Note: alcuni nomi propri traducibili sono stati scritti direttamente in Italiano come il lago di Central Park, The Lake, che è diventato il Lago o lo stesso CP che è il Parco.






NEMICI NATURALI

Parte Quarta: Esche


Era andato a pesca con lui e si era annoiato a morte.
Aveva la capacità di sedere immobile, per ore, lo sguardo fisso sulla lenza mossa dallo scorrere impalpabile della corrente. In silenzio, con il sole che gli sfiorava la nuca, con il vento fastidioso che gli scompigliava i capelli, gli insetti che ronzavano insidiosi posandosi sul collo, zampettando allegramente sulle mani. Implacabile, attendeva che il pesce abboccasse all’amo e si piantasse l’esca nel palato. Allora si alzava, richiamando a sé il filo di nailon, girando il mulinello con freddezza, sollevando la vittima dall’acqua prima di depositarla sull’erba. Non era un pescatore. Non sorrideva quando il galleggiante iniziava a dondolare, gli occhi non gli brillavano quando le trote si contorcevano davanti a lui, boccheggiando nell’aria velenosa, in attesa che le liberasse del malefico uncino e le rigettasse nell’acqua. Pescava per allenamento, una specie di yoga naturale, perché se eri capace di rimanere immobile all’aria aperta ad attendere un pesce idiota, allora più facilmente saresti rimasto calmo, immobile nel tuo ufficio ad attendere che un altro tipo di pesce, anche più idiota, abboccasse.
Era stato a pesca con lui, di entrambi i generi, e per questo Joshua non lo riconosceva.
Lley si tolse gli occhiali per l’ennesima volta, appoggiandoli accanto al mouse, prima di premere la lettera G; per un istante i pianeti dello screen saver continuarono imperterriti a disegnare le loro orbite, poi appassirono lasciando spazio ad un grafico contorto. Lleroy non lo degnò di uno sguardo, conosceva a memoria ogni odiosissima curva, e rimettendosi gli occhiali, afferrò un mozzicone di matita 2b. Per un momento ponderò l’idea di lanciarla sul soffitto, ma l’accantonò subito: quello non era uno squallido ufficio di cartapesta dell’FBI, quello era il suo ufficio, progettato per resistere ad un bombardamento nucleare e, se una piccola innocente matitina morbida si fosse davvero piantata nel cemento armato…bhè, avrebbe dovuto far cadere qualche centinaio di teste e al momento non ne aveva voglia. Con uno sbuffo si tolse gli occhiali massaggiandosi l’occhio sinistro.
- Mi sembri agitato, capo.- sussurrò Joshua cercando di trattenere la risata che gli inarcava la gola.
- Odio l’attesa. Dovremmo installare dei microfoni anche nella sala principale.-
- Troppo rumore e troppe conversazioni idiote, non varrebbe nemmeno la pena di mettersi a filtrarle. Perché sei così teso? Di solito…-
- Di solito non affido certi incarichi a ragazzini dalla bocca larga-
- Non ti fidi?-
Lleroy sospirò ruotando di 360 sullo schienale – Fidarmi…per fidarmi mi fido, nel senso che non credo sia in combutta con …quelli- disse indicando il computer con la testa – è troppo…troppo, mi fa quasi senso dirlo, ma è troppo ingenuo- concluse alla fine rendendosi conto di quanto quell’aggettivo collegato a Roy suonasse ridicolo.
Eppure era così: per quanto quel ragazzo avesse vissuto sulla strada, vendendo il suo corpo al miglior offerente, non sapeva nulla dei sottili meccanismi della mafia. Per un attimo il suo sguardo tornò truce sul grafico: una cartina dettagliata del cuore di New York. Le strisce gialle indicavano le zone già sotto il loro controllo, le strisce verdi, il colore preferito di Dominique, quelle di cui stavano per impossessarsi, il marrone e il nero le zone di proprietà cinese ed italiana. Un bel grafico, dove il giallo ed il verde erano grandi quasi quanto il nero ed il marrone messi assieme, peccato solo che il rettangolino racchiuso tra Broadway street e la West Broadway, stesse cambiando colore: il marrone avanzava sul verde, come il marcio su di una mela.
- Vogliono riprendersi Canal street-
Joshua annuì – Quella strada separa China Town da Little Italy e, se davvero le due mafie si sono riunite, la nostra presenza lì diviene pesante; del resto anche Il Don aveva fatto presente che infiltrarci avrebbe…-
Lleroy si alzò di scatto fissandolo negli occhi e Joshua abbassò lo sguardo.
- Mio padre ha fatto tanto, ma è vecchio e si ritiene più che soddisfatto di quel che ha. Non sente il bisogno di crescere ancora, inoltre ha paura, come tutti gli animali feriti. Da quant’è che non si fa più vedere ad una riunione dei dirigenti? Non sa nulla di quello che accade, la sua massima gioia è farsi massaggiare i calli da quelle studentesse e rompermi le palle con la storia del matrimonio- aggiunse dopo un istante premendosi la cicatrice. Con un sospiro si risedette scuotendo la testa – Eppure, sai, sono sicuro che se sapesse come questi fottutissimi vermi ci stanno portando via territorio, tirerebbe fuori quel catorcio di colt e diventerebbe il primo pistolero su sedia a rotelle della storia- grugnì chiudendo gli occhi, massaggiando la tempia con due dita. Lo sentiva, dietro la palpebra, bussava piano, chiedendo di poter entrare: ciao, sono il tuo solito mal di testa, ma oggi ho un trapano più potente del solito, che dici posso iniziare a scavare?
Due mani forti gli si posarono sulle spalle costringendolo a premere il petto contro il tavolo e Lleroy sospirò piano abbandonandosi al massaggio.
- Ci stanno riportando indietro di cinquant’anni, Jos. Cinquant’anni. Lo sai come fanno? Bussano porta a porta chiedendo il pizzo in cambio della loro protezione!-
Joshua annuì in silenzio, continuando a far scivolare le proprie mani sulle spalle di granito, premendo piano i cervicali tesi.
- I ristoranti della piccola gente. I bar. Cazzo le lavanderie! Non è questo quello che mi hanno insegnato, non è più questo quello di cui abbiamo bisogno. Noi siamo lo stato della povera gente, di quelli che non hanno nulla, di quelli che il Governo non vede e da cui non guadagna nulla se li aiuta. Guarda i Melchiorre.- sibilò fissando la macchia marrone che si espandeva in Canal street - Sono arrivati qui che non avevano nulla a parte un visto di 15 giorni. In Italia morivano di fame. Qui sarebbero morti ammazzati dal primo moccioso di passaggio. Sono venuti da noi, ci hanno chiesto aiuto. Da persona a persona e noi glielo abbiamo dato. La cittadinanza americana e una licenza per ristorante. Cosa abbiamo chiesto in cambio? Nulla, a parte il pranzo gratis quando capito di lì e la fedeltà alla Famiglia. Nient’altro. Ci serve il pizzo? Ci serve elemosinare un terzo di quello che quei poveracci guadagnano? Ci serve quando possiamo prendere un terzo dello stipendio del senatore che Noi abbiamo fatto eleggere? E quei bastardi invece conquistano il nostro territorio facendo quello che non si deve fare: terrorizzando la gente-.
E la cosa peggiore, che rimase nell’aria tra loro non detta ma nota, era che se Victor Melchiorre, lo stesso a cui 7anni prima Don Tony aveva regalato il ristorante, dopo essersi rifiutato di pagare non fosse andato a raccontarlo a Lleroy, i DeChicco non avrebbero mai saputo nulla di quanto stava accadendo.
Il ristorante italiano era saltato per aria la notte stessa, come se gli italocinesi avessero letto il tradimento nelle foglie di tè al gelsomino , ma non aveva più importanza.
Victor Melchiorre era diventato un nuovo re magio ed ora il signor Baldassarre e famiglia erano già a lucidare il mogano del loro nuovo albergo a tre stelle vicino al La Guardia airport.
Un gemito leggero sfuggì dalle labbra di Lley quando le dita premettero con forza sugli occipitali per poi scivolare lungo le prime vertebre della colonna.
- Sposami- mugugnò.
Joshua sogghignò scivolando ancora un po’ più in basso prima di risalire con forza – Farei di tutto per te Don- sussurrò piano vicino al suo orecchio – lo sai, tutto tranne quello.-
- E vestirti decentemente -
- Cos’hanno i miei splendidi vestiti oggi?- chiocciò interrompendo il massaggio con un’aria mortalmente offesa. Quella sera era sobriamente stupendo. I pantaloni di camoscio rosa mettevano in risalto ogni vena richiamando il colore di un bracciale di perle finte che gli pesava sul polso sinistro e quello del boa di piume di cigno. La giacchetta marrone, svasata e stretta, era chiusa sul davanti da due sottili alamari di stoffa e creava un piacevole gioco di vedo e non vedo.
L’unica cosa che mancava per essere perfetto era un bello Stetson bianco, dello stesso colore degli stivali, ma era appena stato dal parrucchiere e non poteva schiacciare i suoi bellissimi capelli in uno stupido cappello da cowboy.
- Lasciatelo dire capo, tu non hai il benché minimo buon gusto, tu…- due leggeri colpi alla porta congelarono la sua dissertazione nella gola, mentre si portava velocemente davanti alla scrivania,coprendo Lleroy prima di gridare un - Avanti- con un sorriso radioso, che si smorzò subito nello sbuffare irritato di Lley:- Non è Roy-
Erik li salutò con un cenno del capo, sistemandosi sul naso gli occhiali che minacciavano perennemente di scivolare a terra – E’ stato un lavoraccio, ma sono riuscito ad estrapolare tutti i dati che mi hai richiesto, Don.-
- Come lo sapevi?- chiese perplesso Jos spostandosi per permettere al collega di posare sul tavolo un grosso fascicolo violetto.
