genere: drammatico
avvertimenti
: AU, shonen-ai

personaggi: Seiichi Yukimura, Genichirou Sanada

 

 

 


Mille gru di carta

di Levy

 

Il giardino circondava la casa come una mano stretta intorno ad una coppa. Fu quella la prima impressione che Seiichi Yukimura ebbe uscendo dal taxi che lo aveva deposto, con un volo planato, davanti al piccolo cancello di casa Sanada. Anche se la lama tagliente del sole primaverile che si specchiava sui fiori bianchissimi del prato feriva i suoi occhi, indeboliti dalla malattia, si sfilò gli occhiali da sole per osservare meglio il mosaico policromo dei suoi colori. Era un giardino vecchio, mantenuto verde e giovane dal naturale succedersi delle stagioni più che da periodiche opere di manutenzione, che si limitavano alla cura minima dei cespugli e delle piante basse. Gli alberi, interamente abbandonati al loro desiderio di crescere, avevano disteso l’ombra delle loro chiome come  le dita di una mano, avvolgendosi  intorno alla casa come un abbraccio. Con ogni probabilità, nulla era cambiato in quel giardino dai tempi in cui entrambi frequentavano il Rikkai Daigaku Fuzoku. Probabilmente, quel giardino non conosceva che un tempo eterno e circolare, fatto di stagioni e non di anni.  

Genichirou, il giovane signore, lo aspettava nell’ombra della soglia, il kimono di cotone blu, la spada ancora legata al fianco, il riverbero abbagliante di quella primavera che gli si stagliava contro dal prato fiorito.

“ il tuo giardino è un disastro” disse Seiichi con un’allegria sfacciata, lontana dal suo stile abituale, mentre il padrone di casa lo faceva entrare con gesti impregnati di  una formalità leggermente fuori luogo. Anche Genichirou non era molto cambiato. Qualcosa in lui lo aveva sempre fatto sembrare più vecchio di suoi anni, costruito in una materia legnosa e antica, rigida, intagliata a colpi di spada. Avvolto nel suo semplicissimo kimono blu e nella sua anacronistica seriosità, gli sembrò, a modo suo, davvero bello.

" ti trovo bene" disse educatamente, e Genichirou, come previsto, non rispose.

La casa era inevitabilmente più moderna di quanto non sembrasse da fuori, c'era una cassettiera con un telefono squisitamente occidentale e alcune piante, un po' polverose nel salone in cui lo fece accomodare. Il tavolo con le sedie attorno al quale la famiglia si  riuniva per cenare, un divano foderato di juta pallida, una grande foto di Sanada-san e figli che eseguivano una complicatissima figura a due spade, una tigre di gomma arancione per terra.

“ scusa, sono i figli di mio fratello” farfugliò il suo ospite in una giustificazione non richiesta che strappò a Seiichi un sorriso. Tipicamente suo.

L’aroma del tè verde che la cognata di Genichirou servì immediatamente in due tazze dall’aspetto antico restituì alla stanza tutto il suo trovarsi deliziosamente fuori dal tempo.

“ Da quanto tempo è che non giochi a tennis?” chiese, inaspettatamente, Yukimura.

“Tre settimane e quattro giorni” rispose Genichirou senza muovere un muscolo, neanche quando la sua marziale esattezza strappò a Seiichi un altro sorriso divertito. In quel sorriso riconobbe qualcosa di familiare, con una commozione e un sollievo che fecero tremare le pareti del suo cuore. Si prese un attimo per osservarlo, mentre Seiichi sorseggiava educatamente il suo tè, lo sguardo perso ad inseguire la macchia azzurra degli iris tra le luci del giardino.

Si era tagliato i capelli e aveva sul viso qualcosa di stanco, qualcosa che non riconosceva, che non era appartenuto, mai, al ragazzo con cui aveva condiviso anni migliori di quello. Quasi dieci anni, calcolò distrattamente e con scarso entusiasmo, erano passati quasi dieci anni da quando Seiichi aveva lasciato il Giappone, ed i loro rapporti, con una rapidità che non aveva previsto e che lo aveva segretamente ferito, si erano affievoliti fino ad estinguersi del tutto, per restituire il legame profondo che li univa all'olimpo glorioso dei ricordi di scuola. In quella dimensione senza tempo, Seiichi Yukimura era ancora il suo capitano, l'uomo a cui il samurai Sanada aveva giurato eterna fedeltà. Era ancora l'essere vivente a cui aveva consacrato tutto se stesso.

