NOTE: E’ il ‘seguito’ di STELLA DEL NORD, che potete trovare sia sul sito dell’Ysal che sul mio http://www.dhely.altervista.org. I pg non mi appartengono, ma sono della Marvel (e sono pure un po’ OOC.. ma, veramente, non è che uno possa scriverli davvero IN character visto che pure loro ne cambiano le caratteristiche una volta ogni due mesi.. per non parlare del colore dei *capelli*, cosa che dovrebbe più semplice da tenere a mente, penso!! Sig.)
NOTE2: Yeno è una mia invenzione.. nel senso: non mi ricordo (sì, capita anche a me! Dev’essere la vecchiaia che avanza!) come diavolo si chiamasse pg e non mi pare che, in 25 anni di fumetti –ormai quasi 30!!!- gli siano stati dedicati più di una decina di vignette, per cui gli ho dato un nome che pareva a me, e.. bhè, posso quasi dire che è un pg mio, no?! Poi: la gatta di Charles. E’ frutto di uno dei tremila miliardi di universi alternativi di questa serie: in uno di questi il Professor X mostra una punta di estrema intelligenza e possiede una micia. Non chiedetemi come si chiama che quando l’ho letto ho avuto uno shock, per cui, se si necessiterà di dare un nome a questa povera creatura, il nome sarà anche esso *mio*.
parte V di Dhely I ragazzi si erano lamentati rumorosamente non appena erano stati avvisati di prepararsi per il compito, e continuavano a lamentarsi da mezza giornata intera. Lo avrebbero fatto molto di più quando avessero avuto i risultati.
Jean Paul li sentiva nel corridoio chiacchierare preoccupati, sfogliando i libri e aggrottando le fronti, lanciandogli leggere maledizioni. Li vedeva, bastava si avvicinasse abbastanza alla vetrata che occupava quasi un’intera parete dello studio del Professor Xavier.
Si trovò a sorridere anche se non riusciva a capire come ci riusciva. Forse era solo una questione di nervi.
“Cosa dovevi chiedermi sul rapporto, Xavier?”
Il Professore si mosse lievemente, nervoso. I suoi occhi scivolarono sulla figura che vedeva in controluce, e si chiese perché doveva essere così dannatamente difficile, perché i suoi ragazzi, la maggior parte dei suoi amici e, in breve, le persone di cui si fidava, dovessero avere *tutti* un carattere così indomito e ombroso. Tanto per rendere ogni cosa più complicata.
“Volevo chiederti come stavi.”
Un sospiro sibilato, che sapeva di seccato.
“Bene, non te l’ha detto Mc Coy?!”
“Hank mi ha detto molte cose.”
Silenzio. Jean Paul si voltò verso di lui così impassibile da fare rabbia, quasi. Solo quasi.
Charles poteva solo immaginare quanto potesse essere stata stressante la missione da cui Jean Paul era appena tornato, e temeva che, forse, il peggio non lo conoscesse ancora.
Ma sarebbe stato giusto, a quel punto, dirgli qualcosa? Charles non lo sapeva, lo aveva chiamato lì proprio per cercare di capire cosa fosse meglio fare, e dire.
Si strinse le mani, leggermente, in grembo e tentò di sorridere: era decisamente più vecchio di quei due ‘ragazzi’ e non aveva bisogno di alcun potere mutante o meno per *sapere* che era successo qualcosa. Di che cosa si trattasse temeva proprio di non averne idea, ma aveva visto lo sguardo di Pietro, e raramente aveva letto cose simili nei suoi occhi. E *sapeva* che centrava Jean Paul.
Cosa fosse successo, ripetendosi bene il concetto come se dovesse convincersene, non lo sapeva e non lo voleva sapere, per lo meno fino a che avrebbe potuto smettere di preoccuparsi della salute di Pietro.
Guardò Jean Paul avanzare lento e sensuale, per appoggiarsi alla scrivania, un pallido sorriso sibilante sulle labbra. I suoi capelli scuri, illuminati da quella assurda ciocca bianca che gli ricadeva, disciplinata sulla fronte erano una peculiarità incredibile, una delle prime cose che colpivano di lui, soprattutto per come i colori stridevano a contrasto con la sua pelle, chiara ma non pallidissima, e con gli occhi, specchi argentati profondi e infrangibili insieme, espressivi come pochi e al contempo, sempre pungenti e luminosi. Dava l’idea di un inguaribile cinico, di uno che non credesse in nulla, facendosi beffe di ogni cosa, della vita e della morte, quel suo sorriso caustico sempre tirato sulle labbra ben disegnate e quell’espressione che gli piegava le sopraciglia, sempre sarcastica e terribile. Molti si sarebbero innamorati follemente di lui solo per questa sua posa, e non solo per la sua innegabile bellezza.
