Oltre le fiamme di Releuse
Mi sentivo bruciare, completamente. Ogni lembo della mia pelle bruciava, sotto quello sguardo, quelle iridi dorate, quegli occhi infuocati che si insidiavano nella mia carne, con atroce profondità. Ogni giorno era come se mi gettassero addosso metallo fuso, rovente, che lentamente cercava di farsi strada sul mio corpo, colando e infiltrandosi in ogni sua parte.
Temevo d'impazzire.
Frequentavo l'ultimo anno della scuola media Tomigaoka, e giocavo nella squadra di basket dell'istituto. Hn, il basket, uno sport che ho sempre amato con tutto me stesso. Già da allora dicevano che sarei diventato un campione, il rookie numero uno della prefettura di Kanagawa.
E poi, chissà.
Ma io non ero mai soddisfatto delle mie capacità, di quel talento che la gente diceva possedessi, e per questo gli allenamenti a scuola non mi bastavano mai. ‘Per diventare il migliore devo impegnarmi di più’, mi ripetevo in continuazione. Volevo diventare davvero il migliore.
Con questo obiettivo cominciai ad allenarmi anche nel tardo pomeriggio, in un campetto di basket poco distante da casa mia, da solo. Perché volevo perfezionare il mio stile di gioco, e in squadra ciò mi riusciva difficile. Volevo acquisire una tecnica tutta mia, e diventare il numero uno.
Mi piaceva l'idea di impegnare tutta la concentrazione e capacità nei miei allenamenti personali, in quel campo solitario, accarezzato dall'aria fresca che ti fa rabbrividire quando grondi di sudore, con la sola compagnia di un pallone e un canestro.
Già, l'unica compagnia. Non mi pesava, anzi, ne ero fiero.
Arrivò poi quel giorno, in cui le mie partite solitarie ricevettero una visita.
Quel giorno, e tutti gli altri che seguirono.
Era un mese che quel ragazzo dalla folta capigliatura rossa, si fermava ad osservarmi. Ogni pomeriggio era lì, fermo dietro la rete, con le mani che spesso si aggrappavano ad essa...e mi fissava, in silenzio. Sentivo la mia figura intrappolata nella sua testa, nei suoi occhi, sempre attenti, sempre pronti a seguire ogni mio movimento. Non lo guardavo, eppure lo sentivo.
Sentivo la sua presenza magnetica.
Come quando mi trovavo fuori dall'area del canestro, e mi concentravo per provare un tiro da tre punti. Con estrema determinazione. Mi isolavo da tutto, non percepivo neppure l'aria che respiravo.
Eppure, il suo respiro sì, lo avvertivo. Lo sentivo mescolarsi al mio, era come se potessi vedere il suo torace alzarsi ed abbassarsi. Alzarsi ed abbassarsi. Al ritmo del mio cuore, della mia agitazione.
Tiravo, facevo canestro. Riprendevo a giocare, come se fossi sempre solo. Lui non parlava, mai. E io non dicevo nulla, continuavo col mio allenamento. In un reciproco silenzio. Mentre i suoi occhi continuavano a divorare la mia figura.
Sempre fissi, ostinati, ed incandescenti.
Era un teppista, lo capì subito. L'avevo immaginato perché oltre ai suoi capelli rossi, il suo viso portava spesso evidenti lividi, e in quegli occhi potevo leggere una rabbia profonda, un'impulsività dilagante, che avevo potuto constatare durante una rissa. Cinque contro uno, contro di lui. E lui vinse. Grondante di sudore, ansimando per lo sforzo, stringendo i pugni ancora tremanti, vinse. Come una belva inferocita si era scagliato su i suoi avversari con stridente impeto, con rabbia istintiva. E li aveva atterrati, uno ad uno. E poi ancora quegli occhi, furenti, luminosi, pronti a cercarmi. E a trovarmi, poco distante. Io che immobile ed in silenzio avevo assistito a quello spettacolo di carni al macello. Pietrificato. Per l'agitazione e, forse, un po' di paura. Eppure ricambiai quello sguardo che mi cercava, seducente e bramoso. Erano i suoi occhi.
Perché li guardavo i suoi occhi, eccome, se li guardavo.
La prima volta che incontrai quello sguardo fu un pomeriggio di pioggia, uno di quelli dove il cielo è completamente grigio e la città ti sembra prigioniera delle nubi che regnano sovrane. La pioggia cadeva fitta e continua, ma avevo deciso di allenarmi ugualmente.
Cominciai che ero già fradicio, e l'acquazzone non accennava a diminuire. Era tutto grigio. Tutto, fino a che, nel raccogliere il pallone rotolato verso la rete, vidi quella vampata di fiamme.
Anche quel giorno, quegli occhi erano sempre lì. E io guardai, per la prima volta, dentro quelle iridi lucenti. E mi sentì catturato, prigioniero di quel ragazzo di fronte a me, dalla pelle ambrata e dalla folta chioma rossa. Aveva più o meno la mia stessa statura, slanciato, fisico robusto, avrebbe potuto tranquillamente giocare a basket.
Mi mancò il fiato, per un istante. Non ne capì immediatamente il motivo. L'avrei scoperto nelle successive notti.
