

 

Erano in finale.

Come era ovvio. E ancora più ovvia sarebbe stata la loro vittoria a questo campionato prefetturale.

Mancava poco ormai. Fra dieci minuti sarebbero scesi in campo e avrebbero affrontato il Ryonan. La tensione nel loro spogliatoio si sarebbe potuta tagliare con un coltello nonostante le continue avances di Hayasi verso Ayako che provocavano attacchi di isterica gelosia nel loro povero capitano.

Uscì dagli spogliatoi per cercare un po’ d’aria fresca, lì dentro non si respirava. Raggiunse l’uscita di sicurezza e una lieve brezza lo investì. Bloccò la porta perché non si chiudesse e si girò per sedersi sulle scale, me le trovò già occupate.

Sendoh se ne stava lì cogli occhi chiusi, respirando profondamente, a quanto sembrava non l’aveva sentito.

Si sedette anche lui, poggiando il mento contro il petto, cercando di rilassarsi per trovare la concentrazione necessaria.

Dovevano arrivare primi. Lo dovevano ad Akagi e Kogure che tanto avevano creduto in quella squadra, a Mitsui e Ryota perché era la loro ultima possibilità prima di andare all’università, ad Anzai che li aveva sempre sopportati col sorriso sulle labbra.

Ma, soprattutto, Rukawa Kaede lo doveva a sé stesso. Vincere il campionato prefetturale, quello nazionale, venir nominato MVP; questi erano tutti gradini da salire per poter raggiungere il suo obiettivo, realizzare il suo sogno. Anche se, per la prima volta nella sua vita, il pensiero di andare a giocare in America non gli fece accelerare il battito del cuore come sempre succedeva.

La campana che segnava l’imminente inizio della partita suonò e, alzandosi in piedi, si ritrovò davanti l’altro giocatore che gli sorrideva porgendogli la mano.

"Vogliamo andare?"

Annuì e, procedendolo, tornarono dentro dalle rispettive squadre.

 

 

Due mesi più tardi

 

 

"Tieni, questa tienila tu" le diede una foto che ritraeva lei e Kelly al tramonto, quando tutti e tre insieme avevano deciso di trascorrere il fine settimana in un cottage in riva al lago Michigan di proprietà dei genitori di Kelly.

"Hanamichi, non posso accettarla…" ma il ragazzo le si avvicinò stringendole le mani che tenevano la cornice.

"Voglio che l’abbia tu, tanto io ho il negativo. E non farmi ripetere l’offerta quattro volte, d’accordo?"2

Luyi annuì, gli occhi lucidi.

"Sei proprio deciso ad andartene? Davvero vuoi lasciare Chicago? E me? E la tua famiglia? E per la scuola come farai? Non puoi almeno aspettare la fine dell’anno scolastico?"

Il ragazzo si sedette sul letto accanto a lei "Mi mancherete tutti da impazzire. Ma la mia vita, mia madre…" il mio cuore "…sono in Giappone" si rialzò ritornando a mettere i libri dentro gli scatoloni "La scuola non è un problema. Coi miei voti sarebbe assurdo se non mi promuovessero, e dato che in Giappone l’anno scolastico inizia ad aprile sarò iscritto automaticamente al terzo anno"

Luyi si alzò in piedi, posando la foto sul copriletto, avvicinandosi e abbracciandolo da dietro "Prometti che non mi dimenticherai, tu sei il mio migliore amico"

Hanamichi si rigirò fra le sue braccia, stringendola a propria volta "Non potrei mai. Sei la persona più speciale che abbia mai incontrato" le sfiorò lievemente le labbra con le proprie prima di stringerla più forte.

Caitlin e Colin li trovarono così, spezzando quella sorta di magico incantesimo, iniziando a prenderli in giro per il loro atteggiamento da teneri piccioncini, ma anche loro dispiaciuti perché loro cugino se ne sarebbe andato.

Così, tutti e quattro insieme iniziarono ad inscatolare la vita americana di Hanamichi.

 

 

Avevano vinto. Avevano raggiunto i loro obiettivi.

E allora perché lui sentiva così apatico? L’unica cosa che era mai riuscita a dargli gioia ora non lo emozionava più.

Era stato nominato miglior giocatore e lui aveva ricevuto quel premio come non ci fosse cosa al mondo che lo interessasse meno. Neanche la finale prefetturale contro Sendoh, l’aver battuto colui che aveva sempre considerato il suo nemico naturale su un campo da basket, l’aveva fatto sentire vivo.

Ora se ne stava qui, in questo campo, insaccando un canestro dopo l’altro con la stessa passione di un automa.

Cosa gli stava succedendo?

 

 

L’aereo atterrò con quasi un’ora di ritardo, avevano avuto il vento contrario e questo aveva rallentato la loro velocità.

Dopo aver passato il controllo passaporti si diresse ai nastri per riprendersi le valige, e una volta tanto la fortuna doveva avergli strizzato l’occhio, perché i suoi bagagli furono tra i primi ad uscire.

Caricò le due valige sul carrello – il resto della sua roba l’avrebbe consegnata il giorno dopo una ditta di spedizioni - e si diresse verso l’uscita dove vide subito sua madre che non appena scortolo si precipitò da lui sotto molti sguardi scandalizzati per una simile esuberanza mostrata in pubblico.

Uscirono dall’aeroporto per ritrovarsi sotto una strana pioggia illuminata dal Sole. Caricarono i bagagli sulla jeep e sua madre gli fece dondolare le chiavi dell’auto davanti gli occhi.

"Ti va di guidare?"

Hanamichi sorrise e le prese al volo sedendosi al posto di guida – a destra. Quando era a Chicago, visto che aveva l’età giusta, ne aveva approfittato per prendere la patente e adesso che era tornato in Giappone si sarebbe dovuto sorbire un sacco di burocrazia per rendere valida anche qui la sua licenza di guida.

Tra pochi giorni sarebbe iniziata la Golden Week e allora si sarebbe fatto vivo coi suoi amici. Sino a quel momento avrebbe provveduto a mettere di nuovo in piedi la sua vita. Tanto per cominciare avrebbe dovuto sistemare la stanza accanto alla sua per renderla consona alle sue esigenze, poi mettere a posto tutti i bagagli – e solo quel pensiero gli strappò un gemito sofferente, ma prima di tutto avrebbe dormito per almeno due giorni consecutivi per riprendersi dal fuso orario.

Parcheggiò la jeep in garage e prese le due valige mentre sua madre lo precedeva per aprire la porta. Stava per salire le scale, pregustandosi già la dormita che si sarebbe fatto quando Cara lo fermò.

"Tesoro, non dimentichi qualcosa?"

Hanamichi pensò e ripensò, si guardò intorno e alla fine scosse la testa. A lui non sembrava d’essersi scordato nulla.

La donna indicò i suoi piedi e sorrise "Le scarpe, ti sei dimenticato di togliertele"

Arrossì e tornò indietro per togliersi le Nike e mettersi un paio di pantofole.

Sdraiandosi sul letto e sprofondando nel sonno pensò che forse non sarebbe stato proprio semplicissimo tornare alla stessa vita di prima.

 

 

Erano, miracolosamente, riusciti tutti ad essere promossi. Questo grazie anche all’aiuto di Hayasi che, nonostante l’apparenza di burlone, era un vero e proprio genio.

Così, da quest’anno, Mitsui e Ryota non sarebbero più stati con loro, e questo valeva anche per Ayako.

Si sarebbero dovuti rimboccare le maniche, trovare un tiratore da tre punti e un playmaker che potessero sostituirli. Forse, per un po’, il ruolo di Miyagi avrebbe potuto ricoprirlo lui, ma solo provvisoriamente.

Anche se in fondo, riflettendoci attentamente, forse non avrebbero avuto bisogno di cercare per mari e monti dei giocatori validi; d’altronde loro erano i vincitori del campionato nazionale, ed una cosa del genere veniva sicuramente considerata al momento della scelta della scuola superiore.

A questo punto bisognava preoccuparsi seriamente solo di trovare l’aiuto manager adatta alla loro squadra. Da quanto ne sapeva le ragazze del suo fan club avevano presentato la domanda, ma lui sperava con tutto il cuore che non venissero accettate. Ritrovarsi, per un anno intero, quelle idiote più vicine di quanto non lo fossero state sino ad adesso lo rivoltava.

Chiuse la lampo ed uscì dagli spogliatoi. Quando fu sulla soglia della palestra si voltò e l’abbracciò con lo sguardo. Il parquet lucido, le reti dei canestri tolte e riposte insieme ai palloni. La luce del tramonto creava un’atmosfera… strana.

I raggi del Sole che colpivano l’aria rendendo visibile il pulviscolo di cui era fatta, la sensazione di caldo che si sentiva; sembrava quasi di essere in una chiesa cristiana, dove non esiste né passato, né presente, né futuro, solo la semplice eternità del momento.

La sua chiesa. Dove il tabellone erano le campane che suonavano a festa quando vincevano.

E sebbene tutto questo non lo sentisse più da molto tempo non rinunciò al suo rituale di fine anno. Si sistemò la borsa sulla spalla e si baciò la punta delle dita di mano, poggiandola poi sul parquet sorridendo.

"Ci vediamo tra una settimana"

 

 

Uscì dall’ufficio con in mano la sua patente giapponese e un enorme sorriso sulla faccia. In fondo non era stato poi così terribile come aveva immaginato.

Guardando l’ora decise che avrebbe mangiato qualcosa in un locale qui vicino e poi si sarebbe dedicato all’acquisto dei materiali che gli servivano.

Entrò nel fast-food e dopo aver preso ciò che voleva, cercò un tavolo, solo per ritrovarsi davanti un Akira iper sorridente, più del suo solito, il che suona abbastanza grottesco, che lo costrinse a sedersi con lui.

"Quando sei tornato? E perché non mi hai chiamato?"

Hanamichi mangiò in paio di patatine e poi rispose "Sono arrivato tre giorni fa, e non ho chiamato nessuno, prima volevo organizzarmi"

"Uhm… beh, è bello rivederti, anche se dovrei essere mortalmente offeso con te! Perché non mi hai mai detto che partivi? Ci sono rimasto male…" e atteggiò le labbra ad un adorabile broncio mentre gli occhi sembravano quelli di un cane bastonato.

"Ma finiscila! Sono sicuro che invece eri strafelice di sapermi dall’altra parte del mondo, così avevi campo libero, no?"

Akira tornò sorridente, ma si strinse nelle spalle "Beh… io ci ho provato, ma niente da fare… Rukawa sembra non volerne sapere nulla di me…"

Sakuragi annuì, bevendo un po’ della sua Coca-Cola "Questo significa che ha buon gusto" Sendoh lo guardò storto, offeso che qualcuno potesse mettere in dubbio il suo fascino.