Seiichi Yukimura aveva attraversato il mare, ed era arrivato lontano. Prima in Francia, poi negli Stati Uniti, Seiichi Yukimura aveva fatto parlare di sé, e miriadi di leggende erano fiorite intorno alla sua tragica malattia e miracolosa guarigione dell'adolescenza. Genichirou Sanada non ascoltava queste notizie; con un doloroso esercizio di volontà si rifiutava di assorbire anche solo passivamente qualunque informazione sul suo capitano di un tempo. La vita del doujo era lenta e quieta come lo scorrere di un fiume in una valle poco profonda, Genichirou usava la via della spada per tenersi lontano da tutto, e in particolare da quelle voci petulanti, che raccontavano cose di Seiichi che non potevano conoscere.

Lui ricordava con millimetrica esattezza le sue mani piccole tese nella penombra del reparto d’ospedale, i violenti, improvvisi colpi di tosse, il bricco del caffé del Rikkai Tennis Club e il suo coperchio in frantumi, gli steli avvizziti degli iris appena fuori la porta dello spogliatoio, l'annaffiatoio di plastica verde e le ragnatele sull'impugnatura, i battiti spasmodici del suo cuore svegliato di soprassalto durante la notte, le mani di Seiichi, tese nella penombra come una supplica congestionata  verso qualcuno che potesse salvarlo da quel corpo che lo stava soffocando.

Lo guardò negli occhi per il tempo necessario a realizzare che quell’inconsistenza vegetale, quella luminescenza che aveva la sua pelle come lui la ricordava, lo aveva abbandonato per sempre.

Per tanti, troppi anni Seiichi era stato la costante sottintesa dei suoi pensieri. Da quando giocava con la spada a quando sognava di fare a pezzi gli oni con la sua racchetta da tennis, Seiichi era lì, una figura perfettamente integrata in un paesaggio dettagliato ma immobile, paralizzato nei suoi ricordi, una costante di cui non sapeva definire valore, colore e durata, ma che appariva, senza sbavature e tentennamenti, irrinunciabile. Questa necessità aveva mantenuto, nella sua mente, un’immagine tanto nitida quanto immobile dell’altro. Un’immagine di una purezza e di un’inconsistenza irreali. Guardandolo da quella distanza ravvicinatissima, Genichirou comprese quanto l’altro si fosse inevitabilmente allontanato dall'immagine che lui aveva testardamente conservato dentro di sé e capì quanto, in tutti quegli anni, Seiichi gli fosse mancato.

Una volta, solo una, il desiderio di colmare quell’assenza lo aveva fatto cedere alla tentazione di chiedere alla cognata che cosa avessero da raccontare i rotocalchi di Seiichi Yukimura, fenomenale tennista giapponese residente all'estero, che un tempo aveva frequentato la sua stessa scuola. Fu così che scoprì che Yukimura aveva lasciato il tennis. Senza motivazioni, senza preavvisi, senza quel calo, anche minimo, che nei più grandi atleti precedente sempre il momento del ritiro, Seiichi aveva smesso di giocare. Sei mesi, due settimane e un giorno erano trascorsi dal suo addio al tennis nell’istante in cui Seiichi Yukimura aveva varcato la soglia della casa antica dei Sanada per una visita, apparentemente di cortesia, al suo più fedele samurai.

Gli occhi di Seiichi accarezzavano il profilo azzurrino degli iris, disegnato come un acquerello, sul confine tra il portico e il giardino. Erano piante vigorose, dai colori vividi eppure delicati.

Gli occhi di Seiichi percorrevano il loro steli con estasi tiepida già da alcuni lunghi secondi, quando Genichirou, appoggiando per terra la tazza di tè disse, usando un tono involontariamente lugubre

“un giorno mi hai detto che, tolto il tennis, di te non rimaneva nulla”

“ è così …” 

Gli iris rimanevano immobili contro il riflesso del sole, contro la brezza del primo pomeriggio. Poteva indovinare che erano stati costantemente curati da una mano attenta, premurosa.

Seiichi sorrise lieve e appoggiò la tazza per terra, davanti a se.

“ Sto morendo, sai..?”

Lo disse con la leggerezza di chi, in fondo, non è molto interessato all’argomento.

“Ci sono cascato un’altra volta Gen. Il mio corpo mi si sta rivoltando contro di nuovo…” proseguì socchiudendo appena gli occhi mentre Genichirou, immobile, annaspava, cercando una cosa, qualunque da dire, alla quale aggrapparsi per non annegare in quell’angoscia che conosceva tanto bene, e che sentiva tornare a sommergerlo come una marea inarrestabile

“la tua malattia si è ripresentata …?” chiese con la voce roca e le labbra secche, mentre tutto il mondo si riduceva al sorriso incerto dell’altro, una domanda strozzata, utile solo ad accelerare il decorso inevitabile di quella conversazione.