Ero stupito, Perché nonostante la pioggia lui era lì, e sembrava non preoccuparsene. Anzi, mi guardò con aria di chi aspetta intensamente qualcosa. Stava chiedendo.
E io stavo soffocando.
Lo osservavo, ma non accennai alcuna espressione, ero impassibile, come sempre. Poi gli diedi le spalle, e tutto fu nuovamente grigio. Eppure percepivo ancora i suoi occhi folgoranti sulla mia schiena. La mia schiena bagnata, sotto quella brace.
Ricominciai a giocare. E mi parse di vedere il suo sorriso soddisfatto.
Era questo che aspettava?
La notte calò presto. E il cielo sembrò trasformarsi in pece. Non una stella, solo oscure nubi, dense e liquefatte.
Avevo caldo, quella notte. Era il mio corpo, erano le bianche lenzuola, o erano i miei sogni a scottare? Sentivo come se delle mani accarezzassero il mio corpo, sempre più intensamente, esplorando ogni minima parte di esso, anche quelle più nascoste. Sentivo labbra bagnate approfittare della mia bocca, inumidirla, per poi solleticare il mio collo, il petto, i capezzoli turgidi. Ansimavo e gemevo. Mi sentivo in preda a un forte desiderio, un impulso primordiale che chiedeva di essere soddisfatto. Poi li riconobbi: quegli occhi, quelli del ragazzo dalla pelle ambrata. Era davanti a me, nudo, e mi teneva ferme le mani sopra la mia testa. Ed io, sotto di lui, lo stringevo fra le mie gambe. E d'improvviso lo sentì spingere. Gridai.
E mi svegliai, inondato del mio seme. Ero sconvolto, spaventato.
... e forse un po' compiaciuto.
Avevo avuto un orgasmo, sognandomi posseduto dal suo corpo. Se ho provato vergogna? Forse... ma non potevo negare di provare una sottile soddisfazione.
I sogni celano la verità.
E continuai a sognarlo, per tutte le successive notti, con desiderio, aggiungendo sempre più particolari al suo corpo, e all'amplesso.
Quando al campetto incrociavo il suo sguardo, sentivo il sangue ribollire, il corpo reagire. E stavo male, da morire. Al diavolo! Non capiva l'effetto che mi faceva averlo lì? E poi cosa aveva da guardare?
Me lo chiedevo in continuazione. Senza domandarlo direttamente a lui. Il suo silenzio iniziava ad essere soffocante. Il suo sguardo serio, troppo serio. E penetrante.
Eppure sapeva ridere, come un ragazzino. L'avevo incrociato una domenica in una via della città, di fronte ad una sala giochi. Era con quattro ragazzi, dei teppistelli come lui, sicuramente.
“Ah, ah, ah! Yohei, io sono il tensai del pachinko, non sperare di battermi!”
Aveva esclamato, ridendo soddisfatto, gonfiando il petto con una faccia a dir poco divertente. Lui con quell'espressione? Non credevo ai miei occhi. Cominciai a pensare non fosse la stessa persona. Era incredibile. Continuava a fare il buffone! Ero stranito. Forse non era davvero...
Era lui.
Perché nell'attimo in cui gli passai a fianco le sentì. Le fiamme dei suoi occhi ustionare la mia pelle. E alzai lo sguardo, con finta noncuranza, per venire accecato da quel bagliore. La sua espressione cambiò in quell' impercettibile istante in cui ci guardammo, e divenne accattivante, bramosa. Ebbi un sussulto, e credo che per la prima volta di fronte a lui la mia espressione cambiò, tingendosi di stupore, misto a tremore. Sperai che lui non se ne fosse accorto.
“Dai, Hanamichi, ma se sei una schiappa, non darti troppe arie!” “Ah, ah, ah! Che dite ragazzi? Sono il tensai in tutto!”
Tornò ad essere quello di poco prima. Ed io avevo il cuore che batteva all'impazzata. Come un matto che grida in mezzo ad una strada affollata. Tutti lo ignorano.
Almeno ora, sapevo il suo nome...Hanamichi.
Sarà stato l'incontro di quel pomeriggio, la mia espressione di stupore. Oppure l'inizio della bella stagione. L'aria più tiepida, il cielo più limpido. Oppure il desiderio di partecipare. Ancora non l'ho capito, eppure il giorno successivo, durante l'allenamento, sotto la sua consueta presenza, il silenzio venne spezzato.
“Hey, tu!”
Era la sua voce? Calda, roca, un po' strafottente? Continuai a giocare, ignorandolo.
“Hey, ma sei sordo, o cosa?” Tirai a canestro. Centro. Raccolsi la palla. “Hey, diavolo di una kitsune, sei sordo?”
Preso alla sprovvista, indietreggiai per lo spavento. Era entrato in campo ed ora si trovava di fronte a me. Guardandomi con fare divertito.
'Kitsune'? Pensai. Mi guardai la maglietta: c'era una scritta stilizzata: ‘Fox’.
Non so come riuscì a non scoppiare a ridere, ma me ne guardai. Il rossino mi porse la palla, tenendola in mano.