Quando uscirono insieme dal locale Akira aveva già deciso che avrebbe accompagnato l’amico in giro per negozi, così avrebbe potuto passare dell’altro tempo con lui e gli avrebbe raccontato di ciò che era successo durante la sua assenza.

Arrivarono a casa di Sakuragi e Sendoh era oramai deciso a scoprire cosa diavolo doveva farsene l’altro di tutta quella roba. Cioè, voleva ridipingere una stanza, ok, ma… nera?!?

Cara li accolse con un silenzio glaciale, stava diventando quasi isterica a causa di una maledettissima traduzione finanziaria che avrebbe dovuto consegnare entro due ore. I ragazzi fecero più piano che poterono e salirono al primo piano.

Hanamichi lo fece accomodare nella sua stanza, piena di scatole ancora imballate o aperte e iniziate a svuotare "Scusa il disordine, ma sai com’è…"

"Certo, nessun problema" Sendoh prese in mano un cappellino da baseball dei Chicago Cubs posandolo poi sulla testa di un panda che Hanamichi aveva vinto al Luna Park insieme a Luyi.

"Mi vuoi dire che devi farci con della vernice nera?"

"La mia camera oscura" disse tranquillamente.

"La tua… cosa?!"

"Camera oscura. Sai, quella dove i fotografi sviluppano le proprie foto"

"Lo so a cosa serve, ma tu cosa te ne fai?"

Sakuragi gli andò vicino, un solo passo li separava, e lentamente si piegò verso Sendoh che esultava per l’arresa del suo amico; certo, ci aveva messo un po’ ma finalmente avrebbe potuto legarlo al letto e insieme avrebbero recuperato tutto il tempo perduto in quegli anni.

"Un sorriso per i posteri"

Il flash lo accecò mentre la voce di Hanamichi lo risvegliò dai suoi sogni ad occhi aperti e lo vide ad un metro e mezzo da sé con in mano una macchina fotografica. Una macchina per professionisti, su questo non c’era alcun dubbio. Lo guardò interrogativo, incapace di trovare le parole adatte.

"Ero fermamente intenzionato a non frequentare alcun corso extra scolastico, e per un paio di mesi in effetti non feci assolutamente nulla " iniziò a raccontare "Poi, un pomeriggio mentre stavo guardando gli allenamenti della squadra di basket, arrivarono un gruppo di cinque o sei persone e iniziarono a scattare foto ai giocatori, le loro azioni e così via" posò la macchina fotografica sul cassettone "Alla fine si presentarono. Erano alcuni dei membri del corso di fotografia, e loro in particolare si interessavano di fotografia sportiva. Beh, dopo un po’ che li vedevo sempre decisi di dare un’occhiata al loro corso, e alla fine mi iscrissi. Mi hanno insegnato le luci, le ombre, l’attenzione ai riflessi, le angolazione, come ottenere foto nitide con soggetti in movimento e a svilupparle. Tutto qui" stringendosi nelle spalle.

"Fotografo sportivo, eh? In questo modo potresti stargli vicino, giusto?"

Hanamichi abbassò lo sguardo "Sarebbe inutile dirti che non ci ho pensato. Ma la verità è che non so cosa fare, per il momento lascerò le cose come stanno, poi... forse..."

Sendoh prese un rullo e glielo mise in mano "Avanti, muoviti, non posso sprecare tutta la giornata con te, ho una vita sociale io" sorrise e prese un barattolo di vernice.

 

 

Uscì di casa che era pomeriggio inoltrato. Voleva andare al negozio di dischi per curiosare tra i nuovi arrivi e comprarsi qualcosa. Oramai conosceva a memoria ogni canzone e gli serviva qualcos’altro. Dopo più di due ore uscì di lì con tre album e un paio di dischi in vinile di musica classica.

Girovagò per la città, senza avere nulla da fare. Si sarebbe potuto allenare, ma l’idea non lo attirava minimamente. Avrebbe di gran lunga preferito leggere un libro piuttosto che prendere in mano quel pallone e giocare.

Si sedette all’interno di un bar, ordinando un’enorme coppa di gelato, scartando i CD e vedere cosa contenessero i libretti. La cameriera lo servì e lui mise tutto da parte per gustarsi il suo gelato.

All’improvviso gli tornò alla mente quella volta in cui lui e Hanamichi si mangiarono una confezione da quasi due chili di gelato. In fondo non era neanche molto considerato che l’avevano gustato l’uno sul corpo dell’altro.

Non si era mai sentito vivo come in quel momento, anzi, forse prima di allora non era mai stato davvero vivo.

Quando era con Hanamichi tutto gli sembrava più vero, vivido, reale; quando era con lui i suoi occhi percepivano il mondo con tutte le sue sfumature. Non vedeva solo ciò che lo interessava, ma anche quello cui non avrebbe mai prestato attenzione, e che si rivelava sempre come una nuova scoperta che lo sorprendeva, lo stupiva, lo incantava.

Con Sakuragi aveva vissuto realmente per la prima volta. Aveva scoperto quanto dolce potesse essere la passione. Non quella carnale, ma quella di tutti i giorni, per cui sai di avere qualcosa per vivere ed essere felice.

Una passione che non aveva mai provato, e che non sentiva più da quando l’aveva lasciato facendolo sprofondare nella sua eterna ossessione.

Chissà se sarebbe mai riuscito a provare di nuovo tutto quello?

 

 

La campana della scuola suonò con la sua solita precisione cronometrica, e tutti gli studenti si avviarono verso la nuova classe, cercando visi conosciuti cui avvicinarsi, e studiando gli altri per capire se sarebbe stato possibile diventare amici.

Rukawa non si curò di nulla di tutto questo, limitandosi ad entrare in classe e ad addormentarsi al proprio banco. Il terzo anno… l’ultimo primo dell’università. E il pensiero che avrebbe dovuto rinunciare al basket per alcuni mesi per prepararsi agli esami non lo toccava minimamente.

Come sarebbe stato diverso l’ingresso all’università da quello che aveva vissuto tre anni prima per entrare allo Shohoku. In quei mesi non aveva quasi dormito pur di studiare senza dover per questo rinunciare alla pallacanestro.

All’esterno della classe, nel corridoio, le voci degli studenti si fecero improvvisamente più basse e concitate. Un alto ragazzo dai capelli rossi di cui alcuni si ricordavano e altri avevano sentito parlare, stava passando tra di loro accompagnato da quel teppista di Yohei Mito dai cui tutti cercavano di stare lontano.

"Ehi, Mito, come mai tutti ti guardano con terrore? Che hai fatto mentre non c’ero, eh?"

Il ragazzo sorrise e si strinse nelle spalle "Ma nulla… ho solo mandato uno all’ospedale. Stava dando fastidio ad una ragazza, non potevo mica lasciarlo fare, no? Anche se in realtà questa parte hanno tutti preferito dimenticarla…"

Hanamichi gli mise un bracci intorno alle spalle "Povero amico mio… ma vedrai che una volta tornato il Tensai si dimenticheranno preso di te!"

Ridendo entrarono nella loro nuova classe in un silenzio di cui non si preoccuparono minimamente, scherzando fra di loro e con Haruko che si mostrò davvero felice per il ritorno del suo amico.

 

 

Dopo un po’ di riscaldamento i ragazzi che avevano fatto domanda per entrare nel club di basket furono fatti allineare per presentarsi e conoscere i loro senpai.

Della squadra che aveva vinto il campionato nazionale erano rimasti solo Rukawa e Hayasi che Anzai aveva nominato capitano. L’allenatore aveva spiegato a Rukawa che senza dubbio per capacità e talento quel titolo sarebbe dovuto andare a lui, ma un capitano deve essere capace di spronare i giocatori, di aiutarli e incoraggiarli e Rukawa non era ancora pronto per fare questo.

Aveva accettato la decisione di buon grado, in fondo lui aveva sempre voluto dimostrare di essere il migliore e diventare capitano non avrebbe provato nulla. L’aveva detto anche Anzai che era lui il più bravo fra loro.

Salì in bici e con uno dei suoi nuovi CD, gli Ataraxia, nelle orecchie si diresse verso casa.

Quel giorno i suoi genitori erano tornati da Nuova Dhely e avevano deciso che l’avrebbero portato fuori a cena in uno dei migliori ristoranti della città.

 

 

Appena le lezioni si conclusero si diresse verso la redazione del giornale della scuola. Non c’era alcun dubbio che lui era meglio di tutti gli altri fotografi del giornale messi insieme, e ben presto il mondo si sarebbe chiesto chi fosse Helmut Newton al confronto del grande Tensai della fotografia Sakuragi Hanamichi.

Il caporedattore lo accolse cortesemente e gli disse che sarebbe stato felice di averlo tra i membri del suo staff.

"Sakuragi, scusa" il ragazzo era davvero molto gentile, per certi aspetti gli ricordava il quattr’occhi "Posso chiederti di dove sei? Hai un accento così strano" e arrossì dato che sapeva che quelli non sarebbero dovuti essere affari suoi.

"Ho vissuto un anno negli Stati Uniti" rispose.

"Oohh…" dire che era ammirato sarebbe stato usare un eufemismo. Lui sognava di vincere il premio Pulitzer e diventare un giornalista investigativo, di scoprire inganni, truffe e corruzioni. Beh… per il momento si occupava del giornale della scuola e di quello si sarebbe dovuto preoccupare.

"Dunque, se hai vissuto un anno all’estero forse non lo sai, ma la nostra squadra di basket ha vinto lo scorso campionato nazionale, ed uno dei suoi giocatori – Rukawa Kaede – è stato nominato MVP. Vorrei metterti in coppia con Tagayuki Sizuku per fare un servizio su tutta la squadra. Sai, intervistare l’allenatore, i giocatori, le speranze per questo campionato, eccetera. Poi, il massimo sarebbe riuscire ad intervistare alcuni dei giocatori passati, vediamo…" prese dei fogli da una cartellina "…Miyagi Ryota e Mitsui Hisashi sono due di quelli che hanno vinto; Akagi Takenori e Kogure Kiminobu, loro mi interessano in particolar modo, sono stati soprattutto loro ad aver creduto in questa squadra, infatti già due anni fa la squadra arrivò seconda ai nazionali. Cosa ne pensi?"

Ogni parola che Yasin pronunciava era un piccola ferita cicatrizzata che si riapriva perdendo nuovo sangue. Le parole che gli aveva detto, il modo in cui si era comportato con tutti loro, il dolore che aveva provato; tutto gli tornò alla mente in un vortice di ricordi devastante.

"Non c’è null’altro che potrei fare?" troppo presto. Non poteva incontrarlo adesso, era troppo presto. Sarebbe stato troppo presto anche fra un’eternità.

Yasin scosse la testa "No, ho già assegnato tutti gli altri incarichi, questo è l’unico rimasto"

Rivolse lo sguardo all’esterno, riflettendo se poteva o meno accettare una cosa simile. Rivedere tutti loro, non solo Kaede, i suoi compagni con cui aveva condiviso così tanto e da cui era fuggito senza lo straccio di una spiegazione.

