NOTE: E’ ilseguito’ di STELLA DEL NORD, che potete trovare sia sul sito dell’Ysal che sul mio http://www.dhely.altervista.org.

 I pg non mi appartengono, ma sono della Marvel (e sono pure un po’ OOC.. ma, veramente, non è che uno possa scriverli davvero IN character visto che pure loro ne cambiano le caratteristiche una volta ogni due mesi.. per non parlare del colore dei  *capelli*, cosa che dovrebbe più semplice da tenere a mente, penso!! Sig.)

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Neve e ghiaccio

parte III

di Dhely


Attese.

 

Un attimo sussurrato appena tra i denti, magari uno sguardo scivolato rapido da sotto le palpebre socchiuse, dato e subito rinnegato. Silenzi forgiati di un imbarazzo pallido o forse anche rabbia. Offese immeritate e il suo ritrarsi. Lampi in quegli occhi che aveva visto nudi, senza veli, ma ora, ancora così, seppur pieni di così tante emozioni da non saper descrivere, che non avrebbe saputo immaginare.

 

Jean Paul si era detto di non aspettarsi nulla. Forse si era aspettato troppo, e se ne accorse, come sempre in questi casi, troppo tardi.

 

Aveva avuto attese, timori, speranze. S’era aspettato tutto, ma non era stato pronto.. al nulla.

 

No, non che Pietro, come in uno squallido teleromanzo di terza classe avesse perso la memoria, s’era dimenticato di tutto o quant’altro. No: Pietro sapeva bene cos’era successo, lo sapeva, lo ricordava, ma la cosa non sembrava fare alcuna differenza.

 

La sua pretesa era lì, forte, granitica di fronte al suo sguardo: supporre che non fosse successo nulla, almeno nulla di essere degno di essere detto, né, tantomeno, di essere *ricordato*.

 

Jean Paul avrebbe preferito udirlo quel discorso che, sentiva, si stava svolgendo muto dentro la mente di Pietro. Avrebbe voluto che le sue labbra formulassero il concetto che:è stato un attimo di debolezza’ o qualunque altra cosa stesse davvero pensando. Sarebbe stato poco, ma qualcosa.. un qualcosa che avrebbe potuto sopportare, che per assurdo avrebbe potuto farsi bastare. Una specie di segreto tra loro, che sarebbe sempre rimasto loro, da condividere mai con nessuno, la consapevolezza di quel qualcosa, ora, da condividere.

 

Sì, quello sarebbe stato un bellissimo silenzio ‘da condividere’, per quanto fosse una sterile soddisfazione, per quanto non servisse a nulla. Il silenzio che aveva ora, invece, non era niente, era .. vuoto, era negazione, era freddo e distanza.

 

Era un: “Credo di doverti ringraziare, mi hai salvato la vita.

 

Nient’altro. Non un sorriso appena accennato, non uno *sguardo*.

 

Oh, certo che Pietro l’aveva guardato! Pietro non si era comportato come un vigliacco che non trovasse il fegato di sollevare lo sguardo su chi aveva di fronte. Glieli aveva piantati addosso, quegli occhi, ed erano duri e aguzzi, e facevano male, dentro, perché sapevano scavare buchi nell’animo e trapassare il cuore con l’indifferenza più glaciale che Jean Paul avesse mai potuto immaginare. E lui era stato lì e non aveva saputo che dire, né che fare, perché avrebbe potuto reagire ad una marea di insulti e di accuse, avrebbe sguazzato dentro a occhiate cariche di sottintesi o sorrisi strani, ma quello.. quello era niente.

 

Era peggio che il dolore, era peggio che il rifiuto.

 

Era.. era ammettere che c’era stato un qualcosa che non aveva alcuna importanza. Che era successo, sì, ma, dopo tutto, chi dà peso a un passo dato male? O a uno starnuto che ci scappa improvvisamente? Niente da *ricordare*, appunto, niente di degno. Di importante. Di significativo.

 

Qualcosa che si spolvera via dalla lavagna della vita con appena un soffio di sufficienza.

 

Jean Paul era uscito dall’infermeria, lentamente, aveva fatto le scale, aveva schiantato, alle sue spalle, la porta della sua stanza e si era ritrovato steso sul suo letto, la faccia affondata nel cuscino, con una voglia di piangere che rischiava di farlo morire, da quanto gli pesava dentro sul cuore, da quanto gli squarciava l’anima e la mente.

 

Non gli uscì un singhiozzo.

