NOTE: E’ il ‘seguito’ di STELLA DEL NORD, che potete trovare sia sul sito dell’Ysal che sul mio http://www.dhely.altervista.org. I pg non mi appartengono, ma sono della Marvel (e sono pure un po’ OOC.. ma, veramente, non è che uno possa scriverli davvero IN character visto che pure loro ne cambiano le caratteristiche una volta ogni due mesi.. per non parlare del colore dei *capelli*, cosa che dovrebbe più semplice da tenere a mente, penso!! Sig.)
NOTE2: Wanda Maximoff è la sorella gemella di Pietro. Erich Magnus Lensherr, alias Magneto, è loro padre, il quale è stato ‘intimo amico’ del Professore Charles Xavier negli anni appena successivi la fine della Seconda Guerra Mondiale e la creazione dello Stato d’Israele. Haifa è in Israele, sì, e di questo momento di grande amicizia, qui descritto, si parla chiaramente negli albi: magari io ho solo ‘travisato’ un po’ in chiave yaoizzante ma nulla di troppo inesistente!
NOTE3: il ‘lato medico’ della faccenda è di mia invenzione, non andate in giro a somministrare cianuro a destra e a sinistra a vedere che cosa succede, please! Anche perché in questa fic si lavora con un metabolismo tutto confuso (e pure un po’ idiota) come quello di Pietro, chissà le mutazioni che prendereste voi a cosa potrebbero portare! Meglio non fare esperimenti..
NOTE3: il mio francese è sottozero. Qualunque strafalcione, cosa incomprensibile o che, è tutto dovuto alla mia ignoranza e non a un qualsivoglia errore di battitura o cosa. Se ne sapete più di me, fatevi pure sentire, sono più che felice di correggere ciò che non va (ok, lo so che c’è mezza frase, ma meglio avvisare no?!)
parte XVII di Dhely Perché certe cose capitavano solo e *sempre* in piena notte? Perché, dannazione, non potevano succedere a mezzogiorno? O almeno dalle dieci e mezza del mattino in poi?
Sembrava una cosa ridicola, forse Bobby avrebbe dovuto ridere di se stesso, ma non ce la fece. Era stanco..e non ne poteva più. Davvero: era come se fosse esaurito, non sapeva dove avrebbe trovato la forza ancora per tenere gli occhi aperti, per respirare, per stare in piedi.. eppure era lì, e non avrebbe davvero potuto essere altrove.
Sentiva, alle sue spalle, la voce morbida di Remy trattenere, col tono e le parole, un Logan furioso, un ringhio incastrato in gola e troppe emozioni a ronzargli nelle orecchie per percepire davvero il suono del suo stesso fiato. E, di fronte, il corridoio piccolo e bianco che faceva da anticamera all’ambulatorio medico: il Professor Xavier. E JP.
JP seduto lì, su una di quelle sedie scomodissime e brutte, che pareva fissare il nulla di fronte a se’ con un’angoscia senza fine, come se in quello sguardo potesse far nascere una forza che non aveva, per stare ancora lì, disperatamente, tra loro.
Bobby non sentì cosa disse il Professore, ma udì benissimo il sussurro di JP.
“Lui non voleva. – e, dio!, era davvero un sussurro appena soffocato, e faceva paura uscito da quelle labbra, e spaventavano quegli occhi d’argento, perduti e opachi e tristi e.. – Ma io ho avuto paura.”
Paura.
JP era quello che .. che aveva avuto il coraggio di lasciare perdere tutto e correre dietro a Pietro, quando tutto era iniziato, ben consapevole che un unico rifiuto, da una persona simile, solitamente non poteva far sperare molto di più che un freddissimo saluto in caso di incontro fortuito. Nonostante JP sapesse che Pietro stava.. era.. senza speranza, aveva deciso di stare con lui, per condividere quel peso, aiutarlo a sopportare l’angoscia e la paura.