Perché in quest’anno di distanza aveva ammesso con sé stesso che ciò che aveva fatto era una fuga. Si era comportato da vigliacco, non aveva saputo affrontare il dolore qui coi suoi amici e il ragazzo che amava. No, lui era fuggito.

Tornò a fissare lo sguardo sul suo nuovo capo "D’accordo, accetto"

 

 

Si era vestito come gli aveva chiesto sua madre e si sentiva un autentico imbecille conciato così. La camicia di seta crema e i pantaloni di velluto nero. Per fortuna era riuscito a convincere sua madre a non fargli mettere anche la cravatta.

Sapeva che i suoi genitori lo amavano, probabilmente molto più di quanto non facesse lui, solo che erano sempre impegnati col loro lavoro in giro per l’Asia e quando tornavano a casa lo ricoprivano di attenzioni e regali sino a soffocarlo.

Cenarono in un ristorante francese e per tutto il tempo non fecero che parlare con lui, chiedendogli della scuola e della squadra. Avevano lasciato i loro cellulari a casa e scoprendolo non era riuscito a reprimere un sorriso di pura gioia. Forse era sciocco, ma era con gesti come questo che capiva quanto davvero i suoi genitori gli volessero bene.

"Sai, ci dispiace di esserci persi la finale. Avevamo davvero preso i biglietti per venirti a vedere, ma purtroppo hanno cancellato il volo da Pechino per il mal tempo"

Posò le posate a V rovesciata sul piatto e sorrise "Non fa nulla, mamma, non preoccupatevi"

I suoi genitori lo guardarono stupiti ma poi suoi padre – da cui aveva ereditato l’altezza e gli occhi blu – tirò fuori dalla borsa di sua moglie una cassetta di quelle per le videocamere.

"Questa è la finale del campionato nazionale e la tua premiazione come MVP. Siamo riusciti a recuperarla da una piccola compagnia televisiva locale. Ti va di vederla con noi quando torniamo a casa?"

Se non fosse stato lui è probabile che avrebbe persino versato qualche lacrima rendendosi conto di quanto i suoi genitori si fossero dati da fare per poter assistere in qualche modo al suo trionfo. Annuì e tornò a mangiare con occhi bassi sotto lo sguardo amorevole di suo padre e sua madre.

Si erano seduti sul divano in salotto, le luci spente, ed avevano assistito all’ingresso in campo dello Shohoku e dell’altra squadra; con sua madre che faceva commenti su quanto fosse carino questo o quell’altro giocatore, ma non esitando a definirli con epiteti che avrebbero fatto arrossire chiunque quando uno di loro compiva fallo o bloccava una delle azioni di suo figlio.

"Sumire…"

La donna stava per lanciarsi in un urlo esultante per il magnifico tiro da tre punti che il suo bambino aveva segnato quando la voce di suo marito la fece voltare e solo allora vide che il suo piccolo Kaede si era addormentato nell’abbraccio di suo padre. Spense il video, solo lo statico del televisore ad illuminare la stanza, e passò una mano fra quei capelli neri forse un po’ troppo lunghi.

L’uomo prese in braccio suo figlio, che si rannicchiò contro il suo petto, e lo portò in camera sua posandolo sul letto. La donna li aveva seguiti ed ora tolse i vestiti a quel ragazzo che per lei sarebbe sempre stato un bambino e gli posò un lieve bacio sulla fronte.

"Buona notte, tesoro…"

 

 

"Allora, come vuoi organizzare il lavoro?" Sizuku era una studentessa del secondo anno il cui sogno era diventare la caporedattrice di un importante quotidiano nazionale. Era una ragazza che in un certo senso gli ricordava Luyi: la stessa esuberanza, allegria… anche se Luyi non si sarebbe mai tinta i capelli di viola, le punte e alcune ciocche davanti azzurro cielo.

"Tu come vorresti fare?"

"Allora…" poggiò il proprio bento sul prato e prese la cartellina coi propri appunti "…direi di usare subito i quattro giorni che il preside ci ha concesso esentandoci dalle lezioni. Andiamo a Tokyo da Miyagi-san, poi da Akagi-san a Nagoya e infine a Kyoto da Mitsui-san e Kogure-san. Cosa ne pensi?"

Cosa ne pensava? Che chiamare quei quattro signore fosse la cosa più assurda che avesse mai sentito in vita sua, ma non disse nulla, limitandosi a sorridere "Per me va bene, quando vorresti partire?"

Sizuku tirò fuori dalla propria borsa l’orario dei treni, e inforcando gli occhiali si mise a studiare gli orari migliori "Io dico di partire dopo domani mattina col treno delle dieci e quaranta per Tokyo, intervistiamo Miyagi-san e la sera folleggiamo tra i locali notturni di Shibuya. La mattina dopo prendiamo il treno per Nagoya e andiamo da Akagi-san; per il tardo pomeriggio dovremmo riuscire a partire per Kyoto. Qui troviamo una pensione e la sera facciamo quello che vogliamo. Il terzo giorno intervistiamo Mitsui-san e Kogure-san e alla fine il quarto giorno lo dedichiamo alla visita di Kyoto, ho sempre desiderato visitarla"

Hanamichi la guardò con occhi sgranati "Sizuku… mi vuoi per caso morto?"

"Uh?" la ragazza si tolse gli occhiali guardandolo interrogativa "No, perché?"

"No, nulla…" un sospiro pieno di rassegnazione al pensiero del tour de force che la ragazza gli avrebbe fatto fare.

 

 

Due caldi occhi nocciola pieni di riflessi dorati, immersi in profondi oceani blu con riflessi viola si stavano fissando con una luce piena di dolcezza, amore, dolore.

Il silenzio attorno a loro, solo Rukawa, Sakuragi e il battere ossessivo dei loro cuori.

Dopo quasi un anno si vedevano di nuovo.

Mi hai mentito!

Kaede…

Perché non sei tornato quando me lo avevi promesso?

Mi sei mancato…

Perché Sendoh sa tutto di te?

Puoi perdonarmi?

Dimmi il vero motivo per cui mi hai lasciato!

Mi odi? O… mi ami ancora?

Perché non parli?

Perché non dici nulla?

"Vieni, Hanamichi! Dobbiamo parlare col capo insegnanti, forza!"

La ragazza trascinò via Sakuragi che non fece nulla per impedirglielo.

Non una parola.

Otto mesi di solitudine e dolore, e nessuno dei due era riuscito a pronunciare una sola parola.

Ripresero a camminare ognuno nella sua direzione, senza mai voltarsi.

 

 

"Perfetto, ragazzi! Vi auguro buon lavoro" l’insegnante strinse la mano ad entrambi, tenendo un po’ di più quella di Sakuragi "Bentornato allo Shohoku. Sono sicuro che i tuoi compagni saranno felici di rivederti"

"La ringrazio signore, è bello essere tornati a casa" con voce fredda e impersonale come quella della sua kitsune. In fondo queste persone volevano solo sentirsi dire le parole giuste, non importava il tono o l’assenza di esso.

Uscirono dalla sala professori, Sizuku non faceva altro che chiacchierare estatica sui divertimenti di Tokyo, della bellezza di Kyoto e di come sarebbero state invidiose le sue amiche scoprendo che lei aveva conosciuto il bellissimo Mitsui Hisashi.

Hanamichi ridacchiò dentro di sé al pensiero di Mitchy con abbarbicata addosso la ragazza mentre il solito compassato, ma gelosissimo, quattr’occhi sputava fuoco per strapparla di dosso dal suo ragazzo.

"Ci vediamo domani alle dieci alla stazione, d’accordo?"

Sizuku lo riportò alla realtà e lui annuì mentre la vedeva allontanarsi accompagnata dalle future gelosissime amiche per tornare a casa.

Si avviò lentamente verso la palestra, voleva rivederlo giocare, ma l’edificio era ancora vuoto, probabilmente erano ancora tutti negli spogliatoi.

Accanto alla porta c’era un pallone e lo raccolse con una mano, facendo un paio di palleggi.

Nell’ultima visita che aveva fatto in America il dottore gli aveva detto che era completamente guarito e che avrebbe potuto giocare qualche minuto ogni tanto, ma solo per divertimento, il divieto di giocare a livello agonistico sarebbe rimasto per tutta la vita.

"Ehi!"

Alzò la testa vedendo arrivare uno dei nuovi giocatori. Era alto, forse anche più di lui, ed aveva un sorriso cordiale dipinto sul volto.

"Guarda che devi toglierti quelle scarpe se vuoi entrare"

Hanamichi si guardò istintivamente i piedi "Hai ragione, scusa"

L’altro si strinse nelle spalle "Fa niente, ogni tanto si può fare uno strappo alla regola. Io sono il capitano della squadra, Hayasi Gin" gli porse la mano "Sei qui per presentare domanda?"

Il capitano. Quel ruolo che era sempre andato sbraitando sarebbe stato suo "No! No, sono solo venuto a dare un’occhiata"

Gin annuì, fissandolo perplesso "Sai… mi chiedevo. Ci siamo mai incontrati prima? Magari su un campo?"

Sakuragi scosse la testa "Non credo, io non gioco" non più "Beh, ora devo andare" gli lanciò la palla sorridendogli "Piacere di averti conosciuto"

 

 

Si sdraiò sul letto, chiudendo gli occhi, desiderando il silenzio assoluto, quel silenzio che si può avere solo nello spazio, nell’assoluta mancanza di atmosfera.

Se l’era trovato davanti all’improvviso e lui non aveva saputo far altro che rimanere immobile, senza nulla da dire, come un perfetto idiota.

Aveva sognato quel momento per ore. Aveva sognato di picchiarlo, ferirlo, farlo sanguinare e soffrire come aveva sofferto lui; e poi prenderlo tra le braccia, baciarlo, affondare di nuovo nel suo corpo e nel suo calore.

Hanamichi era tornato.

La sua passione ora viveva nuovamente a pochi minuti da casa sua, ma mai era stata così lontana. Non sarebbe potuto andare da lui, dirgli bentornato, sfiorare la sua pelle calda e stringersi a lui.

Mai più. Mai più avrebbe potuto avere tutto questo.

E la colpa era sua!

Si alzò di scatto dal letto, afferrando le forbici che aveva sulla scrivania, inginocchiandosi sul pavimento, guardando con odio ciò che si trovava davanti a lui.

Era colpa di quel pallone, del basket, della sua ossessione.

Il braccio si alzò e con un unico colpo penetrò nella pelle della sfera. Poi di nuovo, e ancora, ancora… sino a quando non rimase null’altro che un involucro vuoto e lacerato mentre le guance di Kaede venivano bagnate da salate, calde, lacrime.

 

 

Stava aspettando da quasi venti minuti e di quella matta nessuna traccia. Per fortuna il loro treno partiva tra mezz’ora, ma se non fosse arrivata in tempo…

"Sakuragiiiiii!!!!!"