- Lui non sa nemmeno cosa vuol dire la parola bussare. Avanti Erik, sii l’uccellaccio che devi essere e spara.-
-Sono brutte pallottole capo. Ci stanno fregando anche a sud del Central Park, la 57° è tutta loro e sai la cosa divertente? Non si tratta di droga né di prostituzione né tanto meno di pirateria, stavolta offrono protezione….da noi.-
Lley accarezzò distrattamente il bordo della tastiera grigia – Vecchie tattiche. Quello che mi sorprende è la stupidità degli uomini, si vendono ad una mafia per sfuggire ad un’altra. Mi chiedo se…-
La porta si aprì con un boato cigolante e nello stesso istante Joshua si girò su se stesso stringendo tra le mani il boa, mentre Erik estraeva una grossa penna argentata facendone cadere a terra il culo, rivelando una canna sottile, capace di contenere un unico, ma a breve distanza letale, proiettile Browning 6.35.
- Anche i cani imparano a bussare, possibile che solo tu non ci riesca- sibilò Lleroy .
- Scusa- biascicò Roy dando un debole calcio alla porta che si richiuse con un secondo cacofonico concerto dei cardini.
Joshua socchiuse gli occhi fissandolo perplesso. La maglietta nera sgusciava per metà dai jeans verde scuro, i suoi capelli erano altamente spettinati, sembrava appena uscito dal letto,cosa che poteva andare più che bene, dal momento che era rimasto appartato in un divanetto in ombra con il loro sospetto per più di un’ora; quello che non gli piaceva nemmeno un po’ erano le pupille troppo dilatate e gli occhi lucidi, che faticavano vistosamente a restare aperti.
- Ti ha offerto qualcosa da bere?-
- No, gli ho portato io un Bacardi. E’ un tipo pulito, cioè per essere uno che viene qua. Gay, sposato, con un figlio di due anni più giovane di me. Uno di quei viscidi che ti rimorchiano nel parco, ti scopano e poi o ti picchiano perché hai ricordato loro cosa sono o si mettono a piangere. Sarà anche un poliziotto, ma non ha palle:se solo provi a fargli vedere una foto compromettente, di quelle che scattate qui, quello prende e si impicca per direttissima. Hai fatto un buco nell’acqua,Lley.-
Lleroy annuì pensieroso, forse stava davvero diventando paranoico e vedendo spie dove non ce n’erano – Meglio così. Hai un’aria stanca,ti ha fatto qualcosa?-
Roy sogghignò appena – Quello? No, e non sarebbe stato divertente, mi sa che più in là della posizione del missionario non va. A momenti mi veniva nei pantaloni quando gli ho leccato un orecchio. Tutto ok, me ne torno al lavoro- sussurrò stancamente girandosi con lentezza. Era tutta la sera che il mondo attorno a lui continuava ad ondeggiare malignamente; non lo sopportava, gli faceva venire il mal di mare.
- Ronald, sei sicuro di stare bene?- chiese Erik posandogli un braccio sulla spalla, ma il ragazzo lo scostò bruscamente con un ringhio, afferrando la maniglia e strattonandola con forza verso di sé. La porta non si aprì.
- Devi spingere Ronny- sussurrò Jos avvicinandosi e Roy mugugnò irritato, appoggiando per un istante la fronte al metallo fresco.
- Roy?- lo chiamò il fiato caldo e dolce di Joshua, accarezzandogli direttamente il padiglione auricolare, mentre le mani sottili ma forti si chiudevano sulla sua vita.
- Sto benissimo-
- Che ne dici di andartene a casa?-
- E perché? Sto benissimo.- ripetè scostandosi ed uscendo.
Lleroy si stiracchiò languidamente sulla sedia piegando all’indietro la schiena irrigidita- Drogato?- chiese.
- No, influenzato. Quel moccioso scotta. Oggi finisce alle undici, ma io lo porterei a casa ora-
- Alle undici? Perché?-
Joshua si strinse nelle spalle – Ha chiesto un permesso e io gliel’ho dato-.
- Perché?-
- Perché i permessi vanno concessi per legge, sei tu che hai detto che loro per noi sono in regola e…-.
-Perché ha chiesto un permesso!- sbottò Lley alzandosi – e perché non me lo hai detto prima-
Joshua sgranò gli occhi – Scusa, ma non pensavo di dovertelo dire, ho sempre gestito io permessi, ferie, malattie non credevo e…e bhè, ecco, non gli ho nemmeno chiesto perché gli servisse….-
- D’ora in avanti voglio che tu mi riferisca ogni ora chiesta e scopri anche il motivo- sibilò infilandosi un lungo cappotto nero. – Lo porto a casa io, tu va pure.-
- va bene capo e ah…ecco, Maurice ha chiesto la giornata di domani di ferie e…-.
- Cosa vuoi che mi interessi- sbuffò afferrando la cartella che gli aveva portato Erik e sistemandosela sotto il braccio.
Jos sorrise dietro la sciarpa di piume – Avevi detto che volevi essere informato di ogni ora di ferie o permesso…-.
- Di Roy, idiota. – sbottò scuotendo la testa demoralizzato. Il sorriso di Joshua si allargò.


            Lley avanzava indispettito tra i sospiri del locale, ignorando le occhiate invitanti ed adoranti dei clienti e dei suoi stessi ragazzi.
- State andando via don Lleroy?-.
Il don si costrinse a sorridere gentilmente – Sì, Terence,- rispose attardandosi per un istante ad accarezzare gli stupendi capelli di seta del ragazzo – Hai un aspetto magnifico stasera, è una gioia vedere che Jos non riesce a rovinarti. Quante vittime hai già mietuto?- Terence sorrise appoggiandosi col petto al braccio del suo capo – Parecchie, ma nessuna che mi interessi. Non è che ha bisogno di compagnia?- e la domanda, poco più che un sussurro, gli costò un violento rossore che accese le sue guance salendo fino alle orecchie.
Lley socchiuse appena gli occhi: non gli piaceva quell’insolenza. Era lui che ordinava loro di seguirlo, non loro che si offrivano.
- Scusi, non dovevo assolutamente chiederlo è che…- balbettò allontanandosi da lui.
Lley premette la mano sulla sua nuca – Non fa nulla. Stasera devo lavorare. Ti farò chiamare io quando avrò bisogno di te- aggiunse conciso incamminandosi verso il bancone del bar seguito dai suoi occhi liquidi e brucianti.
L’idiota, quasi incapace di stare in piedi, era appoggiato al legno del banco e scrutava con febbrile insistenza una bottiglia di liquore trasparente.
- Basta, hai finito di lavorare, ti porto a casa-.
Per un attimo Roy lo fissò allibito, poi scosse la testa permettendo alla bussola impazzita al suo interno di ruotare sul suo asse facendo assumere alla stanza una forma stretta ed allungata.
- No. Non ho ancora finito e non posso andare a casa.-
- Hai la febbre ed hai finito. Qui da noi la malattia è retribuita, non mi va che mi contagi tutto il locale.-
- Ti dico di no. Sto benissimo-.
Lleroy sorrise e Frank ed Oliver si scambiarono un’occhiata spaventata trattenendo il fiato.
- Va bene, fammi un Withe Lady, per favore- ordinò pacato Lleroy, non dando segno di aver notato l’insolenza del ragazzo.
Roy annuì versando il gin e il cointreau nello shaker e, dimenticatosi del succo di limone, iniziò a shakerare con violenza il cocktail. Il mondo si scolorò scivolando dietro un velo lucido, come se lo stesse guardando attraverso una maschera da sub appannata. Non era male, si sentiva leggero, le gambe erano un optional non previsto nel suo corpo. Lo shaker cadde a terra con un tonfo metallico, sparpagliando il suo contenuto sul pavimento e Roy sorrise pensando che anche lui sarebbe andato giù e poi ancora più giù, ma le braccia di Oliver lo afferrarono per la vita impedendogli di cadere.
- Sto bene- assicurò posando la testa pesante sulla sua spalla ma il collega più anziano non era d’accordo.
-Tu bruci- sussurrò cercando con lo sguardo don Lleroy .
- Non ti preoccupare la febbre alta intacca il cervello, lui che non è provvisto non corre pericoli. - sibilò Lley aprendo la porticina del bar.
- Sto bene- gracchiò Roy lasciando che Oliver lo sospingesse, a peso morto, verso le braccia del capo.
- Così bene che il primo sforzo ti getta a terra- fece notare Lley con un sorriso subdolo, - sempre che shakerare due liquori possa essere considerato uno sforzo-.
– Non posso andare a casa- pigolò il ragazzo chiudendo gli occhi. Il petto dell’uomo era ampio e comodo e la lana pettinata del cappotto invitante.
- Perché?- sussurrò piano Lley scivolando con una mano a sfiorargli la nuca:non era un semplice modo di dire, scottava per davvero.
- Ho promesso alla signorina Faith che sarei andato a bere qualcosa con lei- confessò senza aprire gli occhi.
- Ma stasera lei esce con Dom….inique- mormorò lentamente. – Lei, Dom e tu. Per questo hai preso un permesso-.
- Io sto bene, non ho la febbre-.
- La cosa non mi interessa. Se io dico che tu devi andare a casa, tu vai a casa e basta, chiaro?Non si disobbedisce ai miei ordini- sbuffò e con un movimento così repentino da risultare invisibile agli occhi degli altri due barmen, l’afferrò per la vita, sollevandolo in aria e facendoselo ricadere con facilità sulla spalla sinistra, la testa a penzoloni contro i suoi fianchi.
