Questa è una di quelle storie che nascono dal nulla, senza preparazione. Un minuto prima stai fissando la pagina bianca del Documento Nuovo di Word, e quello dopo le tue dita scorrono veloci sulla tastiera, seguendo una trama che sembrano conoscere bene.
E’ una storia breve, molto breve, e forse nemmeno particolarmente incisiva; forse avrei dovuto approfondire maggiormente alcuni aspetti, ma non mi andava di modificare troppo quello che avevo scritto di getto, sotto l’influsso di chissà quale Musa ispiratrice.
Quindi – errori di battitura a parte, che ho ovviamente corretto – ho lasciato quasi tutto com’era nella stesura iniziale e spero che il retrogusto di spontaneità e di innocente ingenuità che la sottoscritta vi ha sicuramente infuso non disturbi troppo la vostra lettura.
Detto questo, vi auguro di passare un piacevole quarto d’ora in compagnia di Gabriele… ^_^

 


Miracolo

di Enys

 

Voi credete ai miracoli?
Avete mai assistito ad una guarigione considerata impossibile? Avete visto gli occhi di una statua piangere lacrime di sangue o le mani di un uomo venire trafitte da invisibili chiodi arrugginiti?
Mia madre sostiene che io sia un miracolo di Dio, che la mia nascita non si può spiegare altrimenti.
Il giorno in cui Giulia, mia madre, rimase incinta, fu uno dei cosiddetti “incidenti di percorso”. Non me l’hanno mai nascosto, non ne avevano motivo. Non era per carenza d’amore che non desideravano figli, ma per una questione più pratica: il fisico di mia madre avrebbe difficilmente resistito ad un parto, essendo lei di salute molto cagionevole e di fisico molto fragile. Non le chiesi mai che cosa avesse concretamente, ma un giorno – dovevo avere intorno ai sette anni – le chiesi perché non mi dava un fratellino o una sorellina come zia Gemma aveva fatto con mio cugino Mattia, di un anno più grande di me. Direte che ero piccolo, che la mia sensibilità non era ancora particolarmente sviluppata, che non sapevo… ma la verità è che quel giorno mia madre pianse per ore, chiusa nella sua stanza, mentre io mi rintanavo in cucina, confuso. Qualche anno più tardi le feci la stessa domanda e, forse per la maggiore quantità di tempo trascorso, mi rispose semplicemente “La mamma sta male e non può avere altri bambini… tu sei un miracolo, mio dolcissimo Gabriele. Un angelo mandato da Dio come l’arcangelo che portò l’Annuncio alla Madonna.”
Naturalmente, all’epoca, non capii. Certo, avevo intuito che il mio nome aveva la sua origine nell’arcangelo Gabriele, colui che aveva portato a Maria l’Annuncio della nascita di Gesù per mezzo del suo grembo, ma non afferravo il suo legame con me.
Mia madre stava sempre molto male; aveva dolori alle gambe, alle braccia, ed una spossatezza che la coglieva nei momenti meno opportuni, lasciandola fiacca e priva di forze. I medici continuavano a ripetere che era un miracolo che fosse sopravvissuta alla gravidanza, che era un miracolo che io fossi un bambino sano e robusto, che era un miracolo che quel giorno non fossimo morti entrambi.
La mamma sorrideva, annuiva piano e diceva che sì, lo era davvero.
E così sono cresciuto nella consapevolezza di essere un miracolo.
Più crescevo, più me ne convincevo. A tre anni mi ammalai molto gravemente – di morbillo, se non ricordo male, aggravato da non so quale patologia – e rimasi in ospedale per molti giorni. Non so come abbia fatto a guarire; forse, semplicemente, il medico che mi aveva in cura si rivelò un ottimo professionista. In ogni caso, mia madre gridò per la seconda volta al miracolo.
A nove anni caddi con la bicicletta in un pendio che fiancheggiava la strada che dal paese portava alla collina, il mio parco giochi privatissimo e segreto. Mi slogai una caviglia e non riuscii a muovermi per raggiungere la strada e chiedere aiuto. Rimasi sotto un cespuglio, da solo, al buio e al freddo, fino all’indomani, quando i cani dell’unità cinofila locale individuarono il mio odore e portarono i soccorsi nel luogo in cui giacevo in stato di semi-incoscienza. Per la terza volta, per mia madre fu un miracolo. Poco importava che i soccorritori le dicessero che operazioni del genere erano all’ordine del giorno, per lei io non ero altro che un miracolo e tutta la mia vita era un inno di ringraziamento e lode al Signore.