Il delicato urlo alle sue spalle lo fece sobbalzare e voltandosi rimase a bocca aperta. Sizuku gli si era fermata davanti, ansimante per la corsa. Aveva addosso un paio di stivali da cow-boy, dei pantaloncini neri estremamente corti di jeans sfilacciati, una camicetta di pizzo bianco trasparente annodata sotto il seno a mostrare il reggiseno nero, una giacca senza maniche che le arrivava alle ginocchia e il tutto era completato da uno Stetson color crema.

"Wow!" la ragazza lo stava squadrando dalla testa ai piedi "Quasi quasi rinuncio a Mitsui-san e mi concentro su di te, che ne dici?" avvicinandogli di un passo, sensuale, ma Hanamichi si fece indietro sorridendo imbarazzato.

"Non mi pare proprio il caso…" forse non era stata una buona idea mettersi quei jeans attillati e la camicia di cotone bianca lasciata fuori dai pantaloni.

Sizuku gli diede la propria borsa, stranamente leggera, e presolo a braccetto si sedette accanto a lui sulla panchina accavallando le gambe "Non preoccuparti, non potrei mai tradire il mio Hisashi…" si lasciò andare a qualche sospiro estatico, persa nelle sue fantistecherie, ma ben presto il suo lato professionale tornò a galla, e tirando fuori dallo zainetto un blocco per appunti iniziò a parlare delle interviste "Yasin" sbuffò pronunciando quel nome "Vuole una cosa prettamente sportiva. Sai, tipo: com’è stato vincere, quanto avete lavorato per questi obiettivi, eccetera. Però io vorrei fare più un lavoro sul piano umano. Lo sai anche tu che una volta finite le superiori non si tengono mai i contatti, e voglio sapere se credono che anche per loro sarà così, o se invece lo sport ha fatto nascere e consolidato amicizie che non si sfalderanno. Da questo punto di vista il rapporto tra Mitsui-san e Kogure-san è molto interessante…" mormorò mentre mangiucchiava la punta della matita a mine.

E non sai quanto… ridacchiò. Una parte di sé avrebbe voluto dirglielo, ma sapeva di non poterlo fare, non era un suo diritto.

"Per le foto…" lo guardò attentamente facendosi più vicina "…ne voglio di mentre giocano, studiano e qualcun’altra che catturi la loro essenza, la loro anima, d’accordo?"

Sakuragi annuì, cercando di non scoppiare a ridere.

 

 

Naturalmente continuava ad allenarsi. Anche se ora era molto vicino all’odiare quello sport non riusciva ad abbandonarlo totalmente. Così, con questo rapporto d’amore e d’odio non smetteva di allenarsi in palestra con la squadra, ma gli allenamenti supplementari che avevano regolato ogni minuto della sua giornata e della sua vita erano stati banditi.

Così adesso si ritrovava senza aver nulla da fare, nulla che potesse colmare quelle ore infinite. E stava facendo cose che non avrebbe mai creduto possibile prima. Andava in giro per negozi per il semplice gusto di farlo, passava ore seduto al tavolo di un caffè ad osservare le persone che gli passavano davanti gli occhi, senza per questo vederle davvero.

Hanamichi era entrato a far parte della redazione del giornale in qualità di fotografo. L’aveva scoperto facendo un paio di domande a Mito, l’unico che sapeva gli avrebbe dato informazioni vere sul do’hao.

Gli aveva anche detto che era partito con quella ragazza, Tagayuki, per andare ad intervistare i vecchi membri dello Shohoku per un articolo sulla squadra che aveva vinto il campionato nazionale; ciò significava che sarebbe venuto anche da lui. Era ovvio intervistare colui che era stato nominato MVP, ma… come sarebbe stato stare vicino a lui dopo così tanto tempo?

Scosse la testa, un sorriso amaro sulle labbra.

Davvero si stava chiedendo una cosa simile? Era assolutamente prevedibile cosa sarebbe successo.

Domanda, risposte glaciali e indifferenza reciproca, perché solo di questo loro ora sembravano capaci.

 

 

"Grazie Miyagi-san, sei stato davvero molto gentile e disponibile" Sizuku s’inchinò davanti al ragazzo, permettendo a chiunque le passasse dietro di ammirare tranquillamente le sue forme strizzate in un paio di pantaloni super aderenti fucsia a pois giallo canarino.

"E’ stato un piacere Tagayuki e, mi raccomando, ricordati di mandarmi l’articolo quando sarà finito"

"Certo, sarà un piacere. Ora togliamo il disturbo. Andiamo Sakuragi?"

"No, aspetta!" la ragazza si voltò sorpresa verso l’ex capitano dello Shohoku "Vorrei parlargli un attimo. In privato"

"Oh, d’accordo…" si allontanò andando ad ammirare alcuni dei meravigliosi fiori tropicali che facevano parte dei giardini imperiali, dove ora si trovavano.

"Sono contento che tu sia tornato"

Hanamichi era inginocchiato a terra, stava togliendo il rullino dalla macchina fotografica per mettere tutto al sicuro nella sua borsa "Grazie, Ryo-chan" non alzò lo sguardo.

Miyagi gli voltò le spalle, mettendosi le mani in tasca ammirando l’enorme quercia davanti ai suoi occhi "Qualche tempo dopo che sei partito e che avevamo ricostituito la squadra il tuo amico, Mito, ci ha detto tutto. Del fatto che non avresti più potuto giocare e della tua famiglia"

Sakuragi si bloccò, senza sapere cosa dire o fare. Lui… Mito non avrebbe dovuto, ma forse capiva perché lo aveva fatto.

Ryota si girò verso di lui, piegandosi sulle ginocchia "Non pretendo di sapere il perché delle tue azioni, o di come tu ti sia sentito. So solo che ti saresti dovuto fidare di più di noi. Eravamo… siamo tuoi amici, Sakuragi, e ti avremmo aiutato"

Non riusciva a guardarlo negli occhi, si sentiva un verme per ciò che aveva fatto.

"Ehi, mi manderai qualche copia delle foto, vero? Io non ci credo che tu sia capace di fare qualcosa di decente con quell’aggeggio in mano…"

"Come osi?!" alzò la testa di scatto, gli occhi pieni di furia "Brutto tappo! Vedrai di cosa è capace il sublime Tensai…" ma prima che riuscisse a finire la frase entrambi scoppiarono a ridere.

"Grazie, Ryo-chan" si alzarono in piedi e Hanamichi si sistemò la borsa con l’attrezzatura su una spalla.

L’altro si strinse nelle spalle "Beh… ci vediamo" lo salutò con un cenno della mano e se ne andò lungo il sentiero, lasciandolo solo sino a quando Sizuku non lo attaccò alle spalle.

"Cosa voleva da te Miyagi-san?"

Le sorrise "Nulla, solo chiedermi alcune foto" osservò il sentiero vuoto per poi prendere la ragazza per mano "Andiamo! Non eri tu quella che diceva che questa notte avrebbe fatto baldoria in tutti i locali di Shibuya?"

 

 

"Rukawa! Rukawa!!" si voltò verso il proprio capitano che lo stava rincorrendo fuori dalla palestra "Tieni hai dimenticato queste" gli porse due chiavi appese ad un portachiavi dalla forma di un pallone da basket.

Le chiavi della casa di Hanamichi. Si era scordato di averle, sepolte in fondo al suo borsone e probabilmente oggi dovevano essergli cadute mentre stava cercando un altro asciugamano.

Aveva pensato mille volte di ridargliele, lasciarle nella cassetta della posta o renderle alla madre di Hanamichi, ma non aveva mai trovato il tempo. Chissà, forse in realtà non l’aveva fatto perché inconsciamente una piccola parte di sé sperava di poterle usare di nuovo in futuro.

"Grazie capitano" Hayasi arrossì nel sentirsi chiamare così da un suo senpai. Non si era ancora abituato al suo ruolo e trovava a disagio davanti al suo compagno più grande e dovergli ordinare cosa fare o meno "Di nulla… beh, ci vediamo domani. Ciao!" tornò sui suoi passi correndo, pronto a riprendere il suo allenamento supplementare.

Kaede, invece, rimase fermo nel cortile deserto, a cavallo della sua bicicletta, fissando con sguardo vuoto quelle chiavi e ricordando il modo in cui Hanamichi gliele aveva date.

Erano arrivati davanti la porta di casa, ma l’altro non sembrava intenzionato a farlo entrare.

"Do’hao, cosa stai aspettando?"

L’altro l’aveva guardato vagamente a disagio "Kitsune… mi sa che ho dimenticato le chiavi…"

Alzò gli occhi al cielo "Do’hao" sbuffando.

Era stato a quel punto che si sarebbe dovuto allarmare, perché Hanamichi non aveva dato in escandescenze al suono di quell’insulto detto proprio con quell’intento.

"Mia madre di solito tiene una chiave di riserva dietro quel vaso, perché non provi a darci un’occhiata?"

Rukawa aveva alzato un sopracciglio "Perché non lo fai tu?"

"Kitsune!" sembrava si stesse innervosendo "Per una volta fa ciò che ti dice il Tensai senza discutere!"

Sbuffando l’aveva fatto, e si era ritrovato con quelle chiavi in mano mentre Hanamichi aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.

"Tieni!" gliele aveva lanciate "Ora sbrigati che sto congelando!"

Sakuragi aveva sbarrato gli occhi ed era diventato rosso dalla rabbia. Lui aveva chiuso gli occhi, sospirando mentalmente e preparandosi alla sfuriata, ma tutto ciò che sentì furono la serratura che scattava e i borbottii di Hanamichi.

"Baka kitsune! Queste dovevano essere le tue chiavi di casa mia, ma è evidente che non te ne frega niente…" si era tolto le scarpe, salendo lo scalino e prima che si fosse potuto allontanare lo aveva raggiunto circondandogli la vita con le braccia, alzandosi sulle punte dei piedi per stare alla sua altezza.

"Scusa…" un soffio delicato mentre gli sfiorava la pelle con le labbra…

Strinse con forza le chiavi e se le mise in tasca riprendendo a pedalare verso casa.

Chissà se avrebbe mai più potuto usarle?

 

 

Sbadigliò per l’ennesima volta. Non era abituato a non dormire per trentasei ore consecutive e tra poco si sarebbe addormentato in piedi. L’unica cosa che lo tratteneva era il pensiero del pugno del Gorilla se solo ci avesse provato.

E a quanto sembrava la fama di Akagi era arrivata persino a Sizuku, sebbene fosse solo al secondo anno, perché aveva drasticamente limitato il proprio abbigliamento, indossando uno sharwal kamez3 color crema con una fantasia di rose nere. I capelli acconciati in una coda alla base della nuca con due ciocche lasciate libere davanti gli occhi e ai lobi un paio di semplici cerchi d’oro bianco.

