Noi Due

 

parte I

 

di Jivri'l

 


Il bambino cercò a fatica di trattenere le lacrime, si soffiò fortemente il naso sentendo un forte groppo alla gola. Una mano piccola e allo stesso tempo più grande della sua, si posò sulla sua testa e cercò goffamente di carezzarlo, allora alzò lo sguardo sull’altro bambino dai capelli corvini che lo guardava tristemente. Sapeva di avere un’aria patetica, tuttavia non poté far a meno di lasciar cadere le prime lacrime.
“ Ma cosa hai da frignare?!” esclamò il bambino cercando di parere impassibile. L’altro, dai capelli biondi,lo abbracciò forte, anche il più grande lo abbracciò, poi improvvisamente si staccò da lui e cominciò a correre. Dopo alcuni passi si fermò e lo salutò con la mano, si rigirò e scomparse all’orizzonte.

Gabriel spense con gesto meccanico la sveglia. Sospirò piano posandosi una mano sulla fronte. Non capiva cosa fosse stato quel sogno e come mai sentisse una forte pressione sul petto. Si sentiva quasi a disagio, era come se avesse perso qualcosa di molto importante tanto tempo prima o che avesse dimenticato qualcosa che assolutamente non avrebbe dovuto dimenticare. Chi erano quei bambini? E perché erano cosi tristi nonostante la loro giovanissima età?
Si alzò dal letto, tuttavia un qualche sentimento oscuro lo opprimeva ancora.
Scese al pianterreno. Adorava i mattini d’estate inoltrata, quando il sole era appena sorto e sulla pelle si poteva sentire ancora la freschezza notturna. Andò in cucina dove salutò la cuoca e prese un biscotto, mordendolo uscì fuori dove c’era la piscina. Si sedette su uno sdraio e aspettò qualche secondo. Dalle acque chiare emerse una testa bionda che si avvicinò al bordo a nuoto, poi, vedendolo sorrise dolcemente.
“ Buongiorno caro” lo salutò gentilmente, lui si alzò e le mise un asciugamano sulle spalle, dopo le diede un bacio sulla guancia.
“ Buongiorno mamma” ricambiò il sorriso. La donna lo prese per mano e lo portò nell’ampio salone bianco e dorato immerso nella luce mattutina. Una tavola rotonda imbandita di tutte le squisitezza li stava aspettando per la colazione. Si sedettero, la donna cominciò a bere una tazza di caffè e si accese una sigaretta lunga e sottile. Gabriel, invece, si portò alla bocca una fetta di pane con della marmellata. La osservò. Nonostante avesse quaranta anni, sua madre era una donna stupenda, era snella e aggraziata, aveva i capelli biondi e lunghi fino al fondoschiena, una carnagione bianchissima, quasi pareva malata e poi era la creatura più dolce che avesse mai conosciuto. A volte non capiva come mai si fosse innamorata di quel barbaro del padre, uomo duro, severo, moro, tutto il contrario di lei. Invece lui aveva preso tutto dalla madre, i capelli mossi biondi, la snellezza del corpo, era persino aggraziato, però la sua pelle era perlata, non bianco cadaverico come lei, ma aveva gli occhi blu scuro del padre anche se il naso all’insù e le labbra perfette erano quelle della madre. La donna sorrise improvvisamente.
“ A cosa pensi tesoro?” domandò con voce angelica.
“ Nulla di importante, piuttosto dimmi: papà dov’è andato?” chiese versandosi del latte in un bicchiere.
“ E’ a Hong Kong, sai… i suoi soliti viaggi di lavoro” rispose lei quasi annoiata.
“ Già, e quando torna?” continuò lui.
“ Fra due settimane, penso, perché?”.
“ Cosi” disse alzando le spalle. Quindi non lo avrebbe visto prima di tornare a scuola, lo scocciava un po’ tutto questo. Era vero che era un uomo rude, ma era sempre stato giusto con lui e, anche se non glielo aveva quasi mai dato a vedere, sapeva che gli voleva bene.
“ Lo so che ti fa arrabbiare, ma sai che papà sta facendo tutto questo per noi, perché ci vuole bene” cercò di confortarlo.
“ Si, non ti preoccupare. Tra poco devo preparare le cose per la scuola”.
“ Si… quando inizia?”.
“ Fra una settimana, ma fra due giorni tornerò, cosi potrò comprare i libri e ciò che mi serve e avrò anche tempo per ripassare tutte le materie in tranquillità” disse, allora lei cominciò a ridere.
“ Oh caro! Ma qui non c’è nessuno che ti possa disturbare!” lo informò spegnendo la sigaretta e continuando a ridere sommessamente, lui arrossì leggermente.
“ Mamma! Non prendermi in giro! Comunque hai ragione, però qui non riesco a concentrarmi” confessò lui serio, Miriam lo guardò con attenzione.
“ Quindi… una ragazza?” chiese con voce maliziosa.
“ Eh?”.
“ C’è di mezzo una ragazza?” formulò nuovamente la domanda.
“ No” rispose lui arrossendo di nuovo, quando sua madre cominciava a parlare di quei argomenti lo metteva sempre in imbarazzo.
“ Ma non hai nessuna ragazza? Davvero?” fece lei sinceramente sorpresa.
“ No, mamma” rispose lui paziente.
“ Ma come? Sei cosi bello!” esclamò quasi scandalizzata.
“ Ho preso da te”.
“ Ovvio. Ma proprio nessuna?” insistette lei non credendo che il figlio non avesse una fidanzata, allora lui si alzò.
“ Non ho mai avuto una ragazza, mamma, per ora non mi serve una fidanzata; tu sei l’unica donna della mia vita e cosi sarà sempre!” dichiarò posandole un bacio sulla fronte, la donna rise piano.
“ Allora un uomo?” azzardò, lui la fulminò con lo sguardo, quindi risero insieme.
“ Mamma!” la rimproverò con tono scherzoso, dopo se ne andò nella sua stanza.
Passando lungo un corridoio si fermò davanti ad uno specchio e guardò la sua immagine riflessa. Bello, era bello, però a lui davvero non era mai importato avere una ragazza, era sempre stato troppo impegnato a studiare e a fare sport per compiacere suo padre per potersi permettere certe dilezioni. Un uomo. Era ancora rosso in volto. Perché sua madre era cosi scema?! Pertanto per lei sarebbe andato bene pure un uomo? Gabriel improvvisamente sorrise, quella donna era davvero strana. Con la coda dell’occhio vide il cortile laterale, pieno di alberi da frutta, e qualcosa dentro di lui si mosse; un ricordo. Era bambino. C’erano altre voci di bambini, un maschio e una femmina, forse. Una casa di legno fatta solo per loro. Un sentimento di gelosia. Si portò una mano alla testa, cosa stava cercando di ricordare?
Non capiva, ma ogni volta che tornava a casa per le vacanze, si faceva prendere da strani sentimenti di angoscia e di ricordi o qualcosa che assomigliava a quest’ultimi dal momento che non sapeva neanche se erano dei ricordi veri, che lui aveva vissuto, oppure delle illusioni.
Decise di andarsene il più presto da casa; andò in camera sua e preparò l’occorrente per iniziare un nuovo anno scolastico.

