NOTE: i personaggi sono miei,
l'ambientazione è mia, è tutto mio, esclusa la citazione dall'Inferno di
Dante Alighieri!
Odissea
di Dhely
Che bel cielo! Le
stelle sono piccoli soli di ghiaccio, capocchie infisse su un velluto così
scuro che dirlo nero non gli rende giustizia.
E che espressione cretina, la mia! Come se il cielo, fuori di qui sia mai
stato diverso da quell'incanto che è ora. Che *possa* essere diverso . . Mi
ricordo indistintamente che qualcuno, una volta, mi aveva detto che avevo
'una bella ala poetica'. Forse avevano ragione, non lo so.
Mi viene da ridere. Di fronte a questo maestoso spettacolo tutte le volte
cosa mi viene in mente? Quel vecchissimo telefilm che iniziava con una cosa
tipo: 'Dal diario di bordo. Anno spaziale 6546 . . " Sembrerà una
sciocchezza ma mi ricordo ancora perfettamente l'inflessione di quella voce!
Sogghigno come un cretino allo spazio interstellare e Robert alle mie spalle
mi lancia appena uno sguardo stupito. Ma lo stupore è una sfumatura lieve,
dopo tutto tutti loro sanno che non sono troppo normale. Chi di noi lo è?
Mi passo una mano fra i capelli, Robert si allontana in silenzio, le crisi
depressive sono frequenti qua sopra e abbiamo imparato a riconoscerle
dall'odore, quando arrivano. Ecco, la mia è sempre stata qui, non se ne è
mai andata, non ne sono mai uscito. Chi mi biasimerebbe? Nessuno, infatti,
osa dire una sola parola, il conforto reciproco nei momenti più neri è un
qualcosa di strano, silente, solo a George non è bastato.
Sì, George. Si è ammazzato 563 giorni fa. Tengo il conto? Certo che tengo
il conto! Seguendo il calendario terrestre. . non so perché, ma l'ho sempre
fatto, fin dall'inizio. E' per questo che so con precisione quanto tempo ho
passato lontano da casa.
11 anni, 4 mesi, 18 giorni . . escludendo il periodo in cui ci hanno portati
via. Ero drogato e ovviamente non ho la più pallida idea di quanto sia
durato.
Approssimativamente tutto è iniziato 10 anni fa.
Da un lato mi sembra ieri. Chissà cos'è successo a casa. Non credo che i
giornali abbiano titolato 'Ragazzino rapito dagli alieni', probabilmente
sono finito nella lista di quelli scappati di casa e mai più ritrovati. Mia
madre sarà morta d'infarto a non vedermi tornare, quella sera . . eppure
so, che tra tutte le cose tragiche che può aver pensato, *questa* non se l'è
neppure immaginata. Non ci credevo neppure io che lo stavo vivendo!
Chissà perché hanno scelto noi e non altri. Chissà se è stata effettuata
una 'pesca' random oppure si perseguivano particolari obbiettivi? Non lo so.
Ai nostri rapitori non siamo mai riusciti a chiederlo, in fondo all'epoca le
nostre priorità erano ben altre. Io ero un adolescente terrorizzato e solo,
su una nave spaziale con degli alieni che avevano come unico scopo quello di
vivisezionarmi insieme ad altri uomini come me, altre cavie.
Gli alieni chiamavano se stessi Velthar, per lo meno questo è quello che
siamo riusciti a decifrare. Avevano progettato macchine per darci aria,
acqua e cibo, un cibo compatibile alla nostra struttura atomica, ciò
significava che, nonostante quando arrivai nei loro laboratori ero in
compagnia di poco più di una cinquantina di persone, fossero abituati ad
avere umani tra le grinfie. Loro erano una forma di vita organica fondata
sul legami del silicio, al posto che sul carbonio, come noi . . come lo so?
oh, bhè . . alla fine . . alla fine li abbiamo vivisezionati *noi*.
Mi viene da sorridere al ricordo.
Quanti dei nostri sono morti?
Tanti, ora siamo solo una manciata di uomini, ne abbiamo persi molti nella
fuga, molti sono caduti per gli stenti, altri hanno rifiutato di capire cosa
stesse succedendo e si sono lasciati andare, il cervello perso in ricordi
lontani anni luce, ma tanti ne abbiamo uccisi. Siamo una razza ancora
scarsamente evoluta e sanguinaria per gli standard del resto degli abitanti
dell'universo. Ho sentito dire ad alcuni mercanti Kniv che siamo stati messi
nella regione più periferica della galassia proprio perché così non
facessimo troppi danni. Forse hanno ragione loro. Forse . . non che
m'importi troppo, ora.
Con questi occhi ho visto cose che neppure nei film di fantascienza si erano
immaginate. E l'universo è più popolato di Rimini a ferragosto! Non che mi
*ricordi* come fosse Rimini a ferragosto ma è un paragone che suona bene.
