Oramai il sole era già sorto e alto,
aveva illuminato la stanza con i suoi non più pallidi raggi, risalendo fino
al letto e lambendo quel corpo che, assopito, era disteso tra le nere
lenzuola che spiccavano e allo stesso tempo mettevano in risalto quella
figura. Un vampiro. Eppure, il sole poteva toccare la sua candida pelle
senza provocargli dolore, senza fargli alcun male. Un vampiro di più di
cinquecento anni. Un junjou che letteralmente significava ‘in modo puro’ e
designava quelle creature della notte nate dall’unione sacralmente illecita
tra due vampiri. Un’unione che poteva avvenire solo in circostanze alquanto
particolari e che era bandita da ogni clan, poiché il vampiro che nasceva lo
si poteva considerare fautore di una nuova razza. Non più umani, non più
vampiri. Una razza unica di cui al mondo esistevano solo pochi esemplari.
Estremamente potenti e dotati di poteri oscuri, erano conosciuti anche per
la loro tenacia. Non solo la luce del sole non li poteva fermare, ma neanche
l’argento o i semplici paletti di legno di frassino piantati nel cuore.
Immortali, ma in senso diverso dagli altri esemplari di non morti. ‘Dal
sangue sei nato e con il sangue vivrai’. Solo a questa legge, per loro
naturale, erano costretti ad attenersi. In tutto, esistevano tre clan e il
moretto, apparteneva a quello che un tempo non molto lontano fu il più
potente, il clan dei Kage. Pochi erano i membri facenti parte di ogni clan.
E questi erano suddivisi in caste, definibili ‘sociali’, dove ognuno
svolgeva il suo compito alla perfezione senza mai commettere errori. Dal
vampiro più debole, il servitore, che come un parassita viveva alle
dipendenze dei più potenti, man mano si saliva di classe. Le guardie, i
cacciatori, ovvero coloro che procuravano il cibo, i succubi, gli incubi,
gli psichici, i sire, coloro che erano in grado di trasformare un umano in
vampiro e infine, colui che deteneva il destino del suo stesso clan, il
kenryoku. E a giorni, esattamente il secondo giorno di luna piena, questo
destino sarebbe stato di nuovo scritto. Il moretto lo sapeva bene e proprio
per questo era tornato dal suo peregrinare, in quella che considerava la sua
casa, sempre che un vampiro ne possa avere una. Sempre che un vampiro si
possa realmente sentire legato a qualcosa. Si svegliò controvoglia e,
messosi indosso la prima veste che vide poggiata sullo schienale di una
poltrona, una sorta di lunga vestaglia anch’essa di seta, uscì. I corridoi
dell’immenso castello erano vuoti, come privi di vita. Illuminati a mala
pena da una tenue luce solare che filtrava a fatica attraverso i tendaggi
scuri che, tirati, coprivano le grandi finestre di vetro smerigliato. Nessun
rumore echeggiava sulle fredde pareti di pietra tranne i suoi passi che però
erano leggeri. A piedi nudi, si diresse senza timore, verso un’altra ala.
Superando porte e passando davanti a quadri immensi che raffiguravano scene
raccapriccianti di guerre e massacri, dinanzi a innumerevoli arazzi ricamati
a mano in cui erano rappresentati campi, teatri di battaglie o di caccia.
Oltrepassò, con noncuranza, armature vuote che, come guardiani, comparivano
di tanto in tanto lungo il suo tragitto, presidiando nuove porte, nuovi
corridoi. Un labirinto nel quale sapeva perfettamente come destreggiarsi.
Fino a che non incontrò qualcuno. Un’ombra, gli si fece incontro. E poi una
voce, quasi un sussurro reverenziale. "Signorino. Voi, dovreste essere da
vostra madre." Una sorta di sorriso beffardo comparve sulle sue labbra e si
avvicinò ulteriormente alla figura, senza proferir parola. Lo guardò negli
occhi, parve sondargli la mente, il pensiero. Fissò tutto di lui, i suoi
capelli neri a mala pena brizzolati, i suoi lineamenti spigolosi e magri, i
suoi occhi grigi che parevano spenti eppure attenti ad ogni piccolo
movimento, il suo aspetto sicuro eppure titubante e, infine, le sue vesti,
quelle di un servitore. Lo riconobbe, era Raten, il più fidato servitore
della sua famiglia, da sempre. Tuttavia, continuò a tacere. A quello
sguardo, dinanzi a quegli occhi verdi e grigi, Raten, si riscosse. Colui che
aveva davanti, era il principe. "Ma voi signore, quando siete giunto? Vi
avevo scambiato per…" "Mio fratello." Lo interruppe e l’uomo si abbassò in
un inchino, lasciandolo quindi passare. Il moretto riprese il suo cammino,
constatando ancora una volta che, fisicamente, solo il colore delle iridi lo
rendeva differente dal suo unico fratello, Kaede. Svoltò per l’ultima volta
a sinistra e alla fine del corridoio si fermò ad ammirare la porta in legno
bianco, sulla quale spiccavano lamine finissime d’oro che si intrecciavano
con le scanalature e le sporgenze del legno lavorato, disegnando un
intricato roveto di spine e petali di rose. Per un attimo sembrò indeciso.