Fortunatamente era riuscito a procedere Sizuku sul luogo dell’appuntamento, con la scusa di cercare qualche posto carino dove fare le foto, ben sapendo della mania del Gorilla di arrivare sempre in anticipo.

Era andato lì con l’intenzione di chiedergli di non fare cenno alla ragazza del fatto che lui era stato un giocatore della squadra, ma Akagi l’aveva anticipato dicendogli che sapeva tutto; Ryota l’aveva chiamato la sera prima raccontandogli gli ultimi aggiornamenti sulla sua vicenda.

Hanamichi aveva storto un po’ il naso, cos’è? Lo usavano per fare pettegolezzi fra di loro? Ma per la prima volta aveva visto dolore negli occhi del suo capitano, così non aveva voluto infierire e insieme si erano limitati a riportare a galla alcuni piacevoli ricordi, sino all’arrivo di Sizuku.

"Hanamichi, sei pronto?" la ragazza si era voltata verso di lui con una grazia di movimenti di cui non l’avrebbe mai creduta capace. Che fosse davvero così in soggezione?

"Sì, prontissimo" si mise la borsa in spalla ed entrambi s’inchinarono ringraziando Akagi per la disponibilità dimostrata.

Dopo aver recuperato le valige al deposito bagagli della stazione presero il treno per Kyoto dove arrivano alle otto di sera. E finalmente, dopo aver preso possesso della propria stanza nell’albergo dove avevano prenotato, Hanamichi si godette il suo meritato sonno.

 

 

Erano seduti sul tappeto del suo salotto, gli avanzi di una cena cinese fra di loro e ogni tanto Sendoh, oramai sdraiato, continuava a piluccare qualcosa da questo o quell’altro cartone.

"Così non gli hai parlato, eh? E cosa aspetti a farlo?" Rukawa non rispose, chiudendosi nel suo solito glaciale silenzio "Si è dato alla fotografia, lo sai? Ho anche visto qualcuno dei suoi lavori, non è male"

Il silenzio calò di nuovo e Sendoh si sdraiò sul tappeto, fissando il soffitto, cercando qualcosa per scuoterlo, per farlo uscire dalla sua apatia, perché non gli piaceva quel silenzio, non era come tutti gli altri che c’erano stati tra di loro, no, questo era teso come una corda di violino logora che fra poco sarebbe saltata ferendoli.

"Kaede…" nulla.

"Perché non vuoi parlargli? Una volta mi hai detto che è stato proprio perché che non l’avete fatto che vi siete lasciati"

Rukawa si voltò verso di lui con occhi pieni d’ira "No" sibilò tagliente "Ci siamo lasciati perché l’ha voluto lui, perché non si è fidato a dirmi la verità" ridusse gli occhi a due fessure "Problema che evidentemente non ha avuto con te, però"

Era geloso? Sì, da impazzire.

Sendoh si tirò su a sedere di scatto, sorridendogli per rassicurarlo "Lo sai, te l’ho già detto. Io sono suo amico, ha parlato con me perché non voleva…" si fermò, rendendosi contro che stava per dire troppo.

"Non voleva cosa?" Akira non rispondeva e Kaede lo incalzò "Cosa non voleva fare? Ferirmi, tradirmi? Cosa non voleva? Farmi sentire la persona meno importante della sua vita? L’ultima persona cui avrebbe mai potuto confidare i propri problemi? Ero solo qualcuno buono per farsi scopare e basta, vero? Sakuragi è solo un idiota profittatore, una puttana…"

Lo schiaffo lo colpì in pieno viso, lasciandolo attonito mentre fissava Sendoh ansimante per la rabbia "Sei tu il bastardo. Lui ha fatto ciò che ha fatto per te e se questo non l’hai ancora capito significa che non ti meriti una persona speciale come Hanamichi!"

Si alzò in piedi e dopo aver recuperato la propria giacca di jeans uscì da quella casa sbattendosi la porta alle spalle.

 

 

Beh, quel giorno Sizuku doveva aver deciso di giocarsi tutte le carte con Mitsui, e secondo lui se l’altro non fosse gay, lo avrebbe sicuramente conquistato.

Si era messa delle décolleté bianche dal tacco a spicco, ai capelli erano stati fatti i boccoli per poi legarli alla base della nuca in una morbida coda con un nastro di pizzo bianco, il trucco era leggero ed elegante, alle orecchie portava due cerchi piuttosto grandi ma fini d’oro bianco, ma tutto questo passava in secondo piano – nel caso fosse stato notato – dal completo maglietta a collo alto con maniche lunghe e pantaloni attillati di pizzo bianco trasparente sotto cui non si faticava ad ammirare la biancheria intima di un viola scuro metallizzato.

E in effetti non appena l’aveva vista Mitsui aveva fatto tanto d’occhi – con somma gioia della ragazza – ma una gomitata e un’occhiataccia da parte del suo ragazzo l’aveva rimesso in riga.

Sizuku aveva voluto fare prima le fotografie – facendogli consumare quasi tre rullini solo per Mitsui e in metà di queste era in sua compagnia – ed ora erano seduti in un caffè, ad uno dei tavoli all’aperto con la ragazza che faceva le proprie domande in modo molto professionale, senza per questo perdere l’occasione di sfiorare casualmente una mano di Hisashi a cui si rivolgeva con voce morbida e sensuale.

All’improvviso il ragazzo si alzò in piedi, trascinandosi dietro Sakuragi con la scusa di volergli far vedere un paio di posti che avrebbe sicuramente ritenuto interessanti per fare delle foto.

In realtà Hanamichi sospettava di cosa volesse davvero parlargli e aveva cercato di prepararsi al meglio. Con Mitsui non sarebbe stato come gli altri, perché lui sapeva cosa volesse dire rinunciare a qualcosa di importante.

Si sedettero su una panchina, rimanendo in silenzio per diversi minuti, persi nei loro pensieri.

"Sai, in un certo senso ti ammiro" tranquillamente, senza alcun tono di scherno, e Hanamichi lo guardò senza capire cosa intendesse.

"Cioè?"

Mitsui si guardò in torno e raccolse qualche sassolino che poi gettò nel laghetto davanti a sé "Tu non ti sei rovinato la vita facendo cazzate a più non posso per due anni" si mise le mani in grembo, intrecciandole "Ma hai fatto comunque il mio stesso errore: fuggire" lo guardò con la coda dell’occhio "So cosa volevi fare. Evitare l’inevitabile compassione, gli sguardi tristi e le pacche sulle spalle. Ma soprattutto… hai voluto tenerti tutto il dolore, perché dentro di te sei convinto che non puoi rovinare la vita degli altri coi tuoi problemi. Ma il punto è che quando si è così fortunati da avere qualcuno accanto che ci ama… beh… sono proprio loro a chiederci di condividere quel dolore, perché amare significa anche questo: condividere"

Sakuragi sorrise "Già, hai ragione, ma lo sai anche tu, Rukawa è… beh…" si strinse nelle spalle "…è Rukawa. Lui vive e respira per il basket. Stare con me, quando ancora potevo giocare, per lui significava solo avere qualcuno con cui condividere i suoi allenamenti supplementari, le cene solitarie e qualche notte. In fondo la sua vita non era cambiata poi molto" prese un sasso piatto e alzandosi lo fece rimbalzare più volte sull’acqua, poi si voltò poggiandosi sulla ringhiera di legno "Stare con me adesso, invece, per lui significherebbe rinunciare ad una parte della sua giornata, della settimana, della sua vita… fino a quel momento consacrata al basket. E tutto ciò rallenterebbe poi la realizzazione del suo sogno. Ed io non posso fargli questo"

Mitsui si alzò, andandogli accanto e parlò mentre rivolgeva lo sguardo all’acqua "Sembra che tu pensi che Rukawa non ti ami abbastanza…" alzò una mano per interromperlo "Comunque… l’idea di fondo non è malvagia, ma… hai mai provato a chiedere a lui cosa ne pensasse? Magari era disposto a qualche sacrificio…"

"No, lui mi ama, forse anche più di quanto possa mai immaginare, ma non potrebbe mai rinunciare ad un solo minuto di basket" Mitsui scrollò le spalle come a dire: perché no? "Lo conosco troppo bene. Non ne sarebbe mai capace, e non per cattiveria, ma perché per lui il suo sogno viene prima di tutto"

Hisashi si voltò e gli sorrise "E’ buffo, sai? Mi ricordo che un paio d’anni fa blateravi su come tu conoscessi bene Kiminobu e tutti noi grazie al tuo grande genio intuitivo, di come avresti saputo anticipare ogni nostra mossa, eppure sei rimasto senza parole quando mi ha fatto quella scenata di gelosia dopo che Hasegawa ci aveva provato con me"

Già! Come riuscire a dimenticare una cosa simile? Il pacato quattr’occhi che urlava, rosso di rabbia e verde di gelosia, incapace di sentire ragioni.

Quanto aveva riso quella sera ripensandoci? Tanto. Tanto da farsi venire il mal di stomaco…

"Vedi, è questo il bello delle persone… a volte ti sorprendono in modi che non avresti mai neanche immaginato. Concedi il beneficio del dubbio a Rukawa, Sakuragi. In fondo non ti ha già sorpreso una volta ammettendo di amarti?" e si allontanò, lasciandolo solo, libero di riflettere sulle sue parole.

 

 

Non la trovava.

Non trovava quella maledettissima ragione per cui Hanamichi lo avrebbe dovuto lasciare per il suo bene.

E se lui non la trovava, questo poteva solo significare che non c’era, di conseguenza la sua opinione su di lui era assolutamente giusto, un bastardo profittatore e puttana.

E lui era stato così coglione da innamorarsene. Si poteva essere più stupidi?

Lo odiava, ma ancor di più odiava sé stesso per essere diventato ciò che era. Un idiota innamorato, pappamolle che si strugge per il proprio cuore ferito.

Guardava fuori dalla finestra e vedeva solo la pioggia scrosciante che si abbatteva sui vetri, quella strana nebbiolina che saliva e che creava quella strana atmosfera ovattata, quasi surreale, in classe mentre il professore consegnava i compiti corretti e lui aveva preso la sua solita sufficienza risicata.

Non vedeva l’ora di andarsene in America, così i suoi voti sarebbero stati ottimi per il solo fatto di essere un campione.

L’allenatore quel giorno non c’era e Hayasi, nonostante la buona volontà, non sapeva realmente farsi valere. Né usando la durezza come Akagi, né la simpatia e l’ironia di Miyagi.

Gran bella scelta, Anzai sensei, complimenti… pensò ironico mentre quasi unico tra di loro si allenava nei tiri da tre.

E poi… Sendoh! Come aveva osato picchiarlo? Neanche sua madre, quand’era piccolo, l’aveva mai fatto, e si era arrogato lui quel diritto! Un idiota degno compare dell’altro do’hao.

"Rukawa, scusa…" Hayasi gli si era avvicinato, lo sguardo basso e lievemente imbarazzato.

