Millenovantanove

di Fiorediloto

 

 

 

Terrasanta, Anno del Signore 1099

I grani del rosario scorrevano veloci.
Non c’era quasi più luce nella tenda. L’ultima fiammella tremolava disperatamente sul suo risicato mozzicone di candela, tenace nel suo voler rimanere accesa, ma più flebile ad ogni istante. Dall’orlo dischiuso della tenda, ampie folate di vento invernale vi soffiavano contro, impietose.
I grani di madreperla ticchettavano gli uni con gli altri in una melodia frenetica e diseguale.
Scorrevano, veloci loro, mentre la croce di pregevole fattura dondolava lenta nella luce sporca della fiammella.
Le mani che stringevano il rosario, tormentandolo con le loro continue, nervose carezze, erano insieme estremamente belle ed estremamente brutte. Lunghe, affusolate e di un bianco delicato e raro, appena dorate dalla forzata esposizione al sole, ma callose, indurite dalla spada, sfregiate da cicatrici profonde e da una singola mutilazione: il mignolo della mano sinistra, privo di una falange.
Colui che gliel’aveva tolta non aveva avuto il tempo di rallegrarsi, perché un attimo dopo era caduto al suolo, trafitto dalla spada di Gaston. Gli occhi del francese avevano sfiorato quelli del suo comandante, e bevuto in un istante ogni emozione che trapelava dal suo sguardo: dolore, riconoscenza, premura, un briciolo di paura che andava svanendo nella frenesia della battaglia.
«Grazie» aveva detto l’altro, semplicemente, prima di fasciare la mano con un lembo del mantello e tornare a gettarsi nella mischia.
Passi silenziosi raggiunsero il proprietario di quelle mani, ma si fermarono rispettosamente a distanza. Il soldato si sfilò il mantello bianco, contemplando malinconico la croce rossa cucitavi sopra da sua madre. Fu colpito da una folata di vento gelido.
Qual era il vantaggio di avere una tenda personale se lui non consentiva che si accendesse un fuoco?
«Se io fossi un infedele, a quest’ora saresti già morto.»
Una palpebra si sollevò, pigramente.
«Se tutti gli infedeli fossero rumorosi come te, questa guerra l’avremmo già vinta.»
Si alzò da terra con un solo rapido movimento. Non perse tempo a spolverare le ginocchia escoriate, tirò giù le gambe arrotolate dei calzoni e rivolse all’altro uno sguardo ieratico e fiero.
Era sempre così, dopo le devozioni.
«Ti ho interrotto?»
«Avevo finito.»
Il soldato indicò vagamente la cassapanca posta ai piedi della branda. «Posso sedermi?»
«Se l’alternativa è guardarti passeggiare su e giù per la mia tenda, sì» rispose il comandante, andando a sedersi per primo. Un lento sorriso mitigò il sarcasmo del tono. «Accomodati» lo invitò, posando la mano sul posto vuoto accanto a sé.
Il soldato obbedì. Durante il tragitto, pochi passi, non poté fare a meno di contemplare ciò che era rimasto delle preghiere del suo superiore: pietre aguzze sparse con cura sul terreno, macchiate del suo sangue.
«Era da molto che pregavi?» domandò, in tono casuale.
«Sto bene, Gaston.»
Per tutta risposta, l’altro gli diede un piccolo colpo di tallone sul ginocchio. Il comandante risucchiò l’aria in un lamento senza suono.
«Domani raccontalo ai mori» disse Gaston, cupamente.
«Se insisti nel giudicare il modo in cui prego, amico mio, mi costringerai a chiederti di non vederci più» sibilò l’altro, guardandolo in tralice.
«E se tu insisti nell’invalidarti la notte prima di ogni battaglia, mi costringerai a legarti al tuo letto e slegarti al mattino.»
«Questo non è affar tuo.»
«Lo è, per motivi migliori di quelli che pensi.»
«Migliori del tuo personale attaccamento?» ribatté l’altro, tagliente.
«Motivi che riguardano la tua vita e quella dei tuoi uomini. Risparmiati il sarcasmo per chi lo apprezza.»