D'altro canto, però, mi sembra di esserci da sempre nello spazio. Una nave
spaziale come casa, la compagnia solo dei miei compagni di sventura . .
chissà com'è una vita che non sia questa? Abbiamo combattuto, ammazzato,
venduto, comprato, imparato lingue, maneggiato tecnologie aliene, rapito,
violato, dissacrato qualunque cosa per tornare a casa. Credevo, tempo fa, di
essere una persona tollerante. Ma quando in ballo è la tua vita, è tornare
a casa . .
Sento i passi di Robert spegnersi lentamente nel fondo del corridoio e
sospiro. E' un ex fisico della NASA, addetto alla messa in orbita dei
satelliti, è il più anziano qui sopra, quasi 40 anni ormai, eppure sembra
un ragazzino. Quando gli dico che se non fosse stato per lui, per le sue
conoscenze, saremmo morti tutti 10 anni fa, mi guarda dal fondo di quei suoi
occhi castani e morbidi e sorride stringendo le spalle. "Vorrei essere
certo di avervi fatto un favore . . " dice sempre. Non ne è certo.
Ovvio. Quante volte tutti noi abbiamo pensato di lasciar perdere?
Moltissime, sempre, quasi tutti i giorni. E invece siamo ancora qui, a
lottare con le unghie e coi denti, perché, alla fine, qualcosa dovremmo pur
ottenere. Vogliamo
arrivare a casa . . prima era molto più dura di adesso . . all'inizio
intendo, quando siamo saliti su una navicella per scappare e non sapevamo
neppure cosa toccare per farla partire o quando abbiamo passato settimane a
nasconderci da quelle sonde di perlustrazione che i Velthar ci avevano
mandato dietro, o quando . . o quando all'inizio, anche solo intenderci tra
noi è stata un'impresa.
Robert è americano, io italiano, Nicolaj cecoslovacco, Friedrich di Berlino
Ovest, Blaise portoghese con una mamma indiana, Tar un apolide che parla
tremila lingue e tutte prevalentemente morte, Sun Kai cinese ma che sa anche
il giapponese (pensa la fortuna!), Victoire algerino con mamma francese e
padre del Camerun, George australiano con sangue e accento da indios . .
devo andare avanti? Era una vera e propria Babele. All'inizio eravamo
terrorizzati, sconvolti, nessuno che parlasse una lingua conosciuta, neanche
gli umani, e allora non facevi altro che chiuderti sempre più a riccio,
tagliare i ponti con ciò che ti circondavo. C'erano quelli che, quando loro
venivano a prenderli, erano già morti. Forse respiravano ancora, vero, e il
cuore batteva, ma i loro occhi erano spenti, vuoti . . e io avevo paura . .
paura di diventare come loro.
Fu lì che iniziò.
Fu mentre stavano portando via uno di quelli che qualcosa si ruppe. Non so
neppure io perché. Sentivo solo di avere la spalla premuta contro un corpo
caldo, tiepido, che tremava. Tremava come una foglia a guardare i nostri
carcerieri portarne via un altro, a vedere quegli occhi spenti, a capire che
potevano ucciderci anche solo tenendoci lì dentro. Non so perché lo feci,
un gesto tanto . . stupido. Piccolo. Meschino. Insignificante. Mi voltai
appena e quel corpo che tremava lo presi fra le braccia, lo stinsi. E lui,
Nicolaj, scoppiò a piangere.
Non il suono lamentoso e irato che era solito echeggiare in quel posto. Non
i gemiti di dolore e sconfitta che di solito emettevamo. No. Era un pianto .
. cristallino. Nicolaj non piangeva per se stesso, o non solo almeno.
Piangeva per . . pietà. I Velthar non se ne accorsero neppure, non avevano
mai sentito un cuore lamentarsi, prima, ma io . . noi . . fu come per un
attimo riavere indietro la nostra umanità. Mi ricordo bene, stavo lì e lo
tenevo fra le braccia. Un po' a distanza come se non fossi più capace di
abbracciare qualcuno, ma in quell'istante io ero di nuovo io . . Sono felice
che Nicolaj sia sopravvissuto a tutto quello che abbiamo affrontato, sono
felice che possa ritornare alla sua Praga; abbiamo perso ore di sonno a
cercare di farci capire, io e lui, il mio inglese disastroso e il mio
spagnolo quasi inesistente mischiato al suo russo stentato, al tedesco
orribile, al suo ceco che per me poteva pure stare parlando in turco. Da
quando abbiamo ricominciato a farlo, parlavamo sempre. Parlavamo e
parlavamo, senza ascoltare l'altro, c'era il bisogno di comunicare e io
parlavo della mia famiglia, della mia casa, dei miei amici, la mia scuola e
lui . . bhè, presumo mi diceva le stesse solo che non lo capivo.
Passammo cinque giorni così, stando tutti svegli anche di notte, come
ubriachi folli, a raccontare al proprio vicino di cella ciò che avevamo in
cuore e non importava se quello non capiva, o forse anche non gli importava.
La nostra prigione risuonava davvero come se fosse Babele appena dopo il
crollo della torre, ma eravamo felici . . sì, non c'è altro termine per
tentare di dire quello che sentivo dentro. Ero . . mi sembrava di essere
ritornato alla vita dopo un periodo inenarrabile di servaggio disumano.
