Per Ria, Nausicaa e Calipso, e per questa bellissima coppia che tende a essere un po’ trascurata.

L’odore della pioggia


Mi è sempre piaciuto l’odore della pioggia, mi ricorda le serate afose di fine estate, quando finalmente arriva il refrigerio di un acquazzone improvviso, e il profumo della terra bagnata accompagna i brividi brucianti dati dai vestiti inaspettatamente inzuppati.

Sorrido al pensiero, guardando le scie d’acqua che si allungano sul vetro della finestra… eppure stasera non è una gradevole notte estiva, ma una notte di inizio inverno, e il violento temporale mi fa venire brividi di paura, con i suoi lampi che squarciano il cielo e i tuoni che rimbombano nelle orecchie.

Mi stringo le braccia intorno al corpo mentre rabbrividisco al contatto con il vetro gelido… forse non dovrei stare qui, raggomitolato sul davanzale della finestra ad aspettarlo, ma sono preoccupato. E’ tardi e diluvia, e lui non ha mai dimenticato di avvertirmi se un contrattempo gli impediva di raggiungermi.

Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui ci siamo conosciuti: era un pomeriggio di fine novembre, esattamente quattro anni fa, e io mi stavo allenando in palestra con il resto della squadra.

Improvvisamente l’allenatore ci chiamò tutti a raccolta, doveva farci un annuncio importante.

Mi ricordo che io approfittai subito per asciugarmi un po’ e fare incetta d’acqua fresca… quegli allenamenti erano davvero massacranti!

"Ragazzi, oggi si unisce alla nostra squadra un nuovo giocatore. Si è trasferito da poco nel nostro liceo, ma giocava a basket sia alle medie che nella scuola che ha frequentato nei mesi scorsi. Sono sicuro che sarete in grado di farlo sentire presto un membro effettivo ed affidabile del nostro team…".

Le parole erano scontate, e così mi voltai senza troppa attenzione… e lo vidi.

Era alto, altissimo, anzi, probabilmente superava di qualcosa l’1.90, e poi aveva quel viso limpido, amichevole, e quegli occhi così belli e caldi… Non so perché, ma mi faceva venire voglia di sorridergli!

In quei primi giorni non riuscii a parlargli: ogni volta che tentavo di avvicinarmi, il coach mi richiamava per insegnarmi qualche nuovo schema. Era chiaro sin d’allora, infatti, che sarei stato il playmaker della squadra.

E lui sembrava non vedermi neanche, mentre insaccava uno slam dunk dopo l’altro.

E poi una sera andai a pattinare sul ghiaccio con alcuni compagni di classe: la pista al centro del parco di Kanagawa era piuttosto affollata, ed era difficile riuscire ad avere un po’ di spazio per poter correre un po’, visto il rischio di crollare su qualcuno più imbranato, o semplicemente più distratto.

So pattinare bene, mi piace lasciarmi scivolare sul ghiaccio… mi fa sentire senza peso, senza vincoli. Stavo decidendo se buttarmi e provare qualche piccolo salto, oppure qualche avvitamento, quando lo scorsi poco più avanti, che pattinava tenendo per mano una ragazzina di una decina d’anni. Beh, era la mia occasione… e non potevo assolutamente lasciarmela sfuggire!

Catalogai immediatamente la bambina come sorella piccola, cugina o vicina di casa… potenzialmente un intralcio. Ma sembrava proprio la mia serata fortunata, perché presto si staccò dalla mano del proprio compagno per raggiungere altri bambini che facevano un trenino vicino alla balaustra.

Accelerai la mia pattinata. Ormai gli ero quasi alle spalle. Sulla curva ci saremmo trovati fianco a fianco, e così mi sarei potuto presentare… Già, la curva! Sì, perché, mentre io cominciavo ad impostarla, mi accorsi che lui non aveva alcuna intenzione di farlo, e anzi che si stava fermando per sfilarsi la giacca…

L’urto fu pauroso! Ci ritrovammo per terra, in un groviglio di braccia e gambe… ok, volevo fare la sua conoscenza, ma non era esattamente questo il mio piano!