Detto questo si alzò e marciò verso l’uscita, rigidamente. Vi era quasi arrivato quando la voce dell’altro lo raggiunse.
«… scusami.»
Gaston si volse, in attesa.
«Il tuo attaccamento», Astolfo ripeté la stessa parola, «vale per me più di ogni altra cosa. Scusami. Sono molto stanco.»
Gaston annuì, già dimentico, e tornò a sedere al suo fianco. Erano così vicini che le loro spalle si sfioravano.
Non aveva mentito, il comandante: il sospiro che lasciò vibrare nell’aria era gravido di stanchezza. Lentamente, in modo quasi casuale, Astolfo appoggiò la guancia sulla sua spalla, respirando contro il suo collo.
«Devo farlo, lo sai.»
«Io non lo credo.»
«Lo credo io, e tanto basta. Devo farlo, per espiare. Lo faccio anche per te, per entrambi.»
«No. Per me no. Non voglio.»
«È necessario. Lo sai. Dentro di te lo sai, anche se continui a negare.»
«Io so che non voglio…» Si fermò, poi rinunciò al suo discorso. Sarebbe stato inutile, del resto. Lasciò passare due dita sul viso dell’altro, in una lenta carezza.
«Questa tenda è la più fredda di tutto il campo.»
«A me pare molto calda» mormorò distrattamente Astolfo, con voce roca. Gaston percepì nettamente un brivido risalirgli la spina dorsale.
«Astolfo…»
«Andiamo a letto. Sono stanco» mormorò l’altro, socchiudendo le palpebre.
Si chiedeva sempre, e quella volta non fece difetto, se Astolfo era conscio di cosa gli smuoveva dentro quando usava simili espressioni alla leggera, e se davvero le usava alla leggera o se non rientravano piuttosto nel preciso intento di farlo morire di crepacuore.
Cosa che un giorno o l’altro gli sarebbe senz’altro riuscita, se i mori non lo ammazzavano prima.
Ma fra le due, sapeva senza ombra di dubbio quale morte preferiva.
Si alzò, e passando dall’altro lato della cassapanca si accostò alla branda, misera imitazione di un letto, fornita solo di una coperta lercia e tarmata e di un mucchio di stracci simile, nella fantasia di qualcuno, a un cuscino. «Potresti avere un fuoco e una branda decente, se solo lo volessi» borbottò.
«A che mi serve un fuoco? Non basti tu a riscaldarmi?» mormorò Astolfo, e qui Gaston si voltò di scatto. L’aveva fatto apposta. Aveva assunto quel suo tono sornione che non prometteva niente di buono.
Astolfo girò intorno alla cassapanca, accostandosi all’altra sponda del letto. «Senti freddo, mon ami?» mormorò, sfilandosi la pesante casacca di lana.
Gaston volse di proposito lo sguardo altrove. «Abbiamo bisogno di ogni energia per domani, Astolfo.»
«Sono il tuo comandante, francese. So io di cosa hanno bisogno i miei uomini» ribatté l’altro, scostando di lato la coperta. «E di cosa hai bisogno tu» aggiunse.
Gaston esitò, poi si sfilò gli stivali e si distese sulla branda accanto a lui. Sopra la coperta allargò il proprio mantello e quello di Astolfo. «Gaston…» Il viso dell’italiano si incastrò nell’incavo del suo collo. Le sue mani, larghe e nervose, gli si aprirono sul torace, cercando le vie conosciute, accarezzando e tastando il suo corpo segnato dalle cicatrici.
«Potrebbe entrare qualcuno» mormorò il francese, pensando di ritrarsi e restando invece perfettamente immobile.
«Chiederebbe il permesso.»
«Non un superiore.»
«Non c’è motivo perché un superiore mi visiti a quest’ora.»
«Ma potrebbe succedere.»
«Nel qual caso?»
«Nel qual caso mi troverebbe nel tuo letto, e non so in quali condizioni.»
«Non c’è nulla di strano nel condividere un giaciglio. Fa molto freddo, l’hai detto tu.»
«Il letto del comandante? Non è un giaciglio da condividere.»
Astolfo espirò. «E sia. Esci.»
«… mi stai cacciando?»