Lasciandosi trasportare da quello che la mente gli offriva. Rivedere quella
parte del castello, era come essere riportati indietro, ad antichi ricordi
del passato. Ricordi che nemmeno lui sapeva dire se felici oppure da
dimenticare. Poggiò le mani sulle due maniglie e con una leggera pressione
del polso le porte si aprirono davanti a lui mostrandogli l’interno della
stanza. Era, esattamente come l’ultimo giorno che l’aveva vista, prima di
partire. Dei colori del bianco e della crema. Nulla era cambiato. Il letto a
baldacchino aveva ora i tendaggi tirati e mostravano diversi cuscini
ricoperti di tulle e ricami, sparsi su di un lenzuolo color avorio anch’esso
ricamato ed elegante. Sulla testata del letto, un basso rilievo, un uomo che
dormiva placido in grembo ad una donna. Le pareti, coperte da quegli arazzi
che lei stessa aveva fatto. Gli stessi monili preziosi sul tavolo di
ciliegio, gli stessi soprammobili. Il profumo di incenso e calendula. Chiuse
gli occhi e di nuovo quella sensazione che lo riportava indietro in un altro
tempo, in un altra vita, si fece risentire di prepotenza in lui. Ricordi e
non solo, anche rumori, parole, gesti, emozioni, forse. Tutto, come allora,
come fosse successo solo il giorno prima. Mentre per un uomo, per un
mortale, il tempo è sabbia finissima che scivola via dalle mani, inesorabile
e infida, per loro, dei vampiri, non è niente. Un giorno, un mese, un anno,
un secolo, non ha valore alcuno, non ha significato alcuno. Il tempo
trascorre ma per loro è fermo, immobile. Una clessidra la cui sabbia,
andando contro la forza di gravità, ha smesso di scendere, in eterno. E così
anche in quella stanza, nulla era cambiato. Un sospiro leggero uscì dalle
sue labbra e quando riaprì gli occhi, la rivide. Lei, lì, in mezzo alla
stanza, bella anzi bellissima, come l’aveva lasciata molti anni addietro. I
suoi occhi scuri, resi ancora più penetranti da una finissima riga di colore
nero, fissi nei suoi e poi la sua voce elegante e sottile. "Ryuusei." Un
richiamo, il suo nome. Piano, con estrema calma la raggiunse e si
inginocchiò ai suoi piedi prendendole poi una candida mano, le cui lunghe
unghie erano dipinte dell’oscurità notturna, sulle cui dita affusolate
spiccavano alcuni preziosi anelli d’argento. Fece per baciarle il dorso,
come richiedeva l’etichetta. Ma la donna ritrasse la mano e poggiatala sulla
sua spalla, gli fece alzare il viso con l’altra e lo guardò con quello che
sembrò amore. Il ragazzo si alzò, mentre la soave voce della donna, gli
giungeva alle orecchie. "Non v’è bisogno di essere così formale." Ryuusei
ricambiando di buon grado quello sguardo e il sorriso, aspettò che fosse lei
ad abbracciarlo. Per quanto, restarono così, non seppero dirlo, poi.