Quando, a sedici anni, l’auto su cui viaggiavo si schiantò contro un muretto a causa della pioggia e vidi morire con i miei occhi i due amici seduti sui sedili anteriori, uscendone indenne, iniziai a pensare che forse qualcosa di vero poteva esserci. Forse ero davvero un miracolo, magari addirittura un’emanazione dell’arcangelo Gabriele stesso, venuto sulla terra per annunciare la gloria di Dio.
Divenni un fervente cattolico e mia madre fu felice della mia vocazione. Frequentavo la S.Messa ogni volta che mi era possibile, tenevo una Bibbia sul comodino consumata per l’uso, mi raccoglievo in preghiera diverse volte al giorno. Per svariati mesi accarezzai l’idea di entrare in seminario ed iniziare il cammino per diventare sacerdote; ne parlai con il mio Padre Spirituale, Don Vincenzo, che si dimostrò ben felice della mia scelta. Mi fece alcune domande sul perché/percome/quando/dove mi fosse venuta in mente questa possibilità, ed io risposi a tutto in assoluta sincerità.
Solo una cosa non gli dissi. In realtà tentai di parlare ma, quando fu il momento, mi mancò il coraggio. Mi sorpresi della mia indecisione, ma decisi di non farci caso; dopotutto, visto che la castità era una delle virtù principali a cui dovevo chinarmi per poter diventare sacerdote, il fatto che non mi interessassero le donne assumeva un’importanza quanto meno irrilevante.
Non che sapessi già allora di essere attratto dagli uomini. Se l’avessi saputo, diventare prete sarebbe stata l’ultima cosa che avrei fatto. Sapevo perfettamente quali erano i pensieri di “Santa Madre Chiesa” nei confronti dell’omosessualità, e non avrei mai avuto il coraggio, povero agnellino, di entrare nella tana del lupo di mia spontanea iniziativa.
Come dicevo, ancora non ne ero consapevole. Avevo capito da tempo che rossetti e minigonne non attiravano il mio sguardo, ma credevo ingenuamente che la Chiamata del Signore fosse così forte da oscurare ogni piacere e tentazione carnale.
Povero illuso.
La dannazione di Lucifero – il più bello degli Angeli – fu la sua superbia, il suo credersi pari a Dio; la dannazione di Gabriele – io, che portavo il nome del migliore fra gli Arcangeli – furono un paio di occhi grigi. Grigi come il cielo di Torino riflesso nel Po, quel colore striato d’azzurro che poteva rendere un volto terribile o magnifico.
Ma io non ho mai pensato che il volto di Michele fosse terribile.
Se ci penso ora, mi viene quasi da ridere per il paradosso. Gabriele e Michele. Due Angeli – no, due Arcangeli – unti dal destino anche nel nome.
In ogni caso, quando lo incontrai, capii che quella del sacerdozio non era la mia strada. Non potevo pregare il Cristo, in ginocchio nella cappella del seminario, se ad ogni istante il crocifisso apriva gli occhi mostrandomi, nella mia mente, quelle iridi chiare.
Lo vidi per la prima volta alla Messa – anche questo adesso mi sembra paradossale – accompagnare con passo lento e superbo il fragile procedere di un donna anziana al suo fianco che, venni poi a sapere, era sua nonna. Avevo vent’anni, all’epoca, e da sette mesi ero entrato in seminario. Lui ne aveva poco più di ventiquattro, e da almeno dieci non metteva più piede in una chiesa. Quella era un’occasione particolare: l’anno prima, in quel primo di agosto, suo nonno era mancato “all’affetto dei cari”, come recitava l’epigrafe, e per l’anniversario la nonna gli aveva chiesto il favore di accompagnarla alla Messa. Era una donnina piccola e malferma, gli anni ben visibili nell’intricata maschera di rughe che le deturpava il viso una volta molto bello. Solo gli occhi non erano cambiati, mentre i capelli si ingrigivano e le membra si ritiravano: quegli occhi azzurri così espressivi e liquidi che Michele sembrava aver ereditato.