- Lui ha già finito. Buon lavoro ragazzi- salutò Don DeChicco dando loro le spalle e superando il bar fino a raggiungere la parte posteriore del locale.
Jake inarcò il sopracciglio spostandosi leggermente dal preciso punto nel muro che, ogni sera, copriva con il suo colossale corpo. – Andate già via capo?- chiese, anche se la sua curiosità avrebbe voluto sapere cosa ci faceva Don DeChicco con Ronald sulle spalle. Di solito erano i ragazzi che lo seguivano, fedeli e vogliosi come piccoli cuccioli: da quando lui aveva preso servizio, 3 anni e 8 mesi, il boss non era aveva mai costretto nessuno a seguirlo. Anche se, pensandoci bene, non sembrava che Ronald fosse molto recalcitrante, non scalciava nemmeno: l’unica cosa che permetteva di non confonderlo con un qualsiasi sacco di patate era il sedere sodo e tondo inguainato dai jeans.
Distolse lo sguardo, limitandosi a premere la parete e aprire la porta mimetizzata, richiudendola immediatamente dietro a DeChicco. Un elemento fondamentale per la sopravvivenza era non notare mai nulla:nemmeno che il don stava scendendo nel garage con un ragazzino svenuto e, se fosse stato il caso, non avrebbe nemmeno notato che il ragazzino non si sarebbe più fatto vivo al lavoro. In fondo, non sarebbe stata la prima volta.

Roy socchiuse gli occhi infastidito dalle luci troppo violente; non gli piaceva quella posizione, gli sembrava che schiere di formiche gli marciassero lungo il collo per poi piantare delle tende pizzicanti nella sua fronte e scuotere la testa peggiorava solo la situazione.
C’erano solo due auto nel garage, grande quanto la metà del locale: un fuoristrada completamente nero, eccetto che per un paio di graziose tendine di merletto rosa che decoravano i finestrini posteriori, e un’auto bassa, sportiva, a due posti, dal muso allungato, gialla perlato, che sibilò debolmente quando Lley premette l’antifurto.
Senza fiatare Roy si lasciò scaricare sul sedile del passeggero , non troppo dolcemente, e si allacciò la cintura di sicurezza. In silenzio Lley gli sedette accanto accendendo il motore che tubò dolcemente. Il grande portone di metallo del garage si aprì senza un cigolio, mentre le luci si afflosciavano fino a spegnersi completamente. Un unico lampione arancione stanco illuminava lo stretto vicolo, ma Lleroy uscì a fari spenti, percorrendo tutta la stradina, schivando miracolosamente dei grossi cassonetti dell’immondizia ripieni di uomini armati di mitra e walkie talkie, prima di accendere i fari che si alzarono dal cofano come due piccoli funghi rettangolari.. Il quadrante nero, come gli interni dell’auto, si illuminò immediatamente, riverberando nell’abitacolo una luce rossastra. Roy fissò con un ghigno i numeri squadrati che indicavano le dieci e venti e gli altri numeri che crescevano rapidamente man mano che la velocità aumentava. Era una macchina perfetta per chi non sapeva leggere le lancette: non solo l’orologio, ma anche il contamiglia e la temperatura dell’acqua erano digitali. Improvvisamente si accese una nuova spia rossa che l’informava che era ora di cambiare l’olio.
Il ragazzo ridacchiò appoggiando la guancia contro la pelle morbidissima del sedile – Sono su un’Enterprise giallo canarino- sbuffò.
- E’ una Corvette-
Roy annuì due volte – Grazie per l’informazione capitano Titti, ma dovrebbe fare qualcosa per questi sedili, sono un po’ scomodi- si lamentò cercando una posizione che non gli facesse dolere la schiena.
Lley lo fissò per un istante senza tradire alcuna espressione.- Tu sei scomodo: nel cervello. Dove abiti?-.
Roy sospirò – Sulla 134 street, vicino alla fermata della linea G - disse, - non lontano dalla cattedrale di st. Jhon the Divine, ci sai arrivare?-.
Lleroy lo guardò in tralice – Questa passione per quelle zone non la capisco – borbottò tra i denti premendo alcuni tasti e il navigatore satellitare nascosto si aprì mostrando la piantina di New York iniziando ad indicare le strade da percorrere.
- Ehilà, ciao Kitt, che tasto premo per tornare indietro nel futuro?-.
Lleroy sbuffò, ma non rispose scivolando nel traffico della notte e Roy sospirò piano socchiudendo gli occhi e, quando arrivarono, per lui fu troppo presto.
            Lley parcheggiò nella stradina, scrutando l’oscurità attorno a sé: erano molto più in alto rispetto a dove aveva deciso di vivere Dom, erano schifosamente troppo vicini ad Harlem per i suoi gusti.
Roy sospirò con fatica aprendo la portiera – Ok capo, grazie- mormorò tirando fuori dalla tasca un’unica chiave leggermente scolorita.
- Roy ho intenzione di chiamare Faith e di dirle che sei malato, poi vedi tu se hai voglia di andare lo stesso all’appuntamento e sorbirti una sua sfuriata- lo minacciò sorridendo apertamente quando le spalle del ragazzo si incurvarono depresse.
- Ti odio- sibilò circumnavigando l’auto, un' impresa titanica per le sue gambe tremanti, e spalancando una porta cadente alla destra di Lley.
L’uomo socchiuse gli occhi. Il portoncino di legno sembrava reggersi in piedi solo grazie ad un filo di ferro che scendeva dallo spezzone arrugginito di un’intelaiatura che, forse, qualche migliaio di anni prima, aveva sostenuto una tenda parasole. Con sguardo truce fissò la palazzina, retaggio storico di un’era che a New York si riteneva mitica. Era una costruzione stretta e bassa, solo 5 piani in facciavista, screpolata, macchiata da smog e grosse colonie di muffa verdastra. Lentamente osservò la strada stretta, poco più di un vicolo, infestato da sacchi di spazzatura, forse i cassonetti non erano ancora stati inventati nell’epoca in cui quei palazzi erano stati costruiti. Nonostante fosse notte, su alcune finestre ancora sventolavano panni puliti, dalla stoffa filante diventata gialla per troppi lavaggi con detersivi troppo scadenti. Su uno dei balconi di una palazzina in angolo fiorivano gli scheletri robusti, stempiati e rinsecchiti dal freddo, di alcuni gerani. Con un ringhio insoddisfatto Lleroy aprì il cassettino del cruscotto, facendo emergere dalla massa di carte e cioccolatini una microscopica, disgustosa Kel Tec calibro .22. Le pistole piccole, soprattutto quelle statunitensi, erano come i cani piccoli: insopportabili, ma meglio di nulla. Con un sospiro si infilò l’arma nella tasca della giacca, sistemando la sua S&W in bella vista sul sedile della corvette: sperava che come deterrente fosse sufficiente a scoraggiare chiunque dall’avvicinarsi troppo alla sua auto.
Con un ringhio azionò l’allarme, aprendo con estrema cautela il portoncino scassato. Roy era fermo a metà della lunga scala, piegato contro il corrimano arrugginito ed ansimava con violenza.
Scuotendo piano la testa coprì in un attimo i sette scalini che li separavano, ricaricandoselo sulle spalle – Che piano?-
- Terzo-, rispose il ragazzo sentendo di nuovo le orde di formiche scendergli nella testa , intorpidendola.
In silenzio, prendendo mentalmente nota di far risuolare le proprie scarpe, il cui tacco risuonava a morto nel silenzio del palazzo, Lleroy lo trasportò davanti ad una porta sgangherata su cui il numero 312 spiccava in lettere di rame verdastro.
- Il tre sta cadendo, dammi la chiave- ordinò strappandogliela dalla mano bollente ed aprendo la porta.
- Ok sono arrivato-, sbuffò Roy lasciandosi scivolare piano a terra, - ora te ne puoi andare-.
Ma Lley non si mosse. L’appartamento era un'unica grande stanza, probabilmente una ex camera di albergo. Una semplice rete di legno con un bel materasso ortopedico era stato addossato contro il muro est, mentre un angolo cottura elettronico era stato inserito, abusivamente, ad ovest. Tre sedie spaiate erano poste attorno ad un tavolo di ruggine macchiato da alcuni rimasugli di vernice bianca. Non c’erano poster né quadri,anche se sul muro, dove la carta da parati giallo sporco a gigli grigi si apriva sul cemento sottostante in grandi chiazze slabbrate, erano stati dipinti gli accenni di alcuni murales: accanto ai fornelli uno scheletro dagli occhi tondi e grandi sorrideva, stringendo nella mano un costoso cilindro nero.
But the world is black and the hearts are cold and there’s no hope that’ we’re told and we can’t go back*
recitava la scritta verde sotto i suoi piedi, le stanghette delle lettere che svettavano alte rispetto ai cerchietti, dando l’illusione di un manto erboso. Il muro contro cui poggiava il letto era invece stato spruzzato con una base di azzurro, un mare o un cielo infinito su cui spiccava un pirata, l’occhio destro coperto dalla solita benda nera, la gamba sinistra sostituita da una stampella di legno. La bocca dell’uomo era chiusa a stringere una pipa a forma di artiglio, mentre il pappagallo che aveva sulla spalla, il becco rivolto verso l’orecchio del pirata, diceva: and money talks in this world, that’s what idiots will say, but you’ll find out that this world is just an idiots parade.**
L’arredamento era completato da tre palet , impilati su loro stessi per creare un porta televisore. Dei dvd e dei cd erano accatastati in ordine sparso accanto alla testiera insieme all’ultima edizione economica de Il signore degli anelli.