"Sì, capitano?" calcando molto, quasi ironico, su quel titolo, ma l’altro non lo notò.

Che idiota! Non c’è neanche gusto a prenderlo per il culo!

"Senpai, ecco, mi chiedevo se tu potessi darmi una mano… io… non riesco, e non capisco dove sbaglio…"

Rukawa lanciò il pallone centrando l’ennesimo canestro da tre punti, dopodiché si mise pollice e indice in bocca e fischiò. Un fischio acuto e prolungato che fece sobbalzare tutti, facendoli voltare verso di loro. Il capitano e il suo vice.

"Mettetevi in fila!" un ordine urlato a pieni polmoni, quasi con cattiveria, e i giocatori, inebetiti, quasi impauriti, fecero subito ciò che era stato detto.

Disciplina e rigore, ecco di cosa ha bisogno una squadra, non pacche d’incoraggiamento e spalle su cui piangere!

 

 

"Aaahwnnn…" sbadigliò, ancora mezzo addormentato e con una gran voglia di rimettersi a dormire. Quella pazza di Sizuku il giorno precedente l’aveva trascinato da tutte le parti, per vedere questo o quell’altro posto senza mai un momento di respiro. E poi, la notte, lo aveva fatto girare come una trottola da un locale all’altro fino all’alba; corsa in albergo per recuperare le valige e poi alla stazione per prendere il treno delle sei e trenta per Kanagawa.

Fortuna che era domenica, avrebbe dormito tutto il giorno!

"Hanamichi!" la ragazza lo risvegliò dal suo dormiveglia facendolo sobbalzare e di certo non per l’averlo chiamato.

Ancora non si era abituato a quei vestiti, secondo lui, assurdi che l’altra portava, e la tuta elasticizzata a collo alto con un motivo a rombi di tutti i colori la faceva somigliare ad una specie di versione femminile di Arlecchino.

"Domani mi porti quelle foto, vero? Così vediamo l’impaginazione provvisoria da dare all’articolo"

Sakuragi sgranò gli occhi. Le voleva per domani? Le aveva fatto riempire sei rullini – senza contare quelli dei vari giri per divertimento – e li voleva tutti per domani?

Gemette dentro di sé, addio dormita!

"Ok…" però questo significava che poteva togliersi una soddisfazione "Allora? Com’è andata con Mitsui-san?"

La ragazza gli lanciò un’occhiata inceneritrice "Potevi anche dirmelo che sta con Kogure-san, ho fatto la figura della scema!"

"Ihih… dai! Non volevo rovinarti la sorpresa! Come l’hai capito?"

"Secondo te?" alzò una mano, elencando sulle dita a partire dal mignolo "Appena entrata Kogure-san mi ha guardato malissimo continuando a farlo per tutto il tempo, dava un pizzicotto a Mitsui-san ogni volta che lo toccavo e quando ve ne siete andati gli ho chiesto se stavano insieme e mi ha risposto di sì" ennesima occhiataccia.

Sakuragi sorrise "Beh… puoi sempre…" all’improvviso si rese conto di alcune delle parole della ragazza "Come fai a sapere che sapevo di loro due?"

Sizuku aveva preso un libro e scrollando le spalle, guardandolo da oltre il bordo delle pagine rispose "Se è per questo, so anche che facevi parte della squadra di basket capitanata da Akagi-san"

Il ragazzo sbiancò e le strappò il libro dalle mani "Come fai a saperlo?!"

L’altra si strinse nelle spalle "Ho le mie fonti" ovvero l’archivio della scuola aperto al giornale della scuola, ma questo non glielo avrebbe detto "E poi mancava sempre qualcosa nei racconti dei senpai. Parlavano di qualcosa, ma s’interrompevano sempre quando entravi in scena tu, non è vero? E comunque sarebbe bastato anche il solo modo in cui ti trattavano, troppo confidenziale per essere una persona appena conosciuta, a farmi insospettire. Non sono così stupida come sembri pensare, sai?"

Hanamichi si coprì il volto con le mani "Non credo affatto che tu lo sia" borbottò per poi guardarla negli occhi "Cosa hai intenzione di fare?"

Sizuku lo guardò seriamente "Nulla. Se tu vuoi questo" prese un profondo respiro "Suppongo ci sia stata una buona ragione se hai lasciato la squadra e ti sei trasferito all’estero, e sarei un’ipocrita se ti dicessi che non voglio saperla, ma… tocca a te decidere. Se accetti l’intervista io ne sarò felice, ma devi essere tu a volerlo"

Rimasero in silenzio per più di un’ora. Sizuku leggeva sperando che Hanamichi accettasse, e l’altro pensava a cosa avrebbe significato farlo.

Parlare di tutto, dall’infortunio al perché si fosse trasferito, a Kaede – anche se forse era meglio non nominarlo – e a ciò che provava per lui. Sapeva che, nonostante tutto, non sarebbe mai riuscito a parlargli a cuore aperto. Gli mancava il coraggio per farlo, ma forse quest’intervista avrebbe potuto aiutarlo.

Ammesso e non concesso che la kitsune l’avrebbe letta.

"Quando il dottore mi ha detto che non avrei più potuto giocare gli ho riso in faccia. Andiamo! Avevo preso solo una bottarella alla schiena! Così ho preso il mio pallone e sono corso fuori dal centro di riabilitazione per cercare un campo da basket" Sizuku lo ascoltava attentamente, e aveva messo un registratore fra di loro "Come faceva a dire che non potevo giocare?! Scartavo avversari immaginari, facevo finte, mi avvicinavo al canestro meglio di come avessi mai fatto. Ho saltato…" un brivido gli corse per la schiena "…ho saltato ed ho subito sentito che qualcosa non andava, ma l’ho ignorato, segnando il più bel canestro della mia vita e quando sono caduto a terra… non credevo esistesse un dolore simile, sembrava che mi stessero tagliando in due verticalmente" sospiro "In quel momento ho capito che era vero, che non avrei più potuto giocare"

"Quindi hai lasciato la squadra. Ma perché non hai detto nulla a nessuno?" aveva fatto controllare la scheda di Sakuragi a Yasin e lì non c’era menzione alcuna del suo infortunio "E poi il trasferimento in America…"

La parte più difficile veniva adesso. Riprese a parlare.

 

 

Il martedì successivo Rukawa vide Sakuragi fare il suo ingresso nella palestra al fianco di Tagayuki. Erano finalmente venuti ad intervistare l’attuale squadra di basket del Liceo Shohoku.

Anzai sospese gli allenamenti, appena iniziati, e per prima cosa li fece mettere in posa per una foto, secondo la richiesta della ragazza che sembrava essere la versione super deformed di un qualche cartone animato tanto era entusiasta.

Chissà come si sarebbe dovuto sentire? Forse arrabbiato, ferito? Eppure lui non sentiva nulla, tranne una lieve gioia.

Gioia per Hanamichi che sembrava aver trovato la sua strada.

Almeno l’altro l’aveva trovata.

Lui invece non l’aveva. Aveva il basket e aveva quel sogno di andare in America che ad ogni giorno che passava si faceva più sfocato. Non aveva null’altro.

Rispose alle domande della Tagayuki con freddezza, senza mai smettere di fissare Sakuragi che continuava a scattare fotografie alla palestra, ai giocatori, ad un pallone abbandonato lì nell’angolo e illuminato da un fascio di luce.

"Che cosa hai provato quando sei stato nominato MVP?"

Non rispose, per alcuni istanti rimase in silenzio con lo sguardo basso, sguardo che si rialzò non appena le sue labbra si schiusero per parlare "E’ qualcosa che bisognerebbe poter condividere con chi si ama" sussurrò, fissando Hanamichi che stava sistemando alcuni rullini nella sua borsa, ma che a quelle parole alzò i propri occhi che andarono ad incontrare quelli di Rukawa, e la promessa che gli aveva fatto tanto tempo fa gli tornò alla mente: quando vincerai quel premio io sarò con te. Quando andrai in America io sarò con te. Sarò insieme a te ad ogni tuo successo. Sarò la tua ombra, kitsune!

La voce di Kaede era piena di dolore, ma anche di rabbia a stento trattenuta e Sizuku non volle insistere, ringraziandolo per la sua gentilezza e lasciandoli da soli. Si guardarono a lungo, ma quando Hanamichi fece per parlare, per dire qualcosa, l’altro si alzò tornando ad allenarsi.

Con un sospiro tornò da Sizuku, estasiata per aver ricevuto un appuntamento da Hayasi, ma quando furono fuori dalla palestra lo prese per un polso facendolo fermare e guardandolo torva "Certo che voi ragazzi siete ottimi soggetti per esperimenti sulla contorta psiche umana! Mi spieghi perché non dici a Rukawa ciò che hai detto anche a me?!"

Hanamichi si liberò dalla stretta sistemandosi la borsa su una spalla "Non capirebbe. E comunque io l’ho fatto per il suo bene, tanto basta"

Sizuku gli lanciò un’occhiataccia, andandosene impettita borbottando ad alta voce qualcosa contro gli stupidi ragazzi che non parlano per assumere il ruolo dell’eroe romantico e tormentato, per poi passare a lamentarsi di quell’idiota che aveva disegnato uniformi tanto insulse. La vide fermarsi in mezzo al cortile.

"Perché cavolo sono stati inventati gli uomini?!?!?!?"

L’urlo doveva essere arrivato a chiunque nel raggio di cinque chilometri da lì, ma la ragazza non se ne curò riprendendo a camminare come se nulla fosse accaduto.

 

 

L’aveva praticamente ignorato per tutto il tempo e solo quando aveva detto quella frase patetica lo aveva degnato di un po’ della sua attenzione.

Chissà cosa voleva dirgli? A dire il vero avrebbe voluto ascoltarlo, ma sapeva bene che dopo anche una sola sillaba pronunciata da quelle labbra gli sarebbe saltato addosso per prenderlo a pugni sino a quando non avesse più avuto sensibilità alle mani.

Non riusciva a credere di essere capace di amare e odiare allo stesso tempo e in modo così assoluto una sola persona.

Gli sarebbe piaciuto sapere come avesse fatto l’altro a ridurlo in questo stato, ma l’unica spiegazione che era riuscito a darsi era che come una cascata che non la sua forza erode la dura roccia da cui cadeva l’acqua, allo stesso modo Sakuragi con la sua vitalità aveva fatto a pezzi quel rivestimento di puro titanio con cui si era sino a quel momento protetto, contagiandolo con milioni di emozioni mai provate e a cui non era preparato, abbandonandolo poi senza lasciargli nulla cui aggrapparsi per non affogare.

Entrò in casa silenziosamente, i suoi genitori erano tornati quella mattina e probabilmente stavano ancora dormendo per riprendersi dalla fatica e dal fuso orario.