Michele fece sedere l’anziana donna al primo banco, quello più vicino all’altare e a me, che servivo Messa accanto a Don Vincenzo, e prese posto accanto a lei.
Credo che, quando i nostri sguardi s’incrociarono per la prima volta, pensai che mia madre si era sempre sbagliata. Come potevo essere io il miracolo, quando davanti ai miei occhi giaceva languida tanta bellezza?
Passato l’attimo, presi a osservare il giovane sconosciuto con maggiore discrezione, studiandone ogni dettaglio. I capelli corti erano leggermente spettinati, come se non avesse avuto voglia di sistemarsi per andare in un luogo di nessuna importanza; era magro, forse un po’ troppo, con l’espressione allo stesso tempo attenta e svogliata tipica degli studenti; gli abiti erano semplici – un paio di jeans e una felpa blu notte di una taglia troppo grande – e la postura composta. Non aveva recitato le formule e le preghiere, non aveva aperto bocca nemmeno per pronunciare un “Amen”, non si era inginocchiato nel momento della rievocazione dell’Ultima Cena. Era rimasto seduto per tutto il tempo, gli occhi fissi ora sull’altare ora su di me – anche se forse era la mia segreta immaginazione a sperarlo – mentre la donna al suo fianco era devotamente assorta in preghiera e rispondeva con veemenza alle parole del sacerdote.
Le mie labbra, ormai, si aprivano automaticamente per recitare le formule; non pensavo minimamente alle parole che stavo pronunciando. La mia parte ancora devotamente credente inorridì, ma la parte irrazionale della mia mente – quella che non riusciva a distogliere l’attenzione da quegli occhi grigi – urlò di gioia.
Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra…
O Signore, non sono degno di partecipare alla Tua Mensa…
Benedetto nei secoli il Signore.

Ormai non prestavo più attenzione a Don Vincenzo e, prima che me ne accorgessi, la celebrazione era arrivata ad una conclusione. Mi riscossi come da un lungo sonno, guardando inebetito il banco vuoto in cui, fino a poco prima, era seduto il ragazzo con la nonna.
La domenica successiva, alla Messa delle 11.30, lo rividi, seduto nel medesimo banco. Ma questa volta la nonna non c’era. Di nuovo rimase immobile e silenzioso, fissando con insistenza l’altare e – ora ne ero certo – me. Alla fine della Liturgia, come sempre, scomparve.
Andò avanti per un mese.
Per quattro domeniche consecutive si presentò alla stessa celebrazione, si sedette allo stesso banco e si comportò nello stesso inspiegabile modo.
E io mi struggevo nel senso di colpa. E in quello di impotenza.
Di colpa nei confronti di Don Vincenzo e della strada che aveva scelto di seguire; nei confronti di mia madre, che si rallegrava immensamente quando pensava che il suo unico figlio – il suo arcangelo, il suo miracolo – aveva deciso di dedicare la sua vita a servire il Signore; nei confronti di me stesso, che mi arrendevo alla prima avversità, alla prima tentazione.
Di impotenza nei confronti del Gabriele ventenne, giovane assetato di conoscenza ed emozioni, che si era perso nell’azzurro scolorito di quegli occhi sconosciuti; non potevo mollare tutto senza una garanzia, senza la certezza che lui, il mio miracolo, mi avrebbe accolto.
Per qualche tempo ancora, il prete – in potenza – che era in me ebbe il sopravvento e provai più volte ad aprire il mio cuore a Don Vincenzo nella Confessione. Per oltre tre settimane aprii e chiusi la bocca un numero spropositato di volte, mordendomi poi il labbro inferiore per la rabbia e l’indecisione.
Come se fosse venuto a sapere da chissà quale fonte il mio stato d’animo, una comunicazione del Santo Padre non fece altro che mettermi addosso ancora più confusione. In un comunicato ufficiale, questo nuovo Papa da poco eletto si lanciava in un panegirico sull’omosessualità come deviazione, come insulto al significato della famiglia, come alterità da sopprimere. Don Vincenzo annuiva convinto ad ogni parola, quasi le stesse ascoltando e non leggendo, mormorando qualche fastidioso e infelice commento. Capii perché ero stato così restio a confidarmi con lui e ringraziai la mia esitazione.