Ma Charles aveva imparato che, molto spesso, certe pose erano solo modi di proteggersi, perché Jean Paul era sì cinico e corrosivo, pungente e intelligente, terribile e sarcastico, e poteva anche essere *peggio* di così, ma era un uomo di buon cuore, non era un mentitore, non rubava sentimenti, spacciando i propri per oro, non vendeva fumo, la maggior parte delle volte era se stesso, sincero, e indifferente a cosa gli altri avrebbero potuto pensare di lui. Era un uomo coraggioso: era ovvio che Pietro si fosse sentito.. bhè, ‘qualcosa’, nei suoi confronti.
“E cosa avrebbe mai potuto dirti di così scabroso da dovermi preoccupare?”
“Se non hai fatto nulla di male non dovresti preoccuparti. – un piccolo sorriso in risposta – Ma proprio perché Hank mi ha detto molte cose, e nessuna preoccupante, mi chiedevo come stessi. Non fisicamente. Mi sembri molto provato.”
Jean Paul arcuò appena un sopraciglio. Dove Charles volesse andare a parare non riusciva proprio a capirlo ma si sentiva pure poco portato, in quel momento, sia ad aver pazienza sia a tentare di sondare l’animo altrui quando facevano i misteriosi in quel modo.
“Solo perché ho assegnato un compito a sorpresa?”
Charles scosse il capo, sorridendo appena: sarebbe stato un ottimo tentativo di allentare la pressione, di alleggerire la tensione, se non avesse utilizzato quel tono secco e arrogante. Tipicamente da Jean Paul.
“Anche.”
“Questa non è una scuola, è un covo di pettegoli. Come fai a saperlo *già*?”
“Lo sai che io sono un telepate: avrei potuto saperlo *prima* che tu stesso fossi stato consapevole di volerlo fare davvero.”
“E allora perché mi domandi qualcosa, visto che puoi leggere tutto ciò che vuoi dentro di me?”
Sembrava davvero stanco, ora, c’era un’ombra scura che schermava quegli occhi grigio argento come due medaglie d’argento brunito. E anche se era la solita frase, la solita accusa che gli muoveva da quando era arrivato alla scuola, ora avevo perso mordente, o forse rabbia, o forse.. forse convinzione, in quel che diceva.
“Potrei dirti che, almeno, così è più divertente: e tu mi crederesti, temo. – un respiro e uno sguardo attento – Semplicemente, come già ti dissi, ho il brutto vizio di avere fiducia nella mia squadra.”
Sembrava averlo colpito. Jean Paul tese la schiena, socchiudendo appena le labbra in un’espressione incredibile. Era *davvero* attraente, forse, soprattutto, perché era assolutamente spontanea. Una delle poche espressioni che si mostravano non costruite su quel viso.
Charles si concesse il pensiero che, se non fosse stato abituato a scrutare e a cercare disperatamente una qualche espressione ‘scappata’ al controllo di ghiaccio di Pietro, destinata a svanire ancora prima di abbozzarsi completamente, probabilmente quello gli sarebbe sfuggito.
A quel pensiero qualcosa gli punse il cuore.
Pietro.
No, non poteva dirglielo.
Per rispetto verso Pietro, appunto. E anche, in qualche modo, per una sorta di strano, forse incomprensibile rispetto nei confronti di Jean Paul. Forse, se gliel’avesse spiegato, il ragazzo di fronte a lui non avrebbe compreso, forse stava facendo qualcosa di sbagliato, forse avrebbe dovuto comportarsi altrimenti. Forse.
Sospirò. Da sempre aveva cercato di fare ciò che era giusto fare, come ci si aspettava da lui, ma ora non riusciva ad intuire quale avrebbe dovuto essere la migliore condotta da tenere. Il cuore era confuso e spaventato, la testa divisa e titubante: non avrebbe mai potuto dare un consiglio in una situazione simile. Mai.