JP era quello che, nonostante il dramma personale che stava vivendo, appena ricevuto il messaggio dell’esplosione, era corso alla Scuola, e li aveva aiutati: ricordava come aveva parlato ai ragazzi, come li aveva tenuti insieme, come aveva dato loro fiducia e speranza, quando forse, lui, dentro, non ne possedeva neppure un briciolo.
JP, aveva imparato a conoscerlo, e poteva possedere dentro di sé tante cose, che i più non immaginavano neppure, ma la paura non era per lui. Assolutamente.
Bobby non ci avrebbe mai creduto, se non gliel’avesse vista scritta dentro, ora. Se non l’avesse sentito disperato, davvero annientato, e quell’unica frase: ‘ho avuto paura’ a spiegare tutto.
Da un lato Bobby avrebbe voluto sapere, sederglisi al fianco e chiedergli tutto, per sciogliere i dubbi, per rendere il cuore più leggero semplicemente parlando, tendergli le mano e mostrarsi maturo e forte, una persona di cui fidarsi e con cui confidarsi. Dall’altro non riusciva a pensare ad altro oltre che JP aveva *paura*.
E la paura era una cosa bruttissima: tagliava il fiato nei polmoni, i muscoli nelle gambe, atrofizzava la volontà, annientava il desiderio, lasciava inermi e imbelli, deboli, lì, immobili, pronti a stare a fissare un muro bianco senza fine, per giorni e giorni, come se quell’azione fosse l’unica per la quale si possedesse abbastanza forza. Come se nulla avesse più senso.. pensò, Bobby, a quello che avrebbe provato, lui, a perdere la persona che amava davvero. E si scoprì a tremare e a ringraziare il cielo di non poterlo fare: non riusciva ad immaginarlo, era un abisso troppo ampio di desolazione e solitudine, era tutto troppo difficile, inspiegabile, pesante, doloroso e infinite altre cose, per le quali lui non possedeva le parole.
Forse il Professore sì, in fondo lui era sempre stato quello che li consolava anche nei momenti peggiori: era stato vicino a tutti loro, e *ognuno* di loro aveva passato il proprio periodo *nero*. Ed erano stati tutti difficilissimi, al punto che il mondo, ogni volta sembrava a un passo dall’infrangersi senza possibilità di rimettersi in piedi.
Ma ora.. ora sembrava *davvero* che il mondo di JP fosse già defunto, e che non rimanesse altro che.. ma no.
Bobby non voleva crederlo.
Non poteva.
E se fosse accaduto proprio quello che temeva di più l’avrebbe sopportato, e affrontato, come sempre aveva fatto, ma non prima. No: prima non avrebbe lasciato che la speranza deponesse le armi, che le lacrime scorressero prima del rintocco a morto delle campane. Non avrebbe lasciato a JP un dolore che rischiava di farlo soffocare.
Sedette, come credeva non sarebbe riuscito, al suo fianco, e gli prese le mani nelle mani, fissandolo negli occhi. Vi lesse molte cose, troppo, ma non disse nulla, se non il suo nome. Fu come chiamarlo indietro da un luogo così profondo in cui si era rinchiuso che pareva impossibile: ma, in qualche modo JP lo riconobbe, il suo sguardo si mise a fuoco, tenuemente, su di lui, le sue labbra tremarono un qualcosa, in francese, che Bobby non comprese e che, forse, non aveva alcuna importanza che lo facesse o meno.
“Hai fatto bene. – si stupì di sentirsi sicuro e calmo, tranquillo – Qui è al sicuro, sai? Adesso andrà tutto bene, c’è Hank ad occuparsi di lui, e il Professore, e tutta la tecnologia Shi’Ar e ogni altra cosa esistente nell’universo. E ci sei tu: niente può andare male. Niente.”