Sentivo le persone al mio fianco come fratelli, li sentivo davvero 'compagni
di sventura' . . termini quasi poetici, forse fuori luogo, ma non so trovare
altri modi per dire quello che avevo dentro.
Poi iniziò a schiaricisi la mente. Era nato un altro desiderio: quello di
condividere. Pensieri, idee, emozioni, giudizi, ricordi . . gli uomini sono
animali sociali . . chi è che lo diceva? Non mi ricordo, ma credo che
quello che abbiamo passato ne fosse una dimostrazione. Ovviamente loro
venivano sempre, venivano ancora a prenderci, uno per uno, uno ogni 53 ore,
ma noi, ormai, avevamo uno scopo. E' stato difficile . . a pensarci adesso
è stata la cosa più difficile che abbiamo fatto: cercare di capire,
mettere insieme frammenti di parole che suonano in un modo che a qualcuno
ricorda qualcosa e allora la traduce nella sua lingua, che è simile alla
lingua di qualcun altro e che allora la ripete e il suono che si diffonde
ancora e ancora e ancora . . come onde nel mare che scavano gli scogli,
abbiamo imparato a capire . . e abbiamo 'costruito' una lingua. Adesso
parliamo un qualcosa che dev'essere un'aberrazione. Inglese, francese,
spagnolo, italiano, russo, ceco, tedesco, termini indiani, cinese mandarino,
accenni di giapponese . . è ridicolo. Quando torneremo a casa chi mai ci
capirà?
L'idea mi blocca lo stomaco come fosse un pugno. Il nostro sogno, tornare a
casa . . ora siamo così vicini . . chiudo gli occhi stringendo i denti. Ho
sputato sangue, letteralmente, tutti l'abbiamo sputato per tornare casa, e
adesso . .
"Capitano?"
La voce gentile e pacata di Sun Kai mi fa respirare a fondo, cercando di
ritrovare la calma e la sicurezza di cui tutti loro hanno bisogno. Capitano.
Sono uno fra i più giovani! Eppure nessuno ha avuto nulla da ridire quando
siamo riusciti ad impossessarci di un'astronave e, dividendoci i compiti,
Robert mi ha indicato "Adriano è il capitano." Così,
semplicemente. Senza una spiegazione, senza una richiesta, una domanda,
senza un tentennamento . . no. Io solo ho avuto il coraggio di fissare
Robert, sbigottito e l'ho sentito ridere "Sei l'unico che puoi farcela.
Essere capitano non vuol dire essere un genio, essere un ottimo guerriero,
essere forte o altro. Bisogna . .avere carisma." Carisma! Io? Dopo 10
anni forse . . forse Robert aveva ragione. Forse.
"Sì, Kai?"
Lui sorride, una luce incredibile si espande per quelle iridi troppo scure,
nere come il nulla che ci circonda. "Non siamo molto lontani, Capitano.
Robert ha calcolato non più di una settimana!"
Sorrido appena, scuotendo il capo. "Ottima notizia."
Lo vedo sollevare un sopracciglio, curioso, preoccupato. Poi mi si avvicina,
posandomi una mano sul braccio. "Capitano? Cosa c'è che non va?"
La depressione dello spazio. L'abbiamo chiamata così tanto tempo fa, lo
scoramento che ti prende a fissare l'infinito troppo a lungo, e sempre, e
avere come unica speranza un pianeta troppo piccolo, che nel nulla che ci
circonda non è nient'altro che un granello di polvere in un deserto. Ma il
nostro è un pianeta azzurro e bellissimo, che scintilla come
un'acquamarina, uno zaffiro meraviglioso, il pianeta più bello che esista.
Siamo scesi su centinaia di pianeti, siamo venuti in contatto con migliaia
di specie e razze diverse, lo spazio è ampio e popolato e i Velthar
parevano essersi divertiti a portarci il più lontano possibile dalla nostra
Terra, ma nessun altro pianeta, nessun'altra terra, nessun popolo, nessuna
gente, nessuna meraviglia, nessuna scoperta . . no, nulla è come la Terra.
10 anni . . 10 anni . . sono lunghi, sono un'eternità, sono una vita . .
Sono stato portato via dalla Terra che avevo quasi 17 anni, sono cresciuto
nello spazio, sono diventato grande fra laboratori per esperimenti e
astronavi, fra creature aliene e cose che la mia mente si rifiutava di
capire.
Abbasso il capo scuotendo appena la testa. "Nulla Kai. - ex
programmatore di computer, mi ricordo, sposato con tre figli. Lo guardo di
sbieco e lo trovo invecchiato ma non stanco. Così felice . . siamo a non più
di una settimana da casa, dopo tutto. Perché io non riesco ad essere felice
come lui? - Vai.
Io mi ritiro nelle mie stanze, se avete bisogno di me . . "
Lui mi guarda annuendo in silenzio mentre gli volto le spalle. Una settimana
. . una settimana e siamo a casa . .
^^^^^
La mia Odissea.