“no, stavolta è diverso..” rispose Seiichi rivolgendo un’occhiata distratta alle corolle degli iris. In quel sorriso disarmato, di una costanza fotocopiata, Genichirou riconobbe quello che non ricordava essergli appartenuto: di colpo Seiichi gli apparve immensamente stanco, amaro e rassegnato a quella morte annunciata.

"Sono un anacronismo, morire di AIDS non va più di moda tra i gay da almeno vent’anni..” e sorrise di nuovo, con quella sua palpabile assenza. Qualcosa esplose nelle orecchie di Genichirou, il frastuono assordante di un bricco pieno di caffé che si infrange per terra, il tappo di plastica spezzato in due nere metà.

Per tutti quegli anni si era illuso di essersi abituato all’assenza di Seiichi, ma messo di fronte a quell’addio inappellabile capì quanto il suo cuore non avesse mai davvero dimenticato il dolore lancinante di perderlo e la frustrazione di non poterlo aiutare in alcun modo. Si sentì piccolo e impotente come ben ricordava di essere stato, e cercò nella sua flebile rabbia e nella sua granitica disperazione una cosa qualunque da fare.

Senbazuruneri. Genichirou si alzò con un movimento lentissimo, prese uno dei fogli dal mobile vicino al telefono e con gesti rapidi e maldestri, lo piegò per un numero regolare di volte, fino a dargli la forma approssimativa di una gru di carta.

Lo appoggiò davanti alle sue ginocchia serrate, con le palpebre che tremavano di quell'ansia compressa, e rimase immobile, in attesa di qualcosa, qualunque cosa.

 Seiichi lo guardò con un dolore solido, dipinto a pennellate spesse sul viso e mormorò

“non funzionerà stavolta, Gen. Stavolta no.”

 

Senbazuruneri. Mille gru di carta per guarire un ammalato. Non era la prima gru che costruiva per lui. Come l’altro, era un Senbazuruneri forgiato da mani inesperte, troppo grandi e pesanti per conciliarsi con l'arte sottile, evanescente dell'origami. Genichirou gli aveva dato faticosamente forma in una mattina nebbiosa, le spalle dure contratte in quei gesti troppo minuziosi, il silenzio del mattino presto che faceva sembrare ogni sussurro frastuono, nel vuoto della sede del club, la polvere sui vetri resa più evidente dalla luce algida del sole pallido, appena sveglio, incapace di risvegliare riflessi dorati perfino sulla fila disordinata dei trofei appoggiati sulla finestra.

Tutto era cominciato il giorno che il bricco nuovo del caffé del Rikkai Daigaku Fuzoku tennis club era scivolato dalla mani di Seiichi Yukimura come un pugno di sale, spargendo il suo scuro contenuto su quello stesso pavimento che Genichirou continuava a fissare con il suo anacronistico sguardo da samurai. Tutto era cominciato con il bricco del caffé.. no, tutto era cominciato prima, anche se con la stessa violenza e la stessa rapidità di un bricco di caffé che si rovescia per terra. Tutto era diventato innegabile quando il loro nuovo acquisto per la sede del tennis club era scivolato dalle mani  ormai sorde del capitano Yukimura per andare a infrangere il suo coperchio di plastica nera sul pavimento. Il bricco si era incrinato al punto che non lo si poteva più utilizzare, il calore del caffé bollente lo avrebbe fatto esplodere. Bunta se lo rigirava tra le mani guardandolo da tutti i lati e continuava a ripetere che forse si sarebbe potuto riparare in qualche modo, con l'ostinazione quasi spaventata di un bambino che batte le dita sulla boccia di vetro, sperando in quel modo di ridare vigore al pesciolino in agonia.

Furono giorni lunghi, invischiati in una materia scura e umida, come la nebbia che aveva inghiottito Yokohama quella mattina.

