I personaggi sono di Kaori Yuki ecc ecc...gli spoiler sono parto della mia mente quindi niente paura...

...la bellezza del signor Rosiel non si offuscherà mai! (non centra niente...)

 


Non ti amavo

di Angh



Non ne posso più.

Non posso andare avanti così.

Ora tornerò di là, in quella stanza buia e afosa, e tu sarai ancora lì. Sono mesi che non te ne vai.

Non esci da quando Sara è morta. O dovrei dire Djibril?

Ma io ho bisogno d’aria. Fammi aprire le finestre. Lascia entrare il sole.

Sto annegando.

E tu, sdraiato fra le lenzuola umidicce e disfatte, ricche del tuo sperma e di polvere bianca.

Sono anni che non facciamo l’amore, mesi che non facciamo sesso. Non fai altro che masturbarti davanti ai miei occhi, speri che questo mi faccia venire voglia almeno di violentarti, ma non vali più niente come giocattolo.

Mi fai schifo.

Mi facevi schifo anche in quella stanza dove ci trovavamo sempre, tu, Cato ed io, a dire il vero, ma ero troppo coglione per accorgermene e tu, con quel faccino innocente, sorridente e triste, eri troppo bello.

Ti amavo? Non lo so. Anche se ti ho detto di sì tante volte, ora che ci penso non lo so più. Davvero.

Chiudo il rubinetto del lavello. Mi guardo allo specchio. Grosse gocce mi colano lungo il viso appena rasato, sottile, perfetto. Vorrei che fossero lacrime, ma è soltanto acqua e basta un colpo di spugna per cancellarle.

Se questo valesse per ogni cosa...

Torno infatti di là. Quando apro la porta di colpo, apposta per spaventarti, vengo colto da un rumore acerbo; ci sono dei sassolini sul pavimento che lo rigano, il bel pavimento di parquet che avevamo scelto insieme; stava così bene con le tende bianche mosse dal vento. Da quanto non mi permetti di pulirlo?

Da quanto non pulisci te stesso? Nella stanza c’è un umido puzzo insopportabile. Chiudo subito la porta alle mie spalle, non voglio che i miei giovani amanti sappiano cosa sta marcendo nella mia casa. Dirò loro che il cesso è rotto, come al solito, che ho già chiamato l’idraulico, e poi me li scoperò lì in cucina. È bella, la cucina, piena di sole e di arnesi eccitanti. L’ultima volta che ne ho usato uno su di te era un coltello. Te l’ho piantato nella mano...come quel film, ricordi? Quello dei due poeti froci come noi. Lo vedemmo insieme. Mi aveva ossessionato quel film. Forse è perché loro erano felici e si amavano, mentre io volevo solo farti del male. Ho sempre voluto farti del male, anche quando eri Alexiel.

Per questo ora ti afferro per un braccio e ti trascino giù dal letto, lungo il pavimento, fuori dalla stanza. Urli, ma è inutile. È domenica, e tutte le famiglie benpensanti che ci vivono attorno vanno al lago, la domenica, o al parco. Ci andavamo anche noi, una volta, prima che tu smettessi di uscire.

-Piantala. Nessuno può sentirti.

Dico; ti sollevo tra le braccia e ti sbatto nella vasca. Apro il rubinetto.

Tu devi pensare che voglia ucciderti, perché ti aggrappi al mio braccio, conficchi le unghie nella mia pelle. Ma non hai più modo di ferirmi, di entrare in me. Forse lo capisci, perché mi molli e ti abbandoni, la testa lurida sul bordo di laterizio lucente. Non voglio ucciderti, Setsuna. Non stavolta.

Ma per te è perfino più terribile ciò che ti faccio. Mi tolgo la camicia, quella a scacchi neri che mi ha regalato Belial il giorno che Lucifero l’ha finalmente presa, prima che Dio distruggesse l’Utero. Non voglio che tu rovini anche questa come tutto il resto.

E poi prendo la spugna e il sapone e ti lavo, ti faccio il bagno come ad un bambino capriccioso, perché è questo che sei. Dovevo sempre badare a te, anche a scuola.

 Piagnucoli, l’acqua bollente ti pizzica la pelle escoriata e il sapone si infila nella piaghe e soffri, lo so, versi tante lacrime che potrei riempirci un bicchiere.

Ma sei persino tranquillo, finché non ti passo l’acqua sulla testa.

Urli e piangi e cominci a dibatterti, a divincolarti, a fuggire. Respingi le mia mani, ti aggrappi ai miei jeans, cerchi di colpirmi e ancora urli. Sembri un gattino gettato in un fiume, non sei più nemmeno l’ombra del ragazzo che da solo sfidava inferno e paradiso, del ragazzo che gli angeli si fermavano a fissare, ardenti, riempiendomi di gelosia. Ti stringevi a me, allora. Ora mi fa schifo toccarti.