“Fiducia, Xavier. – sorrise amaro, amarissimo. – Non mi sembra un’enorme manifestazione di fiducia il tuo insistere. Non ho nulla, sto bene, e non è necessario che tu continui a domandarmi cose che non posso dirti perché non le so.”
Jean Paul si passò una mano fra i capelli scuri, tirandosi indietro le ciocche bianche che gli cadevano sugli occhi ma non aggiunse nulla di caustico o aggressivo. Doveva essere davvero stanco.
Charles annuì in silenzio. ___
Pietro prese un lungo respiro.
Anche lì era tutto bianco, come se ci fosse neve ovunque, ma l’odore era quello acre di qualunque infermeria. Quella era solo una delle tante piccolezze che lo esasperavano.
Si concesse un sorriso appena mascherato.
Esisteva qualcosa nella sua vita per la quale avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per sopravvivere? Strinse i pugni: no.
Sua moglie, la sua ex, sarebbe sopravvissuta senza troppi problemi. Sua sorella pure. Sua figlia: ecco, lei era più difficile da lasciare. Ma per quanto un figlio potesse soffrire alla morte del proprio genitore, solitamente si sopravviveva. Dopo tutto era l’andamento naturale delle cose.
E lui era.. si premette gli occhi con i palmi delle mani.
Lui era stanco, e riusciva appena ad ammetterlo a se stesso. Era stanco di lottare, di negarsi ogni cosa, era stanco di farsi negare quel poco che si permetteva. Era stanco di stare lì, e dover vivere perennemente in competizione con un’immagine, una figura che non riusciva scalzare dalla sua mente, dagli occhi di coloro che lo guardavano.
Era stanco di essere condannato ad un confronto perenne e mai frontale con quello che qualcosa, un esame genetico e poco altro, diceva che era suo padre. Contro la sua sicurezza granitica, contro la sua folle testardaggine, contro la sua forza, il suo essere quello che era, contro le passioni che sapeva suscitare, in un senso o in un altro. Se Magneto non fosse stato il trascinatore che era, se non fosse nato per essere sempre al centro dell’attenzione di chiunque avesse avuto in sorte di incrociare la sua strada, forse sarebbe stato più semplice.
Forse sì, forse sarebbe bastato così poco perché lui non sentisse quel peso, addosso, perché non gli sembrasse di combattere assurdamente contro i mulini a vento. Sarebbe bastato che lui non fosse suo padre.
E poi, bastava essere il possessore di un determinato codice genetico per definirsi ‘padre’? Pietro avrebbe sempre detto di no, perché lui suo padre se lo ricordava, e non era quel pazzo fondamentalista che faceva tremare tutto il mondo. Essere padre era affetto, vicinanza, era essere un punto di riferimento, era essere presente anche nella lontananza, era protezione.. protezione.
Magneto non l’aveva mai protetto, la sola idea era ridicola. In più, non l’aveva mai fatto sentire al sicuro, importante.. qualcosa, qualsiasi cosa. Non l’aveva mai fatto sentire che un impiccio, un inutile, inetto ingombro. Forse aveva ragione lui, di questo Pietro non avrebbe mai potuto esserne certo. Però adesso era stanco.
Suo padre era troppo.
Non ce l’aveva mai fatta a sentirsi a suo agio di fronte a lui, e anche ora, pure solo nella sua mente, non riusciva a sostenere il confronto con lui. Non avrebbe mai potuto. E, peggio di tutto, non riusciva a sottrarsi a quell’accostamento assurdo.
Già, perché lo *sapeva* che era assurdo, perché lui non era suo padre, che loro due erano due persone distinte e certe pretese erano inutili. Eppure non era mai riuscito a sfuggire a quelle insensate e dolorose circonvoluzioni del suo orgoglio e della sua mente che continuavano, sempre, in ogni istante, in ogni azione che compiva, ad obbligarlo a cercare in esse una specie di segno.. un qualcosa che, ovviamente, non c’era.
Era stanco di lottare. Era stanco di stare immobile, lì, di fronte a quell’immagine granitica scavata a fuoco dentro la sua anima, l’immagine di ‘quello che avrebbe dovuto essere’ e che ovviamente, non era visto che essa era un’immagine viva, che continuava ad essere, sempre, un passo avanti a lui. E non perché Pietro idealizzasse un’idea ma proprio perché quello era un uomo, e quell’uomo era sempre troppo in là. Perché, qualunque cosa facesse, per quante volte ci provasse, con quanta forza lo desiderasse, suo padre era, suo malgrado, un punto di riferimento che non avrebbe mai *potuto* raggiungere.