Mi guardo intorno e trovo che la cabina che mi appartiene è proprio brutta
come la prima volta che ci misi piede. Ma questa è la *mia* Odissea. Che
nome per un'astronave, vero? Ma d'altra parte io *ero* il capitano . . e mi
sono sempre sentito un po' come Ulisse che vaga per anni per ritornare ad
Itaca. Anche noi, come lui, facevamo il viaggio con il cuore gonfio di
desiderio di ritornare al nostro passato, alla nostra casa, al nostro ieri.
Una settimana e ci siamo. E allora perché mi sento così? Chiudo gli occhi.
Come avrei potuto chiamare la nostra nave? Non mi ricordo come si chiamasse
la nave di Ulisse, ma Odissea suonava bene. La *nostra* odissea sta per
finire, pare. Chissà che ne faremo di questa carretta? Brutta e rovinata .
. anche un modello sorpassato, a dire il vero . . ma ci abbiamo messo
l'anima qui dentro. Tutti noi.
Robert e Kai l'hanno analizzata, studiata, riprogrammata, Blaise e Vic
l'hanno ricalibrata al nostro rapporto peso/altezza, tutti noi abbiamo
imparato come funziona questo cazzo di sistema di approvvigionamento e di
propulsione, e poi i macchinari, Nicolaj e Fried addetti a qualunque cosa
non andasse e George che, quando qualcosa non funzionava, rideva e dava un
cazzotto al quadro comandi. Con Robert che urlava che erano macchinari
fragili e delicati e che non andavano trattati così e che se fosse guastato
qualcosa lo avrebbe spedito a calci in culo dagli Nalhan a chiedere i pezzi
di ricambio. . Chissà come, ma George aveva davvero il tocco magico. Di
solito, dopo la sua 'cura', funzionava sempre tutto.
George . . George che era il più forte di noi, era il più incredibile, il
più saldo, quello che non avrei mai creduto . . George . . s'è tagliato le
vene. A pensarci non ci credo ancora. La sua nave, la nostra Odissea, come
ha potuto lasciarla? Come ha potuto lasciare noi? Come?
Non faccio fatica a ricordarlo com'era. La pelle ambrata, alto, muscoloso ma
sottile, diceva di avere le fattezze proprie degli abitanti originari
dell'Australia . . io gli ho sempre creduto, non avevo mai visto un indio
prima di lui, però non riuscivo a non pensare che sembrasse un polinesiano.
Come se poi certe distinzioni in un astronave in mezzo a razze aliene avesse
una qualche importanza. Eppure . . ci ho pensato spesso. Nonostante tutto la
nostra cultura, il luogo dove eravamo nati, la nostra lingua, le nostre
diverse abitudini, le sensibilità a volte opposte, tutte quelle cose che
per il resto dell'universo erano semplicemente un simbolo di quanto gli
umani fossero ancora immaturi e incapaci di rendersi conto di essere un
unico popolo . . ecco, tutte quelle piccole cose erano importanti.
Diventavano sempre più importanti ogni giorno, ogni mese, ogni anno che
passava . . Era un legame con casa. Era . . ritornare al passato.
Ho sentito più di una volta Tar, cattolico convinto, recitare il Padre
Nostro in latino; Robert continuare a bestemmiare in americano con un
fortissimo accento texano. Poi, quando Kai borbotta, per lui sintomo di
profondo sgomento, oppure di rabbia impossibile da reprimere, lo fa in
mandarino. Fried sputa maledizioni in slavo e Vic gli risponde in . . che
lingua si parla in Camerun? Non lo so. Io, da parte mia, mi sono scoperto a
tirar giù cristi, madonne e santi assortiti in *dialetto* . . e ne sono
estremamente orgoglioso!
George invece . . George . . Perché non me l'ha detto? Che stava male lo
sapevamo tutti, tutti stavamo male . . come sempre d'altronde. Ma non avevo
immaginato che per lui fosse così grave. Lo *so* che non è colpa mia! Lo
so lo so lo so! Ma . . ma non riesco a non pensarci.
Eravamo ancora nelle 'gabbie' dei Velthar, preda dello strano sbigottimento
che ci aveva colti nello scoprire di possedere ancora una voce, sconvolti al
pensiero di poter trasmettere almeno in maniera approssimata quello che
sentivamo dentro, i ricordi, almeno il nostro nome, quando . . ricordo bene
le sue mani sul mio corpo. Avevo già visto, già sentito i pianti e i
mugolii dei più giovani, quando uno di quelli più forti era disperato od
ossessionato o semplicemente cercava di spezzare chi gli stava intorno per
la frustrazione di non potersi ammazzare. Sapevo, e poi non era neppure una
cosa così impossibile da immaginare. Avevano diviso gli uomini dalle donne,
non sapevamo neppure che ci fossero, delle donne, nei laboratori, l'avremmo
scoperto solo più tardi. Io ero giovane e dentro di me sapevo che prima o
poi mi sarebbe toccato. Non che in quel momento m'importasse. A volte
speravo di essere il successivo a venir portato ai laboratori, almeno
sarebbe finito tutto, almeno sarei morto e sarebbe finita quell'assurdo
attendere. Poi arrivarono le mani di George su di me, ed erano calde e
gentili. Le sue carezze . . la pelle mi si arriccia ancora dal piacere solo
a pensarci.