«Sto dando ascolto al tuo buonsenso. Sarebbe davvero terribile se ci trovassero insieme, ora, alla vigilia della battaglia. Forse ci caccerebbero perfino dall’esercito. Non oso pensarlo. È meglio che tu torni al tuo letto, ed io resterò nel mio.»
Gaston lo guardò di sottecchi, indispettito. «Pensi che qualcuno possa entrare?»
«Non senza il mio permesso, ma, come mi hai fatto giustamente notare, potrebbe succedere di tutto. Il duca Guglielmo potrebbe scoprirsi desideroso di conferire con me a quest’ora della notte. Bisogna essere prudenti.»
«Il duca d’Aquitania non ha nessun interesse a conferire con te» borbottò Gaston.
«Né lui né nessun altro» assentì il comandante. «Ma non si può mai sapere…»
Il braccio del francese gli passò intorno alle spalle, attirandolo a sé. «Per questa notte correremo il rischio» mormorò.
Astolfo alzò gli occhi, una smorfia di compiacimento sulle labbra che l’altro fece appena in tempo a scorgere, prima che la bocca dell’italiano andasse a combaciare con la sua. Bevve il suo respiro, dolce di vino speziato. La mano destra, quasi per una volontà indipendente, risalì la schiena del comandante fino a tuffarsi tra i suoi lunghi capelli neri.
«La nostr’amor va enaissi com la brancha de l’albespi, qu’esta sobre l’arbr’en creman, la nuoit, ab laploi’ez, tro l’endeman, que-l sols s’espan per la fueilla verte l ramel. (1)»
«Non sapevo che fossi un poeta» ridacchiò Astolfo.
«Io no, ma il nostro duca lo è. E considera volgare ogni soldato del suo seguito che non conosca almeno una o due delle sue poesie…»
«“Voglio mettere le mani sotto il suo mantello” (2)…?»
«Ha buona fama, il nostro duca» ghignò il francese.
Le mani di Astolfo, leggere e veloci, avevano già sciolto i lacci della sua casacca. Fece per sfilargliela, ma Gaston lo fermò.
«Non scherzavo, mon ami. È molto tardi e noi abbiamo bisogno delle nostre forze per domani. Senza contare…» guardò oltre la sua spalla, i resti macchiati di sangue delle sue devozioni, «che non sarebbe bene per nessuno dei due morire in stato di colpa. Lo sai meglio di me.»
«È forse una colpa recare calore a un corpo che trema di freddo?» sussurrò Astolfo, in tono seducente.
Gaston socchiuse le palpebre. «La tua devozione, amico mio, è incostante come la mente di una donna.»
«Non paragonarmi a quelle creature senza cervello» ribatté il comandante. «Loro sono volubili. Io no.»
«Ma se per riscaldarmi devo correre il rischio che domani tu cada giù con me, trafitto nel bel mezzo di uno sbadiglio…?»
«Non aprirò la bocca per altro motivo che questo» replicò l’italiano, chiudendogli le labbra con le proprie. La mano che aveva slacciato la casacca attaccò i calzoni, denudando in un attimo quanto le premeva di più. «Noto che il tuo compagno di ventura non ha tensioni spirituali, amico mio…»
«… tensioni?»
«Solo d’altra natura…»
Le dita, lunghe e agili malgrado i calli che ne segnavano i polpastrelli, si disposero ad arrecargli tutto il piacere possibile. Gaston affondò i denti nella spalla pallida del suo comandante, emettendo un sospiro leggero.
«Ben volria mon cavalier tener un ser en mos brazt nut… » sussurrò Astolfo.
«Ebbene, mi hai» ribatté Gaston, lasciando scivolare una mano sulla sua per poi virare verso l’agognata meta.
«Con mia estrema soddisfazione» bisbigliò l’altro, stringendoglisi addosso.
La pelle di Astolfo sapeva di sudore e di terra bagnata – e anche di qualcos’altro, che a tutta prima non riconobbe, ma che istante dopo istante si distinse con prepotenza.
Desiderio. Ne assaporò ogni goccia aspra e salata, raccogliendola con la punta del lingua e impastandola di saliva calda – molto più calda dell’aria intorno a loro, che pure ormai ribolliva.