Mi sollevai sulle ginocchia cominciando a profondermi in scuse, quando mi accorsi che nella caduta aveva sbattuto il viso contro il ghiaccio, e gli occhiali gli si erano rotti ferendogli lo zigomo.

Ero letteralmente sconvolto. Non potevo credere a quello che era successo… temo anche di aver cominciato a balbettare, mentre lui non faceva che dire che era una cosa da niente.

Senza aggiungere niente, me lo trascinai dove avevo lasciato la mia roba, e cominciai a pulirgli con un fazzoletto il piccolo taglio. L’agitazione era tale che per un bel po’ non notai il sorriso gentile con cui mi guardava… gli applicai una garza cercando di fissargliela senza spingere troppo sulla pelle, e a questo punto portai il mio sguardo sul suo.

Scoppiò a ridere, poi mi tese la mano:

"Hanagata Toru… credo che apparteniamo allo stesso club… basket" mi disse.

Anch’io sorrisi, catturato dalla dolcezza della sua espressione:

"Credo proprio di sì… Fujima Kenji, piacere!"

Sorrido ancora ricordando tutto questo. Eravamo molto imbranati… cioè, io lo ero! In campo ero un leader, comandavo il gioco, impostavo la nostra strategia, ero quello che si dice un ‘allenatore-giocatore’, ma fuori, quando ci ritrovavamo da soli, mi sentivo intimidito, sciocco. Pur avendo la stessa età, infatti, lui sembrava così adulto, così maturo! Eppure con me era amichevole, scherzoso. Potevamo parlare di tutto, e i pomeriggi sembravano sempre troppo corti quando li trascorrevamo insieme.

E poi ci fu l’ultima partita del campionato invernale, la partita che perdemmo contro il Kainan della matricola più osannata della prefettura, Shinichi Maki.

Perdemmo per un punto, perdemmo per un tiro da tre che mi andò sul ferro.

Tenni duro quando lo speaker decretò il successo del Kainan per 83 a 82, tenni duro quando Maki mi si avvicinò per stringermi la mano e farmi i suoi complimenti, tenni duro quando l’allenatore disse di essere fiero di noi… ma non ressi quando, nello spogliatoio ormai vuoto, Toru mi si avvicinò e mi sollevò il mento con la mano per guardarmi negli occhi, dopo che avevo sfuggito il suo sguardo per tutto il pomeriggio.

Scoppiai a piangere completamente privo di ritegno, la delusione e la rabbia mescolate insieme per aumentare il dolore… Avevamo perso, avevamo perso ed era solo colpa mia.

Fu il nostro primo abbraccio, la prima volta che provai il conforto di affondare il viso nel suo petto. Ricordo bene le sue braccia scese ad avvolgermi la schiena, le mani grandi e forti che mi stringevano mentre il mio corpo era scosso dai singhiozzi… non mi disse niente, nessuna falsa parola di conforto: il suo calore e la sua comprensione erano già in quell’abbraccio che per me costituiva un rifugio sicuro.

Non parlammo più di quella sconfitta, ma il nostro rapporto cambiò dopo quella sera, in qualche modo divenne più… fisico. Ci capitava spesso, quando eravamo soli, di stare abbracciati, di scambiarci coccole innocenti. Sì, innocenti, perché erano solo manifestazioni dell’affetto e della fiducia che ci legavano. Sicuramente, scavando a fondo, ognuno di noi avrebbe trovato qualcosa di più, ma in quel momento avevamo deciso entrambi di lasciare questi sentimenti più profondi e inesplorati in fondo al nostro cuore.

Probabilmente fui io il primo a dare un nome al rapporto che ci legava.

Era l’inizio del secondo anno, io e Toru eravamo capitati in classe insieme. Io occupavo il banco dietro al suo, e mi divertivo a cercare di distrarlo in ogni modo durante le lezioni.