“Facciamo una partita?” Domandò lanciandomi un occhiata di sfida. Lo scrutai con indifferenza, come se la cosa non mi interessasse, non mi fosse di alcuno stimolo. Il mio sguardo agghiacciante, freddo, cominciò una lotta violenta con quelle iridi infuocate.
“Eddai! Voglio solo scontrarmi con te! Magari poi scopro di essere un vero genio del basket!” Lo disse con un’espressione divertita, quasi scherzando, come se sottilmente volesse prendermi in giro, per stimolarmi. Ero perplesso. Appunto. Scherzava? Era serio? Non lo capivo.
“Do’hao”. Fu l’unica cosa che riuscì a dire, sospirando infastidito. “Come osi insultarmi? Eh? Baka kitsune! Non conosci il mio genio sublime!”
Che strano ragazzo. Aveva cominciato a sbraitare gesticolando animatamente per esprimere il suo disappunto, finché, la fiamma incandescente dei suoi occhi riprese ad alimentarsi.
“Tsk. Non sei uno che vuole perdere, vero? Allora, lo cominciamo questo scontro?”
Improvvisamente acuto, aspro e diretto. Decisamente nel suo stile.
Avrei dovuto ricordarmelo.
L'acqua spegne il fuoco, ma il fuoco scioglie il ghiaccio. Sempre.
E vinse il fuoco.
Annuì, in silenzio,quasi distrattamente, perso in quel vortice di fiamme che erano i suoi occhi. In realtà ero stupito. E confuso. Dopo tutti quei giorni in cui lui mi osservava, e io giocavo, lontani, come se in fondo non esistessimo. Fino ad un attimo prima era come se fosse tutto un sogno, frutto di un folle scherzo della mente, e ora invece lui era lì, reale, pronto a far interagire due mondi per lungo tempo incomunicabili.
Non volevo dargli alcuna soddisfazione, una sfida è pur sempre una sfida. E io odio perdere. Con uno scatto gli rubai la palla, impedendogli di reagire, raggiunsi l'area sotto canestro e saltai, centrandolo. Mi voltai da lui, questa volta con occhi velatamente sarcastici, quasi per dimostrargli qualcosa, o per dimostrarla a me stesso. Vidi la sua bocca piegarsi leggermente e accennare un sorriso, compiaciuto. Mi somigliava, in fondo. Era orgoglioso, ed odiava perdere. Sembrò accettare il colpo incassato e si avventò su di me, cercando di bloccarmi. Hn, però. Era scoordinato e si muoveva senza alcuno schema. Eppure, non era male. Ma non abbastanza per il sottoscritto. Lo schivai, nuovamente. Per segnare un altro punto. Ed un altro, un altro ancora. E più andavamo avanti e più la sua marcatura si faceva stretta. Non aveva ancora toccato palla, ma diventava ogni secondo più capace, più vicino. Pericoloso.
“Hn? Hai mai giocato a basket?”
Non volevo, eppure, mentre continuavamo il gioco glielo domandai, quasi ingenuamente.
“No, mai.” Fu la sua risposta soddisfatta. Lesse lo stupore nei miei occhi. Ne sono sicuro, lo lesse.
“Ricordati...”
Soffiò ad un certo punto sul mio orecchio, abbassando il viso, trasmettendomi un violento impulso febbricitante.
“In fondo...ti ho osservato tutto questo tempo”
Sussurrò. Coinciso. Sensuale.
Con uno movimento fulmineo mi scansò, e nel farlo la sua anca sfiorò morbosamente il mio fianco, la sua spalla strusciò contro la mia, e si allontanò. Verso il canestro, saltando più che poteva, non riuscendo a centrarlo. Rise per la brutta figura.
Ed io lì immobile, a tremare come una foglia. Stordito dalle sue parole. Fulminato dal contatto col suo corpo. Come l'elettricità che si propaga nell'acqua.
Elettrizzato.
“Il tuo nome?”
Fu d'improvviso la sua voce . Stava poco distante da me, ma potevo sentire benissimo il suo respiro. E il suo calore che si propagava nell’aria raggiungendo le mie carni.
“Kaede Rukawa”.
Risposi quasi contro la mia volontà, con un filo di voce. Deglutì. Ero incapace di muovermi, perché il suolo mi attirava a sé come una calamita, ostacolando ogni movimento. Lui intanto avanzava, un brivido dilagò sulla mia schiena quando il suo corpo sfiorò il mio nel passarmi accanto. Si sedette, di fronte a me, a gambe incrociate. Poi alzò lo sguardo, e sorrise, vivacemente. Ed io in piedi, immobile di fronte a lui. Come prigioniero di catene invisibili, in attesa della sentenza definitiva.
“Io invece mi chiamo Hanamichi Sakuragi!” Esclamò con fierezza, continuando a sorridere, e a guardarmi. “Hn” Fu la mia risposta. “Eh, eh, eh. Avevo notato fossi un tipo molto loquace!” Scherzò ironico, poggiando i gomiti sulle ginocchia e il viso sui palmi delle mani. Così sembrava proprio riuscire a guardarmi meglio. E lo fece. Riprese ad osservarmi con quegli occhi color nocciola, ardenti come un fuoco sul quale hai appena lanciato un bicchiere di vino scarlatto.
Ero io ad alimentarlo?