Perciò ti colpisco. Un bel cazzotto allo stomaco, senza nessuna fatica. Boccheggi, piagnucoli ancora. Ti colpisco di nuovo.

Non parli più.

Sembri una bambolina senza vita, ora, ironicamente uguale a Djibril, e posso finire con calma il mio lavoro.

I tuoi capelli sono terribili, appiccicaticci, pieni di forfora, il cuoio capelluto è una grumo di croste e ferite. Avrai anche le pulci, straccione di un umano? Nel dubbio ti insapono la testa e massaggio furiosamente, facendoti forse più male di quanto già non ne provi, e certo il detergente ti finisce negli occhi, eppure non fiati più, non emetti un lamento. Chissà cosa pensi, chiuso nel tuo oblio, di questo tuo senpai crudele e folle che ti costringe ad uscire dalla camera buia, stanandoti come fece Persèo con Medusa?

L’acqua smette si scorrere, le ultime sue righe scompaiono nelle fogne.

Ti faccio alzare in piedi, il corpo arrossato nella luce del meriggio, l’acqua che ti sgocciola lentamente dai capelli fino ai piedi.

I tuoi capelli...

Mi ero dimenticato che fossero sempre così come li vedo ora, lisci e morbidi, molto chiari, quasi biondi. E i tuoi occhi? Erano blu come l’acqua...li odiavi, ricordi? Sia tu che Sara li odiavate. Vi rendevano diversi dagli altri giapponesi.

Troppo belli.

Ma ora sono abbassati, coperti a metà dalle palpebre bianche. So che mi odi. Mi guarderesti fisso, altrimenti.

Tremi, e questo mi scuote dai miei pensieri. L’inverno di Hokkaido è spietato e freddo come Rosiel e sembra chiamarci dalla finestra aperta, lascivo. Prendo il grande asciugamano giallo ed inizio ad asciugarti. Il giallo rispecchia il tuo carattere, per questo li avevamo comprati. Questa doveva essere la nostra casa e la nostra anima.

Tu sussulti quando la stoffa ti strofina le ferite, ma ancora non dici niente.

E invece vorrei tanto che parlassi...

Ho finito. Ti faccio uscire dalla vasca, ti vesto. Ti metto l’uniforme della scuola, l’unico vestito maschile che ti è rimasto.

Non so se servirà.

Raphael ha detto che ora vivi in un mondo tuo, dove nessuno può raggiungerti.

Ma non per questo puoi stare qui per sempre. Sei diventato soltanto un peso, un fastidio e la tua presenza mi mette in pericolo. “Nanatsusaya, il traditore, l’amante del salvatore!”

Ma io non sono tua madre, hai capito? Non voglio prendermi cura di te. Io voglio vivere la mia vita.

Esco dal bagno, asciugandomi le mani e il volto con un asciugamano a fiori gialli che getto poi in terra.

Vado in salotto. Accendo la tv.

Alzo il volume al massimo.

Non voglio sentirti.

Ora tornerai in camera a marcire come prima e sarà stato tutto inutile.

Seguo lo stupido programma, mi sbuccio una mela, apro diverse lattine di birra, tutto per dimenticare la cosa più importante, per dimenticare il rancore che provo ne tuoi confronti per avermi rovinato l’esistenza. Avresti dovuto dirmi che prendevi delle droghe come Cato, avresti dovuto dirmi che eri infelice. Così ti avrei piantato nell’Etemnameki e non sarei stato coinvolto. Non ti avrei fatto la folle proposta di vivere insieme sulla tua adorata Assiah.

Alzo il volume. Non importa. Non me ne frega più niente, ormai. Ho già chiamato il Consiglio Supremo. Raphael aveva detto che non c’erano le condizioni per internarti tra gli altri angeli pazzi, ma quando me lo sono scopato davanti alla porta della tua stanza fetida ha cambiato idea. Verranno a prenderti domani. Non so perché ci ho provato ancora. Forse volevo darti l’ultima possibilità.

Ma ora non ha più importanza.

Passo una giornata oziosa. Non mi è mai piaciuta la televisione, cazzoni che parlano ad altri cazzoni per renderli ancora più cazzoni. Gli umani ci cascano sempre.

Ma qualsiasi cosa, ora, per non alzarmi dal divano e venire a vedere ancora la tua decadenza. Non mi fai nemmeno pena, kohai, perché hai fatto tutto da solo. Hai perso la testa per una ragazzina umana

Forse un tempo ti amavo, ma ora mi fai schifo.

Finalmente è scesa la notte.

Mi spoglio, come faccio sempre per andare a dormire, e mi dirigo verso il bagno per lavarmi i denti prima di coricarmi.

Passo davanti alla tua camera senza guardare, senza pensare. Sento di nuovo un forte odore. Che hai fatto, hai pisciato a letto?

Sapevo che non sarebbe servito.

Mi fai schifo, accidenti.