Nessuno di noi due aveva mai avuto problemi di profitto scolastico. Ci tenevamo ad avere dei buoni voti, sapevamo entrambi che questi ci avrebbero permesso di accedere ad una buona università e di proseguire con il cammino che le nostre famiglie avevano previsto per noi sin dall’infanzia. I miei scherzi durante le lezioni non volevano quindi distoglierlo dallo studio, ma mi divertiva troppo farlo sorridere, farlo distrarre per… per attirare la sua attenzione su di me. Mi ci volle un po’ per capire che era questo che desideravo… sì, volevo essere al centro del suo mondo, come lui era stato al centro del mio dal primo momento in cui l’avevo visto.

Toru stava al gioco: si fingeva assorto, cercava di ignorare i miei tentativi di distrarlo, ma poi doveva cedere, e allora si voltava verso di me, minacciandomi ma sfoderando quel sorriso che era il mio premio per gli scherzi che gli facevo.

E poi arrivò il giorno che lui mancò da scuola senza avvertirmi. Mi sentii tradito, in qualche modo, ma poi pensai che potesse essere un malessere improvviso, o magari un impegno con la famiglia, ma poi mancò anche il giorno seguente, e poi quello dopo ancora…

Mi sentivo perso. I professori erano stati avvertiti che sarebbe stato assente per qualche tempo, ma non sapevano, o non dicevano, di più, e io non riuscivo a capacitarmi di trovarmi improvvisamente senza di lui.

Provai a telefonargli, ad andare a cercarlo a casa, ma non trovai mai nessuno. In campo giocavo come un automa, freddo e senza emozioni, facendo quel tanto che mi consentiva di evitare di rimanere per gli allenamenti punitivi serali, e poi giravo a vuoto, con lo sguardo assente, in cerca dell’unica persona che ormai potesse farmi sentire vivo.

E una sera mi ritrovai di nuovo davanti a casa sua. Sapevo che non c’era nessuno, ma scavalcai lo stesso la bassa recinzione, e mi sedetti sul pavimento del portico, la schiena appoggiata alla parete, quasi a tentare di carpire, attraverso il muro spesso, qualcosa che mi riportasse la sensazione di averlo vicino.

Mi addormentai senza accorgermene, cedendo alla stanchezza di tutte quelle giornate senza riposo.

Quando mi svegliai, mi accorsi subito del calore che mi avvolgeva, del conforto che finalmente circondava il mio corpo stanco ed indolenzito. Eppure pensavo di sognare, pensavo che aprendo gli occhi mi sarei ritrovato nella notte buia, accartocciato contro il muro di una casa disabitata, e invece… invece intorno a me c’era il calore di un soffice piumino, lenzuola profumate, e soprattutto… braccia forti e delicate insieme che mi circondavano la vita.

Non dovetti cercare il viso per scoprire a chi appartenessero quelle mani che mi stringevano protettive… ricordavo troppo bene il profumo di quel corpo, un profumo buono, pulito…

Mi strinsi di più in quell’abbraccio, dimenticando domande, spiegazioni e rimproveri. Lui era con me, mi aveva raccolto solo e infreddolito, e mi aveva riscaldato. Forse a guidarlo era stato l’impulso che si ha anche verso un gattino abbandonato, ma ero così felice che anche questo mi bastava.

Sentii la sua mano scendere ad accarezzarmi la schiena. Se avessi potuto mi sarei messo a fare le fusa, strofinandomi contro la sua spalla.

"Sei sveglio, Ken-kun?" mi chiese piano, la voce incerta, come se temesse di svegliarmi.

"Mmmhhh" fu tutto quello che riuscii ad articolare.

"Mi hai fatto spaventare, stanotte… eri gelato quando sono tornato…"

Non volevo ricordare quello che avevo passato. Ero più che soddisfatto di ciò che avevo in quel momento.

Cercò di sollevarmi il viso, contrastato dalla mia testardaggine, che mi voleva nascosto sotto le coperte, beato in quel paradiso di affetto e calore.

Ma avevo a che fare con qualcuno la cui determinazione poteva rivaleggiare con la mia:

"Kenji… mi spieghi cosa ci facevi sul portico di casa mia? Non sai che potevo anche non tornare per un’altra settimana?" il suo tono era un po’ scherzoso, un po’ preoccupato e soprattutto carico di rimprovero…

"Te ne sei andato senza dirmi niente… ero preoccupato" riuscii a ribattere, sollevandomi sui gomiti, e ricambiando finalmente il suo sguardo.