Per la prima volta, credo, chiamai il mio tormento con il nome che gli spettava: infatuazione. Ero attratto da quel ragazzo e questo faceva di me un omosessuale. Un deviato, un insulto, un errore. Almeno secondo “Santa Madre Chiesa”.
Lasciai il seminario senza troppe spiegazioni e in tutta fretta, sconvolgendo il povero Don Vincenzo. Tornai a casa, da mia madre, che per diversi giorni non riuscì a non guardarmi in volto senza un velo di tristezza e delusione negli occhi. Non sapevo che dirle, non potevo raccontarle la verità.
Tanto più che, ora che avevo abbandonato il seminario e che non avrei più avuto il coraggio di mettere piede in quella che era stata la mia parrocchia, avevo perso ogni speranza di rivedere quel ragazzo. Dovevo dimenticarlo, magari riprendere gli studi. Avrei potuto laurearmi in Filosofia, che tanto m’intrigava, e andare ad insegnare in una delle scuole del paese. Non mi sarebbe dispiaciuto.
Non rinunciai alla Fede. Quando un uomo incontra Dio, non può dimenticarlo senza un indicibile sforzo di volontà; volontà che io non avevo.
Quindi non vi rinunciai, ma smisi di cercarla tra i ceri della chiesa e i Cardinali del Vaticano. Non accesi mai più la televisione la domenica mattina per ascoltare l’Angelus del Papa in diretta da San Pietro; non mi rinchiusi più tra le fastose mura delle cattedrali o delle cappelle, se non per puro interesse artistico e architettonico. In compenso, dovetti comprare una nuova edizione della Bibbia, poiché l’altra ormai cadeva in pezzi, ed ogni posto in cui mi trovavo poteva trasformarsi in una cappella personale, se ne sentivo la necessità: la mia camera, una panchina nel parco, le scale dell’università.
Non ero un miracolo – o, almeno, sicuramente non ero un miracolo del Dio che avevo sempre servito, se davvero parlava per bocca del Papa – non ero l’arcangelo Gabriele. Ero Lucifero, condannato ai roghi dell’inferno, ma felice di averli preferiti alle colonne delle basiliche.

Mi piacerebbe, a questo punto, potervi dire che la mia storia è finita. Piacerebbe anche a voi, non è vero? E’ una classica struttura-tipo del racconto, quella che ci insegnano a scuola: l’equilibrio iniziale viene infranto da un evento di forte intensità emotiva – quegli occhi… – e il protagonista cambia vita fino al raggiungimento dello Spannung, il momento di massima tensione, dopodiché questa si scioglie e viene raggiunto un nuovo equilibrio, simile e tuttavia diverso da quello di partenza, che porta ad una conclusione.
Banale, no?
Ma dimenticate che io sono un miracolo, la mia vita non può essere banale.
Mentre giaccio qui, in coma, tra le lenzuola bianchissime dell’ospedale che odorano di malattia, mentre innumerevoli aghi mi perforano la pelle e sento le palpebre così pesanti da non riuscire ad aprirle, posso solo immaginare quello che mi succede intorno.
Se mi concentro, posso avvertire il pianto trattenuto di mia madre, che mi accarezza una mano fredda e immobile. Mio padre probabilmente non c’è. Che strano, vero? Eppure avrete notato anche voi che non l’ho quasi mai nominato… ma se una persona non è mai presente nella vostra vita, cosa vi obbliga a far sì che ne faccia parte? Debiti di sangue?
Ogni tanto, forse, le infermiere e i medici entrano nella stanza per un rapido controllo, constatano che nulla è cambiato dalla visita precedente e proseguono il giro dei pazienti.
Ormai dev’essere più di una settimana che sono in questo stato. Vista la spettacolarità dell’incidente, credo che tutti i quotidiani locali ne abbiano parlato e – chissà – magari anche quelli nazionali. Magari la mia foto è comparsa nei telegiornali, e i DJ delle stazioni radio hanno fatto il mio nome.
O forse, nella mia consapevolezza di essere Lucifero, sono solo diventato superbo.
Volete sapere cosa mi è successo? Niente di troppo infrequente, in realtà, ma quando la vittima è un ragazzo di ventisette anni molto stimato nel piccolo paesino di provincia, insegnante di Filosofia amato dagli studenti del Liceo Scientifico ed ex-seminarista, la vicenda assume un tono talmente colorito da attirare i giornalisti della cronaca nera.