Lo fissavo, riuscivo a reggergli lo sguardo. Lo facevo per orgoglio, e forse anche per una difficoltà di fondo: mi era impossibile distogliere i miei occhi dai suoi. Erano diventati suoi prigionieri.
“Che scuole frequenti?” Mi chiese, ancora, con quel sorriso beffardo, come se avesse ben capito che ormai non c’era più nulla da fare.
Ero in balia di lui.
“Scuole medie Tomigaoka.” Risposta meccanica.
“Oooh! Cavolo! È una buona scuola! Mica la mia, le scuole medie Wako, eh, eh, eh.” Sembrò imbarazzarsi nel pronunciare quelle parole. Hn, forse perché quelle scuole avevano la fama di sfornare teppisti. Mah.
“E cosa frequenterai dopo?” Mi chiese, quasi ingenuamente. “Il liceo Shohoku.”
Altra risposta meccanica. Ed io, ancora bloccato su quel suolo rigido, privato anche dell’ultimo barlume di forza, come se mi avessero succhiato tutta l’energia vitale.
“Davvero? Lo Shohoku?” Era sorpreso, mi guardava sbattendo incredulo le ciglia. “È la scuola che vogliono frequentare quegli scapestrati dei miei amici…”
L'idea che potesse frequentare la mia scuola...mi straniva. Mise le mani dietro la testa e si lasciò cadere all’indietro, distendendosi a terra.
“…io non ho ancora deciso…In fondo penso che sia troppo lontano da qui.” Disse, con lieve incertezza, volgendo gli occhi al cielo ancora azzurro.
Improvvisamente sentì il mio corpo cedere, privato dell’equilibrio, come se le catene che mi tenevano inchiodato a terra si fossero allentate improvvisamente. Regalandomi un nauseante senso di leggerezza e confusione.
Erano stati i suoi occhi, non più rivolti verso di me, a rendermi libero.
Me ne resi conto quando cominciai a sentire il mio cuore pulsare nuovamente, al ritmo del mio respiro, divenuto pesante in pochi istanti. Tremavo. Per la rabbia. Per l’umiliazione. Per l’indignazione. Per i sentimenti contrastanti.
Per l’attrazione.
Feci un respiro profondo, strinsi i pugni lividi per i nervi eccessivamente tesi. Sentivo la nausea salirmi fino alle tempie, usurpare il mio cervello. Mi sembrava che l'aria si fosse ritirata improvvisamente. Mi mancava l'ossigeno.
La sua presenza, mi stava soffocando.
E in quel silenzio profondo come una voragine, i miei passi cominciarono ad aumentare. Sempre più veloci. Verso l’uscita. L'unica salvezza per la mia mente ormai folle.
“Ah…” Accennai, arrestando il mio passo ad un filo dalla rete circondante il campetto.
“Questo è l’ultimo giorno che vengo qui. Domani mi trasferisco, vicino lo Shohoku.”
Lapidario. Quasi ironico. Compiaciuto e soddisfatto.
Non so perché glielo dissi.
O confessai.
Forse non volevo dargli alcuna soddisfazione. Non volevo fargli credere di avermi dominato, con quello sguardo. Dovevo dimostrare anche a me stesso di non aver ceduto a quel senso di asfissia. Sono stato il più forte, fino all’ultimo.
O almeno era quello che credevo.
Finché quelle mani si aggrapparono alla rete, violente, facendola agitare convulsamente, propagando le vibrazioni ad ogni anello metallico che la componeva.
Le sue mani stringevano con forza quei cerchi di ferro, e le braccia tese le accompagnavano, rendendomi prigioniero fra di esse.
Come aveva fatto ad essere così veloce, non lo so. Era scattato, fulmineo, da terra, per raggiungermi, oppure, sono io che ho tardato a muovermi, dopo aver parlato?
Cosa mi aspettavo?
Lo sentivo respirare, dietro di me, creando vapori che solleticavano il mio collo. Respirava a tratti, era agitato, forse nervoso.
“…è la verità? Non…non potrò più vederti?”
La sua voce tremava, e anche quelle braccia tese a pochi centimetri dal mio corpo.
“Non vedo perché dovrei mentirti.” Risposi serio, cercando di dimostrare l’assoluta inesistenza di una pur minima emozione.
Eppure avrei voluto gridare.
Vidi d’un tratto le sue braccia rigide e nervose, allentarsi, piegarsi sui gomiti, rimanendo aggrappate alla rete, mentre il suo corpo si abbandonava improvvisamente appoggiandosi sulla mia schiena, facendomi mancare il respiro.
Perché non sopportavo l’idea di non vederlo più.
“…non posso lasciarti andare via. Non ci riesco.” Disse questo sfiorando i miei capelli con le labbra, allontanando le mani dalla rete, portandole all'altezza dei miei fianchi, accarezzando la stoffa della mia maglietta, sollevandola leggermente con le dita. Una scossa. Appena percepì le sue mani a contatto con la mia pelle ebbi un sussulto. Sgomento, spavento, furono le prime reazioni che mi assalirono.
Per la scossa di calore che mia aveva appena divorato.