E se non era poi raro che due uomini, due crociati, due missionari di Dio cadessero nel peccato più atroce, finendo col riscaldarsi impudicamente l’un l’altro in un giaciglio stretto e freddo come la notte, era però raro, rarissimo e unico quello che Gaston provava nel muoversi sempre più veloce contro la sua mano, e nell’adeguare la propria per non restare indietro.
La bocca di Astolfo aveva il sapore del vino di Sicilia, e del mare che lambiva lo Stretto nella più calda giornata di sole.
Vi soffocò dentro un gemito. Fu presto raggiunto.
«Ma Dio, che è tanto grande e misericordioso e tanto più quanto più i suoi figli gli sono fedeli, non permetterà che noi moriamo in stato di colpa» mormorò Astolfo, come riprendendo un discorso appena lasciato.
Gaston aprì gli occhi. «A volte mi domando, Astolfo, se la tua è davvero fede o se preferisci ricostruire la religione a modo tuo.»
«Credo solo che il nostro stato ci renda migliori ai suoi occhi. La croce che portiamo è la Sua, in fin dei conti.»
«Dunque siamo dispensati dall’obbedire alle leggi comuni?»
«Dunque, io credo,» mormorò Astolfo, tirandosi su un gomito e accostando il viso al suo, «se è vero che domani dobbiamo morire, Egli non ci negherà la Grazia solo perché, in mancanza di un fuoco, ci è piaciuto riscaldarci l’un l’altro.»
Gaston sorrise. «Furfante della peggior specie, è per questo che non ne accendi uno nella tua tenda?»
«Dovresti saperlo, amico mio, che il freddo mi aiuta ad espiare. La sofferenza fisica…»
«… è il primo passo verso la redenzione, lo so. Non mi sembri molto sofferente, comunque.»
«Questo perché ho ancora bisogno delle mie forze, come hai detto tu stesso poc’anzi, per la battaglia. Dio non vorrà certo che io mi privi delle energie che servono per combattere in Suo nome!»
«Allora mi resta ancora ignoto il motivo per cui ti infliggi quello» mormorò Gaston, accennando alle pietre sparse più in là, mentre gli scostava i boccoli neri dalla fronte.
Il viso di Astolfo si rabbuiò un poco. «Ieri notte, se ben ricordi, non ci siamo limitati a ripararci dal freddo.»
Gaston tacque, catturato dalla livida luce dei suoi occhi. Piegò leggermente il capo in avanti, in segno d’assenso.
«La tua colpa non è così grave. La mia lo è. Perciò lasciami fare, ché se ritenessi di meritare la morte non me la procurerei certo facendomi ammazzare da un turco.»
Gaston trattenne il fiato. Avrebbe voluto domandargli: “E allora come?”, ma non osò.
«Pensa ciò che vuoi, ma per me le nostre colpe, se mai esistono, sono uguali» dichiarò, passandogli un braccio intorno al torace.
Astolfo non rispose.
«Se facciamo peccato, lo facciamo insieme. Non vedo la differenza, né vedo la differenza tra questa notte e quella passata. Se è lecito frequentare le puttane del campo, davvero non capisco in cosa quello che noi facciamo possa essere inferiore al rapporto tra una prostituta e il suo cliente.» Esitò. Poteva esporsi così tanto? «Noi siamo compagni. Ci difendiamo l’un l’altro, combattiamo entrambi nel nome di Dio, siamo… almeno io sarei pronto a morire per te. Come pure a vivere, per te. Non la pensi come me?»
Alzò lo sguardo. Astolfo ronfava beatamente, come uno senza un problema al mondo - uno che non dovesse rischiare la vita il giorno dopo.
«Canaglia» sibilò Gaston, lasciando affiorare suo malgrado un riluttante sorriso.
Contemplò per un istante il rosario che l’italiano si era posto al collo, e i grani di madreperla che facevano bizzarro contrasto accanto al segno rosso del suo morso. «È inutile» bisbigliò. «Non mi convincerai mai del contrario.»
Appoggiò la guancia sul cuscino e chiuse gli occhi.
L’indomani c’era pur sempre battaglia.