 

Il grande edificio di marmo si stagliava alto contro il cielo plumbeo, come se fosse un’unica grande colonna che voleva andare oltre i limiti umani, e, del resto, quella scuola rappresentava proprio ciò: continuo sforzo e perseveranza per giungere oltre i traguardi della gente normale; non bastava essere colti e forti, ma bisognava aspirare a cose superiori, si doveva essere geni e invincibili, si doveva diventare perfetti.
“Mens sana in corpora sana”.
Era questo il motto del Frejus, collegio militare per giovani gentiluomini; studiare e combattere, essere intelligenti e difendersi, amare e odiare, rispettare gli amici e piegare i nemici: diventare un leader.
Gabriel si passò una mano fra i capelli che recentemente aveva tinto di castano osservando una delle grandi finestre della scuola. Quel giorno era venerdì, il che equivaleva a dover scegliere fra seguire le lezioni per un giorno intero oppure andare in palestra e combattere. Non voleva fare nessuna delle due cose.
Studiare lo annoiava e ormai sapeva gli argomenti che stavano trattando quasi a memoria, per quanto gli aveva ripetuti, ma, dall'altra parte, non voleva allenarsi in quanto, poi, la sera sarebbe tornato con un mucchio di lividi, inferti dall’amico Hegyron, un ragazzo maggiore di un anno e anche più muscoloso che in quella scuola era uno dei più temuti, ma anche dei più ambiti.
Sbuffò; giacché erano amici poteva benissimo evitare d’essere tanto duro con lui! Non che fosse debole, ma semplicemente non era al suo livello.
Un colpo secco sulla spalla lo fece voltare e incontrò i denti bianchissimi di Hegyron che gli sorrideva con aria maliziosa.
“Lupus in fabula” commentò il ragazzo dandogli nuovamente le spalle e incamminandosi verso la scuola.
“Si? Stavi pensando a me? Ne sono commosso” ribatté l’altro seguendolo.
“Che vuoi?” tagliò corto Gabriel continuando a camminare.
“Ehi! Che hai? Sembri di malumore!” notò trattenendolo per un braccio.
“Lo sono, infatti”.
“E perché?”.
“Perché non mi va di andare a lezione, né di allenarmi: mi faresti diventare tutto un dolore, come succede sempre” parlò sinceramente mettendo il broncio, invece Hegyron si accigliò.
“Davvero?”.
“Si”.
Lo sguardo di Hegyron divenne cupo e gli lasciò andare il braccio girandosi verso la palestra che si trovava nell’ala destra della costruzione della scuola.
“Perciò, in pratica, mi stai dicendo che ti rendo la scuola un incubo” concluse a bassa voce.
“Ma no! Solo che tu sei troppo forte… e ti sfoghi con me” sbottò cercando un contatto con l’amico, sapeva, infatti, di averlo offeso dicendogli quelle parole, ma lui non gli lasciò fare e si scostò.
“Potevi dirmelo prima, no? Ti saresti potuto cercare un compagno… meno forte!” sibilò allontanandosi velocemente.
“Hegyron!” lo richiamò allora Gabriel, ma quello non si voltò “Hegyron! Fermati!” lo supplicò andandogli dietro e, quando lo raggiunse, gli tirò la tuta blu che usavano durante i combattimenti. “Gabriel! Falla finita! Lasciami solo” gli ordinò liberandosi dalla mano dell’amico stupefatto da quel suo tono.
Quando si fu allontanato abbastanza, si portò una mano sul petto, aveva il fiatone. Perché si era arrabbiato? Era vero che negli incontri corpo a corpo usava tutta la forza senza riserve, ma aveva sempre pensato che Gabriel non ne soffrisse, almeno cosi gli avrebbe dimostrato che non si tratteneva e, quindi, non lo stava sottovalutando.
Si passò una mano fra i capelli chiari entrando in palestra. Più tardi gli avrebbe chiesto scusa per il proprio comportamento irascibile.

Gabriel bevve il caffè con un’unica sorsata; fuori, nonostante fosse solo il tardo pomeriggio, era già buio, sia a causa della stagione autunnale sia per la tempesta che stava per abbattersi sulla metropoli. Alla fine non era andato a nessuna lezione e sapeva benissimo che il preside non avrebbe tollerato un simile comportamento, poiché non aveva chiesto alcun permesso per esentarsi da scuola.
Sospirò abbattuto. Era stanco e non aveva la concentrazione giusta per affrontare la scuola. Da quando era tornato da casa, quasi due mesi prima, non faceva che provare strane sensazioni di oppressione, come se un sentimento volesse emergere, oppure un ricordo. Non capiva, infatti, come mai sognava sempre tre bambini. Uno dei tre era lui, ne era certo, ma poi c’erano due gemelli, un bambino che lo abbandonava sempre e una bambina che guardandolo piangeva, poi la scena cambiava e giocavano tutti e tre in un giardino primaverile. Sempre, prima del risveglio, vedeva un’ombra alle spalle dei due gemelli e poi più nulla, la sua coscienza prendeva la supremazia.
Stette ancora un po’ lì e poi uscì fuori, sentiva il bisogno di camminare. La città era affollata di gente frettolosa, che cercava di andare a casa, finire le ultime spese della giornata, trovare un rifugio per l’imminente bufera.
Una goccia fredda cadde dal cielo nero sul suo viso, ma cercò di non farci caso e cominciò a passeggiare in un parco deserto; il freddo cominciava a entrargli nei vestiti, ad arrivargli sulla pelle, farlo rabbrividire. Si strinse nel capotto nero. Doveva tornare a casa; no, a casa no, per quella notte sarebbe tornato al dormitorio della scuola, cosi poteva scusarsi con Hegyron.
Finalmente cominciò a piovere, perciò accelerò il passo e infine si mise a correre, ma lo squillo del telefono lo fece rallentare.
“Idiota! Dove cacchio sei? Mister Orso è incazzato nero con te! Ha assicurato che se non ti presenterai entro le otto da lui in ufficio chiamerà tuo padre” la voce di Hegyron era dura e agitata, Gabriel allontanò un po’ il cellulare altrimenti gli avrebbe spaccato il timpano.
“Sai chi se ne frega…” commentò sottovoce.
“Gabriel non fare il bambino e torna al dormitorio” gli chiese abbassando la voce.
“Certo che torno, dove vuoi che vada, imbecille?”.
Hegyron sorrise piano. Avevano fatto pace.
“Va bene, allora sbrigati” gli raccomandò e riattaccò.
Gabriel, invece, volle rimettere il cellulare nella tasca del cappotto, ma un colpo forte lo fece volare a mezz’aria per poi atterrare sull’asfalto. Sentì un dolore atroce al fianco sinistro e vari doloretti dovuti alla caduta. Volle rialzare la testa, ma perse coscienza, mentre gocce fredde di pioggia gli tagliavano la pelle.
 
continua...