“Cosa diavolo stai...” Non ebbi nemmeno il tempo per voltarmi da lui, che sentì la mia testa sbattere violentemente sulla rete metallica, sotto la spinta della sua mano, provocandomi un lieve dolore sul viso. E non solo la testa. Tutto il mio corpo si trovò saldato alla rete, dopo che Sakuragi mi spinse contro di essa, completamente, tenendomi fermo per i polsi, con forza, affondando sempre di più la sua presa, impedendomi di ribellarmi. Era suo, il corpo. Quel corpo che sentivo aderire sulla mia schiena, premuto ogni istante di più sul mio.
Mi sentì in preda alle convulsioni, incapace di interpretare quelle sensazioni taglienti come la lama di un rasoio, che cominciavano a predominare sulla mia ragione. Trattenni il fiato, cercando di pensare.
Inutile.
Un brivido percorse il mio orecchio, soffermandosi sul lobo: era la sua lingua.
Come ogni notte.
La sua lingua umida e sensuale che disegnava infiniti cerchi sul mio collo, rigido per la tensione, per l'incapacità di capire cosa stava succedendo.
Non è vero. Sapevo che era quello che sognavo ogni notte.
“Io...ti desidero...” Soffiò dentro il mio orecchio, impastando la sua voce di un leggero affanno. Distruggendo il mio sistema nervoso.
E le sue mani stringevano con ulteriore forza i miei polsi, in segno di possesso, di predominio. Come se io fossi suo.
Ed era quello che volevo.
Cominciai a respirare velocemente, quasi ansimando, tremando, stringendo i denti, mentre lui liberava una delle sue mani per portarla sulla mia schiena, ed usarla per sollevarmi la maglietta lentamente, facendomi sentire l'aria fredda che si impadroniva, istante per istante, di lembi della mia pelle.
Perché ormai era calata la sera. Ed il cielo che intravedevo dalle fessure della rete si faceva sempre più buio, perdendo l'arancione sfumato dell'ultimo spicchio di sole all'orizzonte.
Non indossavo più la mia maglietta. Lui me l'aveva sfilata del tutto. Avrei dovuto impedirglielo.
...eppure non mi ero mosso.
Rabbrividì, ma questa volta non per il freddo. Nuovamente la sua lingua, che aveva cominciato ad assaporare la mia schiena partendo dal bacino, ora percorreva tutta la spina dorsale. Cercai di mantenere la calma, cosa che assolutamente non mi riuscì. Ma mi rendevo conto di dover dare un taglio a quella farsa, a quello che stava succedendo. Dovevo.
Ma non volevo.
“Aaah...” Non trattenni quel gemito che furtivo, scappò dalle mie labbra quando sentì la sue dita pizzicottare i miei capezzoli, rendendoli duri e turgidi, come mai fino ad allora. Non capivo. Il mio respiro si faceva sempre più affannato, per l'umidità dilagante sulla mia schiena, per quelle mani che possedevano il mio petto. 'Basta'. Mi ripetevo, fino allo stremo. Ma la voce non usciva.
Non voleva uscire.
Mi vergognai, improvvisamente. Per averlo sognato tutte quelle notti, per aver sognato di fare l'amore con lui. Il sogno. Il ricordo, quello che accadeva dopo. Un pensiero carico d'ansia. Mi diedero la forza perduta.
“Basta! Lasciami!” Gridai con tutto il fiato accumulato nei polmoni, mentre mi voltavo di scatto, liberandomi dalla presa del rossino. Lo guardai con rabbia e agitazione. Cercando di dimostrargli tutto il mio astio.
Praticamente inesistente.
“Non provare più a toccarmi! Che cazzo vuoi da me?” Ero deciso a mettere la parola fine a quella situazione, che mi rendeva confuso, turbato, debole. E io ho sempre odiato dimostrarmi debole. Cedevole.
Ma non avevo fatto i conti con l'origine di tutto quello: i suoi occhi incandescenti. Che erano di fronte a me e mi guardavano seri, per nulla incerti, anzi, sicuri di loro. Sorrise, Sakuragi, afferrandomi il viso con una mano ed avvicinandosi sinuosamente verso di me.
“Te l'ho detto...voglio te...” Era troppo vicino. Avrei detto che non volevo, lo so, ne sono sicuro. Se lui non fosse stato così vicino.
“E se io non volessi?”
Il suo sguardo mi penetrò, infiltrandosi nelle mie pupille. Intanto il suo viso era sempre più vicino al mio, così vicino da sentire le sue ultime parole sfiorare le mie labbra.
“Se non vuoi...mordi...con tutta la tua forza...” E passò la sua lingua sulle mie labbra, percorrendo la loro forma, lasciando una scia umida al suo passaggio, per poi cominciare a succhiare lentamente il labbro superiore. Infine mi fece conoscere il suo sapore. In fondo dolce. La lava incandescente dei suoi occhi aveva raggiunto il mio cervello, fondendo gli ultimi spiragli di ragione rimasti. Sentivo la sua lingua, cercare avidamente la mia, trovarla, inquisirla, assaporarla, e, io, stordito per le sue ultime parole, cercai di pensare.
Inutilmente.
Stavo già ricambiando quel bacio. Affondando le mie mani fra i suoi morbidi capelli.
Finalmente.
Avvicinando sempre di più il mio corpo verso di lui, per cercare nuovamente un contatto, che questa volta trovai, immediato, nello strusciare delle nostre virilità ormai avide e tese.