Dentro di me mi ricordo che ripetevo che avrebbe dovuto farmi schifo, che
avrei dovuto dibattermi e piangere e . . invece George fu gentile con me,
dolce, sussurrava in quella lingua strana e perduta parole che non capivo ma
che suonavano rassicuranti, tiepide. E tiepide erano le sue labbra, e
bollente il suo corpo nudo contro il mio. Urlai quando mi prese, mi fece
male, sanguinai e per giorni feci fatica a stare seduto, piansi, anche, ma
lui continuò per tutto il tempo a parlarmi in quella lingua che non capivo,
così aliena, così lontana, che sapeva di spazi sconfinati ed eterni
deserti e solitudine e terre rosse e profumi di barriere coralline. Sapevo
bene che gli uomini intorno a noi ci guardavano, sapevo che molti di loro si
stavano masturbando guardandoci, sapevo anche che alcuni di loro si
sarebbero fatti avanti, dopo di lui, ma non m'importava . . sinceramente non
m'importava e non m'importa neppure ora quel che accadde dopo.
Cose squallide esattamente adatte allo squallore della vita che conducevamo,
rinchiusi peggio che le bestie . . poche cose mi ricordo con esattezza oltre
George di quel giorno, a dire il vero, una in particolare mi fa stringere
ancora il cuore: il viso di Robert in lacrime, dopo che per ore altri uomini
si erano 'presi cura' di me, accarezzarmi gentilmente i capelli e piangere
"Sorry, boy. I'm so sorry . . please, blow me . . please, boy, please .
.".
Il primo pompino della mia vita . . a Robert! Se ci penso davvero mi viene
da ridere. So che per lui è stato terribile, i primi periodi non riusciva
neppure a sollevare gli occhi per guardarmi in viso. Io non so cosa provavo
di preciso in quei momenti, sapevo che George era stato gentile e con lui .
. bhè con lui mi era piaciuto. E anche Robert era stato gentile, dopo
tutto, al contrario di molti degli altri. Non sono mai riuscito ad odiarlo,
gli ormoni e il corpo hanno propri stimoli e non sempre si riesce ad
arginarli.
Poi c'era stata la fuga, il pericolo, le morti, gli aiuti insperati, gli
aiuti interessati, e pian piano, mentre capivamo il complesso quadro in cui
eravamo stati catapultati, mentre assorbivamo l'enormità di anni luce che
ci separavano da casa, mentre decidevamo il da fare e cercavamo i mezzi per
attuarlo, George aveva continuato ad allontanarsi. Non con il corpo né col
cuore, no. Ma la sua testa . . non bisogna pensare troppo al passato, nella
nostra situazione . .
Non ha retto. Il suo cuore non ha retto a tutte le immagini che la sua
memoria gli inviava. Tutto qui. Forse non gli sono stato abbastanza vicino,
era un tipo orgoglioso, non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di aiuto.
Forse.
Sento il letto al mio fianco cedere appena sotto un peso leggero. Un sorriso
involontario mi increspa le labbra.
"Capitano? - la sua voce leggera e scherzosa, gentile tanto quanto è
lui - Capitano? ma sei ancora sveglio? Ti ammalerai se vai avanti così! E
come farai? Vuoi guardare la Terra dalla sala comandi con un piede nella
fossa?"
Nicolaj ora ride, da quando siamo partiti, ride spesso, spessissimo. Mi
solleva il cuore avercelo al fianco. Avevo così bisogno di uno come lui,
accanto, tanto quanto avevo bisogno di George. Uno lieve come una piuma,
l'altro saldo come la roccia. Ero innamorato di lui? Di George? Non so di
preciso . . forse sì . . o forse era più simile a un'infatuazione da
ragazzini. Il mio primo uomo! Ma so di essere innamorato di Nicolaj, ora.
Non che sia difficile, è una persona così meravigliosa. Sospiro sentendo
il suo capo premermi sulla spalla.
"Stavo pensando."
Gli passo una mano fra i capelli mossi, gentilmente e mi compiaccio nel
sentirlo sussurrare. Mi stupisco di quanto tanto spesso siano le cose più
piccole ad essere così importanti per noi stessi.
"Tu pensi sempre alle cose tristi, Adriano. Non dovresti . . dovresti
essere felice! Siamo a casa!"
Lo guardo. E' così bello. Sicuramente è il più bello fra noi e anche se
non ricordo quali siano i canoni e il livello di bellezza sulla Terra so che
per me sarà sempre il più bello dell'universo. I suoi occhi ridono insieme
alle sue labbra e mi sembra sempre un piccolo miracolo. Siamo a casa.
Dieci anni a lottare, a piangere. Compagni morti, amici uccisi per essere
qui, ora. Stiamo per arrivare a casa. A casa. Perché questa notizia ha il
sapore della cenere ed è amara come il fiele?