 


 

1) “Il nostro amore è come il ramo del biancospino che intirizzisce sull’albero, la notte, nella pioggia e nel gelo, fino all’indomani, quando il sole si diffonde attraverso il verde fogliame sul ramoscello.” (“Per la dolcezza della nuova stagione”) Si tratta di una lirica del provenzale Guglielmo IX duca d’Aquitania, lo stesso nominato nel racconto, che partecipò alla Prima Crociata (1095-1099).
2) La stessa lirica recita, più sotto: “Ancora mi lasci Dio vivere tanto che io possa mettere le mie mani sotto il suo mantello”. Ai posteri l’ardua sentenza.
3) “Vorrei stringere nudo una sera il mio cavaliere tra le mie braccia”. Un verso della contessa Beatrice di Dia, poetessa provenzale.

 

 

 

Note di chiusura: 1) Il racconto, come sarà parso chiaro a molti, è ispirato alla canzone “Millenovantanove” di Roberto Vecchioni. In realtà, l’idea della canzone è stata completamente stravolta. Astolfo non è tornato in patria e non si è sposato, o, se l’ha fatto, non ci è dato saperlo, dal momento che il racconto si ferma molto prima di tutto ciò. In sostanza, della canzone ho preso ben poco. Gaston è un soldato francese, Astolfo un italiano (qui promosso a comandante), e combattono insieme nella Prima Crociata. Astolfo, come nella canzone, ha una fede più profonda del compagno, ma ne ho eliminato il lato ossessivo e fanatico che costituisce la dannazione del Gaston di Vecchioni.


Millenovantanove

Il male del ritorno, Astolfo,
è questo non trovarsi più
Percorrere gli spalti fino all’alba
Senza sonno su e giù
Non sentire una voce se non l’eco nella sala d’armi
E chiedersi: “I ritratti sul muro cos’avranno da guardarmi?”

Il male non è stare senza donne
Di puttane ne ho da non poterne più
Il male è quella finestra
Dove dietro c’è la donna che eri tu
Il giorno che mi vestivi e dicevi:
“La guerra non è un fatto tuo”
E il giorno che mi insegnavi:
“Gerusalemme la prendiamo per Dio”

Per Dio, per Dio
No, è perché lo voglio io
Amore, amore, amore, amore mio
Per Dio, per Dio
Ma la sera ti baciavo io
Amore, amore, amore, amore mio

Se devo credere ai mercanti di Fiandra
Stai con quella che ride di più
Tiri di spada con la tua ombra
E sei felice, vabbè, o suppergiù
Chissà se stai scrivendo ancora poesia
Chissà con che sorriso le dici “anima mia”

Gaston è vecchio, Gaston è sempre bello
Beve ogni sera quanto vale il tuo cuore
Gaston ricorda tutto, ogni duello, e i nemici, e le tue ferite, amore
E ricorda parole che il vento era una brezza
La prima volta che ti ha dato una carezza

E Dio, e Dio
Quella tua storia insieme a Dio
Amore, amore, amore, amore mio
E Dio, e Dio
Va bene, sì, perfino Dio
Però la sera ti baciavo io

Se dormo sogno di sfidarti sempre
E farti un buco proprio dentro il cuore
Farti sentire tutto il senso
Di questo inutile avere dolore
E riempirti la pancia con la tua stessa spada
Perché tu non sei più lo stesso
E perché non ti veda

E Dio, e Dio
Ti salverebbe adesso Dio?
Amore, amore, amore, amore mio
E Dio, e Dio
Tientelo stretto, Dio
Amore, amore, amore, amore mio


2) L’etica medievale, com’è noto, condannava aspramente l’omosessualità, ma ne aveva una visione piuttosto ristretta. Quello a cui si danno i nostri crociati nel racconto, ad esempio, non era considerato un rapporto omosessuale – giusto alla stregua di una masturbazione, solitaria o in compagnia aveva poca importanza. Nel rapporto vero e proprio, poi, era considerato omosessuale solo chi rivestiva il ruolo di passivo, degradandosi al ruolo della donna e sovvertendo l’ordine di natura, mentre l’attivo “tutt’al più sbagliava contenitore” (V. Evangelisti). Ragion per cui è facile capire perché Astolfo sia preda di tutta una serie di “astratti furori”, mentre Gaston resta fondamentalmente indifferente al problema.

3) L’idea di Astolfo di una specie di “indulgenza plenaria” concessa loro dalla condizione di crociati non è pura farina del suo sacco: nei cicli epici che rimandano alle crociate e alle lotte contro gli infedeli di Spagna (la Chanson de Roland per tutti) è chiaramente espressa l’idea che il crociato che muore nella guerra santa sia automaticamente e gloriosamente assunto in cielo. Posta questa come la normalità, è perciò più anomala (perché più vicina alla sensibilità moderna) la posizione di Gaston, che resta prudentemente dubbioso circa la salvezza delle loro anime.