Perché era lui che volevo.
Sakuragi mi spinse nuovamente verso la rete, con impulsiva passione, impazienza, eppure senza la violenza di pochi attimi prima. Davo le spalle alla rete, questa volta, quindi potevo ammirare la bellezza di quel corpo di fronte a me. Un corpo tenace, a tratti rude, ma bello da togliere il fiato. Decisi che non mi importava più di nulla, delle paure, dei timori, della vergogna. Volevo essere suo. E lui mi desiderava. Mi avventai ancora alla ricerca delle sue calde labbra, il bacio di pochi istanti prima mi aveva folgorato, fatto impazzire, volevo ancora che il suo sapore si mescolasse al mio. Ma lui non aveva in mente quello, per me. O almeno non solo quello. Sakuragi si levò prepotentemente la maglia, lasciando che il suo torso nudo si facesse ammirare dai miei occhi. Mi guardò per un breve istante, ma quell'istante bastò per decidere tutto. E poi nuovamente il suo bacio, e il suo corpo, che entrava in contatto con il mio, i miei capezzoli che si indurivano nell'aderire contro i suoi, che diventavano ugualmente turgidi, ostinati. Finché la lingua di Sakuragi decise di farli suoi, i miei capezzoli, succhiandoli con possesso, strappandomi gemiti sempre più frequenti. Ed intensi. Non avevo mai provato una sensazione simile e, l'idea di scoprirla con lui non faceva altro che aumentare le mie dosi di piacere.
Regalandomi un godimento denso e continuo.
Alzai gli occhi al cielo, mentre passavo le mie dita fra i capelli morbidi del mio rapitore dagli occhi di fuoco: si intravedevano le prime luci della sera, ossia le stelle, curiose e ridenti. Le mani di Hanamichi scesero lungo i miei fianchi, mentre la sua bocca raggiungeva il mio ombelico, dove sentì la sua lingua intrufolarsi morbida. Facendomi rabbrividire. Sentì l'elastico dei miei pantaloncini allentarsi, finché non raggiunsero le mie ginocchia, insieme ai boxer.
“Aaaahhhh...” Una scarica elettrica. Mollai i capelli di Sakuragi per aggrapparmi con forza alla rete, stringendola fino a farmi male. C'era del ferro che mi raschiava i palmi, ma non provavo alcun dolore. Non più. L'unica cosa che sentivo era la sua bocca rovente che avvolgeva il mio membro, con foga.
Lussuria.
Lo succhiava ogni istante di più, lo potevo sentire bagnarsi della sua saliva, assorbire il suo calore, mentre invadeva la sua gola. Movimenti continui. Continui. Continui.
E le sue mani, che accarezzavano le mie cosce, i miei fianchi con lo stesso ritmo. Continuo. Alternandosi a quelle labbra, stringevano con forza il mio sesso, muovendosi con invidiosa capacità. Mentre io facevo forza su quella rete, che sentivo quasi conficcata nella mia schiena. Ma non mi importava. Cercavo solo di seguire il suo ritmo, spingendo il mio bacino verso di lui, dentro la sua bocca, Perché volevo sentirlo, ancora di più, quel piacere che stava invadendo il mio corpo, rendendolo immune ad ogni controllo. Ancora pochi movimenti e arrivò, quel piacere. E con lui il mio seme che invase la bocca di Hanamichi, che impregnò per pochi attimi il mio membro dentro quell'involucro, finché lui lo assaporò, fino all'ultima goccia, come se temesse di farselo sfuggire. Ed io ero ebbro di confusione, ansimante e godente di quell'intensa sensazione che aveva drogato ogni cellula viva del mio corpo. Ma lui non si fermò subito. Anzi, incominciò a muovere la lingua nel mio interno coscia, l'inguine, le fessure del mio sedere, spalmando su di essi la sua saliva fusa col mio seme. E il mio piacere si dilatò, ancora. Come Sakuragi si allontanò da me, sentì improvvisamente le mie gambe tremare e, allentando la presa sulla rete, mi lasciai cadere verso di lui, privo di forze, stordito dal piacere appena provato. Il rossino mi afferrò, per la prima volta con dolcezza e delicatezza, quasi avesse paura di infrangermi. Non so, in quell'istante mi sembrò che il calore bruciante emesso dal suo corpo si stesse trasformando in un dolce tepore.
Era davvero un dolce tepore.
Hanamichi mi baciò in fronte, quasi con premura, ed io, preso alla sprovvista da questo suo gesto arrossì, allontanando il viso dal suo: non riuscivo a reggergli lo sguardo, e il mio cuore impazziva per i battiti incessanti. Mi accarezzò il volto, forse sorridendo. Ebbi l'impressione avesse capito il mio stato d'animo. Non parlava, ma ogni suo gesto era come una voce chiara e sicura che vagava dalla pelle alle mie orecchie. Diventando suono. Mi dava sicurezza il suo abbraccio, e, finalmente, riuscì a guardarlo negli occhi. Erano davvero belli. Castani e profondi. Improvvisamete mi baciò. Trascinandomi nuovamente. Nuovamente in quel vortice di passioni. A cui non potevo negarmi.
