Nero Domestico

di bluejusttooblue

*fic scritta per il progetto letterario "Morceaux"

 

Il tempo, qui alla casa, è una questione personale.

Appena entrati, a nessuno viene in mente di tenerne conto. Appena entrati, il problema è abituarsi all’idea che dalla casa non uscirai mai più. Ecco perché tutti qui hanno perso il tempo, me compreso.

In un secondo momento, senza orologi a cui affidarsi, né finestre da cui guardare fuori ed intuire, almeno, se è giorno oppure notte, arriva la consapevolezza.

Alcuni impazziscono e, poco dopo, come tutti quelli che creano problemi, spariscono.

La maggior parte finisce per sviluppare un metodo di scansione personale.

Molti, ad esempio, misurano gli intervalli fra dosi di scacciapensieri. La prima dose è quando ti svegli, l’ultima è poco prima di dormire. Fra la prima e l’ultima sono sei dosi, a meno che non ti dimostri troppo irrequieto. E se la veglia è di diciotto ore sembra ragionevole presumere che fra una dose e l’altra passino tre ore.

Molti contano le dosi, quindi, e in ogni caso tutti le attendono con ansia, perché lo scacciapensieri, beh, scaccia i pensieri, e qui tutti preferiscono non pensare, per paura di impazzire e sparire. Che non è paura di morire: qui tutti pensano alla morte come ad una liberazione. Nessuno però può dire con certezza che sparire equivalga a morire. Potrebbe essere peggio. Purtroppo nessuno è mai tornato per raccontarlo e quindi, meglio non rompercisi la testa.

Meglio non pensare anche se i pensieri, qui, sono l’unica cosa che ti resta.

Non so gli altri, ma io tengo ai miei: per questo butto le mie dosi nel water. I controlli non sono molto severi in merito: le guardie ti stanno addosso solo se ti comporti in modo strano, ma se non dai problemi, che tu lo faccia per via delle pasticche o meno è indifferente.

Ci sono anche altri modi di tenere il tempo. Si possono contare gli ospiti. Siamo qui per loro, e loro sono qui per noi. Non possono darci il tempo, purtroppo. All’inizio, quando smaniavo per sapere che giorno era, se era estate o inverno almeno, ho provato a chiedere. Mi sono beccato un richiamo e ho imparato che non fare domande agli ospiti è la prima regola.

Un’altra sono le maschere: gli ospiti tengono alla loro privacy. Non tanto nei nostri confronti, che non usciremo mai dalla casa, quanto fra di loro, nel caso in cui si dovessero incontrare fuori di qui. Così indossano delle maschere anonime, tutte uguali, bianche e lucide, e, a quanto ho potuto constatare, non le tolgono mai, neanche nell’intimità del mio letto.

E’ difficile distinguere gli ospiti. Ci ho provato, come passatempo, a ricordarmi alcuni dettagli che potessero permettermi di riconoscerli: un neo, una cicatrice, un odore. Ma se ne susseguono talmente tanti che finisci per confonderti.

Alla fine ho capito che l’unica cosa da fare è concentrarsi su uno soltanto. Io ho scelto il mio dopo lunga riflessione. O forse no, non è vero: forse è stato lui a scegliere me, come certo previsto da una delle infinite regole di questo luogo.

+

Non ricordo la prima volta che venne, né la seconda, né la terza. Ad un certo punto però mi sono accorsi che uno fra quelli che veniva per me era sempre lo stesso.

Oltre a noi, gli ospiti possono chiedere qualsiasi cosa li metta a loro agio. Vengono qui per divertirsi, per lasciarsi andare. Molti, quindi, si fanno portare da bere, alcolici o strane bevande energetiche e afrodisiache.

Il mio ospite prendeva il the. Sapevo che era arrivato il suo turno quando mi veniva portato in camera un vassoio con tazza, teiera fumante, bricco del latte e ciotolina piena di zollette di zucchero. Il the lo prendeva nero e amaro, ma il latte e le zollette c’erano lo stesso.

Un giorno mi feci sorprendere a fissarle. Fu abbastanza stupido da parte mia, lo ammetto. E’ solo che quelle zollette erano così normali, così da mondo fuori di qui che non riuscivo a staccarne gli occhi.

“Vuoi?” disse.

Non ricordo se annuii o risposi apertamente, ma ricordo le sue dita in bocca, il loro sapore insieme al gusto dello zucchero che si scioglieva.

Non lo avrei più dimenticato.

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Quest’uomo è diverso e non dico per il sesso. Quando non fai altro, il sesso diventa come respirare. A volte ti piace, a volte fa male, per la maggior parte lo fai e non te ne accorgi neppure. Al riguardo, devo ammettere che con lui il sesso è una cosa marginale. Capita, infatti, che spesso non mi tocchi neppure.

A volte parliamo, come si può parlare qui. Mi fa delle domande e io rispondo. Più raramente mi racconta degli aneddoti nebulosi della sua vita, omettendo indicazioni precise su quello che succede fuori di qui.