Con un sospiro Roy si gettò sul letto afferrando le coperte ed avvolgendosi fino al collo. Lleroy chiuse la porta dirigendosi spedito verso un piccolo armadio di compensato. All’interno c’erano alcune paia di jeans ben ripiegati, dei grossi maglioni di lana e uno stock infinito di magliette attillate.
- Prendi 700 dollari alla settimana e vivi qui?-
Da sotto il piumino Roy mugugnò un assenso.
- Tu hai uno stipendio mensile che è quasi il doppio di un impiegato di banca e vivi in questa topaia?-.
- Senti è sempre meglio di dove stavo prima e poi ho comperato il letto nuovo- Lley rabbrividì fissando la piccola stufa antidiluviana, unico riscaldamento di quel surrogato di appartamento.
- Se non mi sbaglio Jos ti paga in contanti, non hai un conto in banca, dove li tieni i soldi, nel materasso?-.
Roy tossì mettendosi a sedere e scuotendo la testa – Non ne ho di soldi, va bene? E ora se non ti dispiace vorrei dormire-.
- Domani rimani a casa e fatti vedere da un dottore-.
Roy biascicò qualcosa girandosi verso il muro.
-Spero per te che fosse un sì-.
- Non ce l’ho un dottore, non ho l’assicurazione, ok. Ora te ne vai? Ho sonno- mormorò con voce quasi inesistente.
- Sei l’essere più idiota che io abbia mai incontrato-.
Roy annuì: non gli importava più nulla voleva solo chiudere gli occhi e dormire.
- Più di Dom, il che è quasi impossibile- sibilò l’uomo prendendolo in braccio con tutto l’ingombrante piumino.
- Che fai?- chiese piano Roy appoggiando la testa contro la sua clavicola: era scomoda e dura.
- Ti butto dalla finestra-.
- Non si apre…credo sia rotta-.
Lleroy sollevò lo sguardo al soffitto scrostato trascinandolo fuori dal tugurio e risistemandolo in macchina, chiudendogli lui stesso la cintura di sicurezza.
- 700 dollari alla settimana- sibilò sbattendo con violenza la propria portiera ed ingranando la retromarcia -3000 dollari al mese per vivere in una topaia e non avere nemmeno un dottore- grugnì sfrecciando per le strade.
Roy fissava in silenzio le scie dei lampioni, ignorando le miglia che si inseguivano vorticosamente sul contachilometri. Chissà se i mafiosi dovevano pagare le multe per eccesso di velocità come tutti? Gli sarebbe piaciuto saperlo, ma non aveva la forza di aprire la bocca per parlare.
Fu solo quando la corvette imboccò il Brooklyn bridge che si girò a guardare Lleroy – Dove stiamo andando?- biascicò incerto. Aveva parlato, vero? Non se lo era solo sognato?
- A casa mia. Una casa decente in una zona decente-.
Roy annuì indifferente, poi appoggiò la fronte contro il finestrino di vetro oscurato e chiuse gli occhi.
L’auto sfrecciò rombando per le vie pulite ed addormentate di Brooklyn, ignorando le antiche case di mattoni rossi, per fermarsi ubbidiente davanti alla candida cancellata di ferro battuto di un’elegante palazzina color salmone.
Con attenzione Lleroy si avvicinò alla colonnina rosata abbassando il finestrino per permettere alla telecamera nascosta di inquadrarlo ed immediatamente il cancello si aprì lasciandolo entrare.
Lley si stiracchiò sul sedile bloccandosi un istante a fissare l’ovale pallidissimo del viso del ragazzo che spuntava tra le pieghe del piumino. Non poteva ancora crederci: se lo era portato a casa. Un moccioso idiota, insolente e dalla bocca larga. L’aveva caricato in macchina e trascinato a casa. Ottimo, più invecchiava più diventava saggio.
Un tonfo scosse l’auto facendola dondolare leggermente e Lley impallidì spalancando la portiera e balzando fuori di scatto – Pezzo di idiota? Ti ho già castrato? No, perché se non l’ho fatto ti castro subito! Quante volte ti devo dire che non devi mettere le tue zampacce schifose sulla mia auto?- sbottò irritato. Il grosso boxer agitò un istante il moncherino di coda prima di alzarsi sulle due zampe posteriori e piantare quelle anteriori sul cappotto immacolato del padrone.
- Blake, dannazione, a cuccia!- urlò. Un secondo boxer, leggermente più scuro, si sedette compostamente, assumendo la posa elegante ed orgogliosa di una statua, mentre Blake si stendeva a terra, il muso posato tra le zampe e gli occhi neri e lucidi rivolti al suo padrone arrabbiato.
Lley scosse la testa sorridendo – Non sono arrabbiato stupido cane- borbottò inginocchiandosi ad accarezzargli la testa. – Bravissimo Milton- aggiunse poi schioccando le dita ed, ubbidiente, il boxer scuro si avvicinò per leccare la mano del padrone. – Bè? Dov’è Tisifone?- chiese .
- L’ho tenuta dentro, ha preso i vermi e le sto dando l’antibiotico- rispose una voce uscendo dall’ombra in cui si era tenuta nascosta, una pistola a ripetizione stretta nella mano.
- Mangiano crocchette che costano più del caviale ed è riuscita a prendere i vermi?-
- Sono desolata signore- si scusò la donna. Lleroy non sapeva quanti anni avesse di preciso, anche se probabilmente aveva già da tempo superato la quarantina, nonostante ne dimostrasse sì e no trenta, ma non gli importava. Magda addestrava i cani della Famiglia fin da quando lui era adolescente e lo faceva con un’abnegazione totale, riversando su di loro tutto l’amore che ha una donna che non può diventare madre .
- Oh, non è certo colpa tua. Dammi una mano un attimo, ho un pacco ingombrante e non vorrei che Mister Poca disciplina qui ci facesse cadere a terra entrambi.- Blake scodinzolò iniziando a premere il naso freddo ed umido contro i pantaloni di Lley.
- Sì, ce l’ho con te ammasso di pulci- sbottò il don spostando velocemente la gamba Magda sorrise – E’ ancora un cucciolo-.
-Sì, ma sta venendo su male…stai venendo su malissimo- bofonchiò Lleroy piegandosi per afferrare la testa del boxer e arruffargli con forza le orecchie. Blake scodinzolò felice leccandogli il ginocchio.
- E’ colpa vostra lo viziate-.
- Io lo vizio? Ma siamo pazzi?- chiese mettendosi a cavalcioni del cucciolo per accarezzargli la pancia con la punta della scarpa facendolo rotolare da una parte all’altra – è solo un indisciplinato rovina corvette.- Si congelò all’improvviso, ignorando gli occhioni languidi che lo supplicavano di continuare a giocare – A proposito di indisciplina, tienilo un po’ fermo- chiese aprendo la porta destra dell’auto e tirando delicatamente fuori Roy. Nonostante il rumore dormiva ancora.
Milton scattò in piedi ringhiando, percependo nell’aria un odore umano non familiare ed anche Blake si raddrizzò all’istante mostrando i canini affilati e micidiali.
- Amico- sbuffò Lley richiudendo la portiera.
Milton si rimise a cuccia, mentre Blake continuava a ringhiare sottovoce fissando il corpo inerte tra le braccia del padrone.
- Buonanotte Magda…ah, Blake ha bisogno di assaggiare carne umana, per cui se qualcuno si fa vivo domattina prima delle 8, aizzaglieli pure contro.-
- Anche se sono il signor Joshua o il signor Erik?-.
Lleroy annuì malevolo – Soprattutto, se vengono è solo per annunciare rogne-.
La donna rise scuotendo divertita la testa e Lleroy sospirò: quei cani erano stati troppo bene addestrati per mordere qualcuno che gli era stato presentato come un amico, peccato.

             Perplesso Lley fissò il ragazzo steso immobile sul letto degli ospiti:ora gli si presentava l’antico, per lui insolubile dilemma. Il termometro gli aveva confermato che Roy aveva un febbrone da cavallo: 39.6. Una temperatura troppo alta che andava abbassata raffreddando il corpo, ma se gli avesse fatto prendere freddo peggiorando la situazione?
Con un sospiro versò 40 gocce di antipiretico su un cucchiaio che gli accostò alle labbra.
- Bevi - mormorò sollevandogli la testa con un braccio. Roy aprì le labbra, ma, quando il liquido amaro gli bagnò la lingua, girò la testa sputandolo.
– Non la voglio la medicina degli orchetti- chiocciò premendogli il viso contro il petto.
La medicina degli orchetti? Ma dove credeva di essere? All’asilo? Con una smorfia gli tappò il naso con due dita ed immediatamente Roy, che già faticava a respirare, spalancò la bocca. Veloce Lley gli cacciò in gola un altro cucchiaino di medicina.
- Gli orchetti vincono sempre- sbottò aprendo uno dei lunghi cassettoni dell’armadio di mogano, frugando tra i vestiti che Dominique aveva lasciato alla ricerca di un pigiama.
Lleroy DeChicco, il padrino, di fatto se non ancora per legge, della più grande famiglia mafiosa di New York, costretto a fare da balia a un moccioso che non voleva bere la medicina degli orchetti. E la cosa peggiore, decise cercando di sfilargli i jeans stretti che non volevano lasciargli le gambe, era che lo stava costringendo a ricredersi sul conto di Dom: evidentemente esisteva gente più cretina di suo fratello. Con un ringhio sommesso, che avrebbe probabilmente spaventato Blake, gli infilò un pigiama di seta verde acido. Roy si irrigidì quando la stoffa gelida gli sfiorò la pelle nuda e Lley si immobilizzò a guardarlo. Il viso era bianco, tranne che per un rossore che gli rendeva incandescenti le guance, e la bocca esangue era aperta in un rantolo continuo che invocava disperatamente aria.