Nicolaj sbuffa strusciandosi fra le mie braccia, cercando di strapparmi a
quei pensieri che, sa non sono piacevoli né felici. Basta guardarmi in
faccia, d'altra parte. Cerco di sorridergli, ci provo davvero ma non riesco.
"Nic, dormi. Domani abbiamo un sacco di cose da mmphhhhfff ..."
Le sue labbra mi soffocano quasi, inghiotte le mie parole prendendomi il
capo fra le mani, quando si stacca da quel bacio con tanto di schiocco mi
sorride ma una ruga di determinata testardaggine mi fa capire che è deciso.
"Basta Adriano! Smetti di trattarci come dei bambini! Se non te ne
fossi accorto, non lo siamo. Puoi anche rallentare un po', te lo meriti. Se
non fosse stato per te qui non ci saremmo mai arrivati!"
Soffoco appena un sorriso, non voglio offenderlo troppo, è così convinto
di quel che dice "Non essere sciocco! Senza di me avreste scelto un
altro capitano e le cose sarebbero andate come sono andate!"
Lo vedo oscurarsi, notevolmente." Adriano. Devo ricordarti chi ci ha
salvato il culo almeno 15 volte nell'ultimo anno e mezzo? Chi ci ha tenuti
insieme quando sembrava che avessimo dovuto farci a pezzi l'uno con l'altro?
Devo . . "
"Sthh . . " Gli poso un dito sulle labbra. Forse ha ragione lui.
Questo ruolo me lo sento sempre così mio. Decidere in fretta, decidere per
tutti, dir loro di seguirmi, prendere la loro fiducia come dovuta nei
momenti di tensione e di pericolo, contare sul fatto che tutti loro facciano
quel che io dico di fare . .
"Facciamo l'amore, ti va?"
E' dolce, gentile, sorride quando me lo chiede e so che se gli dicessi di
no, che se cercassi una scusa qualsiasi, non si arrabbierebbe. Ma perché
privarmi di lui, adesso? Perché allontanarlo? Ho voglia di scoparlo come
sempre, come chiunque sull'Odissea credo. E lui non chiede altro. Mi si
siede a cavalcioni sul bacino slacciandomi la camicia, mi bacia il petto, i
suoi denti mi regalano piccoli morsi sul collo mentre le mie mani gli
afferrano il culo e inizio a strapazzarlo un po'. Lo sento sorridere mentre
si libera con uno strattone della maglietta, gettandola di lato.
Mi muovo di scatto, lo faccio sbilanciare e lo spingo sotto di me, mi
struscio contro di lui e Nic mi sorride di nuovo prima di mordermi una
spalla. Piccolo cannibale . . Si lascia spogliare con lieve condiscendenza,
è uno spettacolo come il suo corpo si adatti e sappia muoversi a ritmo dei
miei desideri. Senza perdere troppo tempo siamo entrambi nudi, entrambi
affamati. Mi ha chiesto di fare l'amore, forse dovrei essere più dolce con
lui ma mi scopro a non aver voglia di dolcezza.
No, niente dolcezza. Lui non sembra lamentarsi troppo, allarga le gambe,
tira indietro il capo e ancheggia invitante. Non è che ce ne sia bisogno, a
dire il vero. Affondo in lui con un colpo che gli fa uscire tutta l'aria dai
polmoni, un gemito che sa quasi di dolore. In cambio mi graffia le spalle
come un gattino in calore, incazzato ed eccitato insieme. Adoro farlo
urlare. Metà del piacere che mi dà è la sua voce che si piega e si spezza
e si alza di nuovo come ora . . mi muovo dentro di lui con furia, quasi con
rabbia. Mi chiedo una volta di più perché non riesca davvero a lasciarmi
andare, a non pensare mentre lo scopo, perché non riesco a . . spegnere
l'interruttore e basta .. no, invece no . . c'è sempre rabbia in me, anche
adesso, anche ora con questa meraviglia sotto di me che si muove in questo
modo e che urla e chiama il mio nome e quasi piange e i suoi occhi
scintillano così così . . Il mio è un unico, solitario ringhio basso che
fa da contrappunto al suo sussurrare costante e ritmato. Mi viene sullo
stomaco, sento il suo seme tiepido e caldo colarmi sulla pelle mentre
socchiude gli occhi e le labbra si tendono un attimo a scoprire la sua
lingua che saetta a sfiorarsi i denti. La mia ultima spinta è quasi feroce,
sento il mio cazzo sbattere contro la sua prostata , il suo uggiolio quasi
tenero e poi lo riempio.
Farfalline bianche mi scintillano davanti agli occhi. Li strizzo uscendo da
lui poi mi lascio crollare fra le sue braccia. Lo sento sorridere mentre
appoggio il capo alla sua spalla e mi addormento mentre le sue dita mi
passano fra i capelli.
^^^^^
Siamo partiti in 47.
Passo gli occhi su quei nomi incisi sulle pareti di quella stanza spoglia e
a ogni sillaba mi si risveglia un ricordo. Abbiamo provato a scappare dal
laboratorio che eravamo quasi il doppio, prima di arrivare ad avere
un'astronave eravamo in 47. Adesso siamo in 16. Ci sono quei nomi a
ricordarci di ognuno di loro, a ricordare almeno quelli che ci avevano detto
il loro nome, almeno quelli di cui avevamo un ricordo su cui riflettere.
E' solo una stanza vuota, rimasta inutilizzata, è diventato il nostro
squallido mausoleo. Quando uno di noi muore, qualcuno, con una fiamma
ossidrica, incide il suo nome su quella parete.
Roger è morto su F'hrak, quando avevamo deciso di accettare di fare i
contrabbandieri per gli abitanti di quel pianeta per poterci permettere le
riparazioni dell'Odissea. Alèc è morto a causa di quel cazzo di veleno.
Handro è morto in quella che sulla Terra sarebbe stata chiamata una fottuta
rissa da taverna. Shamir è morto per coprirci la ritirata quando la flotta
imperiale aveva deciso che potevamo essere dei potenziali terroristi,
insieme a Manuel, Sten, Francis e John. Oscar si è lasciato morire dopo che
quel Haslj gli aveva strappato un braccio.
Devo proseguire? No. Ognuno, per eroica o cogliona che sia stata la propria
morte, ha il nome inciso lì. Tutti. Sono morti perché noi ritornassimo a
casa. Perché potessimo finalmente tornare indietro. Tornare indietro . .
ora mi accorgo che l'unico modo che avremmo avuto per poterlo fare era
mandare indietro l'orologio, riavere indietro il tempo che abbiamo perduto a
correre fra le stelle. Robert mi ha fatto notare che non abbiamo modi per
calcolare la velocità in maniera standard. Gli anni luce presso questa
gente non vale, la velocità delle navi l'abbiamo calcolata a spanne, a
quanto pare pure molto grossolane, visto Che Robert non si aspettava che
fossimo solo ora di fronte alla Terra.
Me l'ha detto ieri. "Chissà che anno sarà sulla Terra?"
L'ho guardato malissimo, quasi sconvolto. All'inizio ho pensato che fosse
impazzito poi . . poi mi sono ricordato della legge della relatività di
Einstein. Me l'ha insegnata lui. Per noi sono passati 11 anni, 4 mesi e 24
giorni, ma per loro? Non mi ricordo se dovrebbero essere di più o di meno,
non mi sono mai applicato molto alle lezioni che i più anziani di noi,
quelli che quando sono stati portati via avevano un lavoro, erano esperti in
qualcosa, ci avevano tenuto, per lo meno non avevo mai badato molto
all'aspetto teorico della faccenda. Ma questo . . che anno sarà?
Che anno sarà. Sembra una stronzata, non è vero? Già. E' proprio una
stronzata, come il fatto che nessuno di noi conosce più in maniera decente
neppure la propria lingua natale. Come il fatto che *io* non mi ricordo cosa
sia avere una vita 'normale'. Mi ricordo che mi piaceva andare al cinema, e
che mia madre non mi lasciava andare a ballare ma se devo pensare a una di
queste cose . . non ci sono immagini che mi raccontino della mia vita
passata. Non ho che sensazioni sbiadite, sensazioni che, se mi concentro
bene, capisco che derivano da altro. Il tocco di George, la risata di
Nicolaj, gli occhi di Robert, l'amicizia di Sun Kai, il caldo senso di
appartenenza che mi riempie quando penso all'Odissea e al suo equipaggio.
Tutta la mia vita è qui.
Il ponte dell'Odissea è piena come può esserlo, tutti e 16 siamo qui,
siamo rimasti solo noi. Lo schermo rimanda l'immagine di quel pianeta
impossibilmente bello, meraviglioso, azzurro . . così blu, di pianeti
nell'universo non ne ho mai visti. Mai. E lo posso giurare sulla cosa che ho
di più prezioso al mondo. Chissà che anno sarà sulla Terra. Chissà se
qualcuno di noi si ricorda com'è fatta una ragazza. O un filo d'erba? Ho
fatto sogni di pianure sconfinate di erba verde ma sembrava la nebbia di
Killhar, non era erba. Il mare? Distese d'acqua salata? No, ho davanti agli
occhi pozze di metano liquido, di idrogeno congelato, anche di acqua, sì,
ma non era il mare. Nulla era così blu.
Tutta la mia vita *è* qui.
Il silenzio ci avvolge. Aspettano che dica qualcosa, dopo tutto sono il loro
capitano. Eppure sono tutti in silenzio. In un angolo vedo Robert che piange
sottovoce, le spalle che gli tremano. Vedo Victoire con lo sguardo fisso su
un punto del lembo di terra che si intravede sotto le nubi, e io so che lì
dovrebbe esserci il Camerun. Friedrich a capo chino apre e chiude i pugni,
ritmicamente mentre al suo fianco Tar lo guarda un po' preoccupato, le
braccia conserte. Berlino Ovest, chissà se . .
Tutto è un unico 'chissà se'. La presenza di Nicolaj è al mio fianco, ma
sento che anche la sua anima trema, tentenna. Me li aspettavo felici,
entusiasti, tutti loro credevano che avrebbero riso e pianto dalla gioia. A
Robert scappa un singhiozzo più forte degli altri e Blaise abbandona il suo
posto al pannello di comando per corrergli al fianco. Gli passa un braccio
sulle spalle e vedo il più *grande* di questa manica di folli ragazzini
scatenati, come ci aveva chiamati anni fa, scoppiare in un pianto dirotto
sulla spalla di uno che ha poco più la metà dei suoi anni.
Guardo la Terra. E' così bella. E' stato il nostro sogno, la nostra meta
per tutti questi anni . .
"Esiste nulla di più bello?"
Sento Nicolaj al mio fianco che mi stringe una mano in silenzio. Non mi ero
accorto di aver parlato ad alta voce ma non è che la cosa abbia molta
importanza. Sono *morti* perché arrivassimo qui, e ora . . solo ora, e Dio
mi perdoni per questo, mi accorgo che Omero si era fermato troppo presto,che
aveva avuto ragione Dante, piuttosto, Dante Alighieri. Ulisse non
avrebbe *potuto* fermarsi ad Itaca. Mai. Forse per lui fu davvero desiderio
di conoscenza, noia o chissà che altro, ma . . guardo la Terra sotto di me,
bella e invitante come una sirena e altrettanto pericolosa. Come potrei
vivere ancora là? Ci sono troppi miracoli nei miei occhi, troppe vite mi
sono passate davanti, troppe civiltà, troppi mondi, troppe razze. Troppa la
strada che ho dovuto percorrere. Troppa la vita che ho dovuto vivere
percorrendo la strada che mi portasse qua.
No, non esiste nulla di più bello. Ma non è per me. Non è per *noi*.
Mi volto, li guardo. I miei compagni. I miei fratelli. I miei amici. La mia
famiglia. La mia vita è qui.
Dio mi perdoni, ma la mia vita è qui.
Abbasso gli occhi per un attimo ma quando li risollevo sono di nuovo
asciutti.
"Bhè, che ne dite di Alpha Centauri? Agli abitanti di quella galassia
non abbiamo ancora rotto i coglioni!"
Quindici paia di occhi si fissano su di me poi un sospiro. Un unico,
estremo, terribile sospiro, è come se fosse l'Odissea stessa a sospirare.
Robert si asciuga gli occhi col dorso della mano, Vic distoglie lo sguardo
da quel punto preciso sullo schermo di fronte a lui, Fried solleva gli occhi
per farli scivolare piano su Tar, impassibile e bellissimo come sempre, e
Blaise ritorna piano al suo posto, dietro ai comandi. Mi sorride appena,
pallido, ma i suoi occhi brillano.
"Imposto la rotta, capitano."
Annuisco in silenzio. Nicolaj si stringe al mio fianco, intrecciando le sue
dita alle mie. Chino il capo e lo guardo. Sospiro anch'io mentre la ciurma
ritorna ai suoi posti. Lui solleva lo sguardo e fa per andarsene quando si
ferma e mi fissa. Duro, diretto, fermo, con gli occhi negli occhi.
"Tu lo sapevi."
La sua voce trema appena. Sapevo che la Terra non era per noi? Sapevo che
non avremmo mai potuto essere più felici laggiù? Che nulla ci avrebbe
ridato quello che ci avevano strappato? Che mai nulla avrebbe potuto ridarci
indietro al nostra vita? La nostra vecchia vita? La vita che tutti noi
avremmo dovuto poter vivere? Io lo sapevo?
"Sì."
Chiudo gli occhi. Ho un unico ricordo di me sulla Terra. Avevo circa 13
anni, ero a scuola, una di quelle terribili mattine di novembre con la
nebbia che sembra una pioggerellina fine che ti trapassa i vestiti e ti
arriva nelle ossa, tutto tinto di grigio e umido, anche l'aula fatiscente in
cui facevo lezione. La voce della professoressa me la sento ancora nelle
orecchie, il suo italiano perfetto, la passione nelle sue parole.
'Fatti non foste per viver come bruti, ma per cercare virtute e canoscenza'
Sorrido, amaro. Niente virtù e niente conoscenza, per noi, forse. Ma certo
è che non ci fermeremo mai.
"Capitano, rotta 359. Kar, i propulsori?"
"Pieno regime disponibile."
"Capitano?"
"Andiamo."
A cercare la nostra vita. Ma siamo fortunati, noi. Almeno abbiamo capito
dove essa *non* può esserci. Guardo Nicolaj, sento la dolcezza riempirmi lo
sguardo, lui mi sorride e mi appoggia la mano su una guancia.
"Lo so, Adriano, lo so. Anch'io."
Sorride poi corre via. La Terra rimane ancora per alcuni secondi sullo
schermo principale della plancia di comando, ma i miei uomini sono già
assorbiti in tutt'altro. La guardo scomparire piano, in silenzio. Il più
bel pianeta dell'universo. E pensare che non l'avrei mai saputo se qualcuno
non me l'avesse strappato . .
_____FINE
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