A volte invece si siede su una poltrona o ai piedi del letto, beve il suo the e mi guarda. Mi guarda finché non mi addormento.

Non voglio dormire quando c’è lui, ma con la sua mano leggera che mi accarezza la schiena finisco sempre, nonostante le mie migliori intenzioni, per scivolare nel sonno senza neanche accorgermene, con l’amara certezza che quando mi sveglierò non sarà più qui.

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Una volta mi ha lasciato un libro. Non sapevo se fosse permesso, quindi l’ho nascosto. In realtà è difficile nascondere qualcosa qui, e per molto tempo sono stato con il cuore in gola al pensiero che lo scoprissero e me lo portassero via. Però il libro è rimasto dov’era. Ormai l’ho letto talmente tante volte che le pagine hanno perso consistenza.

Ce n’è un pezzo che mi piace più degli altri: “Tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata.”

Nel brano una volpe parla ad un piccolo principe venuto da un pianeta lontano. A volte penso al mio ospite come al piccolo principe. A volte penso a me come alla volpe.

Non penso mai di chiedergli di addomesticarmi, però: lo ha già fatto.

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E’ un po’ che non viene. Sono in ansia. Potrebbe non tornare più: magari gli è successo qualcosa, o magari si è semplicemente stancato di me.

Ogni nuovo ospite che non è lui accresce la mia delusione. Non riesco più a concentrarmi su quello che devo fare e spesso sono apatico. Uno in particolare sembra accorgersene. Ce l’ho sopra quando inconsciamente insinuo le dita fra il materasso e la rete e sfioro il dorso del mio libro nascosto.

Mi distraggo pensando a lui, libero nel mondo oltre queste mura, al punto che il mio ospite riesce ad accorgersi della mia assenza nonostante lo smarrimento dell’orgasmo. Io, invece, riesco ad accorgermi solo del dolore che provo quando mi morde una spalla fino a farmi sanguinare, fino a riportarmi qui, in questo letto, in questa gabbia.

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Mi aspetto che arrivi il dottore. Non è raro che capiti qualche incidente con gli ospiti e che qualcuno abbia bisogno di un paio di punti qua e là e allora è lui che se ne occupa.

Quando la porta della mia camera si apre, però, non riconosco la forma familiare del dottore, con il suo camice e i suoi guanti di lattice: quella che entra è una donna. Mi guarda brevemente prima di avvicinarsi.

E’ molto tempo che non vedo una donna. Se la fisso inebetito, fa finta di non accorgersene.

Ha con se una borsa di pelle sformata. La posa in terra e, considerata la mia condizione, ne pesca il necessario per ricucirmi. Mi mette sei punti, poi mi benda e mi dà una confezione di antibiotico. Mi sta spiegando le dosi quando la porta si riapre e una guardia mette dentro la testa per chiedere alla dottoressa di venire un momento.

Rimango solo, con la sua borsa sformata e la spalla che mi fa più male ad ogni momento che passa. Gli anestetici stanno esaurendo il loro effetto.

Mi concentro sul dolore e quasi riesco ad ignorare l’ansia per l’attesa del suo ritorno che sale prepotente. Quasi.

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E’ tornato e ho capito. L’ho capito da come era distante, da come mi ha accarezzato una guancia e ha sospirato. Fra poco non avrà più bisogno di venire qui. Fra poco non avrà più bisogno di me.

“Questa è l’ultima volta,” gli ho detto quando stava per andarsene. Non posso fare domande, e comunque non ne avevo intenzione.

“No,” ha risposto. “Non questa.”

“Allora la prossima.”

Non mi ha dato una risposta. Non serviva.

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C’è una cosa che ho mancato di menzionare finora: sono un ladro. Lo ero prima di finire qui dentro e sono finito qui dentro perché lo ero. E se ho esordito dicendo che sono un ladro, è perché lo sono ancora: il giorno in cui sono rimasto solo nella mia stanza con la borsa della dottoressa, infatti, le ho rubato un bisturi.

L’ho nascosto nel libro. Mi sembra improbabile che la dottoressa non si sia ancora accorta della perdita, ma se lo ha fatto non deve averlo ancora detto a nessuno, perché nessuno è venuto a perquisire la mia stanza.

Ho appena controllato: il bisturi è ancora lì, fra “Che cosa vuol dire addomesticare?” e “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

Funziona. Ho passato la lama sul palmo della mano, leggera da non avvertirla nemmeno, e un attimo dopo ne è sbocciata una riga di sangue, sottile e precisa come se l’avessi tracciata con una penna. Non ho sentito niente e questo mi rende tranquillo: non voglio che senta male.

Ora non mi resta che aspettare. Aspettare che mi portino in camera un vassoio con tazza, teiera fumante, bricco del latte e ciotolina piena di zollette di zucchero. Aspettare che torni.

Presto o tardi, che importa? Senza lui, qui dentro, per me, il tempo non esiste.