Aprì il frigorifero ricolmo di ogni leccornia possibile, ma tutto ciò che prese fu una pesca che dopo aver lavato iniziò a mangiare sulla soglia della porta che dava sul giardino illuminato dalla luce del tramonto.

"Ciao tesoro, già tornato?"

Si voltò quasi spaventato, suo padre era arrivato silenziosamente senza fare il minimo rumore. Annuì, facendo un mezzo sorriso mentre l’uomo si stava preparando un caffè e quando fu pronto, con la tazza in mano, si avvicinò al figlio poggiandosi contro uno stipite della porta. Stettero in silenzio per molto tempo, fino a quando il Sole non scomparve oltre l’orizzonte e anche dopo.

"Sai, io e tua madre siamo molto orgogliosi di te e della tua capacità di cavartela da solo, di saper risolvere i tuoi problemi, però…" padre e figlio si guardarono e il secondo non riusciva a capire cosa l’altro volesse dirgli "Lo sappiamo che non stiamo mai abbastanza con te, che dovremmo tornare a casa più spesso, però… lo capiamo quando stai male e vorremmo che tu potessi fidarti abbastanza di noi da poterti confidare"

Kaede rimase in silenzio, lo sguardo basso "Non c’è nulla che…"

Il padre gli mise una mano sulla spalla, costringendolo a guardarlo "Tesoro, se non vuoi parlarmene va bene, ma non mentirmi. Lo vedo che c’è qualcosa che non va. Sei quasi sempre a casa il pomeriggio, gironzoli per i corridoi come un’anima in pena, non ti accorgi se qualcuno ti chiama e soprattutto non usi più il tuo campo da basket per il quale mi hai quasi supplicato. Basta o devo continuare?"

Il ragazzo sorrise, un lieve incurvarsi mesto delle sue morbide labbra "C’è… c’è qualcosa che non va, però vorrei cercare di risolvere tutto da solo"

L’uomo sorrise, facendo scivolare la mano fra le scapole "D’accordo, come vuoi tu" sorrise "Lo faresti un favore a questo povero vecchio?" si girò verso di lui "Mi abbracci?"

Rukawa lo guardò con occhi sbarrati, stringendosi a lui mentre suo padre gli strinse le mani intorno alla vita, attirandolo a sé e cullandolo come non faceva da tanto, troppo tempo.

 

 

Seduto su una panchina, gli occhiali da sole sul naso, si guardava intorno alla ricerca di quella sciagurata perennemente in ritardo, nonostante fosse stata proprio lei a supplicarlo di incontrarsi per avere le foto di cui non avrebbe saputo fare a meno per un altro giorno.

Il bianco avorio fu il primo colore che percepì, e se fosse stato solo quello non si sarebbe fatta molta fatica a paragonarla ad un angelo in vena di scherzi, ma il suo abbigliamento nell’insieme la faceva somigliare di più ad una dark lady anomala.

Aveva degli stivali al ginocchio col tacco alto, chiusi con dei lacci per tutta la loro lunghezza, ricamati a mano, una gonna vaporosa – quasi anni cinquanta – formata da cinque o sei strati di tulle color avorio e quindi assolutamente trasparente, sotto cui si ammiravano senza fatica le mutandine di seta blu cobalto. Sopra aveva uno stretto corpetto avorio chiuso con dei nastri di seta blu sul davanti, lasciato un poco lento in cima e da cui fuoriusciva una piccola porzione di seno.

Sizuku si fermò davanti a lui, sorridendo raggiante "Cosa ne pensi?" fece un giro su sé stessa e solo allora notò che sulle spalle aveva uno scialle di seta bianca con delle lunghe frange che arrivavano quasi a terra su cui era ricamata una rosa blu. E come se tutto questo non fosse stato abbastanza aveva al collo un laccetto di velluto blu da cui pendeva una croce d’argento rovesciata, il trucco degli occhi era sui toni del grigio per l’ombretto e blu per il mascara e la matita; il rossetto era di una cupa tonalità di blu su cui aveva messo del lucidalabbra, e infine i capelli erano acconciati in due alti codini ai lati della testa, in una pettinatura molto simile a quella di Usagi di Sailor Moon, lasciando libere le ciocche azzurre davanti gli occhi.

Per fortuna aveva gli occhiali scuri a coprire la sua espressione sgomenta. Giusto per usare un eufemismo.

"Allora? Credi che ad Hayasi piacerà?"

Cheeeeee?!?! Andava ad un appuntamento con un ragazzo conciata così?!

"Beh… ecco, sì, penso… che gli piacerai…" il problema era che sarebbe piaciuta anche a qualunque ragazzo l’avesse vista e il povero capitano avrebbe avuto il suo bel daffare ad allontanarli. Ammesso e non concesso che fosse sopravvissuto allo shock di vederla conciata così.

"Bene!" la ragazza si sedette al suo fianco posando la mini borsa che aveva sulle ginocchia "Le foto?" si sistemò meglio lo scialle sulle spalle e poi con grazia si tolse una ciocca di capelli da davanti gli occhi.

Le porse la busta con quelle quasi cento foto, ancora incredulo. Va bene essere fuori dagli schemi ed avere un proprio look, però quello di Sizuku gli sembrava un po’ eccessivo.

"Grazie" accavallò le gambe togliendo un immaginario granello di polvere dalla gonna "Sai, stanotte stavo pensando una cosa. Se per caso Rukawa venisse da te dicendoti che ti ama ancora e che gli manchi da morire, chiedendoti di tornare insieme, tu… accetteresti?"

"Non lo so…" non sapeva che risposta dare, non ci aveva mai pensato, la riteneva una cosa così improbabile che non aveva mai voluto illudersi con fantastischerie inutili "Non so, forse sì…"

Sizuku socchiuse gli occhi, una strana luce li illuminava "Quindi ciò che vuoi è la garanzia che lui sarebbe disposto a rinunciare ai suoi sogni per te, esatto?"

"Cosa?!" come poteva dire una cosa del genere? "No! Non voglio questo! Non voglio che Kaede rinunci alla sua vita per me!"

"Ne sei sicuro?" sorrise "Guarda che è normale ciò che provi, o meglio… ciò che sottintende il tuo desiderio: la rassicurazione che per Rukawa tu sei più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. E’ qualcosa che prima o poi provano tutti quanti"

La guardò stupito. Possibile che ogni volta che scopriva qualcosa e pensava di essere finalmente arrivato alla conclusione della spiegazione del suo comportamento saltava fuori qualcosa di nuovo?!

Guardò l’ora sull’orologio a braccialetto d’oro bianco che portava al polso e si alzò in piedi sorridendogli "Devo andare, altrimenti farò tardi" gli mise le mani ai lati del viso, alzandolo verso il proprio "Vedrai, si sistemerà tutto, ne sono sicura" gli sfiorò le labbra con le proprie "Al limite vi chiudo a chiave in una stanza e non ve ne faccio uscire fino a quando non avrete fatto pace!" gli strizzò l’occhio e corse via salutandolo con la mano sotto lo sguardo inebetito dei passanti.

 

 

L’articolo che Sizuku aveva scritto era a dir poco favoloso e Yasin, insieme all’insegnante che seguiva l’attività del giornale, decise di dedicargli più spazio di quanto all’inizio preventivato. Quattro colonne in prima pagina e le prime tre pagine dedicate a specchietti informativi sui giocatori, sul gioco e soprattutto alle foto di Sakuragi.

Foto che avevano riscosso molto successo all’interno della redazione e quando la voce si sparse in giro molte ragazze andarono da lui chiedendogli foto di Hayasi, Miyagi, Mitsui, Rukawa e persino di Akagi in cambio di soldi. L’idea non gli dispiaceva, avrebbe potuto mettere su un florido commercio aiutato anche dalla sua armata, ma alla fine aveva dovuto rinunciare all’idea. I guadagni sarebbero stati incalcolabili, ma per lui avrebbe significato non riuscire più a dormire la notte, subissato dalle richieste di tutta la popolazione femminile di Kanagawa.

Sdraiato sul proprio letto, fissava con sguardo vuoto il soffitto, pensando per l’ennesima volta alle parole di Mitsui, a ciò che aveva capito, alla voce di Kaede quel giorno in palestra, alla promessa che aveva infranto.

Un anno fa gli era sembrato tutto così semplice. Se ne andava per dimenticare, per non intralciare i sogni della kitsune. Ma ora aveva capito che non era così. Non del tutto.

In realtà una parte di sé non era riuscita a sopportare l’idea di vederlo continuare quel cammino che avrebbero dovuto fare insieme, mentre lui sarebbe dovuto rimanere a bordo campo. Lì, oltre quella linea bianca che avrebbe diviso le loro vite, facendoli allontanare sempre più man mano che Kaede avesse raggiunto i propri obiettivi, sino a quando non si fosse accorto di non volerlo più tra i piedi a rovinargli la vita.

Era così. Ma al contempo il suo desiderio di non intralciarlo rimaneva.

L’aveva lasciato per aiutarlo, ma anche per non soffrire lui stesso quando l’altro avesse deciso di non volerlo più con sé.

All’inizio aveva pensato di aver agito altruisticamente, ora invece si era reso conto che – come tutti gli esseri umani – anche le sue azioni contenevano una buona dose di egoismo.

Spostò gli occhi per la stanza e lo sguardo si posò sui rullini che doveva ancora sviluppare, foto della sua città che aveva scattato la domenica appena passata per cercare di interrompere un po’ il flusso incessante dei suoi pensieri. Sospirando si alzò, prendendoli ed entrando nella camera oscura, accese la luce per avvertire sua madre di non entrare e iniziò a lavorare per cercare di non continuare a pensare.

 

 

Scese dal taxi e rientrò in casa. Aveva appena accompagnato i suoi genitori all’aeroporto, e poco prima di lasciarlo andare gli avevano promesso che per le vacanze invernali lo avrebbero portato a New York. Chissà, forse si sarebbe dovuto mostrare un po’ più entusiasta e non limitarsi a quel pallido sorriso che, ne era sicuro, aveva deluso i suoi.

Si sedette sul divano dopo aver messo su uno degli ultimi CD che aveva comprato, ultimamente ascoltava solo quello, gli piaceva quella musica moderna che aveva in sé il gusto dei canti gregoriani e della musica del medioevo europeo.

Stette ad occhi chiusi per quello che a lui parve un’infinità di tempo, ma quando li riaprì, dall’orologio del video registratore, scoprì che erano passati appena venti minuti.

Si stirò sul divano, quasi fosse un gatto e quando rilassò nuovamente i muscoli il suo sguardo si posò sul tavolino basso di fronte a sé, e allungando una mano prese il giornale che vi era sopra.

Lo Shohoku no Sinbun, non sapeva neanche lui perché l’aveva preso. La mattina di tre giorni prima aveva dato un veloce sguardo alle foto e aveva scoperto che il suo Hanamichi era bravo, probabilmente aveva molto più talento per la fotografia di quanto non ne avrebbe mai dimostrato per il basket.