In silenzio, cercando di essere il più delicato possibile, gli rimboccò le coperte fino al collo: la novalgina avrebbe abbassato la febbre e, se non ricordava male, una bella sudata risolveva ogni guaio.
- E spera per te di non attaccarmi l’influenza- borbottò spostandogli i capelli dalla fronte: era ancora troppo calda.
Roy singhiozzò piano scuotendo con forza la testa, liberando un braccio per artigliare con crudeltà il lenzuolo – No- gemette – Non voglio-.
- Attaccarmi l’influenza? Gentile da parte tua-
Roy si inarcò ansimando, torcendo il lenzuolo tra le dita contratte – E’ male-
Lleroy sbuffò esasperato – Non sei Frodo e non ci sono orchetti, piantala- lo rimproverò afferrandogli il braccio per ricoprirgli la spalla.
Roy si divincolò con forza – No, lasciami, ti prego- supplicò tossendo leggermente, mentre piccole lacrime gli inumidivano le ciglia. – Non voglio farlo, ti prego Eddy, no-.
Con un sospiro Lleroy si sedette sul letto accanto a lui, accarezzandogli piano la testa con movimenti lenti – Va tutto bene Roy. Nessuno ti farà fare nulla.-
- Non voglio- ripeté aggrappandosi disperatamente alla camicia dell’uomo – Eddy….-
Lley lo abbracciò stendendoglisi a fianco, continuando ad accarezzargli piano la testa e la schiena- Shh va tutto bene, sei con me, è tutto a posto.-
- Non lo dire… mamma… Eddy?-
- Shhh è tutto ok- sussurrò sfiorandogli la fronte con le labbra.
Le braccia di Roy gli scivolarono attorno al collo mentre il ragazzo gli si premeva contro.
- Non voglio- biascicò un’ultima volta.
Lley rimase immobile a lungo, continuando a far scivolare le proprie dita tra i capelli morbidi e serici, accarezzandogli brevemente la pelle della nuca che, grazie all’effetto dell’antipirico, si andava facendo via via più fresca. L’incubo pareva passato e Roy dormiva infastidito solo dalle molestie della malattia. Delicatamente Lley si liberò dall’abbraccio scivolando giù dal letto.
- Dove vai?- sussultò Roy.
- A farmi un tè- rispose sottovoce accarezzandogli la fronte. Roy mugugnò un assenso, rannicchiandosi in posizione fetale.
Sembrava così indifeso nel grande letto semivuoto. La bocca sempre tirata in un sorriso impertinente era rilassata, quasi priva di espressione e gli occhi troppo acuti e duri erano chiusi, permettendo di vedere solo le ciglia incredibilmente lunghe. Senza rendersene conto Lley allungò la mano a sfiorargli di nuovo la testa, scivolando con la carezza lungo la tempia, fino alla guancia che si andava sbiancando. Roy sorrise appena e, per la prima volta, Lleroy si rese conto di quanto fosse giovane.


            La ventata di fumo lo abbracciò familiarmente, dandogli il suo odoroso benvenuto.
Joey strizzò gli occhi, aspettando che si abituassero alla foschia cancerogena prima di avanzare a passo sicuro fino al bancone del bar.
-Il tuo ragazzino non c’è?- lo salutò con un sorriso Malcom alzando un bicchiere semivuoto di birra.
- Non è il mio ragazzino nel senso che non è né mio figlio né tanto meno il mio compagno- grugnì gettando la pesante giacca di pelle sulla spalliera appena accennata dello sgabello. Malcom annuì con solennità, traendo un lungo sorso di birra – Vero. Tu ti limiti ad usarlo per ottenere le informazioni che ci servono.-
Gli occhi di Joey si sgranarono allibiti- semmai è il contrario è lui che usa me! E in cambio mi paga con delle informazioni praticamente inutili.-
Malcom ridacchiò indicando con la testa un angolo del pub – Si sta liberando un tavolo, ci trasferiamo là?-
- Vai e occupa la posizione capo. Ti fai un altro giro? Lager?-
- Certo- rispose afferrando entrambe le giacche e precedendolo al tavolo.
Jo fece le ordinazioni ad una barista che probabilmente andava ancora al liceo e squadrò con malcelata soddisfazione il rubinetto dorato da cui scendeva la birra scura. Era da tanto che non si faceva una bella birra, una birra vera.
Con un sorriso anticipato di soddisfazione, zigzagò tra i clienti, riuscendo a raggiungere Malcom senza aver versato che poche gocce di schiuma.
- A te- gli disse porgendogli la Lager da una pinta – e cheers- aggiunse spingendo il proprio bicchiere contro il suo, facendoli tintinnare leggermente entrambi, prima di immergersi per un lungo istante nella Guinnes.
- Era da una vita che non la bevevo. Dom stravede per le belga rosse, quelle ambrate che sanno di liquirizia, ma secondo me non reggono il confronto con la regina.-
- La Guinnes non gli piace?-
Joey scosse la testa sorridendo – Non beve nulla, a parte l’acqua, che non sia dolce. Io ho rinunciato a comperarla quando me l’ha praticamente sputata in faccia.
Malcom spalancò gli occhi- Stai dicendo che non hai una scorta di Guinnes in casa? Tu? Una volta poteva mancarti tutto, anche la carta igienica, ma non caffè e birra.-
- Ce l’ho la birra…la belga e non è affatto male quando ci hai fatto la bocca e ha il grosso vantaggio che lui non ci fa i gargarismi tipo fontana.-
- Ma perché non fa semplicemente a meno di berla.-
- Dice che se piace a me qualcosa di buono deve pure avere, ma proprio non riesce a mandarla giù- spiegò con un sorriso tenero.
Anche Malcom sorrise, gli sembrava quasi che un grosso peso gli si fosse sollevato dal cuore.- Dov’è ora?-
- Chi?-
- Dominique-
- Oh, fuori a cena con la fidanzata del fratello…credo.-
- Credi?-
- Senti, non stiamo assieme, può fare quello che vuole e se si trova un ragazzo della sua età meglio per lui.-
Malcom sorseggiò la birra fissandolo negli occhi – Non state assieme ma è quasi un mese che vive con te.-
- Te l’ho detto, ha preteso 40 giorni di sesso in cambio delle informazioni.-
-Giorni di sesso che sono diventati convivenza. E quando il tempo sarà scaduto? Lo lascerai andare? E credi che se ne andrà?-
- Se non se ne va lo caccio fuori a pedate. Comunque se ne andrà. E’ solo un passatempo,ok? Non abbiamo mai parlato di amore, né lui né io.-
- Ma lui è innamorato di te…-
Joey si passò la mano sul viso scuotendo piano la testa – E’ solo un ragazzino ed è mafioso.-
- Lo è suo fratello, lui è fuori gioco- ribattè incapace di guardarlo in faccia: era una bugia a cui non credevano entrambi.
- Non sono mai fuori, lo sai. Io non posso Com. Non un’altra volta-.
Il partner sospirò debolmente, posando la mano sulla sua, non avevano bisogno di parlare, ce l’avevano davanti agli occhi entrambi.
            Aveva 21 anni ma ne dimostrava a malapena 18. I capelli nerissimi e corti sempre spettinati. Gli occhi celesti, immensi, puntati costantemente verso il pavimento, troppo timorosi per fissare direttamente qualcos’altro di diverso dalle formiche. Frequentava filosofia, perché tanto, anche se avesse fatto pedagogia, nessuno avrebbe mai permesso ad un gay di insegnare ai bambini. Ed era anche inutile porre denuncia: in fondo non gli avevano rubato nulla, si erano limitati a scassinare la serratura e a dipingergli l’appartamento con slogan offensivi. Davvero non mancava nulla, aveva chiamato la polizia solo perché si era spaventato. C’era abituato. Certo, avrebbe fatto meglio a spacciarsi per etero, ma non era etero e non voleva nascondersi, per cui non gli restava che sopportare, giusto?L’aveva detto tutto in un fiato, tenendo lo sguardo basso, come se gli dispiacesse far perdere tempo ai due agenti di polizia seduti in fronte a lui. E Joey Kinsley, 24 anni, neodiplomato all’accademia di polizia, si era vergognato di se stesso e, quella notte, aveva riaperto l’incartamento per trafugare il numero di telefono di William Santiago. E non l’aveva fatto per lavoro.