JP chiuse gli occhi, posandovi sopra le dita intrecciate, con un movimento dolce e insieme terribilmente estenuante nella sua opaca mancanza di futuro. Rifiutarsi di guardare era negare la possibilità di vedere, di osservare un futuro che veniva avanti, che..
“Mon Dieu, Robert, je ne pas..”
Qualcos’altro, ancora, d’indefinito e indefinibile. Solo dolore che trovava forma in alcune parole di una lingua che non era la sua. Quando Bobby osò sollevare lo sguardo da lui per osservare il professore e cercare in lui una sorta di conforto, vi trovò solo una grigia, cinerea disperazione muta.
C’era solo il silenzio, ora: anche Logan si era quietato, non diceva più nulla, il diverbio con Remy era terminato in un sibilo seccato e in uno sguardo: come se attraverso gli occhi, ora, potesse passare ogni cosa, potesse essere trasmesso ogni pensiero, ogni sentimento. Proprio ora che JP aveva gli occhi chiusi, nascosti dalle mani posate sulla fronte, ed essa china, verso il basso, come se fosse ripiegato sul suo stesso dolore, come se non volesse mostrare a nessuno il cuore di tale sofferenza.
Silenzio.
Logan si appoggiò al muro poco lontano da loro, Remy si sedette anche lui accanto a JP. Il Professore si allontanò in silenzio. E la porta scorrevole dell’ambulatorio scivolò sulle rotaie senza infrangere il silenzio ghiacciato che s’era costruito fra di loro. ___
Minuti sgocciolati via in silenzio e un paio di guanti.
Jean Paul non ricordava chi glieli avesse dati, o se e dove li avesse trovati.. un paio di guanti, quelli di Pietro. Morbidi tra le mani, dei gusci vuoti. Li guardava, pezzi di stoffa, e in essi vi vedeva di tutto: un passato così breve che faticava a vederlo scorrere, un presente immobile, soffocato di paura e dolore, e un futuro che non esisteva proprio. Né per lui, né per loro.
Loro.
Era mai esistito un ‘loro’? C’era mai stata la possibilità di dire ‘insieme’ senza sembrare stupidi? O senza mentirsi?
Jean Paul sapeva quel che provava, dentro. Quel sentirsi vuoto, freddo, inutile, spaventato, lo sapeva.. ma non sapeva come chiamarlo. Quello era soffrire? Quello era il vero dolore? Quello che non lasciava scampo, quello che annientava alla radice ogni minima possibilità di vivere, di esistere, ed era come avere l’anima coperta da un palmo di ghiaccio, sotto il quale nulla potesse vivere, o resistere, ma solo conservarsi, senza sparire mai, senza mutamento: una condanna perenne a un perenne dolore conficcato giù, in fondo. Un sonno eterno dal quale non svegliarsi mai.
Nulla: non esisteva nulla, ora, dentro di sé. Nulla, se non il fissare, immobile, in silenzio, un paio di guanti. Vuoti.
Non si era mai sentito così solo, mai. Con la fronte di Robert appoggiata ad una spalla, Remy seduto al suo fianco, e Logan appena un po’ più in là, senza che nessuno di loro avesse neppure osato pensare ad un’accusa velata, a una domanda inopportuna, a un’espressione infastidita o altro: solo vicinanza. Eppure, nonostante questo, Jean Paul non si era *mai* sentito così *profondamente* solo.
Dei guanti.
Lui.
Il freddo.
E dei ricordi. Alcuni. Strani. Rari.
Uno sguardo che era condivisione, minuti di quiete assoluta riempiti solo della vicinanza di.. no, non di un altro *corpo* perché di essi, addosso, ne aveva sempre avuti tanti, a volte più di quanti avesse davvero desiderato, ma di un.. una persona?
Pietro.