Ma l’intervista… quella no, non l’aveva letta, qualcosa dentro di sé l’aveva fermato. Ma adesso voleva farlo. Si sistemò meglio contro i cuscini del bracciolo e ripiegando il giornale si mise a leggere.

Il Sole stava iniziando a calare in quel momento, la stanza invasa da una lieve luce rossastra.

Doveva riconoscere che la ragazza ci sapeva fare con carta e penna, aveva dipinto i suoi ex compagni di squadra molto più divertenti e intelligenti di quanto in realtà non fossero. Poi c’era il paragrafo dedicato ad Hayasi che sembrava una vera e propria ode al capitano.

Poi quella frase: Ma lo sport, il basket, non è solo gioia, allegria, complicità coi compagni, fatica negli allenamenti. E’ anche dolore, tristezza e disperazione quando si vede davanti a sé un brillante cammino interrotto da un incidente banale, una palla difficile recuperata quasi con un miracolo, facendosi male, ma rialzarsi e ridere, sicuri che non sia niente, ma che infine si scopre aver distrutto tutti i propri sogni e le proprie speranze. Questo è successo a Sakuragi Hanamichi, ala grande della squadra capitanata da Akagi che arrivò seconda al campionato nazionale.

Era arrivato. Aveva… provava timore, stava per leggere qualcosa che era sicuro non era ciò che si aspettava.

Si alzò e andò in cucina a prepararsi uno spuntino. Si sedette ad uno degli sgabelli dell’isola, bevendo del tea freddo, spizzicando il panino e fissando il giornale come fosse un demone da temere.

Era passato ad altre parti dell’articolo, agli specchietti informativi sui giocatori e sul basket, ma evitava accuratamente la parte di Hanamichi; sino a quando non si rese conto di star comportandosi in modo ridicolo, afferrò il giornale con tutte e due le mani.

La prima parte dell’intervista parlava del suo infortunio e mentre leggeva quelle parole nella sua mente tornava l’espressione vuota degli occhi di Hanamichi quel giorno al centro di riabilitazione. Strinse i fogli del giornale, e dopo un profondo respiro si costrinse ad andare avanti, non poteva fermarsi dopo essere arrivato a questo punto.

Ma la cosa peggiore di tutto questo non è stato vedere i miei sogni, le mie speranze, distrutti; no, il peggio doveva ancora arrivare e sono stato io, con la mia stupida vigliaccheria, a rovinare tutto.

Stava… stava davvero parlando di loro due?

Per un attimo di sentì umiliato nello scoprire che Sakuragi parlava ad uno stupido giornale scolastico di ciò che c’era stato fra loro, ma se questo lo avrebbe aiutato a capire…

C’era una persona che io amavo con tutto me stesso, ma l’ho allontanata a causa del mio orgoglio e della mia paura. Non volevo la sua pietà che ero sicuro sarebbe inevitabilmente arrivata. Anche lui è uno sportivo ed è da questo che nasceva la mia paura. Non potevo più stargli accanto come prima e questo, prima o poi, avrebbe significato il suo abbandono per il raggiungimento dei suoi obiettivi.

Ma all’inizio l’unico motivo che mi ero dato era di non intralciare il suo luminoso cammino, e nonostante questo sia ancora in gran parte vero, in questi ultimi tempi ho dovuto ammettere con me stesso che l’ho fatto anche per paura.

Accartocciò il giornale tra le mani, ansimando pieno di rabbia. Si alzò facendo cadere lo sgabello. Dette un pugno sul ripiano con tutta la propria forza per poi precipitarsi fuori dalla casa, sbattendosi la porta alle spalle.

Come aveva osato?

Gli aveva mentito. All’inizio gli aveva fatto credere che non l’amasse più e adesso scopriva questo… che quell’idiota aveva paura, non gli aveva lasciato neanche una possibilità per parlargli, per cercare di farsi capire… e doveva venirlo a sapere da uno stupidissimo giornale il vero motivo per cui aveva dovuto vivere quest’ultimo anno all’inferno.

Bussò alla porta con violenza, doveva parlargli e l’avrebbe fatto subito. Bussò ancora e alla fine gli venne ad aprire Cara. Entrò quasi con la forza, guardandola a metà tra l’infuriato e il disperato "Dov’è?"

La donna indicò le scale "E’ di sopra, vedrai una luce rossa accesa, ma…" non riuscì a finire la frase che Rukawa era già al primo piano.

Ebbe un attimo, meno di un secondo, di esitazione di fronte a quella porta chiusa ma alla fine la spalancò gettando il giornale accartocciato che ancora aveva in mano addosso a Sakuragi.

"Sei uno stronzo!!"

Hanamichi lo fissava ad occhi sgranati "Che… che ci fai qui?" poi si ricordò delle foto "Avanti, esci…"

"No! Dobbiamo parlare e questa volta lo faremo davvero!"

"D’accordo!" lo prese per un braccio e lo fece uscire chiudendosi la porta alle spalle "Ma non lì dentro, mi stai rovinando un’intera giornata di lavoro con la tua scenata isterica, kitsune!"

Lo portò nella propria stanza, chiudendo la porta e poggiandovisi contro con la schiena.

"Allora? Si può sapere che ti prende?" come se non lo sapesse! Ma minimizzare tutto lo aiutava a mantenersi più calmo "Di cosa vuoi parlare?"

Rukawa, che con quel gesto aveva scaricato gran parte della rabbia, ora si guardava intorno, in quella stanza che sapeva di Occidente, di America, di libertà. I poster con alcuni dei paesaggi più tipici, gli stendardi attaccati alle pareti, lo stereo con almeno un centinaio di CD, il letto ad una piazza e mezza con un copriletto patchwork, la libreria piena di libri in inglese, foto attaccate alle pareti e nelle cornici, una coccarda blu per un primo premio.

Vi si avvicinò e la sfiorò con le dita "Hai vinto?"

Sakuragi gli si avvicinò alle spalle, allungando un braccio gli sfiorò la pelle nuda e prese una cornice "Un concorso fotografico. Ho vinto con questa" gliela lasciò tra le mani e fece alcuni passi indietro.

Ritraeva il capitano della squadra di basket del Marshall High durante la finale del campionato di stato mentre eseguiva un Lay-up. Il corpo in aria sembrava quasi volare, il braccio proteso e la palla che si staccava dalla mano quasi avesse una volontà propria.

"Sei molto bravo, davvero…" sfiorò con la punta di un dito il contorno di quel pallone che era stato tutta la sua vita per così tanto tempo.

Hanamichi si strinse nelle spalle "E’ facile quando conosci i tempi. Non è nulla di così difficile come tutti pensano"

Kaede annuì, posando la foto e guardando negli occhi il riflesso di Sakuragi nello specchio alla propria sinistra "Credi davvero che avrei mai potuto lasciarti solo perché non puoi più giocare?"

L’altro abbassò lo sguardo per un istante per poi riportarlo subito sullo specchio "Sì. Ma non per tua cattiveria, solo che per te il tuo sogno è più importante di qualsiasi altra cosa"

"Già, il mio sogno…" mormorò a fior di labbra. Andò accanto alla finestra guardando fuori la notte avanzare poco prima della Luna come un paggio che annuncia l’arrivo della propria Signora "Devo essere davvero quell’essere insensibile, l’iceberg umano che tutti dicono se non sono mai riuscito a convincere il mio ragazzo dell’amore che provo" sorrise malinconico "Vedi, il tuo discorso si può leggere in due modi. Il primo, il più semplice, è che tu sottovaluti il sentimento della persona di cui stai parlando. Il secondo… beh, che la tua sia la logica conclusione data dal mio comportamento nei tuoi confronti. Probabilmente se fossi stato un po’ più aperto, estroverso…"

"Ka… Kaede…" avrebbe voluto fermarlo, impedirgli di continuare questa sorta di mea culpa, dirgli che se fosse stato diverso da come è non l’avrebbe mai amato come lo ama ora, ma non riuscì a dire nulla, e così l’altro continuò.

"Forse avrei dovuto farti capire prima, ma la verità è che non lo sapevo neanche io: la mia vita si divideva tra un’ossessione e una passione. L’ossessione per il basket che mi ha aiutato a superare le lunghe assenze dei miei genitori sempre in viaggio, diventando quasi una droga; e tu… la mia passione. L’unica persona al mondo che sia mai stata in grado di distogliermi dal mio mondo di apatia, eri… sei… l’unico con cui io sia mai stato davvero me stesso" sospirò e le sue spalle si abbassarono "Durante tutto questo tempo ho capito che io potrei vivere senza la mia ossessione, ma senza la mia passione questa mia vita diventerebbe solo la parvenza di un’esistenza comunque infelice" rimase in silenzio per alcuni istanti, poi si voltò e tentò di sorridere, gli occhi lucidi "Ma è sicuramente troppo tardi per dirti tutto questo, scusa. Mi spiace se ho rovinato il tuo lavoro. Ci… ci vediamo"

Si diresse verso la porta, passandogli davanti. Non aveva neanche la forza di pregarlo per impedirgli di andarsene. Oramai era tutto finito, la sua unica consolazione era di esser riuscito a parlargli chiaramente per un’ultima volta.

Due braccia lo cinsero intorno alla vita e le mani s’intrecciarono sul suo petto "Aspetta. Non vuoi darmi diritto di replica? So che io non l’ho dato a te, però…"

Si rigirò nel suo abbraccio, guardandolo negli occhi e posando le mani sui bicipiti "Avanti…" un mormorio quasi indistinguibile.

"Io credo che abbiamo sbagliato entrambi. Io pensando di poter leggere il futuro e tu…" corrugò le sopracciglia "Beh, al momento non mi viene in mente nulla, ma qualcosa avrai fatto di sicuro, tu non sei mai innocente, kitsune!"

"Do’hao"

Si sorrisero.

"Io ti amo, e se me lo permetti vorrei riprovare a costruire un noi. Ti giuro che questa volta non commetterò errori, che…"

Kaede gli posò due dita sulle labbra, impedendogli di continuare "Non fare promesse che non puoi mantenere. Promettimi…" gli cinse il collo con le braccia "…promettimi solo che continuerai ad amarmi per sempre come in questo momento…" le ultime parole solo un leggero mormorio sulle labbra dell’altro, prima di scambiarsi il bacio più dolce di tutta la loro vita.

 

-oOo-

 

1. Cinque su cinque: nelle comunicazioni militari sta a significare una comunicazione ottimale. Chi guardava Buffy - The Vampire Slayer ricorderà che questa era una frase detta molto spesso da Faith.

2. Ripetere un'offerta: in Cina, prima che si possa accettare un dono bisogna rifiutarlo tre volte e solo alla quarta lo si può prendere.

3. Sharwal kamez: è l'abito tipico del Pakistan, composto da pantaloni lunghi larghi e da una giacca che arriva, più o meno, sino al ginocchio chiusa da una fila di bottoni.




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