Malcom sospirò piano agitando la birra che si stava scaldando – Senti, so che hai amato Will più di qualsiasi altra cosa al mondo…-
Jo inspirò irritato, ma il partner gli strinse il braccio scuotendo la testa – No, non interrompere. Fa il bravo bambino ed ascoltami, moccioso. Sarò molto più vecchio di te, comincio anche ad avere i capelli bianchi e se la vuoi tutta ogni tanto ringrazio il buon dio che ancora ce li ho, e voglio che mi ascolti. Ti hanno affidato a me che eri ancora un cadetto che puzzava di latte e di pannolini, ti conosco da più tempo e meglio di uno dei miei figli e so che lo amavi veramente. Cazzo ma tu lo sai che colpo che mi è preso quando vi ho scoperto? Se chiudo gli occhi ancora vi vedo…tu che da un giorno non rispondi al telefono…io che salgo le scale e trovo la porta del tuo appartamento aperta. Ho subito pensato al peggio, è per quello che sono entrato silenzioso con la pistola in mano. Ti vedevo già steso in un mare di sangue, assassinato come il buon vecchio Rice ed invece…tu eri steso sì, ma sul divano, anzi per l’esattezza sul corpo seminudo di Will che ti stava – una smorfia gli arricciò il naso – leccando il collo ed infilando una mano nei pantaloni. E sai qual è stata la mia prima sensazione? No che non lo sai, perché mi sono ben guardato dal dirtelo. Però mi avete fatto schifo, tu mi hai fatto- sospirò aumentando la presa sul braccio di Jo, non trovando il coraggio per fissarlo negli occhi. – Sì, schifo. Cazzo, mi avevi visto nudo sotto la doccia un milione di volte, avevamo fatto la lotta, stesi su quel tatami con le gambe avvinghiate, avevamo pure dovuto condividere lo stesso letto e tu eri gay. La prima cosa che ho pensato è che ci avevi goduto come un pazzo, che magari ti eri pure eccitato pensando a me. M’immaginai i tuoi occhi che mi guardavano vogliosi ed allupati. E così me ne ero rimasto immobile davanti a voi, pensando che non volevo più lavorare con te, anzi nemmeno vederti ed intanto quell’idiota di Will si era spaventato, aveva urlato e tu eri rotolato giù dal divano ed afferrato la pistola impugnandola come ti avevo insegnato io. Tu hai sorriso, sei arrossito hai detto – Ciao, Com- come se fosse la cosa più ovvia del mondo e sei andato ad abbracciare Will. E io mi sono sentito il cazzone più cazzoso di questa terra. Bisognava essere dei folli egocentrici per aver pensato quello che avevo pensato io. Tu non mi avevi mai guardato con quegli occhi e non ti ho visto guardare mai nessuno in quel modo. Oh, ora conosco la scintilla che ti si accende quando qualche bel ragazzo ti fa venire strane idee in testa, ma quello sguardo…Lo amavi, lo so. E non voglio nemmeno dire che credo di sapere cosa hai provato, perché Dio mi aiuti, non lo voglio nemmeno immaginare. Se Sarah o uno dei ragazzi dovesse…- si morse le labbra incapace di formulare a voce il pensiero – Jo, lui non ti amava-
Joey strattonò il braccio cercando di sottrarsi alla presa ferrea, ma Malcom non lo lasciò – Non sarebbe mai morto se ti avesse amato perché non sarebbe mai andato in quel locale se ti avesse amato.-.
- Non sarebbe mai morto se io gli avessi impedito…-.
- Cosa? Di andare in un night club pieno di prostituti?Di vendersi a sua volta? Di farsi scopare da un altro? Di innamorarsi di un mafioso?- sibilò liberandogli il braccio e Joey ne approfittò per nascondere il viso tra le mani.
- Will amava Walter non te, Jo.-
Joey non rispose, non voleva rispondere. La birra sul tavolo si stava scaldando, sgocciolando la condensa sui sottobicchieri ormai umidi.
- Come siamo finiti a parlare di questo?- sussurrò.
- A causa di un ragazzino mafioso che è davvero innamorato di te e che probabilmente avrà rubato le informazioni alla Famiglia per portartele.-
- Peggio ancora. I dati non servono a nulla, il giro di droga sembra essersi liquefatto come un pupazzo di sole ai carabi e lui si sta mettendo nei guai per nulla.-
Malcom sospirò sorseggiando un goccio di birra - J…-
Joey alzò la mano, evitando di guardarlo in faccia – Non voglio parlare di Dom, né di William- mormorò e il compagno annuì mestamente.
- Mai più- aggiunse sottovoce Joey.
Per un po’ rimasero in silenzio, seduti uno davanti all’altro, le ginocchia che si sfioravano nello spazio ristretto.
- Come stanno Luke e Mel?- domandò Jo mordendosi piano la bocca: Com era il suo più vecchio amico, come avevano fatto a raggiungere il mondo dei convenevoli forzati?
Ma Malcom sorrise – Bene, anche se sarebbe ora che lo zio Jo venisse a provare la loro ultima invenzione: indovina che Pokemon è. Ieri mi ci hanno fatto perdere due ore e per quanto mi sforzi quei mostriciattoli sono infiniti. Se trovo quello che li ha inventati, ti giuro, lo sbatto dentro con l’accusa di istigazione alla tortura.-
Joey rise – Ti hanno fatto perdere la partita- disse serafico e l’uomo annuì – Dannazione e pentimento, sì.-
Gli occhi di Joey brillarono maligni – Ti sei perso una gran bella partita sono stati fenomenali.Ho dovuto legare ed imbavagliare Dom, ma ne è valsa la pena.-
- Grazie, infierisci. Ma se hai visto la partita, questo quando te lo sei fatto?- chiese sfiorandogli un piccolo succhiotto che iniziava a scurirsi.
- Ehm, dopo- rispose sibillino ricordando benissimo il corpo sottile di Dom, finalmente liberato dei foulard che lo avevano imprigionato, che gli si adagiava addosso con un sospiro soddisfatto iniziando a tempestargli di piccoli bacetti il collo.
- Racconta!- supplicò Malcom e Joey sgranò gli occhi allibito fissando pensieroso quel vecchio amico dai capelli sale e pepe.
- Mio Dio, mi sta contagiando- sorrise rendendosi conto di averlo frainteso in modo colossale – hanno vinto i Giants.-
- Ecco, hai detto tutto, per caso sai quanto hanno pagato per comperarsi la partita, perché io non crederò mai che abbiano vinto per merito-
Joey iniziò a fare il reportage dettagliato e l’uomo, seduto al tavolo dietro di lui, si calcò meglio il cappellino dei New York Yankees sulla testa lasciando un paio di dollari di mancia.
Quello che aveva sentito gliene avrebbe fruttato mille volte tanti.
Ora aveva un’esca perfetta.


            Con una smorfia Roy arricciò il naso: gli bruciava la gola, era troppo secca. Con un mugugno si accoccolò in posizione fetale afferrando il grosso piumino, tirandoselo fin sopra i capelli, era piacevolmente caldo. Una parte antipatica della sua mente gli fece notare che, in effetti, era un po’ troppo caldo e non c'erano nemmeno spifferi gelidi ad accarezzargli la faccia, ma Roy la mise a tacere: probabilmente era andato in camera con qualche cliente e stava dormendo al Purple. Ricordava chiaramente delle mani che gli aprivano i vestiti, lo tastavano e gli richiudevano il pigiama. Quando mai lui aveva indossato un pigiama? Mugolò disperato affondando il viso contro il cuscino morbido allungando una mano ad accarezzarsi la gamba. Un pigiama di seta per di più? Non era al Purple…ma era così importante sapere dov’era? No, faceva caldo e non c’erano mani ad accarezzarlo, insomma si stava bene…ovunque fosse. Con un ringhio balzò a sedere sul letto e il cervello ondeggiò nella sua testa andando a sbattere da qualche parte, facendogli tanto male da costringerlo a chiudere gli occhi. Gli era venuta la febbre e Lleroy l’aveva…riportato a casa…sì, ma dopo?Ricordava il ponte di Brooklyn e poi…
- Cazzo- sibilò alzandosi in piedi. Le gambe, anche se ancora deboli, sembravano sorreggerlo.
A piedi nudi, uscì dalla camera, appoggiandosi per un istante alla porta. Chissà perché aveva pensato che il DeChicco vivesse in una gigantesca villa di periferia, attorniato da guardie armate e colossali alani assassini . Invece l’appartamento non sembrava esageratamente grande. Nel corridoio in cui si trovava c’erano altre quattro porte, una di fianco a quella in cui aveva dormito lui, due davanti e una portafinestra a vetri sullo stretto muro alla sua destra, che conduceva al terrazzo. A sinistra il corridoio si apriva, con un arco, su un gigantesco salotto, collegato alla cucina da un altro gioco d’archi. In silenzio avanzò verso la sala in cui capeggiava un imponente tavolo di legno scuro e lucido e Lleroy, avvolto in una lunga vestaglia di seta blu notte, era in piedi davanti ad esso, la schiena rivolta al corridoio, e spostava distrattamente delle pagine abbassando il cumulo alla sua destra per ingrossare quello a sinistra.
- Buongiorno- borbottò stropicciandosi un occhio, strascicando i piedi nella moquette morbida e folta che gli accarezzava piacevolmente le piante.
Lleroy si girò di scatto e la seta leggera della vestaglia slacciata si gonfiò alle sue spalle come un mantello. Inconsciamente Roy prese nota dell’ampio petto nudo e dei muscoli dello stomaco che spuntavano sopra i bassi pantaloni color crema del pigiama.
- Dovresti startene a letto invece di prendere freddo-.
- Adesso sto meglio, posso anche tornare a casa-.
- Stai meglio perché sei sotto l’effetto di non so bene quanti chili di medicine. Il dottore ha detto che te ne devi stare buono a letto, per cui tornaci-.
- Mi hai fatto vedere da un dottore-.
Lley annuì – L’assistenza medica gratuita è uno dei vantaggi garantiti ai dipendenti DeChicco-.
- E’ una violazione della privacy-, sbottò Roy, – tu non avevi nessun diritto né a farmi visitare né a farti dire come sto-.