Non volevo negarmi.
Sakuragi accompagnò il mio corpo, distendendolo completamente su quella terra arida, liberandomi dei pantaloni e dei boxer, ormai divenuti inutili. Ero nudo di fronte a lui. Eppure questa volta non me ne vergognai. Anzi, ero fiero che lui mi guardasse. Allungai la mano per accarezzare il suo viso.
“Baciami.” Sussurrai.
E lui mi baciò, distendendosi sopra di me, avvolgendo il mio corpo col suo. Era strano sentire il contatto fra la sua pelle, morbida e scottante, con la ruvida e fredda terra sotto la mia schiena. Due sensazioni così diverse. Eppure capaci, insieme, di essere piacevoli. Questa volta presi anch'io ad accarezzare il suo corpo, a baciare il suo petto. Giocando con i suoi capezzoli. Lo stavo facendo gemere, e questo mi regalava una fiera emozione. Cominciammo a baciarci con maggiore frequenza, intensità, rendendo l'aria troppo bianca e densa per l'affanno dei nostri respiri. Lo volevo.
Volevo sempre di più.
Con irruenza infilai le mani dentro i suoi pantaloni, ignorando i suoi boxer, per avere fra di esse il suo membro gonfio e pulsante. Lanciò un grido strozzato quando lo strinsi fra le mie mani, e cominciai a massaggiarglielo. Sakuragi si stava inebriando di quel piacere, lo sentivo rilassato, si lasciava trasportare dai miei movimenti. E poi la sua mano formicolò sul mio collo, sul mento, raggiungendo la mia bocca, con cui succhiai le sue dita, inumidendole più che potevo. Finché lui stesso le portò nella sua stessa bocca, succhiandole nuovamente. Finché cercò, con esse, di farsi spazio nel mio corpo.
Una prima penetrazione con un dito, solo uno strano fastidio. Invece provai dolore quando fece entrare il secondo. Strinsi i denti. Ma a poco a poco mi abituai. Perché il movimento di Sakuragi era delicato, e paziente. Il terzo mi fece ancora più male, così che mi irrigidì all'istante, trattenendo un lamento e stringendo gli occhi.
“Hey...” La sua voce, calma e pacata. Aprì gli occhi, deglutendo. Avevo il respiro affannato, stavo sudando e, probabilmente tremavo un po'.
“Kaede...” La mia agitazione si attenuò nel sentirlo pronunciare il mio nome. Il cuore aveva ripreso a battere normalmente.
“...se non vuoi...io non continuo...”
Lo guardai immergendomi nei suoi pozzi castani. A lungo.
O forse per brevi attimi.
Nel silenzio di quella notte, disturbata solo dai nostri respiri, lenti e profondi, mi concentrai sul suo sguardo. Nel suo sguardo. Le vidi, quelle fiamme che mia avevano attratto, catturato, alle quali avevo bramato, che mi avevano posseduto. Con seduzione carnale. Con la forza un istinto primordiale. Le vidi. E guardai oltre.
Oltre quelle fiamme.
Era sincero e sorrideva, per la prima volta, gentile e forse, un poco preoccupato. Ricambiai il sorriso, e lui parve stupirsene. Sembrava felice. Allungai le braccia per cingergli il collo e lo avvicinai a me, baciandolo.
“Anche io...voglio te...” Gli sussurrai all'orecchio. Lo avevo sempre saputo. Dal primo giorno che lui era venuto a vedermi giocare. Avevo letto il desiderio nei suoi occhi. E lui lo aveva letto nei miei. Ogni giorno ci siamo cercati, bramati, consumati in silenzio.
E questo è stato il nostro epilogo.
Sakuragi si spogliò dei suoi ultimi vestiti e si avvicinò, verso di me. Verso il mio corpo che lo attirava e lo chiamava. Eravamo entrambi tremanti ed emozionati, ma la passione seppe celare egregiamente tutto ciò. Allargai le gambe per permettere ad Hanamichi di posizionarsi fra di esse, mentre lui mi accarezzava i fianchi e mi penetrava con le dita.
“Sei pronto?” Sussurrò sempre più eccitato. “Si...” Avevo il cuore in gola.
Una spinta, irruenta e decisa e Sakuragi fu dentro di me. Fu un dolore lacerante, come se mi avessero strappato la pelle più viva. Era stato troppo impulsivo, e io non trattenni un grido di dolore. Hn. L'impulsività dei quindici anni. Hanamichi si bloccò, resosi conto delle lacrime che rigavano il mio viso, per il forte dolore provato. Non so perchè, ma passò in fretta. Sarà stato l'eccessiva passione, il desiderio cocente, l'esplorazione del sesso. L'eccitazione. Eppure il dolore passò in fretta. E Sakuragi riprese a muoversi lentamente, spingendo con delicatezza, stringendomi le spalle, baciandomi le mani, i polsi, le gambe.
“...di più...” Lo incitavo. Iniziavo a provare un piacere sconosciuto. Sensuale, ammaliante. E lui si mosse sempre più velocemente, ansimando con foga, stringendo le mani sulla mia caviglia che stava poggiata sulla sua spalla. Le spinte si facevano più intense, più profonde, più insistenti, mentre il sudore scivolava copioso sui nostri corpi. Sentì il suo corpo agitarsi, tremare, vidi le vene gonfiarsi, e il suo viso assumere un acceso color porpora.