 

E non trovò la forza di piangere neppure una lacrima.

 

Il vuoto che s’era trovato di fronte era così denso che gli era rimasto appiccicato addosso, e non riusciva più a respirare, a vivere, a fare nulla, come se tutto gli giungesse da un luogo lontano e ovattato, irraggiungibile.

 

Se fosse morto là, con tutta quella neve, forse non avrebbe sentito così tanto freddo quanto ora.

___

 

Pensare. Fermare il tempo e fermare se stessi, la propria stessa vita per cercare una risposta.

 

Perché?

 

No. Niente ‘perché’ ora. Non c’era tempo, non aveva tempo.. eppure, al di là di quello che gli aveva detto il medico, al di là di quello che sapeva di dover fare, c’era uno sguardo che aveva sostenuto ma dal quale era stato ferito così in profondità da non poterci credere. Pietro non ci credeva, non sapeva di possedere qualcosa di ancora vivo piantato così a fondo dentro di sé.

 

Invece.

 

Ma non c’era tempo, e forse neppure c’era la possibilità di una domanda simile, che era una domanda stupida e inutile, che era qualcosa di impossibile e non *poteva* rispondere: non c’era proprio nulla che avrebbe potuto dire, neppure a se stesso.

 

Niente scuse: non se le era mai concesso, da anni non solo non le aveva più accettate ma, pure nei momenti in cui avrebbero fatto comodo, non le aveva più dette a se stesso. Per fare stare in silenzio la sua coscienza? Perché mai la sua coscienza avrebbe dovuto stare lì tranquilla e immobile senza nulla da dire? Era il suo lavoro, quello di lamentarsi, no?

 

E poi, tutto il resto: la sua vita che avrebbe dovuto essere avere un futuro di fronte, da vivere e che invece, per lui, troppo spesso si tramutava solo in una specie di serpente che non faceva altro che involgersi su se stesso e ritornare al suo passato e al suo passato riferirsi, ancora e ancora. Come se tutto il suo correre non lo salvasse da essere ghiacciato dentro una teca d’immobilità perenne.

 

Non c’era la possibilità di unperché?’ ora, perché la risposta c’era già, ed era una risposta così *stupida* che si sarebbe picchiato da solo se ne avesse avuto la forza. Non lo sapeva perché era successo, si ricordava di.. del suo abbandono, gli era parso di stare vivendo una specie di film, o meglio un incubo, in cui il proprio corpo è appena qualcosa in più che un immagine veduta ma non sentita. Aveva percepito il calore, le sensazioni, e pure l’eccitazione, il piacere, tutto così distante, come se la sua mente, il suo essere fosse avvolto da una nebbia densa che non sarebbe mai riuscito a superare.

 

Gli aveva detto di sì, perduto, e gli aveva sorriso, lo sapeva: i suoi muscoli si erano tesi, le sue labbra si erano piegate, il suo fiato gli era uscito dai polmoni per far tremare le corde vocali e parlare.

 

Lui, era stato *lui*.

 

Chi mai avrebbe trovato il coraggio di mentirsi quando non c’era nessuna possibilità di farlo?

 

E poi, di nuovo: perché mentirsi?

 

Qualcosa gli parve che gli stesse mordendo il costato e dannazione se faceva male.

 

Male: quel dolore era tutto anche se paragonato allo strazio del suo corpo. E in quel momento, del suo corpo, dei suoi muscoli non gli importava nulla: in quella frazione di secondo qualcosa che sembrava, forse, rimorso, cancellò tutto.

 

Poi ogni cosa di nuovo ebbe un mutamento.

 

Pietro si concentrò, attento, e prese un respiro. Profondo. Lungo. I polmoni si riempirono, il diaframma scese, ogni singolo muscolo del suo corpo gli obbedì, come sempre aveva fatto da quando aveva dovuto avere a che fare con quel suo dannato potere.

 

E tutto sparì: i pensieri, le domande. Non c’era posto per essi, non *poteva* lasciar loro spazio.

 

Un errore.

 

Chiunque aveva commesso errori nella sua vita.

 

Se fosse stato di.. di un altro tipo avrebbe fatto davvero di tutto per rimediare, ma quello? Quello non era una cosa *rimediabile* e il rimorso perenne gli sembrava decisamente eccessivo. Dunque non rimaneva che cancellarlo, annullarlo, renderlo niente: il semplice ricordo di un passo falso compiuto consapevolmente, qualcosa di cui vergognarsi forse per tutta la vita ma niente altro.