"Madre." Richiamò la sua attenzione Kaede, spezzando quasi una piacevole
stregoneria. Lei, sciogliendo l’abbraccio si voltò verso chi l’ebbe
interpellata. "Perché non mi hai detto subito che era tornato?" Uno sguardo
indecifrabile, insondabile, negli occhi color del mare in tempesta e sul
viso. Non avrebbe avuto risposta da essi. Tornò quindi a fissare il suo
Ryuusei, notando solo in quel momento quanto effettivamente i suoi occhi e
il suo sguardo fossero cambiati dopo molti anni lontano. Comprendendo anche,
però, che alcune cose, a differenza di altre, non sarebbero mai cambiate. E
prima che Ryuusei potesse rispondere al posto di Kaede alla domanda lasciata
in sospeso, fu lei stessa a parlare, alzando una mano e chiudendo per un
attimo gli occhi. "Non redentemene partecipe, vi prego. Posso bene
immaginare. È sempre stato così. Avete sempre corso l’uno nelle braccia
dell’altro, prima di presentarvi dinanzi a me o a vostro padre." Quindi si
portò sul letto facendo cenno ai suoi due figli di avvicinarsi. Il lungo e
molle vestito che indossava, ricadeva a terra con fragili onde e le maniche
in raso che avvolgevano strette le braccia, si allargavano poi sempre di
più, man mano che raggiungevano il polso. Era stupenda, come ricordava. Gli
anni non avevano indebolito i suoi ricordi e lei sembrava ancora più forte
di come l’aveva lasciata. Dei suoi capelli ora raccolti, cadevano alcune
ciocche dinanzi ai suoi occhi e lungo il collo, fino alle spalle. Il suo
viso, da lei, Kaede, aveva preso il suo fascino e i suoi lineamenti.
"Venite, avvicinatevi entrambi." I due, dopo essersi scambiati uno sguardo
che valse più di mille parole, si fecero avanti come fu chiesto loro.
"Sedetevi qui, accanto a me." Un secolo, o poco più, era trascorso dal
giorno della partenza di Ryuusei, il primogenito, e ora era di nuovo lì
accanto a lei. Insieme a lei e a Kaede. Passarono così i minuti, le ore,
l’intera giornata. E parlarono, aspettando la notte loro sovrana, di Ryuusei
e della sua vita da ramingo, di quello che vide, di quello che conobbe. Un
secolo, lontani uno dall’altro, eppure se per noi poveri mortali vuol dire
molto, per questi esseri superbi, non equivale è che ad un sospiro.
I giorni trascorsero e mentre,
finalmente, la luna si mostrava in tutta la sua bellezza e luminosità in
cielo, nei sotterranei di quello che, a occhi poco scaltri, potrebbe
sembrare un immoto castello, quella notte, si sarebbe tenuto un rituale
sacro. Un rito che avrebbe ridato vita al nome dei Kage e al quale erano
tenuti a parteciparvi i più potenti fratelli di quel clan. Tredici in tutto,
contando anche colui, che quella notte di luna piena, sarebbe divenuto il
nuovo kenryoku. Tum… tum… tum… Un suono ritmico, lento, quasi
annoiante di tamburi, echeggiava nei corridoi che, bui e polverosi, e
altrimenti perennemente silenti, portavano ad un’immensa e pesante porta di
legno e ferro battuto. Su di essa erano incise parole e simboli dannati,
evocazioni di un mondo e creature lontane. Tum… tum… tum…
Inesorabile, continuava senza posa. Ricordava lo stesso rimbombante sussurro
provocato da un cuore che batte. Tum… tum… tum… Undici ombre, il cui
corpo era celato da una veste scura e lunga, il cui volto era nascosto da un
cappuccio che calava sui loro occhi di demoni, si facevano avanti in
rigoroso silenzio lungo quell’unico corridoio che li avrebbe condotti verso
il suono dei tamburi. Tum… tum… tum… Risuonava più forte,
ossessionante, assordante. La flemmatica, cadenza dei passi, seguiva quella
dei tamburi. Tum… tum… tum… Parevano creature evanescenti. Le
immacolate dita di ognuno di essi apparivano dalle larghe maniche e,
affusolate, si stringevano a esili cilindri di cera nera. La cui fragile
fiammella, rischiarava, seppur poco, il loro cammino. Tum… tum… tum…
Perseguivano ad inoltrarsi nell’oscurità più profonda, quando l’aria intorno
ad essi si fece più pungente e più umida. Poi, un altro suono divenne più
vivo facendo vibrare i timpani nelle loro orecchie. Acqua. Lo scroscio del
liquido trasparente si mescolava irriverente al ritmo dei tamburi. E mentre
quest’ultimo incitava, il primo non poteva che acquietare gli animi. Tum…