Entro in bagno, assonnato. Mi chino sul lavandino e mi lavo i denti con un dentifricio sbiancante, due volte, e passo il filo interdentale tra gli interstizi. Allungo la mano per prendere l’asciugamano e tocco il vuoto. Ah, già, l’ho usato su di te.

Mi volto.

Ed è allora che ti vedo.

Sei steso nella vasca, gli occhi chiusi, la divisa ancora addosso.

Il polso squarciato.

Barcollo per un istante, capendo che cos’era la puzza che sentivo e che ti ho accusato ingiustamente di esserti pisciato addosso.

Ti sei solo ammazzato.

Faccio un rapido calcolo: da quante ore sei qui dentro? Il sangue è davvero tanto, incrostato sui vestiti e sulla vasca brillante. Probabilmente hai preso in mano il mio rasoio poco dopo che me ne sono uscito. È buffo. Tu non prendi mai le cose degli altri. Soltanto che non hai nessun rasoio perché non hai mai avuto la barba. Sei troppo giovane.

Sospiro. Dovrò chiamare quel figlio di puttana e disdire l’internamento.

Mi asciugo la bocca sul dorso della mano, faccio per uscire. Se non ti faccio portare via presto, puzzerai.

Chiamo l’ospedale annunciando un cadavere. Se la prenderanno comoda.

Metto giù il telefono, non ho altri da avvertire della tua morte.

A nessun vivo importa di te.

Forse l’hai capito. Forse è per questo che l’hai fatto. Quel maniaco sessuale mi aveva detto che sarebbe potuto succedere, che gli umani spesso lo fanno.

Sto per uscire dal bagno, quando un particolare mi colpisce come una stella. La mano integra stringe ancora qualcosa, un asciugamano. È quello a fiori che ho usato poco fa, lo stringi come un reliquia.

Stupido sentimentale. Cos’hai pensato negli ultimi momenti, quando la vista del sangue ti ha addormentato? Tu hai pensato...a me?

Esco definitivamente, chiudendomi alle spalle la porta della dannata casa. Non ho nemmeno preso le chiavi ma non importa. Fuori la gente cammina, e io cammino fra di loro.

Ho bisogno...d’aria.

C’è un dito di neve sporca su ogni cosa, anche sui ciliegi che si preparano ad esplodere in marzo, anche sul cielo, steso sul mondo come un lenzuolo funebre, un sudario.

Rido. È quasi come se fosse il tuo sudario.

Impegnato a fissare il cielo, non mi accorgo di una persona che mi sbatte addosso.

È un bel ragazzo che fa jogging e, mentre si scusa, mi sorride. So che l’ha fatto apposta. È una tecnica che ho usato anch’io.

Scambio qualche parola con lui, cortesemente, facendo risplendere il mio sorriso di spada divina. Scopro che si chiama Tatsu e che vive qui vicino con due amici.

-E tu? Vivi con qualcuno? –sorride, ammiccando in modo molto chiaro. Ricambio lo sguardo.

-Vivevo con qualcuno, ma è morto.

Tatsu sorride malizioso, capendo di aver centrato una possibile compagnia per la notte. Ma poi, forse vergognandosi della sfacciataggine, improvvisa uno sguardo da cagnolino triste.

-Mi dispiace.

-Non fa nulla. –scuoto le spalle, con una buffa espressione che lo fa ridere. Ha denti bianchissimi. –Non lo amavo.

Già, non ti amavo. Ora mi è chiaro.

Anche tu lo sapevi, non è vero? Ecco perché.

Cammino un po’ con il ragazzo, che mi parla della sua passione per le pratiche sadomaso.

-Allora andremo d’accordo.. –rido, ricevendo in cambio uno sguardo focoso. Vorrei baciarlo, ma ci sono troppo bambini a guardarci. Non voglio portarlo dove sei morto. Decidiamo di andare in un motel.

È quasi giorno, fra qualche ora verranno a prenderti. Mentre Tatsu mi prende l’uccello in bocca io lo insulto, rendendogli il tutto più eccitante. È quasi divertente, in fondo, perché questi insulti sono per te.

Mentre gli vengo in bocca, il moretto geme. –Ancora, ancora.. –non fa che ansimare.

Sorrido e mi appresto a riprendere la parte del padrone crudele.

Ma non mi esce la voce. Ho ancora davanti agli occhi quello straccio a fiori stretto dalla tua mano.

Io non ti amavo, l’ho già detto. Non mi importava niente di te. Sapevo che un giorno l’avresti fatto, lo speravo, così ora sono finalmente libero dal peso assurdo che era la tua presenza.

Non m’importa, Setsuna, non me ne frega niente di te.

E allora perché fa così male?

 

Senpai è il compagno (di scuola) più vecchio, kohai quello più giovane...quindi Setsuna Mudo è il kohai di Sakuya Kira, mentre Kira è il senpai di Mudo...ma sono sicura che le sapete già queste cose!! ^ ^


 


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