Lleroy sospirò sorridendo, per un attimo aveva davvero creduto che quella peste l’avrebbe ringraziato. – Io ti pago per il tuo corpo, in pratica la merce che io acquisto è il tuo corpo e ho il diritto ed il dovere di assicurarmi che la mia merce sia sana prima di ehmmm affittarla; specie se la merce è così idiota da non cercarsi un dottore suo. Cosa diavolo ci fai con 700 dollari? Frank mi ha assicurato che non ti droghi e se anche ti facessi di erba..cazzo, per fumarti 700 dollari dovresti usare i pezzi da 10 al posto delle cartine.-
- Frank?-
- Il dottore…-
- Ah bene, ha preso il microscopio per vedere se avevo i buchi delle siringhe sulle braccia? Gli hai detto di controllare sotto i testicoli? Molti tossici se la calano lì.-
Lley sospirò; Frank era probabilmente il dottore più in gamba di tutto lo stato di New York e i risultati delle analisi del sangue avevano solo confermato quello che il dottore aveva capito al primo sguardo.
- Vuoi una tazza di caffé?- chiese aggirando il tavolo per raggiungere un grosso bollitore.
Roy aprì la bocca e la richiuse sconcertato. Stava ancora decidendo cos’era accaduto nei tre secondi successivi alla sua sfuriata, che l’uomo gli porse una tazza alta di splendida ceramica azzurra.
- Grazie-, borbottò afferrando il manichetto arcuato.
- Prego-, rispose Lley rimanendo immobile davanti a lui, così vicino che le loro ginocchia quasi si sfioravano.
Roy riaprì la bocca e di nuovo la richiuse, forse il dottore gli aveva trovato una malattia mortale? Era per questo che quell’energumeno di un dittatore era così gentile? O forse…magari aveva messo del veleno nel caffé e lo voleva uccidere? Con circospezione posò le labbra sul bordo liscio della tazza, assaggiando il liquido bollente, scoprendo all’improvviso di averne una voglia incredibile.
- Roy…- si sentì chiamare piano e finalmente tutto assunse una ragione, la sua insolita gentilezza, il caffé, il fatto che fosse mezzo nudo e che gli stesse davanti quasi appiccicato: ci stava provando.
- …quanti anni hai?-
Il caffè gli si ghiacciò in gola, congelato dal brivido violento che gli serpeggiava per la schiena. Non era una bella domanda. Nemmeno un po’.
- 21- borbottò con le labbra immerse nella tazza.
- Strano, a Dom hai detto che ne hai quasi 20 –.
- Magari speravo che gli venisse un attacco di pedofilia, sai com’è….non è che hai anche dei biscotti?-.
- Perché invece non mi dici quanti anni hai prima che io mandi Erik a scartabellare i registri dell’anagrafe?-.
- Non puoi farlo è illegale. -.
Lley sorrise – Ma davvero? Cosa vuol dire quasi 20?-.
- Che tra poco compio gli anni -.
- 20 anni il prossimo mese?-
- Il 7 gennaio-, ammise con un sussurro.
Lleroy chiuse gli occhi – Tra tre mesi… Io ho messo al bar un ragazzino che non ha ancora l’età minima per bere-.
- Ti preoccupi di cose strane tu…uno i cocktail li faccio e non li bevo...due mi fai vestire come un bambino perché così i clienti di quella casa chiusa si divertono di più…davvero credi che ti arresteranno solo perché io faccio i cocktail?-
Lleroy scosse la testa appoggiando distrattamente la tazza sul tavolo, macchiando un angolo delle carte che lo ricoprivano, per andarsi a sedere sull’immenso divano di pelle bianca.
- Dove finiscono tutti i soldi che prendi e…Roy, sto decidendo se continuerai a lavorare per me o no, per cui vedi di essere sincero-.
- Li mando a casa,– disse fissandolo negli occhi – a mia madre, vive a Newark con – distolse lo sguardo – mio fratello.-
- Hai un fratello? Quanti anni ha?-
Roy si giròdi tre quarti, verso le grandi finestre alla sua sinistra, scrutando il cielo limpido. Doveva essere all’incirca mezzogiorno.
- 25, fa il magazziniere in un piccolo supermercato.-
- E’ il maggiore… dovrebbe essere lui a vendere il suo corpo per mantenere voi-.
Roy sorrise – Brutto com’è dovrebbe pagare. Cos’ha detto il dottore? Ho l’influenza?-
- No, è solo un brutto colpo di freddo – rispose sorvolando sul fatto che il colpo di freddo era stato aggravato dallo stress e da una pessima alimentazione al limite della malnutrizione.
- Non ho possibilità di avertela attaccata allora? Peccato, mi sarebbe piaciuto vedere che faccia fai quando stai male.-
Lley inspirò profondamente – Torna a letto-.
- Non ne ho bisogno, sto benissimo, se mi ridai i miei vestiti vado a casa.-
Lleroy gli posò la mano sulla spalla attirandolo verso di sé, sfiorandogli con le labbra la fronte appena tiepida e Roy sgranò gli occhi.
- Cos’è? E’ tardi per l’erezione mattutina…o forse hai magari scoperto che esiste il viagra?-
Le dita dell’uomo lo strinsero con forza – Mi stai stancando, moccioso. Tu lavori per me e se io voglio scoparti o solo sentire se hai la febbre tu ti sottometti e basta.- sibilò contro il suo orecchio.
Roy grugnì – Non…-
-Ti pago abbastanza?- concluse per lui - Ok, allora avrai un aumento di 50 dollari alla settimana, in cambio verrai a vivere qui, vitto e alloggio inclusi, così la smetterai di chiedere soldi e terrai chiusa quella fogna-.
Per un istante gli occhi di Roy si allargarono incredibilmente prima di restringersi in due fessure sottilissime – Un aumento, vitto e alloggio… devo diventare il tuo mantenuto?-
Lley sorrise – Certo che no. Se devo prendermi un mantenuto mi cerco uno che sappia fare sesso come si deve.-
Un rossore violento colorò le guance di Roy che lo fissò irritato –Io so…-
- Tu verrai a vivere qui perché non è ammissibile che uno dei miei dipendenti viva in una topaia; va contro i principi dei DeChicco. E tu lavori a tutti gli effetti per me.-
Roy scosse la testa, che stava tornando a farsi pesante, - Non capisco. Un aumento, vitto e alloggio per avere quello che poi tanto ti prendi lo stesso con la forza?-
- Non ho mai usato la forza, sei sempre stato consenziente, magari non partecipe, ma consenziente sì. Quello che chiedo io è questo: io ordino e tu ubbidisci, senza fare storie. E non si tratterà solo di venire a letto con me, io parlo di lavori come quello di ieri sera, o quello che hai fatto con Mr Everege. –
-Insomma…mi stai arruolando.-
Lleroy sorrise maligno – L’ho già fatto. Ora formalizzo.-
- E io non posso chiedere un aumento maggiore e stare per conto mio vero?.-
- No, sei minorenne ed hai bisogno di un tutore e sei stupido e manderesti lo stesso tutto a casa e- aggiunse interrompendo sul nascere la sua protesta – per essere lasciati soli bisogna essere addestrati: autodifesa, sparare, cose del genere.-
- Il contratto è rescindibile?-
Lleroy sorrise – Certo. Con la morte.-
Roy sospirò rumorosamente e Lleoy sorrise – Allora sto aspettando una risposta.-
- Perché posso anche dire di no?-
- No-
- E allora non fare domande idiote, ovvio che accetto.-
Lley annuì soddisfatto – Volevo sentirtelo dire. Ora torna a letto.-
- Non voglio mi sento bene.-
- Torna a letto Roy, è un ordine.-
- Ma è un ordine idiota, non ho nessuna intenzione di seguire ordini idioti-.
- E’ ora che tu comprenda i vantaggi dell’obbedienza- sputò tra i denti contratti Lley afferrandolo per la vita e caricandoselo con uno strattone su una spalla, trattenendolo per i polpacci, incurante della testa che gli sbatteva contro le gambe.
- Mettimi giù.- chiese. Improvvisamente si sentiva il cervello appesantito da troppo sangue.
- Tranquillo, appena trovo un letto, ti ci sbatto sopra e…-
- Non è carino sbattersi i malati, fratellino-. Ridacchiò la voce divertita di Dominique.
- Serve una mano capo?- chiese Joshua trattenendo a stento una risata .
- Più che una mano gli serve un’altra cosa, il suo non gli funziona bene- trovò la forza di aggiungere Roy.
Gelido Lleroy fissò il fratello ed il proprio braccio destro, immobili davanti alla porta dell’entrata.
- Perché i cani non vi hanno sbranato? E come diavolo siete entrati?-
- Perché sono le undici e mezza ed avevano il permesso di farlo solo prima delle otto e Dominique ha le chiavi-.
- Non te le ho ancora sequestrate?-
Dom sorrise scuotendo la testa, mostrando un vistoso portachiavi a forma di papero da cui pendeva un mazzetto colorato di chiavi – No-.
- Bene te le sequestro adesso – brontolò facendo scivolare Roy lungo tutta la sua schiena, fino a farlo stendere per terra, per poi strappare le chiavi dalla mano del fratello.
- E scusa, mica lo sapevo che stavate facendo il giochino del capo che violenta il sottoposto. Credevo che, quando hai detto che era malato, fosse malato per davvero non che fosse solo perché lo volevi tutto per te. Vedi ho portato anche la torta al cioccolato.- annunciò mostrando la coloratissima confezione squadrata.
- Sono malato- borbottò Roy alzandosi lentamente da terra: la testa aveva ripreso a girargli leggermente.
Dominique scartò il fratello raggiungendo Roy per aiutarlo a sedersi sul divano – Vedrai che un tè caldo con una buona fetta di torta ti rimetteranno in sesto più velocemente dell’aspirina- lo rassicurò con un sorriso. –Ehm, Lley, possiamo restare vero? Non è che voi volete continuare con il vostro giochino erotico vero? Davvero, a guardarlo non mi sembra il caso.-
Lleroy aprì la bocca e la richiuse, scuotendo la testa e posando una mano sulla spalla di Joshua per invitarlo ad entrare.