L’aria aveva una freddezza immobile, clinica. Genichirou Sanada aveva raggiunto la porta della sua camera a tentoni, col cuore che bombardava l’oscurità della notte. Stava sognando il bricco del caffè, le mani di Seiichi, le parole volatili di Bunta, i gesti lenti e la carta ruvida con cui Renji aveva ripulito il pavimento, il silenzio tra le pareti bianche, le mani di Seiichi, quel silenzio solido che la voce stridula di Kirihara riusciva solo a scalfire, le mani, sottilissime, di Seiichi, ripiegate su se stesse come foglie morte. Era immerso nella materia densa di quel sogno reale, quando qualcuno accanto a lui aveva cominciato a tossire, e il suo cuore impazzito lo aveva fatto sobbalzare, nel buio, in un soccorso inutile verso un Seiichi inesistente. Precipitato in una realtà non molto dissimile dal suo incubo, Genichirou si era vestito in fretta e aveva cominciato a correre. La città addormentata respirava quieta nella stessa materia densa dei suoi sogni. Correndo in quella nebbia che gli impediva di distinguere la sua meta, Genichirou aveva la sensazione di muoversi in un tempo infinito, poteva seguire senza alcun limite la successione regolare dei battiti del cuore, il pulsare ritmico delle vene, sentiva la vita, il sangue scorrere forte dentro di sé fino a portare ossigeno ai suoi muscoli, ogni fibra tendersi e rilassarsi seguendo i suoi movimenti. Immerso in quella nebbia lattiginosa, aveva avuto la sensazione che le sue funzioni vitali fossero moltiplicate per due, l’impressione nettissima di stare vivendo anche la vita che il corpo immobile di Seiichi, in quel momento, si limitava a contemplare. Correndo in quella nebbia, il suo desiderio aveva assunto una forma precisa, geometrica, aerodinamica.

Genichirou Sanada estrasse dal cassetto una pergamena e prese uno dei pennelli che Renji aveva lasciato ad asciugare sul davanzale della finestra. Lo immerse in quello che restava sul fondo della  sua tazza e tracciò alcuni caratteri sul foglio, un nome sottile come una linea quasi evanescente, di caffè. Il davanzale della camera 147 reparto H sembrava un punto di partenza ottimale per il primo volo.

Senbazuruneri. Genichirou si trascinava dietro da più di dieci anni il dubbio, solo apparentemente insignificante, che Seiichi non avesse mai capito da dove arrivava quell’uccello di carta che si era posato sul suo davanzale.

 

 

“lo sapevi”?

“l'ho sempre saputo” mormorò Seiichi sollevando su di lui uno sguardo tanto limpido, eloquente e

disarmato che Genichirou sentì ogni fibra del suo corpo fremere sotto il kimono di cotone blu

“..puoi curarti…” disse dal profondo dei suoi polmoni schiacciati contro la cassa toracica dal martellare del suo cuore “ esistono delle terapie..”

 Seiichi Yukimura scosse la testa, adagiato nella stessa maschera di serena rassegnazione cui era tanto abituato.

“ ..la GBS ha debilitato il mio corpo al punto da rendere la antri-retrovirale inutile” si guardò le mani, e percepì il caldo della tazza di tè che stringevano con un doloroso sollievo “ morirò tanto velocemente da non dovermi abituare a nessun cambiamento”

Genichirou cercò di sezionarlo con la lama sottile dei suoi occhi scuri e vide nella sua carne il riverbero malsano della malattia. Il virus era l’intruso, l’estraneo annidato in quel corpo così familiare, il suo veleno era ciò che non riconosceva nella mani, nella bocca, nei gesti, nella voce, nell’infinita stanchezza di Seiichi. Il virus era un oni che non si poteva allontanare a colpi di spada. Si guardò le mani, e si sentì vecchio e inutile.

Seiichi  continuava a fissare il prato con  una concentrazione vaga, ormai spossata.

“ è sempre la stessa storia, e lo stesso campo di battaglia… io contro il mio corpo, il mio corpo contro di me..” gli steli degli iris rimanevano immobili, riempiti dalla vita che scorreva rigogliosa nella linfa dei loro vasi, dalle radici alle foglie, alla superficie traslucida dei petali

 “ non avrò neanche il tempo di diventare brutto!” disse con ostentata superficialità, ed accennò una risata fiacca. Genichirou non lo accompagnò, e non avrebbe riso in ogni caso.

“sì, sarà  decisamente una morte orribile”concluse appoggiando davanti alle ginocchia la tazza ormai vuota. Sollevò gli occhi sul giovane uomo che gli stava di fronte: rigido come un guerriero di pietra nel suo kimono di cotone blu, si guardava le mani, grandi, vuote.

“ e tu, Gen….?” mormorò  quasi con noncuranza “…anche per te non è cambiato niente da allora?”