Vivere in simbiosi con lui, annullarsi in lui, nei suoi desideri, nei suoi obiettivi era stato semplicemente troppo.. pesante oltre che annichilente. Perché sì, c’era stato un periodo in cui si sarebbe fatto ‘annichilire’ volentieri, era stato orgoglioso di essere nulla, e di essere completamente disciolto nei suoi voleri.
Era stato facile: compiere azioni senza esserne responsabile, fare qualunque cosa come ad occhi chiusi e impegnarsi per farlo al meglio possibile ma senza che nulla del genere potesse importargli davvero. Bianco o nero: non aveva alcun valore, allora. Importava solo la parola di suo padre, i suoi ordini. Era per *quella* forza demoniaca che, ancora dopo anni, ancora dopo sconfitte, stragi, dolori, immani distruzioni, c’era sempre, e ancora, qualcuno che sollevava lo sguardo su di lui e cadeva nella sua malia. Pietro lo sapeva, ricordava bene cosa si provava nell’essere ubriacati da quel senso di.. importanza. Era sentirsi utili, fondamentali, era percepire fra le mani il destino del mondo, il suo futuro e, insieme, niente pesi sulla coscienza, nessun rimorso, come se l’ultima cosa di cui tutti loro potessero essere imputabili era quello di aver creduto in Magneto. Piegare la fronte di fronte a lui la prima volta cancellava automaticamente ogni peccato che avrebbero compiuto in nome suo, proprio perché, essendo *in nome suo* le colpe erano tutte ed esclusivamente *sue*. Era questo che rendeva Magneto davvero pericoloso, questo legame mostruoso, avvolgente, impossibile in cui avviluppava i suoi sottoposti, quella sorta di orgoglio fanatico che li faceva sentire immuni da qualunque giudizio morale, che li rendeva superiori, unici, quella forza folle con cui *davvero* Magneto portava i loro peccati, consapevole di farlo, incurante di tutto che esulasse dai suoi propri obiettivi.
Pietro ricordava i suoi occhi che lo guardavano ma non lo vedevano, lo trapassavano come se fosse stato d’aria, se non quando doveva rimproverarlo, umiliarlo, farlo a pezzi. Se non quando doveva fare a brandelli ogni briciolo di rispetto rimastogli, di dignità residua, sbriciolando tutto quello che possedeva con una sola parola, toccando la sua anima con un semplice sguardo e rendendola vuota, piatta, sabbiosa. Sterile.
Per anni l’aveva ucciso, lentamente, giorno dopo giorno, con perfetta indifferenza o meravigliosa crudeltà, e Pietro era stato felice di quello perché.. perché allora, sapendo già di non poter essere come lui, l’unica possibilità che gli era rimasta era stata quella di *essere* lui. Lasciarsi assorbire da lui, divenire strumento, giocattolo, oggetto vuoto.
Vuoto.
Non s’era mai sentito così vuoto come allora. Probabilmente non avrebbe mai potuto *essere* davvero più vuoto di così. Per quello se n’era andato: perché non riusciva più ad essere nulla, perché non riusciva, lui, a sopportare il disprezzo di suo padre. Perché voleva essere *qualcuno*, perché aveva bisogno di cercare d’essere sé stesso.
E ora, che erano passati anni da allora, dopo aver, forse, guardato dentro di sé e aver visto davvero cos’era.. ora era stanco di scappare da una vita che voleva si potesse definire davvero sua ma sulla quale non riusciva ad esercitare, troppo spesso, alcun controllo. Forse era stanco di scappare a se stesso.
Riposare un po’ non sarebbe stato affatto male. Forse anche riposare per sempre. Ormai sapeva che non sarebbe mai riuscito a correre abbastanza in fretta da lasciarsi alle spalle tutto quello, né per afferrare quello che voleva davvero. No, non era abbastanza veloce.
La pura e semplice verità: lui non era abbastanza *rapido*. E allora, forse, era meglio ammettere la sconfitta e farsi da parte. Lasciare andare il mondo, permettere ad esso di correre senza di lui. E forse quella cosa che gli era capitata, quel qualcosa, qualunque cosa fosse, che gli avevano *fatto* era una specie di aiuto. Era una scusa. Forse, se non si fosse sentito così sconfitto e stanco, non avrebbe avuto la forza di .. fermarsi, e decidere che *fermo*, ora, era come voleva stare.
Si ricordava la neve della sua infanzia: una infinita distesa candida che gli si svelava di fronte agli occhi. E si ricordava bene quello che, fino alla sua adolescenza aveva creduto essere suo padre, Yeno, che gli indicava fuori della finestra e lo metteva in guardia perché la neve era tanto bella quanto pericolosa, che poteva prosciugarti di tutte le forze, annientandoti dolcemente, strappandoti fuori i pensieri, i sogni, pure i ricordi, per farti addormentare.
Perché Northstar l’aveva portato via da quel posto in cui aveva davvero corso il rischio di addormentarsi e non svegliarsi più? Se fosse accaduto là sarebbe stato più semplice. Più semplice chiudere gli occhi, magari senza neppure accorgersene. Più semplice e senza alcuna responsabilità.
Suo padre avrebbe detto che era tipico da lui, preferire una soluzione simile. Da vigliacco.
Forse..
La porta si socchiuse appena sotto una spinta leggera, un tocco appena accennato. Pietro osservò curioso l’ingresso nella stanza del.. della gatta di Xavier che lo guardò con attenzione, con quei suoi occhi gialli, a lungo, e poi miagolò, allegra, muovendosi sinuosa nella sua direzione. Si strusciò ronfando contro le sue gambe per poi saltargli in grembo, sommergendolo con le sue fusa.
Pietro la grattò leggermente dietro le orecchie, sorridendo. Amava quell’animale, e ogni volta che aveva potuto l’aveva sempre viziata. Probabilmente era per quello che si ricordava di lui.
Protezione.
Aveva sempre avuto *bisogno* di proteggere qualcuno. O almeno di illudersi di stare facendolo, che qualcuno avesse bisogno di lui. Era un sentimento che lui ricordava appena, debolmente confuso, un’immagine nebbiosa del suo passato che si confondeva e si muoveva sul confine labile che divide i ricordi lontani con i sogni: e Pietro non sapeva se fosse davvero reale o no, però era una bella sensazione. Ed era un’idea che scaldava il cuore quella che anche lui sapesse suscitare una emozione simile. Che potesse far sentire bene qualcuno.
Bene, come si ricordava di essere stato accanto Yeno, quando aveva .. quattro anni? o cinque?.. e Yeno teneva la sua piccola mano nella sua, enorme a paragone, e la scaldava, e gli indicava la neve fuori, o il profilo dei monti e scandiva i nomi delle cime, o quando lo abbracciava dopo aver fatto un incubo e lo teneva stretto finché non smetteva di piangere.
Era bello: un bel ricordo e una bella sensazione a cui poter essere associato, almeno qualche volta.
E se non aveva altro da proteggere, a volte andava bene pure un gatto.
Il suo sorriso gentile e dolce si torse, trasudando una strana amarezza. Alla fine, dopo anni, non aveva mai smesso di.. di vivere specchiandosi in quello che suscitava nelle persone che gli stavano intorno. Nonostante tutta la sua fatica, il suo imporsi di non mostrare nulla, di non permettersi una vera vicinanza con coloro che lo circondavano, rimaneva sempre lì a fissare, cercando nello sguardo altrui un gesto che giudicasse, e che quindi rendesse reale quello che faceva. Come se da solo non potesse vivere.
Non era mai cresciuto, l’ansia che portava dentro quando sollevava gli occhi sul volto di qualcuno era simile, molto simile, a quella che aveva provato quando attendeva la condanna da parte di suo padre. Era ancora inchiodato là. Dopo tutto il suo correre. Dopo tutto il suo affannarsi. Dopo tutto quello che aveva fatto, e aveva sofferto, dopo.. era ancora là. E, semplicemente, non poteva più sopportare di vedere in chiunque un’accusa silente, un continuo, infinito rimando a ciò che era stato. Non era riuscito a .. a *fare* nulla.
Era dunque un inetto, come gli diceva suo padre?
E poi, da quando suo padre si era mai *sbagliato* a giudicare una persona?
Come una crepa profonda che si facesse largo nel suo animo, spaccandolo in due, l’amarezza gli morse il cuore, avvolgendolo con forza, in spire che tagliavano il fiato nei polmoni. Non esisteva, per lui, una sola, singola possibilità di salvezza.
Non era mai esistita.
___ CONTINUA..
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