Pietro e i suoi occhi, la sua pelle, il suo tocco e quel sorriso strano, quasi timido, appena trattenuto a un passo dal rossore. Le sue parole stranamente lente, pacate, quelle dense e preziose degli ultimi giorni. Discorsi leggeri, inconsistenti quasi, come quando, come per caso, gli aveva chiesto quali fossero i suoi fiori preferiti. Alla sua risposta, ‘rose’, Pietro non aveva avanzato obiezioni su quanto fosse scontata e banale come scelta, ma aveva perduto il proprio sguardo dietro a ricordi lontani, pareva, e gli aveva narrato d’aver visto, una volta sola, in Francia, una vallata intera piena di lavanda in fiore. Gli aveva giurato di non aver mai visto nulla di così.. bello, pulito, ampio, luminoso, e a volte, ancora lo sognava e i colori, pure nella notte, erano tanto intensi, le sensazioni così vivide che spesso faticava ad accorgersi che stava, appunto, sognando, che non era reale, che non era *là*.
Tutto quello, ora, era così struggente da far sanguinare il cuore. E, poi, il cuore *faceva* male a pensare a tutto il tempo perduto, a quello smarrito dietro a corpi vuoti, a sensazioni inconsistenti, tutto il tempo passato senza di lui, senza conoscerne nulla, senza sapere nulla dei suoi occhi così freddi che, davvero come ghiaccio purissimo, a volte si crepavano, lasciando passare in quella scheggia di cristallo mille riverberi meravigliosi e rari tanto quanto unici. Senza sapere del suo sussurrare le parole tra i denti, come se fossero troppo preziose da lasciar rotolare via, timido dei desideri del suo cuore così come a volte era spaventato dai suoi stessi sogni. E poi: i suoi occhi che sapevano sciogliere i propri strali ghiacciati in carezze roventi e le sue labbra che si piegavano, dolci, e che sapevano ridere.
Ora: tutto perduto, tutto svanito. Senza di lui nulla di ciò sarebbe stato più reale e forse sarebbe arrivato un giorno in cui si sarebbe domandato se non si fosse immaginato tutto, perché una persona come Pietro, come *quel* Pietro che aveva scoperto esistere sotto strati e strati di ghiaccio e amara indifferenza e ghiacciato timore, non poteva esistere davvero, e non avrebbe *mai* potuto lasciarlo andare, e..
Ma tutto era vero, era scavato a fuoco dentro di lui, e lo sapeva, lo sentiva. Chissà, se fosse stato ancora in grado di piangere, se le lacrime avrebbero potuto anestetizzare in parte quel dolore, quella voragine che sentiva dentro, all’altezza del cuore. Lacrime erano acqua salata, sarebbero state dolorose, ma avrebbero pulito la ferita, magari avrebbero permesso che si cicatrizzasse prima. Forse.
Ora non aveva nulla del genere. Solo dei guanti, e un ricordo che non sapeva se mai gli saprebbe bastato per..
Un movimento che, se fosse stato un suono, sarebbe stato l’allegro vociare di una serata estiva. Rosso, sensuale, impositivo ed elegante.
Jean Paul fu costretto a sollevare gli occhi e riconobbe nel nuovo arrivato, la sorella di Pietro.
Wanda Maximoff.
Sua sorella *gemella*: eppure quei due non avevano nulla in comune, né i colori, né le movenze, né l’essenza fisica. Pietro non aveva nulla della morbida, voluttuosa sensualità di Wanda, un po’ torrida, di certo luminosa, e Wanda non mostrava un singolo accenno del terribile, vibrante nervosismo del fratello, sottile ed elegante e freddo, che sapeva di superiorità e di distacco fin dal primo sguardo.
Eppure loro erano legati: Jean Paul si sentì come se qualcuno lo avesse colpito allo stomaco, con forza.
Lo sapeva: Pietro, anche se aveva scelto.. altrimenti, anche se avrebbe davvero *preferito* andarsene in pace, da solo, senza nessuno attorno, egli aveva una famiglia. Aveva dei legami. Aveva una sorella, una moglie, una figlia, e poi un genero, o quasi due, e poi un padre, forse una sorellastra e .. e decine di altre persone che con lui potevano vantare un .. un legame ‘reale’. Un legame pesante, di fronte agli occhi di tutti, agli occhi del mondo intero.
Jean Paul in tutto quello non centrava nulla: forse non aveva neppure il diritto della sofferenza, forse. Non era certo gli rimanesse la possibilità di conservare un suo ricordo nel proprio cuore: per la prima volta nella sua vita fu sfiorato da una paura simile: lui era solo.. era stato ‘l’amico gay’ di un momento della sua vita difficile e doloroso. Troppo spesso, in questi casi, le famiglie lasciavano semplicemente fuori gli elementi indesiderabili. Quante storie simili aveva sentito? Davvero lui, per Pietro, avrebbe dovuto continuare ad essere nulla, anche se Pietro fosse stato nulla più che una lapide in un cimitero? Davvero sarebbe stato una bestemmia se lui avesse pianto la sua lontananza, e avesse chiamato il suo nome nei momenti di massimo dolore?
Ma, davvero, lui non era *nulla* per Pietro?
C’era sua sorella, e la sua famiglia, pure suo padre: loro sì, loro erano, dovevano essere *con* lui. Era loro il dolore, e qualunque altra cosa. A lui che rimaneva? Lui che *meritava*? Lui non era forse come un’amante segreta e giovane, da pagare e cancellare dai ricordi di chiunque prima di seppellire il cadavere?
E il suo amore, poi? Che ne avrebbero fatto del suo amore? L’avrebbero fatto a pezzi? Annientato, calpestato, negato..
Tutto quello, e mille altre cose gli solcarono la mente, mentre la paura, nuovamente, venne a bloccargli il fiato, i pensieri. No! Almeno il dolore, almeno la possibilità, in silenzio, di sussurrare il suo nome, di conservare il suo ricordo nel cuore, come una reliquia, come..
Lo sguardo di Wanda lo inchiodò lì, ed in esso riconobbe il legame fra i due fratelli: forte, visibile, indistruttibile.
Occhi negli occhi, sì. Lei preoccupata, sì.
Ma sorrideva. In maniera differente da Pietro, ma *sorrideva*.
A *lui*.
Gli si avvicinò, quasi in bilico tra il dolore troppo grande e qualcos’altro, una specie di stupore, una sorta di.. sentimento indecifrabile.
“Tu sei Northstar? – sussurrò appena, facendosi avanti – Jean Paul Beaubet? – un nuova pausa ad attendere il cenno affermativo che giunse, lento, e a riprendere in parte, un po’ di fiato – Pietro mi ha parlato molto di te.” ___
La stanza era grande e bianca, troppo luminosa perché non sentisse gli occhi bruciargli, come se fossero feriti dalla luce troppo cruda, che mostrava ogni ruga, ogni crepa, che avrebbe potuto mostrare imperfezioni anche dove non ce n’erano. Hank Mc Coy studiava schemi, grafici, lavorava intorno ad un corpo immobile, che forse era già morto, che forse..
Niente di quello aveva un senso. Le sue lacrime, il suo dolore, il suo disperarsi.
Tutto quello era iniziato talmente tanto tempo prima che forse, ora, quasi correva il rischio di non ricordarselo più: una notte ad Haifa, uguale a mille altre notti in Palestina. Il torrido caldo del deserto che lascia spazio al freddo che solo, appunto, il deserto, può creare, e che in nesusn’altro posto può esistere: due amici che parlano, discutono. Dei massimi sistemi, di ‘giusto’ o ‘sbagliato’, di metodi, etica, applicazione di principi morali ad un normale vivere, a come far realizzare i propri desideri senza doverli piegare alla contingenza, a come creare un mondo nuovo, magari non perfetto, ma *migliore*.
Era tutto così normale, allora. Anche lui e quello che sarebbe divenuto il peggior terrorista mutante, Magneto, seduti ad un bar a chiacchierare. Ma erano entrambi giovani, così giovani che non sembrava possibile non avere speranze, che sembrava incredibile immaginarsi gravati dal tempo e dal cinismo di chi ha visto troppo, di chi troppo ha lottato e voluto e desiderato e che, alla fine, s’è sempre trovato con, in mano, meno della metà di quello che aveva ritenuto il minimo indispensabile.
Era iniziato lì: discussioni, due sogni contrapposti, due idee che non potevano collimare, semplicemente. E poi era proseguita nel voler rendere concrete queste idee, nel voler plasmare un mondo a immagine dei propri pensieri, o almeno provarci. Da lì: gli X Men, la Confraternita, le battaglie, gli attentati, le morti e tutto quanto ormai faceva *storia*.
Anche Pietro era ‘nato’ là, in un qualche modo, come tutti loro: un figlio già orfano prima di essere concepito, un figlio rifiutato, allontanato, perché qualcuno che voleva essere pietoso, aveva deciso che fosse meglio così. Altri genitori, per Pietro, gente che lo amava per quello che era, un uomo e una donna semplici che chissà cosa gli avevano insegnato. A ridere, e a cantare. Eppure Erich, suo padre, ci aveva messo così poco, quando l’aveva trovato, a strappargli tutto quello di dosso, e a farlo diventare quel ragazzo, quasi uomo, amaro e triste, terribile e freddo, lontano.
Spaventato?
Charles era un telepate, ed era semplice, per lui, sapere che Pietro *sapeva* ridere e cantare, ma non l’aveva mai visto fare ne’ l’uno né l’altro. Suo padre? La vita? I sogni che avevano sognato insieme, in quelle notti del deserto?
Pietro era nato là, fra le loro parole. Meglio: là era morto il ragazzo che avrebbe potuto essere, per diventare un.. un qualcuno di utile, qualcuno che potesse essere utilizzato, che potesse essere convinto, un adepto di una particolare corrente di pensiero.
Sì, lui ed Erich avevano metodi differenti, ma non era diverso quello che *facevano*: crescevano ragazzini nell’accettazione di una fede. Il resto erano solo particolari, il resto era niente. Il resto era.. lasciare che i loro figli morissero perché il loro sogno vivesse, era mostrare magari pietà e lacrime, ma non permettere altro.
Aveva ragione Erich: era semplice essere il *buon* Charles Xavier che lotta per l’armonia, perché così facendo si notavano meno i peccati di cui ci si macchiava.
Pietro: era colpa anche sua. Come era *colpa* sua di ogni singolo folle esaltato che li vedeva come una minaccia fino al punto di voler mettere una bomba in una scuola di ragazzini.
Perché in fondo era il sogno che faceva paura, ma il sogno non si poteva uccidere. Solo le persone in carne ed ossa sanguinano, ed osano morire, le idee no. Sempre lì, perfette, meravigliose, a cui sacrificare tutto, suadenti e meravigliose.
Pietro era un sacrificio a quell’altare di follia che *lui e suo padre* avevano costruito. Insieme.
Era un ‘mea culpa’, quello? Non sarebbe servito, anzi: sarebbe stato stupido e inutile. Sarebbe stato rinnegare ciò che non poteva esserlo.
Pietro: l’aveva sempre considerato suo *nipote*. Anche se non c’erano legami di sangue a giustificare un simile legame: il legame era lui e suo padre, e Pietro lo sapeva, e lo accettava.
Accettare. Era una cosa che, nonostante quello che mostrava di sé, Pietro sapeva fare bene. Aveva *imparato* a fare benissimo. Charles lo guardava spesso, e si domandava quello che avrebbe potuto essere senza tutta quella follia a plasmarlo, violentarlo, sconvolgergli il cuore e l’anima: non aveva mai trovato una risposta.
Forse non c’era.
O forse c’era, e lui ne aveva paura.