Le labbra secche di Genichirou ebbero un fremito. Quelle parole lasciate cadere nel silenzio ovattato del doujo, alla rinfusa, la piega dolorosa delle labbra di Seiichi nel liberarsi di quel mormorio tanto flebile quanto pesante, tutto questo si abbatté su di lui come un colpo di spada vibrato di piatto, all’addome, con una forza spaventosa. Tutto, fuori e dentro di lui, si ruppe in un’unica, liquida ondata di un sentimento ibrido, senza forma, sconcerto, rimorso, commozione, rabbia, amore, nostalgia, e un dolore grande come il loro orizzonte di campagna.

“…. lo sapevi…?” mormorò in un rantolo strozzato.

“l’ho sempre saputo.” rispose Seiichi continuando a guardare gli steli slanciati degli iris, ai margini del prato.

 

Il rientro della signora Sanada e dei nipotini interruppe il silenzio pesante, quasi definitivo, immersi nel quale i due vecchi compagni stavano finendo di consumare il loro tè. La signora Sanada si ricordava di Seiichi Yukimura, anche se dovette fare un discreto sforzo per riconoscere il ragazzo che era stato dietro il suo volto smagrito e le palpebre pesanti, e mentre aguzzava gli occhi per ritrovare i lineamenti delicati del giovanissimo capitano del Rikkai Daigaku Fuzoku, riconobbe in lui la causa della secchezza sterile delle membra legnose del suo figlio minore.

“Gen diceva sempre che ti piacciono le piante, Yukimura-kun” disse con una gentilezza amara mentre faceva strada verso il giardino.

La signora Sanada si occupava dei gelsi, delle peonie, delle camelie, ma non fece nessun cenno agli iris azzurri che crescevano al margine del prato, sotto l’ombra della casa. La luce del pomeriggio primaverile feriva gli occhi di Seiichi. Cercò nel taschino l’ombra nera degli occhiali da sole. Genichirou gli parlava con la stessa impeccabile, rigida affettuosità di un tempo, ma il dolore continuava a dilagare dai suoi gesti, dai suoi sguardi, da ogni fibra del suo corpo fino a che non invase completamente il prato, le margherite, i salici, gli aceri, le peonie e perfino i bambù, che chiudevano la vista del sentiero, in lontananza e Seiichi pensò che tutto quel dolore avrebbe anche potuto uccidere le piante, e decise che era il momento di andarsene, di lasciare quella casa, di porre fine alla sua visita certamente indesiderata e per un attimo sentì chiara come una sentenza, sentì dentro di se la consapevolezza di quanto il suo egoismo avrebbe tolto la vita ad entrambi. A lui, qualche mese più tardi, in una riservatissima clinica privata di L.A., all’altro, nei giorni, nei mesi, negli anni a venire, con ogni nuovo germoglio dell’erba di quel giardino, con ogni memoria, ogni gesto e ogni rimpianto.

Sentì riempirgli il cuore la nostalgia del presente, del passato e del futuro che non avevano e non avrebbero mai avuto, ma non la lasciò uscire, per non disturbare l’erba, le peonie, i salici, gli aceri e il bambù, laggiù, dove cominciava la strada. Per non disturbare gli iris azzurri che Genichirou aveva  piantato e innaffiato nel ricordo innegabile di lui.

Quando furono sul cancello, gli lasciò scivolare un bacio sulla guancia, un bacio secco come la gola e le labbra di Genichirou, seccate per sempre, Genichirou che si limitava a guardarlo, da sotto l’ombra delle sopracciglia scure e delle sue spalle pesanti, con una disperazione dignitosa ma senza veli.

“Torna … la prossima volta che vieni in Giappone..”  riuscì a dire dopo un attesa imbarazzante per entrambi. Seiichi sorrise, e quella volta il suo sorriso era presente, la morte che gli deformava le espressioni era cortesemente risalita all’altezza degli occhi per concedere spazio a quel sorriso, uno solo, un sorriso luminoso come quelli che lui ricordava. Gli prese le mani, con la familiarità non autorizzata che aveva sempre usato quando doveva parlargli di qualcosa di importante, ma non disse nulla, non fece altro che stringerle attorno ad un pezzetto di carta gialla un po’ sgualcita.

Genichirou aprì le sue grandi mani scure di spadaccino lentamente, e vide un uccellino di carta becchettargli il palmo della mano, con il suo lungo collo di pergamena e le sue ali storte.

Era una gru poco adatta per il volo, ma non importava.

Senbazuruneri. Né lui né Seiichi, lo sapeva bene, ne avevano più alcun bisogno.

 

 [ Normann & Simons – The Secret Garden,(Original Broadway Cast).]