tum… tum… Giunsero infine dinanzi alla solenne porta ed essa, a fatica,
si spalancò da sola come eseguendo un ordine che non fu mai dato. Lasciando
passare il principe e gli altri vampiri, suo seguito, richiudendosi poi
dietro di essi. Il martellante suono dei tamburi, adesso non più ovattato,
faceva eco all’interno di quello che si presentò ai loro occhi come un
tempio. Elevate colonne di marmo pregiato si innalzavano a sorreggere volte
scavate nella nuda roccia. L’acqua sgorgava incessante e abbondante dalla
parete rivolta a nord, trovando riposo in quella che sembrava un’immensa
vasca termale che nascendo, dalla stessa parete, si allargava fin oltre il
centro della stanza, assumendo forma rettangolare. Altre candele più o meno
consumate, sparse un po’ ovunque lungo i bordi della vasca e tra le colonne,
illuminavano il tetro ambiente donandogli riverberi particolari e costruendo
giochi d’ombre. E il tutto assumeva un’accezione ancora più spettrale e
agghiacciante. Dinanzi all’acqua che scendeva impervia e violenta, quasi
rabbiosa, si ergeva un’unica solitaria colonna più grande e assai più
lavorata delle altre. Era quella l’altare sacrificale. Dall’alto di essa
cadevano delle catene che, ostili, si serravano sui sottili e gracili polsi
di una giovane fanciulla. Una vergine. Incatenata, era già priva di forza,
solo le catene la conservavano in quella posizione eretta. Stanca e
sofferente, lasciava cadere il dolce ed elegante viso sul suo braccio. I
mossi e lunghi capelli paglierini scivolavano negligentemente sulle spalle
nude e sul suo seno prosperoso, coperto da un immacolato corpetto i cui
lacci intrecciati si chiudevano infine in un molle fiocco. Sembrava esserle
stato cucito indosso, le modellava ogni forma fino a ricadere poi, in
un’ampia gonna, ben oltre i piedi nudi. La leggiadra veste, inoltre,
tagliata lungo tutta la linea dei fianchi, lasciava intravedere la liscia
pelle delle gambe, contratte dalla paura. Terrore e sgomento erano però
visibili ancora di più nei suoi occhi angosciati e nei tratti tirati del
volto. Ciononostante, in quelle iridi verdi, si poteva leggere non solo la
rassegnazione di chi sa qual è il destino che l’attende inesorabile ma, al
contempo, anche quella voglia di vivere propria del genere umano.
Debolmente, i piedi, arrivavano a poggiarsi su una sorta di piccola e
sottile piattaforma che circondava, stretta, l’intera colonna e che, a sua
volta, si adagiava sulle quiete e tranquille acque. Andando quindi a
tendersi, solida e ferma come pietra, verso l’altra sponda. Quello che
sembrava un esile ponticello arrivava tuttavia solo a metà dell’ampia vasca
dove aveva termine e si allargava a formare un cerchio. E lì, proprio al
centro della vasca, si innalzava un’altra figura anch’essa coperta da una
tunica scura. Le mani che scendevano placide lungo i fianchi. Tra esse, a
metà strada tra la colonna e la fine della passerella, si ergeva, infine,
una terza persona. I suoi occhi blu striati di carruba, guardavano
attentamente la creatura incappucciata, davanti a sé. Coperta di un elegante
e seducente vestito, stretto in vita, lo stesso della vergine, ma del colore
della notte, attendeva pazientemente che il rito avesse inizio. La veste,
lasciava intravedere ogni forma della donna, la cui pelle lattea riluceva al
debole chiarore delle candele. I capelli morbidi e lunghi, anch’essi neri,
le incorniciavano il viso dai lineamenti poco dolci che la rendevano ancora
più fiera e le sue labbra carminio, socchiuse in un intrigante sorriso,
ancora più crudele. Gli undici vampiri, si sistemarono al loro posto,
formando un semicerchio, innanzi la vasca ricolma d’acqua. E al bordo di
essa, il principe. Tum… tum… tum… Il martellare ritmico dei tamburi
non accennava a fermarsi, solo, si era fatto più basso e se possibile, più
lento. Poggiate delicatamente le candele a terra, insieme, si tolsero poi i
cappucci, mostrando i loro visi, i loro canini che risplendevano alla luce
delle fiammelle, la loro natura di vampiri. Quella che si scoprì essere
l’unica donna tra i tredici immortali, si fece avanti, verso l’uomo
incappucciato. