Disclaimers: storia originale


Ho aperto gli occhi e non ti ho riconosciuto

di Mty

La luce dell’alba filtrava attraverso le travi sconnesse disegnando arabeschi sul viso, la terra scendeva a fili intermittenti sul corpo immobile, animaletti entravano ed uscivano dalla tomba strisciando sul ventre, la lapide del secolo scorso giaceva riversa a terra irrimediabilmente spezzata in molteplici pezzi, il giorno prima la scavatrice si era abbattuta sulla parte vecchia del cimitero cancellandone, forse, la sua parte più bella.
Angeli di marmo, madonne dalle braccia tese, puttini e cavalieri di un tempo remoto,  senza braccia, senza testa orribilmente mutilati, giacevano alla rinfusa in mucchi di pietra, non più utilizzabili, al lato del muro che recintava questa terra di morte.
L’amministrazione comunale aveva deciso di fare spazio e per far sì che ciò avvenisse con un colpo di spugna cancellava la memoria dei padri, di coloro che erano prima e non avrebbero potuto protestare a distanza di anni la terra in cui si era stabilito che riposassero.
Ma qualcuno qui non riposava più, svegliato dalle vibrazioni della pala meccanica e poi dalla luce che filtrava dopo tempo immemorabile, aveva aperto gli occhi.
Le mani tornavano a strofinare un viso ancora giovane e poi con lentezza si facevano strada verso l’uscita,
spostavano travi, smuovevano terra, afferravano il bordo della tomba e con un ultimo sforzo delle braccia tiravano su il corpo di colui che si era ridestato.
Un corpo che si scuoteva togliendosi la polvere dai vestiti di velluto, dai pizzi che fuoriuscivano dalla giacca  dai bottoni dorati, dalle maniche rifinite di raso, dai capelli lunghi raccolti in un codino dal nastro di seta nero come le onde che gli scendevano dalle spalle e dalle scarpe di vernice con la fibbia di madreperla. Sbatté le palpebre non più abituate alla luce e posò gli occhi, di un azzurro intenso, sulla sua lapide, a mala pena ne lesse il nome, Martin Spender, l’anno 1793-1825, e l’iscrizione “vive in eterno colui che crede e non dimentica d’esistere” lui incapace di ammettere in un entità superiore a quella che l’uomo  si riconosceva, aveva avuto come epitaffio le parole senza senso di un fanatico credente.
Ma poi cosa significava credere? E a chi, a che cosa?
Ed esistere, aveva forse in tutti questi anni dimenticato di farlo? O si era destato dopo un lungo sonno per esistere di nuovo?
Sorrise a questo scherzo, e si guardò intorno, tutto era in rovina, marmi frantumati, pietre divelte, alberi vecchi più di lui sradicati e abbattuti, roseti ancora in boccio strappati, camminò sui cumuli di macerie, sulle tombe della sua famiglia, dei suoi amici  e con una lieve pressione aprì il massiccio cancello d’entrata e si avviò verso l’esterno. 
Non sapeva perché era vivo, né cosa fosse successo per portarlo in vita, si tastò le braccia, il viso, il corpo, era tutto a posto, sentiva la pressione delle mani su di sé, sentì il dolore dello schiaffo che si diede per vedere se era un sogno, ma non era un sogno e lui era lì alle prime luci dell’alba in un tempo che non sapeva e in una città che non riconosceva più come sua.
La quiete del cimitero aveva lasciato il passo ai rumori di una città che si stava svegliando, macchine gli sfrecciavano vicino suonando il clacson, persone dagli strani abiti lo superavano spingendolo in modo sgarbato senza rivolgergli la parola, vide strani palazzi dai colori mostruosi e dalle forme cubiche, sentì rumori provenienti da delle specie di caffè come lamenti indecifrabili, e vide col passare del tempo giovani, milioni di giovani, maschi e femmine in un turbinio di colori, odori, umori, risate e decise di seguirne tre che parevano abbigliati più o meno come lui, ma dai capelli fosforescenti.
Quando i ragazzi si accorsero di essere pedinati lo invitarono ad accostarsi e proseguire con loro il cammino, andavano ad una festa in maschera di natura e tempo imprecisato, e decisero alla prima occhiata di portarlo con loro, fermandosi prima in un centro commerciale a comprare alcuni “beveraggi”.
Martin salì per la prima volta le scale mobili, si perse tra gli scaffali che mettevano in mostra tutto l’inutile possibile, si confuse tra gli schermi giganti che proiettavano via satellite programmi d’oltreoceano, vide in quegli scatoloni immagini di guerre, morti di aids, il lancio della navetta spaziale, cortei di protesta, uomini legati o che si davano fuoco, la nascita di un bambino, il crollo di un grattacielo, un matrimonio regale e un concerto rock.
Nel reparto computer i suoi nuovi amici lo fecero “navigare” , parlò con uno studente all’altro capo del mondo, scoprì l’anno in cui si trovava, e con sua grande sorpresa ricercò e trovò la storia della sua famiglia, c’era anche lui tra le migliaia di informazioni catalogato ed etichettato.
Quando aveva scoperto il reparto elettrodomestici, uscì trascinato di peso, dai tre  che si erano stufati di perdere tempo lì dentro, la festa aspettava.
“Ma tu dove vivi?” gli aveva apostrofato il biondino dal ciuffo verde tenendolo sotto braccio, e lui non aveva saputo dir niente se non cambiare discorso. Non poteva mica rivelare di essere uscito il mattino da una tomba senza saperne il motivo. Lo infastidiva andare a tentoni in questo strano mondo, era strabiliato per ogni cosa, ma ben presto fece il callo anche a quello che man mano andava scoprendo. Alla curiosità sopraggiunse la monotonia del nuovo lasciandolo indifferente anche quando entrarono in una enorme villa rischiarata a giorno da lampade intermittenti e da giochi di luce creati col laser.
Musica a tutto volume faceva vibrare i vetri delle finestre e la parete del torace costringendo il cuore a seguite il ritmo della batteria.
Ragazzi ballavano gli uni staccati dagli altri nonostante la calca, l’alcol in strani colori veniva versato in enormi bicchieri, gli diedero una sigaretta dall’aroma pesante che offuscava la vista e una pillola colorata insieme ad un sorso di una bevanda arcobaleno.
Dovette sedersi, gli parve che il suo corpo si staccasse da terra e cominciasse a volare per gli enormi saloni che avevano improvvisamente cambiato colore animando le pareti, si sentì addosso una carica vitale inesauribile e dopo poco si scoprì ancora seduto lì dove si era appoggiato attimi prima.
Vagò tra la calca di persone in fermento, salì sui piani superiori, percorse stanze incastrate l’una nell’altra scavalcò corpi, vestiti, e ancora corpi sino a trovarsi sul terrazzo. Lo spettacolo che lo attendeva lo lasciò senza fiato mai aveva visto una miriade di luci colorate come uno sciame di lucciole impazzite che si estendeva per miglia e miglia, mai aveva visto, alzando gli occhi al cielo, come la terra cercasse di imitare le stelle e come in quella data epoca si fosse avvicinata al firmamento riflettendolo come in uno specchio colorato.
Una lacrima scese sul suo candido viso andando a morire sul suo abito ancora di moda, nonostante il tempo, solo che a differenza degli strani accostamenti che aveva visto il suo era autentico, con un sorriso amaro si domandò chi mai gli avesse donato questa nuova opportunità e cosa effettivamente dovesse fare con essa.  La tecnologia si impara in fretta, non ne aveva dubbio, ma le persone che vedeva, i loro atteggiamenti, i loro gesti, il loro mondo sembrava costringerle entro schemi prefissati, entro gabbie isolate da un’individualità che difficilmente ne avrebbe accolta un’altra.
Ricordò i visi dei ragazzi alla festa, della gente per strada, dell’umore di indifferenza, sospetto, paura che vi si leggeva, ecco cosa non capiva, come non capiva quella specie di festa a cui stava partecipando, si scrollò di dosso questi pensieri con un movimento del capo e ripercorrendo a ritroso i saloni, le scale, l’ingresso, si ritrovò fuori all’aperto.
Avvolto dal nero della notte si incamminò, nessuno avrebbe scoperto la sua fuga, si chiese se nonostante tutte quelle mani strette nelle presentazioni qualcuno si fosse ricordato di lui, ma ne dubitava, lasciò dietro di sé quei giovani, e la loro musica che andava attenuandosi ad ogni passo.
Non li capiva perché non era del loro tempo, non aveva condiviso con loro il percorso che li aveva portati ad essere quello che erano, a reagire come loro facevano, a pensare, amare, parlare come loro,  gli mancava una parte importante della vita del mondo, anni cruciali pregni di scoperte e sofferenze, di angosce ed euforie e cosa più importante non aveva considerato che questa era la generazione della fine di un millennio e dell’ignoto che le si apriva davanti.
Si incamminò verso l’oscurità con una sorta di strano languore, vedere non era vivere e non gli sarebbe bastato passare il nuovo millennio davanti alla scatola parlante o ad Internet per riuscire a capire lo spirito che animava il giorno che avrebbe seguito una nuova alba che stava per sorgere.
Esistere: l’antica parola tornava ma lui aveva ancora voglia di essere su questa terra?
E poi ne valeva la pena?.










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