Per essere breve, mentre attraversavo il parco di sera, immerso nella più completa oscurità e in un’inquietante solitudine – sono poetico, non trovate? – sono stato aggredito da una banda di criminali. Devono avermi visto pulito, ben vestito, con un orologio costoso al polso – il regalo di mia madre per il mio ventiseiesimo compleanno – e hanno pensato di servirsi di me per ottenere un riscatto. Non ricordo molto dei due giorni in cui sono rimasto sotto la loro “custodia”. Non so cosa mi abbiano fatto, prima di lanciarmi dal balcone del terzo piano in una strada affollata, sotto lo sguardo attonito dei passanti, perché mia madre non era riuscita a racimolare l’immensa somma di denaro richiesta.
So solo che ora sono qui e che dalla porta della camera asettica è entrato un giovane che conosco. Non è molto alto e quasi mi sembra di vederlo mentre indossa, come sempre, semplici vestiti acquistati quasi certamente al mercato. Però è pulito, ordinato, anche i capelli questa volta devono essere al loro posto. Entra con disinvoltura ma, anche se non posso vederlo e ho solo riconosciuto i suoi passi, posso percepire una certa esitazione.
Deve aver visto mia madre.
“Sì? Sta cercando qualcuno?”
Che strano, questa è la voce di mio padre. Allora forse non è vero che mi ha lasciato solo anche in questa situazione… solo che era troppo silenzioso perché potessi avvertire la sua presenza.
“Perdonatemi, sono consapevole che non è il momento opportuno, ma… dovevo vedere Gabriele.”
Mia madre deve essersi voltata, perché ho avvertito un fruscio di vesti proprio al fianco del mio letto, e immagino che stia squadrando il nuovo arrivato con aria stravolta ma vigile.
“E’ un suo amico? Un collega di lavoro?”
Che cosa fai, sorridi? No, non credo ti permetteresti mai di ridere di mia madre e della sua innocente ingenuità. Però, nella sua ignoranza, non ha sbagliato.
“Sì, sono un collega di lavoro. Insegno Storia dell’Arte nello stesso liceo di suo figlio, signora.”
Credo che, a questo punto, mia madre si sia rilassata. Forse lui voleva solo vedermi, assicurarsi che stessi bene, che fossi ben curato… forse non le dirà…
“E’ il benvenuto. Gabriele sarebbe contento di saperla qui, ne sono sicuro. Posso sapere il suo nome?” chiede mio padre. La sua voce è roca, come se avesse pianto e, se non lo conoscessi fin troppo bene, direi che la causa è proprio quella.
“Mi chiamo Michele…” piccola esitazione. Amore, amore, che ti succede? Non sei tu quello sempre deciso? Avanti, dillo. “Sono il compagno di Gabriele.”
Per un attimo tutto tace. Non credo che i miei genitori abbiano realmente capito cosa intendesse dire Michele con la parola “compagno”. Forse pensano ad un amico, ad un collega…
Ma mia madre è meno ingenua di quanto credessi.
“Come, scusi? Non credo di aver capito bene…”
La sua mano trema nella mia, lo sento attraverso la pelle e un brivido mi percorre la schiena. Riesco a immaginare l’icona di Padre Pio fissare con cipiglio la figura immobile sulla porta, il Cristo crocifisso appeso sopra il mio letto cercare di aprire gli occhi per fulminare entrambi noi consapevoli peccatori. Ma forse non è vero, non lo farebbe. Forse Gesù, colui che ha portato sulla terra il messaggio divino dell’Amore, non giudicherebbe malvagi due cuori sinceramente innamorati.
Non so se Michele abbia fatto bene a rivelarsi ai miei genitori, ma so che se non l’avesse fatto avrei vissuto nella menzogna per tutta la vita.
“Sono il compagno di Gabriele. Stiamo insieme da più di due anni.”
Più di due anni… da quando, neolaureato, sono stato assunto al Liceo Scientifico e – sorpresa! – mi sono imbattuto nel giovane e misterioso insegnante di Storia dell’Arte dagli occhi grigi. Michele. L’Arcangelo della mia rinascita.
“Capisco…”
Cosa capisci, papà? Tu non hai mai capito niente.
Ma apprezzo lo sforzo.
“Forse è il caso che io e mia moglie la lasciamo per un po’ da solo con Gabriele… sono sicuro che lui apprezzerebbe.”