Paura.
Pietro sapeva anche vivere nella paura. Sapeva non sentirsi all’altezza, sapeva l’amarezza, la delusione che si dipingeva nello sguardo delle persone che si fissavano su di lui, perché somigliava troppo a Magneto, o troppo poco, a seconda di quello che volevano trovare in lui. Pietro era stato un simbolo, un’icona per così tanti anni che, forse, aveva perduto se stesso troppo in profondità sotto le aspettative altrui.
Pietro era il suo peccato reale. Quello che poteva vedere e toccare, e *sapeva* che ogni dolore inflitto a lui era colpa sua. Di lui e suo padre che parlavano, riempiendo le notti di Haifa di parole e parole, leggere come il fiato ma pesanti, nell’anima, e gravide di infinite conseguenze.
“E’ mio nipote. – sussurrò. Incontrò gli occhi aguzzi di Hank e proseguì, dolente, il cuore pesante, così doloroso in petto che ogni battito era un singhiozzo non pronunciato – Ti prego.”
“Ho sempre fatto tutto quello che potevo, con lui e con chiunque altro, Charles, lo sai, ma tu non ..”
Non lo lasciò finire, perché non aveva bisogno del suo conforto.
“La mia è.. una preghiera. Non è indirizzata a te, Hank, di te ho sempre avuto piena fiducia, ma.. – un respiro – Sono morti in tanti, in troppi. Troppo sangue, troppo dolore, troppo..”
Un cenno del capo.
“A volte non si può tornare indietro, Charles.”
“No. – un lieve silenzio, e poi – E’ mio nipote. Lo amo forse più di quanto abbia mai amato chiunque altro, e già questo lo so mi fa essere uno stupido ingrato per le persone meravigliose che ho incontrato, e che hanno condiviso con me un cammino. Ma Pietro è.. speciale, per me, in un modo unico. Io vorrei.. sono disposto a fare tutto per..”
“Non puoi fare nulla.”
“Lo so.”
“E non ti giudico un ingrato, Charles, anche se credevo che considerassi Scotto un po’ tuo figlio e..”
“Sì, è vero. Ma, e dio mi perdoni, non amo nessuno come Pietro. Se Scott è come se fosse mio figlio, su di lui, come ogni genitore ho puntato speranze e aspettative, desideri e miraggi. Pietro, al contrario, è mio nipote. Non potrà mai illudermi, non potrà mai ingannarmi.. dentro, intendo. E’.. differente. – uno sguardo sbieco, quasi timido. – Mi considererai pazzo a fare un discorso simile in un momento così.. delicato.”
“Stupefacente, direi.”
Il tono di Hank, ora, era venata di qualcosa di diverso, inaspettato, al punto che Charles dovette fissarlo direttamente negli occhi per cercare di capire cosa si aspettasse da lui.
“Il mio discorso?”
“La sua reazione.”
“Al mio discorso?!”
“No. – un sorriso. Un *sorriso* che sembrava quasi una bestemmia, mentre la mano di Hank si aprì mostrando una sottilissima fiala di vetro. Vuota. – Al cianuro. Aveva ragione lui.”
Charles lo guardò a lungo con una terribile espressione, vuota e profonda.
Cianuro?
Un veleno così potente e letale che.. eutanasia?
Hank?!
Ansia e dolore, paura e mille altre cose gli aggrovigliarono lo stomaco.
“Lo hai.. lo hai *ucciso*?”
Il sorriso divenne più ampio, insostenibile davvero.
“Il cianuro è una neurotossina. Quello strano intruglio lo aveva colpito a livello neuronale. Una fiala di cianuro è stato come.. un elettroshok. Ha liberato il suo sistema nervoso dall’eccesso di tossine in una maniera che non avrei mai creduto pos-“
“E’ *vivo*?!”
“Stupefacente, vero? E io che non volevo dargli il permesso..”
___ CONTINUA..
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