"Ero via per il matrimonio di mia zia… a scuola non ve lo hanno detto?" mi chiese scuotendo la testa.

"No. Ma potevi anche avvertirmi…" provai a rimproverarlo.

"Non conosci mia zia! Il suo matrimonio è stato, diciamo… improvviso!" e sorrise.

Sorrisi anch’io. Ora che mi era di nuovo vicino, ero felice.

Mi fece un cenno con la mano, e io fui di nuovo tra le sue braccia:

"Davvero ti sono mancato?" mi chiese, e c’era una sfumatura di timidezza in quella domanda.

"Ti piace tanto fartelo ripetere?!" ribattei piccato, cercando di mascherare con una finta aggressività il mio imbarazzo. Da quando avevo scoperto quanto lui fosse importante per me, mi sentivo più a disagio nei suoi abbracci, come se in qualche modo stessi ingannando la sua amicizia.

"Sì, mi piace, Kenji…" e il suo sguardo era così dolce che per me divenne impossibile resistere. Mi avvicinai ancora di più e gli passai le braccia intorno al collo. Il mio viso era vicino al suo, e temo che le mie intenzioni fossero abbastanza chiare… eppure un attimo prima che le mie labbra raggiungessero le sue, qualcosa mi bloccò, forse la consapevolezza di stare rischiando molto… troppo… e che, se lui si fosse rivelato non in grado di ricambiare i miei sentimenti, per me ci sarebbe stato solo un baratro senza ritorno.

E in quel momento di esitazione avvenne l’incredibile, in quel momento in cui il mio viso era fermo a pochi centimetri dal suo, avvenne quello che avrei osato solo sognare: fu lui a colmare quel distacco, fu lui a stringermi le braccia intorno alle spalle, ad attirarmi a sé e a unire le sue labbra alle mie.

Chiusi gli occhi, e mi abbandonai alla sensazione di quel contatto, eppure durò poco, quasi il tempo di una carezza…

"Scusami Kenji…" mormorò piano, tirandosi indietro con espressione colpevole "…non dovevo, non ne avevo il diritto…"

Non ne aveva il diritto??!! Ma si era reso conto che mi ero praticamente buttato tra le sue braccia??!!

Gli sorrisi, e non lasciai spazio ad altre chiacchiere inutili: gli buttai di nuovo le braccia al collo, e nell’impeto del mio assalto alla sua bocca, ci ritrovammo sul pavimento.

Quando ci staccammo, molto tempo dopo, lui mi guardò piuttosto sorpreso:

"Non pensavo che fossi così focoso…" mi disse arruffandomi i capelli con la mano "… ma ti adoro!"

Fu così che cominciò tra noi. E oggi mi viene da sorridere a pensare a quanto fossimo ingenui e imbranati!

Ma quei primi giorni hanno davvero un posto speciale nel mio cuore. Quegli abbracci che eravamo soliti scambiarci avevano acquistato un nuovo significato, e poi le lunghe chiacchierate che improvvisamente si interrompevano, perché subentrava la distrazione del pensare ‘a noi’, a quello che eravamo l’uno per l’altro… i nostri baci rubati negli spogliatoi, gli allenamenti protratti per poter stare insieme da soli… Non che poi facessimo chissà che cosa, era il solo stare insieme che ci rendeva felici.

E la nostra prima volta… arrossisco al solo pensiero, e non per quello che volevamo fare, e che poi abbiamo fatto, ma per la serie infinita di preoccupazioni che la cosa portò ad ognuno di noi: volevamo che tutto fosse perfetto, ognuno di noi desiderava che per l’altro fosse meraviglioso, e questo portò ad inconfessabili sensi di inadeguatezza. Io sapevo benissimo che parte volevo sostenere, in quello che doveva accadere tra noi, però non sapevo ‘praticamente’ cosa comportava la mia scelta. Sapevo bene di non essere una donna, ovviamente, però i particolari della faccenda mi sfuggivano, e certo non potevo andarmene in giro a chiedere consiglio alle persone che conoscevo! In qualche modo facevo affidamento sull’istinto, anche se… insomma, la cosa mi preoccupava!