Per un attimo, a queste parole, ho avuto il sospetto che quello non fosse mio padre. Eppure la sua voce è inconfondibile. I suoi passi, ora che si è avvicinato al letto e ha sollevato con delicata fermezza mia madre dalla sedia, sono senza dubbio i suoi.
“Ma Ettore…”
“Vieni, Giulia. Lasciamoli soli. Siamo qui fuori se ha bisogno di qualcosa, Michele.”
E questo rumore cos’è? Papà, hai davvero messo una mano sulla spalla del mio amore? Lo hai fatto davvero, di tua iniziativa?
Papà, da quanto lo sapevi?
Ora che siamo soli, sento Michele accasciarsi sulla sedia lasciata libera da mia madre. Le sue mani tremano molto più di quelle della mamma quando mi accarezza la fronte e le guance. Deve aver riflettuto a lungo prima di presentarsi qui così… in effetti è più di una settimana che non lo vedo… o meglio, sento. Non posso ancora aprire gli occhi, ma la mia mente è lucida.
“Spero che tu abbia apprezzato i fiori. Li firmavo M., non avevo ancora il coraggio di rivelarmi ai tuoi.”
Ora capisco il profumo intenso che invadeva la stanza ogni mattina, quando mia madre raccoglieva i fiori lasciati da uno sconosciuto sulla porta e li metteva in un vaso accanto al mio guanciale. Credevo fosse lei a comprarli, ma mi sbagliavo. Era Michele, non mi aveva dimenticato.
“A quanto pare, tuo padre già sapeva tutto… non è rimasto minimamente turbato dalla mia rivelazione scioccante. O forse semplicemente se l’aspettava.”
Se potessi farlo, sorriderei. Dolce, tenero Michele… innocente e puro come il suo nome.
“Gli studenti mi hanno chiesto di portarti i loro saluti. Ci manchi molto a scuola, sai? E’ come se si fosse spenta una luce sfolgorante, e i nostri occhi si devono riabituare alla penombra.”
Non piangere, amore. Parla, sfogati, picchiami se vuoi, ma non piangere. Non posso sopportare le tue lacrime, soprattutto ora che non posso fare niente per asciugarle, se non stare fermo e immobile come una statua, nel tentativo disperato di aprire gli occhi.
“Ti amo.”
Sento le sue labbra posarsi sulle mie in una carezza appena accennata. Vorrei approfondire quel bacio, vorrei sentire il suo sapore, vorrei…
Ma non posso. Non ci riesco. E’ frustrante.
Lo sento uscire dalla porta. So che tornerà domani, questo mi rende sereno, e so che prima o poi io aprirò gli occhi.
E allora sì, potrai piangere, Michele, perché saranno dolci lacrime di gioia.
Nel frattempo, rimango qui, ad aspettare il risveglio.
Se volete farmi visita, sapete dove trovarmi.
Voi credete nei miracoli?
Io, forse, sì.

 

-fine-
 


Nota finale: Per una volta, non ci sono persone da ringraziare per la stesura del racconto se non me stessa. Visto che, però, è prassi comune almeno dedicare la storia a qualcuno, la dedico al mio amore Vale, che forse non la leggerà mai, ma senza cui non potrei vivere! *.*
Inoltre, come nota finale dell’autrice, volevo rendere noto che il finale doveva essere diverso, nelle mie intenzioni prime: Gabriele doveva svegliarsi, il miracolo compiersi ancora una volta. Poi, a ragione o a torto dovete dirmelo voi, ho deciso di cambiare e di lasciare tutto molto più sul vago. Spero, in questo modo, di aver reso meno banale un racconto che di originale non ha molto.
Infine, per quanto riguarda gli accenni alla Chiesa, spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno. Se l’ho fatto, me ne rammarico, ma chi scrive è una cattolica che crede nell’impegno di ogni singola parrocchia nei confronti della comunità (o, almeno, delle parrocchie della mia Valle d’Aosta) ma che non condivide neanche di sfuggita le posizioni del Vaticano e del Papa in merito a diverse questioni (per citarne solo alcune, politica, omosessualità, eutanasia…).
Detto questo, non mi resta che ringraziarvi per la lettura e per qualsiasi commento – positivo o negativo – vorrete lasciarmi. ^_^
Enys