“...non ce la...facc..”
L'eccitazione ci avvolse insieme. Venne dentro di me, riversando il suo seme nel mio corpo. Ed anche io venni, gridando insieme a lui. Ancora incapace di materializzare ciò che era appena successo. Stremato, Sakuragi mi cadde addosso, ma appena fui sotto di lui, mi abbracciò. Forte. Sempre più forte.
'Tu sei mio' Mi sembrava dire la sua voce. Eppure non parlava.
Continuava a stringermi a sè, quasi avesse paura di separarsi. Poi capì. Quel giorno ci saremmo separati. Per davvero.
Respirai profondamente,e, finalmente, la mia mente ricominciò a emettere impulsi vitali.
In quei mesi non ci siamo solo guardati, ma ci siamo osservati, scrutati, studiati. Conoscevamo entrambi lati nascosti dell'altro, sapevamo a memoria ogni espressione, ogni cadenza, ogni atteggiamento. In fondo era come se ci conoscessimo da sempre. Per me era così. E cominciai a pensare lo fosse anche per lui.
Ecco Perché il pensiero della separazione cominciava a farmi male.
“Senti...” Fu lui il primo a rompere quel silenzio, allontanandomi un poco per guardarmi in viso. “...credo...che mi iscriverò allo Shohoku...” Disse quelle parole quasi timidamente. Eravamo ancora abbracciati, distesi, nudi, privi ancora della possibilità di sentire l'aria fresca che probabilmente circolava nell'atmosfera.
“Hn? Credi?” Risposi serio. Non mi sono mai piaciuti i forse. Io voglio certezze.
“Bè..sì, credo...anzi, te lo prometto!” Non so perchè, ma mi innervosì.
Temevo di soffrire.
“Hn. Non fare promesse se poi non le mantieni.” Risposi secco. Lui mi guardò, curioso. Scoppiò a ridere. Un altro lato di Sakuragi. Non è il tipo da perdersi d'animo!
“Ah, ah, ah, ah! Ma tu non conosci Sakuragi l'immenso! Io le mantengo le promesse. E mi iscriverò pure al club di basket! Ti confesso...credo che questo sport mi piaccia...a forza di osservarti, mi sono appassionato.” Le sue ultime parole erano davvero spontanee e un poco imbarazzate.
“Tu? A basket? Ma se sei una schiappa!” Scherzai, con un improvviso sollievo. “Come osi? Io sono il tensai del basket!” Sbraitò. “Hn...do'hao!” “Aaargh! Baka kitsune! Non hai fiducia nel mio talento sovraumano!” “Bè...con un po' d'allenamento magari...ma non sarai mai bravo come il sottoscritto. Diventerò il numero uno della prefettura!”Glielo dissi con decisione, ma in fondo volevo confidarglielo.
Mi guardò con finta aria di sfida. “Non conosci ancora il talento del tensai!” “Hn. Vedrem...” “AAAAH!” “Che hai?” Chiesi scioccato dal suo grido improvviso. “Ma...io ho comunque il mio orgoglio. L'orgoglio dell'armata Sakuragi! Sono un teppista!”
Mi chiedevo che orgoglio potesse avere un teppista.
“Come faccio a iscrivermi con tranquillità al club di basket? Ne va della mia fama! Della mia Immagine...così su due piedi...Kami!” “Hn” Sbuffai. “ Fai finta di esserti innamorato di una ragazza patita di basket, no?”
In realtà dissi la prima cosa che mi era passata per la testa, vederlo così agitato per una tale sciocchezza mi aveva fatto venire in mente un'altrettanta sciocchezza. Lui mi guardò, perplesso
.
“Geniale!” Esclamò di colpo stringendomi a sè. “Eh?” “Allora ho fatto bene a soprannominarti kitsune! Sei proprio uno scaltro volpino!” E cominciò a ridere divertito. Ed io, spontaneamente risi con lui. Finché la risata si fece più intensa. Euforica. Liberatoria. Era da tempo che non ridevo e, sotto quel tepore, nel buio di quella notte infinita, protetto da quello sguardo sempre posato su di me, mi chiesi se avrei ancora riso così. Con lui.
Aprile. Istituto Shohoku. Oggi il sottoscritto, Kaede Rukawa comincia il nuovo anno scolastico come matricola del liceo Shohoku. Stranamente stamattina non mi sono addormentato sulla mia bicicletta, hn, meglio così, ho evitato l'ennesimo incidente. Mi trovo davanti alla scuola ed ho il cuore in gola, che batte all'impazzata. Sono agitato, molto. Sarà che inizio un nuovo ciclo di vita, oppure? Mi guardo intorno. Tante facce, visi nuovi, alcuni conosciuti.
Ma di lui, nulla.
Sospiro, mi faccio coraggio. Entro. Osservo la terrazza, illuminata dai raggi del sole. Enorme, spaziosa, perfetta per riposare. Credo che più tardi andrò lì a prendere sonno. Spero che nessuno venga ad svegliarmi, Perché io non perdono chi disturba il mio sonno.
FINE
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