E Toru? Solo mesi dopo mi confessò che era terrorizzato! Mi disse che aveva anche provato a fare qualche ricerca: era andato in una libreria fuori mano dicendo di dover scrivere un articolo per il giornale della scuola, e di aver bisogno di alcuni testi sul fenomeno dell’omosessualità. Beh, si ritrovò sommerso da articoli sulla protesta di Stonewall e da trattati in cui illustri psicologi spiegavano quali traumi infantili potessero portare a questa patologia… non c’è che dire, indubbiamente tutte cose molto utili per placare le nostre ansie!

Eppure fu tutto così naturale… la nostra agitazione era stata del tutto superflua! A parte la cosa in sé, sconvolgentemente meravigliosa, di quella notte ricordo che non riuscivo ad addormentarmi, che rimasi per ore a guardare il suo viso e ad accarezzargli piano i capelli. Ero felice, avrei voluto che quegli istanti si fermassero e non fuggissero via così veloci.

Quando potevamo, cercavamo di rimanere a dormire insieme. Nelle notti di tempesta, come questa, adoro rimanere tra le sue braccia, avvolto nel tepore dei nostri corpi mentre fuori si scatena il temporale. Mi fa sentire protetto, al sicuro…

Ora viviamo insieme. Da quando abbiamo cominciato l’Università, lo scorso anno, abbiamo affittato insieme un piccolo appartamento, con la scusa che era più pratico per frequentare le lezioni. So bene che arriverà il giorno in cui dovremo parlare con le nostre famiglie di quello che sta accadendo fra noi, perché entrambi sappiamo che una cosa così importante deve poter far parte della nostra vita ‘alla luce del sole’, ma ancora non ci siamo decisi. Per noi è naturale, ma sappiamo che per gli altri, anche se ci vogliono bene, non sia semplice da accettare.

Stasera sono quattro anni che ci conosciamo, stasera avevo previsto che saremmo stati insieme a perderci nei ricordi e nei nostri scherzi che preludono alla passione, e invece sono solo, a osservare fuori da questa finestra sperando che Toru torni presto.

Mi piace la pioggia, mi piace il suo odore, ma stasera no, perché stasera mi sta tenendo lontana la persona che amo.

Sul marciapiede di fronte alla nostra casa, vedo un ombrello avvicinarsi. Appoggio le mani sul vetro e cerco di scorgere la persona che ci si ripara, ma non riesco a vedere nulla… con gli occhi. Ma so che è lui.

Salto giù dal mio rifugio e scendo le scale di corsa, spalancando il portone e correndo nel viottolo allagato senza neanche infilarmi le scarpe.

L’ombrello viene portato via dal vento, una volta che le mani di Toru lo hanno abbandonato per stringermi a sé, e noi non ci curiamo delle gocce gelate che scivolano sui nostri capelli.

Mi bacia dolcemente, poi con passione:

"Non dovevi uscire senza coprirti…" mi mormora accarezzandomi i capelli fradici.

Ma io gli sorrido scuotendo la testa: ero preoccupato, preoccupato che potesse essergli successo qualcosa, che la nostra felicità fosse troppo perfetta per durare.

Improvvisamente sento qualcosa di caldo e umido sfiorare le mie dita: abbasso lo sguardo, e dal suo cappotto vedo affacciarsi il musetto marrone di un cagnolino, che mi sta annusando e leccando le mani. Mi viene da piangere, ma spero che le gocce di pioggia nascondano la mia commozione:

"Buon Anniversario, Kenji…" mi sussurra Toru, mettendomi in braccio il suo regalo.

Io non rispondo, lo guardo e con il braccio libero attiro il suo viso sul mio:

"Buon Anniversario, amore…".

Entriamo in casa, consapevoli che la nostra vita ha subito un’altra svolta. Ora siamo pronti per affrontare il mondo, perché sotto questa pioggia gelata abbiamo capito che non esistiamo l’uno senza l’altro, che, se è arrivato il momento di mettere alla prova il nostro amore di fronte alle persone a cui teniamo, ora siamo forti abbastanza per farlo.

L’odore della pioggia – The End