 

Niente da analizzare, niente da considerare: era solo debolezza, confusione, e un desiderio, un languore come non ne aveva mai provato l’uguale in altri momenti della sua vita.

 

Jean Paul Beaubier sarebbe scomparso dalla sua esistenza come una stella cometa, come le centinaia di persone che avevano fatto la stessa fine: presto sarebbe ritornato al suo gruppo, prestissimo, forse anche quel giorno stesso, e non l’avrebbe più rivisto se non di sfuggita, ogni tanto per chissà che fortuita coincidenza. Non doveva preoccuparsi, non si sarebbero intralciati il cammino a vicenda, in più qualunque cosa fosse accaduta..

 

La strana sensazione di prima ritornò, urgente, al suo corpo.

 

Mentirsi. Era mentirsi quello?

 

No: era *non rispondere*. Era diverso?

 

Pietro chiuse gli occhi, con rabbia.

 

Un respiro, e controllare i propri muscoli era quasi come obbligare i suoi stessi pensieri dentro i binari che aveva tracciato, era costringerli lì dove dovevano stare.

 

Freddo: pensò all’unica cosa che ricordava davvero bene di tutta quella storia, la neve che scendeva lenta, danzando nel cielo, rallentando ogni cosa, anche i pensieri, purificando i sentimenti e l’anima. Pensò al ghiaccio, in grado di bloccare ogni cosa, anche il movimento in un’immagine che si poteva toccare e sentire. Perché se quello che si provava si fosse riuscito a renderlo di ghiaccio, allora avrebbe potuto metterci le mani sopra, e capirlo davvero e.. manipolarlo, disassemblarlo, farlo a brandelli, distruggerlo.

 

Renderlo quel *niente* che era.

 

Aveva altre priorità, doveva avere altri pensieri, i suoi problemi dovevano essere altri.

 

I suoi problemi, i suoi pensieri *erano* altri.

 

Aveva solo avuto freddo.

___

 

Dopo alcune ore passate a mettere a fuoco il nulla che sentiva dentro, Jean Paul fu quasi fisicamente avvolto dal suono di passi: passi lunghi che rimbombavano nel corridoio vuoto e troppo ampio per quell’orario antelucano. Vuoto e silenzio: tutto quello che poteva desiderare, tutto quello di cui, forse, aveva assolutamente bisogno.

 

Qualcosa che, con Robert fra i piedi, non poteva assolutamente neppure sperare di avere.

 

Robert fece in quel modo il suo ingresso nella cucina del campus con, ancora addosso, la divisa della missione dalla quale era appena tornato, sudato e stanco, il viso stropicciato di chi ha avuto una giornata schifosa ma non se ne preoccupa visto che, dopo tutto, la giornata era finita.

 

Anche se era appena l’alba.

 

“Come stai? Abbiamo saputo..

 

Jean Paul non sollevò neppure lo sguardo su di lui, continuò a fissare, terribile, la sua tazza di caffè bollente e figurarsi se qualcuno sarebbe mai riuscito a strappargli una frase non sarcastica dai denti, in quel momento. Forse Robert era così sensibile da accorgersene, o forse, semplicemente, aveva imparato a conoscerlo, in ogni caso si fermò immobilizzandosi, passando una mano fra i capelli e poi prese un profondo respiro sibilandolo fra i denti.

 

In ogni caso, pensò Jean Paul, non sarebbe bastato il suo silenzio perché Robert lo lasciasse in pace.

 

Robert gli si avvicinò, silenzioso e stranamente compito.

 

“JP? – il tono gentile, preoccupato e morbido, tiepido, solito di Robert. Per un attimo Jean Paul si chiese se a quel sole avrebbe potuto scaldare un po’ i frammenti del suo cuore. – Abbiamo saputo che avete avuto dei problemi. Stai bene?”

 

Gli concesse un’occhiata. Finalmente. Robert gli sorrise conciliante e, come risposta, ebbe un sospiro seccato, un naso arricciato, e uno scrollarsi di spalle.

 

Oui.”

 

Robert tentennò a lungo, ovviamente aspettandosi altro, qualcosa di differente. Qualcosa di più. Si ritrovò a mordersi un labbro non sapendo come comportarsi: aveva imparato, nel passare dei mesi, ad interpretare il carattere caustico del canadese, le sue frasi terribili, i suoi sguardi quasi sempre sprezzanti, solitamente taglienti, pure nel sorriso, ma il gelo a cui si trovava di fronte, ora, lo spiazzava. E sì che lui, con il gelo avrebbe dovuto avere dimestichezza! Ma JP gli metteva sempre ansia, soprattutto quando il suo orribile carattere mostrava lati inediti e si esprimeva in francese, segno tangibile del suo fastidio, la qual cosa gli faceva sempre sospettare che stesse per capitare qualche cataclisma, e, al contempo gli faceva temere di avere detto qualcosa di *sbagliato*.

 

Non che Bobby credesse di poter davvero dire *sempre* qualcosa che non andasse, soprattutto perché era via da tre giorni, ma.. sinceramente avrebbe voluto arrivare lì e tormentarlo, chiedendogli come era andata la missione visto che erano stati lui e Pietro da *soli* per un sacco di tempo. Avrebbe voluto ridere domandandogli, curioso e malizioso, cosa fosse successo e magari riuscire pure a farlo arrossire, di sicuro farlo innervosire e sentire una delle sue famose risposte con le quali JP poteva anche strappargli la pelle di dosso per poi finire a ridere con lui di qualche sciocchezza. Era così che s’immaginava sarebbe finito tutto quanto.

 

Invece al ritorno della sua missione, appena messo giù il piede dal jet, Remy l’aveva avvisato che Pietro e JP erano ritornati, sì, ma sembravano stare entrambi male. Molto male. O almeno Pietro, che non era ancora uscito dall’infermeria e JP si era rifiutato di dire più che tre parole in croce.

 

Ora che ce l’aveva di fronte, in effetti, Bobby poteva vedere che JP non stava fisicamente *male*.. ma di certo era d’un umore pessimo. Decisamente peggiore dei soliti picchi, ed erano tanti, in cui si era esibito ultimamente.

 

Era successo qualcosa di *davvero* grave.. Bobby sentì improvvisamente freddo.

 

“Pietro? – sussurrò allarmato – Pietro come sta?”

 

Gli specchi argentati che erano i suoi occhi si oscurarono, riempiendosi di nubi dense e pesanti, al punto che Bobby ne ebbe paura. Paura di rimanere ferito da quello sguardo cattivo e tagliente, furioso e.. senza speranza. Troppo tardi si accorse che quello sguardo poteva ferire solo JP stesso. Ma: troppo tardi, appunto.

 

“Non sei tu l’amico del dottor Mc Coy? Vai a chiederlo a lui, io non sono tenuto a saperne nulla.

 

La prima frase compiuta da quando era tornato: se l’avesse saputo, forse, Bobby avrebbe potuto essere soddisfatto di se stesso per essere riuscito in un miracolo simile, ma il tono non era per nulla rassicurante. In più non sembrava promettere una qualche continuazione del discorso, e quando JP era di quell’umore non si doveva mai pretendere troppo. Meglio, non si *poteva* pretendere proprio nulla in quanto non si avrebbe avuto nulla in cambio.

 

Non seppe far altro che guardare JP in silenzio, vederlo posare lentamente la tazza su tavolo e girargli la schiena, indifferente a tutto. Uno come lui che poteva correre tanto veloce, che poteva volare.. era strano vederlo uscire con quel passo lento, chiudendosi anche la porta alle spalle accompagnandola gentilmente con una mano.

 

Quando si trovò nella stanza vuota Bobby si guardò intorno, sentendosi il cuore in gola. Preoccupato, e vuoto, vuoto proprio com’era quella stanza.. socchiuse gli occhi.

 

Era stanco. Dannatamente stanco, avrebbe dato chissà cosa per avere lì Remy, per potergli parlare, per potersi fare rassicurare e magari anche consigliare, pure se Remy non è che brillasse per particolare sensibilità, soprattutto in frangenti delicati.

 

Remy non c’era, l’aveva incontrato un attimo prima che partisse per non sapeva che missione, non sapeva dove. Non importava assolutamente dove, né perché, bastava che tornasse, e tornasse tutto intero.

 

Ora, per un paio di giorni avrebbe dovuto farcela da solo: e non era la prima volta in cui stava da solo, ovviamente, ma non aveva mai neppure immaginato che JP potesse soffrire così tanto.. per cosa?

 

Sospirò, svuotando in un sorso il caffè avanzato da JP e per poco non si strozzò.

 

Ma che schifo, come riusciva a bere il caffè amaro?!

 

___ CONTINUA..