- Non ti preoccupare Dom, - borbottò Roy – tanto è a breve scadenza-.
Una mano fresca gli si posò sulla testa per poi scivolare languida ad accarezzargli l’orecchio e il collo prima di fermarsi sulla nuca. – Porta pazienza- sussurrò sensualmente Lley costringendolo a girare il viso verso il suo – ti rifarai dopo, sai, il cioccolato è afrodisiaco e tu hai appena accettato di eseguire tutti i miei ordini senza lamentarti- insinuò malizioso.
- Sai che fatica: non ti funziona , nemmeno il Viagra ti resuscita, e per di più dici che non so fare sesso.-
- Bhè, se hai bisogno di qualche ripetizione su come fare sesso chiedi pure, io sono un maestro- si offrì ridacchiando Dominique.
- Dom- sbuffò Lley facendo scivolare le chiavi che gli aveva sottratto in grembo a Roy – piantala. E vedi di trovarti un altro posto dove nasconderti dai tuoi amanti gelosi, perché la tua stanza è occupata. E tu perdi quelle chiavi che io ti scotenno ed uso la tua pelle come scendiletto- grugnì all’insegna di Roy.
- Uno sta via un po’ di tempo e già cedono la sua camera. Proprio vero: parenti serpenti, meno male che non ho nessuna intenzione di dovermi nascondere e che tanto Jo non è geloso- sospirò allungando un piattino con la torta a Roy. Per un attimo si guardarono negli occhi, poi lo sguardo di Dom gli scivolò addosso, squadrandolo attentamente.
- Quello è il mio pigiama. Com’è che il mio pigiama sta meglio a te che a me?- chiese, ma Roy non si sentiva in grado di rispondere. Dominique gli aveva appoggiato le mani sulle ginocchia, che avevano iniziato a bruciargli più della fronte, e gli parlava così da vicino che sentiva la carezza del suo fiato lambirgli la pelle. Sarebbe bastato un piccolo movimento, un accenno di movimento, perché le loro labbra si sfiorassero.
- Sei fastidioso- ringhiò Lleroy.
Dominque sorrise – Sei geloso?- chiese posando la testa sulla coscia di Roy che spalancò gli occhi.
- Di un pel di carota senza barba?- ribattè sarcastico.
Dominique si alzò in piedi accarezzandosi oltraggiato una ciocca ramata – Non sono arancioni; è uno stupendo, invidiabile rosso Tiziano.-
- Sì, e hai gli occhi verde Paolo Veronese. Joshua sei venuto qui per illuminarci con le tue perle di saggezza o hai un motivo valido?-
Jos sorrise – Più valido del gustarmi questo splendido quadretto di famiglia?- ridacchiò – Ovvio- ritrattò immediatamente notando lo sguardo assassino del proprio boss. Aveva il vago sospetto che Lley fosse leggermente irritato e aveva il non vago sospetto che, tra tutti i presenti, lui fosse il capro espiatorio perfetto.
- Ero passato stamattina, ma Magda mi ha detto che i cani avevano il permesso di sbranarmi se provavo a disturbarti.-
- Che ore erano-.
- Le sei e tre quarti-.
Roy si girò per osservare il suo terribile ‘maestro del vestire’ come amava farsi chiamare. Di solito Jos non lasciava il locale prima dell’una di notte, quando era sicuro che le sue, autoproclamate, abilità di estetista non potessero essere più necessarie, cosa ci faceva sveglio a quell’ora antelucana?
- Che cosa ci facevi da queste parti a quell’ora?- chiese squadrandolo con sospetto: era davvero Joshua quello? Non c’erano pantaloni attillati, non c’erano magliette di tulle o camicette fronzolute. Non c’era l’immancabile boa di piume. Solo un paio di larghi pantaloni mimetici e una maglietta a maniche corte nera che metteva in risalto la muscolatura tornita più di tutte le scollacciate camicette a volant che indossava.
- Un po’ di jogging. Sai che ti dona il verde acido? Ricordamelo per favore che ho un paio di completini che non sono mai riuscito a far mettere a nessuno. Senti Lley, Dom mi dà la sua parola che non violenta Roy, Roy mi promette che non salta addosso a Dom, pena per entrambi un giro a Disneyland con addosso uno dei vestitini più succinti che trovo nei camerini e noi da bravi vecchi ce ne andiamo nel tuo studio ok?-
Lleroy non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto, ma annuì precedendolo lungo il corridoio fino alla porta accanto a quella in cui aveva dormito Roy.
Joshua chiuse la porta dietro di sé, accomodandosi su una delle due poltroncine di pelle davanti alla grossa scrivania di mogano, mentre Lley si piazzò davanti all’ampia finestra che dava su un giardino quadrato che aveva in comune con la palazzina accanto.
- Hai lasciato Violence libera- disse osservando con un sorriso la boxer ambrata che correva dietro ai passerotti.
- Mi odia, le ho impedito di catturare una lucertola stamattina e ora mi tiene il muso, lo sai come ti guardano no? Con quei loro occhioni sempre tristi, mi fa sentire una carogna. Viene a vivere qui?-
- Sì-
Jos annuì. Non c’era nulla di strano, era quello che facevano. Arruolavano ragazzini della strada, con del fegato, ma privi di tutto e ne facevano degli uomini. Dei loro uomini. Il vecchio don Tony aveva fatto lo stesso con lui tanti anni fa. Era un ladruncolo di mars, patatine fritte e autoradio e gli uomini di DeChicco l’avevano colto in flagrante. Se lo ricordava bene il boss, immenso, circondato dai suoi uomini. Si era sbattuto le mani sulla pancia prominente un paio di volte e gli aveva chiesto se voleva vivere in quella merda per tutta la vita. Lui aveva detto di no e don Tony l’aveva portato via a sua madre, felice di sbarazzarsi di un peso in cambio di una fornitura annua di Jack Daniels, per condurlo in casa sua ed insegnargli tutto quello che sapeva. L’aveva reso ricco. Gli aveva dato un lavoro e gli aveva chiesto in cambio solo di essergli fedele e di stare accanto a quel pischello di suo figlio. E lui l’aveva fatto.
- Vuoi che lo addestri un po’? Potrebbe venire a stare di là con me - .
Lleroy tacque fissando la palazzina davanti alla sua. – No, per ora no, resta quel che sei. Magari più avanti, devo ancora decidere cosa fare con lui. Però, portalo al poligono, insegnagli a sparare, quello sì. E adesso dimmi.-
- Leggi. Era sotto la porta del Purple questa mattina. Me l’ha portato Ros stamattina.- disse sottovoce porgendogli una busta aperta.
Lleroy lesse più volte, muovendo piano le labbra senza emettere però alcun suono le poche traballanti parole, scritte con inchiostro rosso, poi, all’improvviso, strinse il foglio tra le dita accartocciandolo.
- Quanti l’hanno letta?-
- Solo io, la busta era sigillata-.
- Pensano di spaventarci.-
- Ti manca la parte divertente: la busta era sul tavolo dei trucchi nel mio regno.- La cicatrice pulsò con violenza sulla tempia di Lleroy che si premette i pollici sulle tempie.
- Il che vuol dire che ce l’ha messa qualcuno che lavora al Purple. Sospetti?-
- Se escludiamo te, me, Roy, Erik e Ros stesso e, volendo essere buoni, Jake e gli altri della banda, io direi: tutti.-
- Non è una minaccia.- sussurrò Lley stendendo le pieghe del foglio - E’ una provocazione e anche scritta male-.
Lascia lic o muori
Joshua annuì – Lo penso anche io, per questo non ti ho buttato giù dal letto stamattina. Che facciamo?-
- Intanto non lo dire a nessuno. Era nel camerino, vero? Questo va a nostro vantaggio: dì a Ros che si trattava di una lettera d’amore per uno dei ragazzi. Secondo te cosa dobbiamo lasciare?-
- Credo sia una l,una i e una c…se si sono dimenticati la t…sono little italy e china town.-
- Canal street.-
- Già.-
- Mi stanno rompendo le scatole. Devo lasciare Canal? Come vogliono. Ritira tutti gli uomini, fai credere che ce ne stiamo andando.-
- Capo…-
- E vedi di scoprire se qualcuno della corte criminale ha qualche debolezza che i ragazzi del purple potrebbero sfruttare.-
- Cosa vuoi fare?-
Lleroy sorrise – Gli lascio Canal street, mi prendo la Lafayette e mi espando anche sulla Bowery. Non mi vogliono in mezzo a loro; mi metto da parte o , meglio, li circondo ai fianchi. Poi con me a destra e sinistra per espandersi dovranno ammazzarsi tra di loro.- disse sorridendo – Dove diavolo è quella torta?- chiese aprendo la porta dello studio e tornando in salotto.
Dom si era appollaiato sul bracciolo del divano accanto a Roy che rideva.
Lleroy si fermò in silenzio.
Suo fratello gesticolava raccontando di quando era stato sorpreso da due diversi amanti assieme ad un terzo e Roy, che dava corda prendendolo amichevolmente in giro, rideva.
Roy rideva come un normale ragazzo e Dom parlava con lui senza provarci, come un altro normale ragazzo. Con uno sbuffo si girò tornando sui suoi passi: voleva togliersi la soddisfazione di umiliare i cinesi prima che l’apocalisse devastasse la Terra.



* Good Charlotte :The world is black
** Good Charlotte:The chronicles of life and death



Continua...


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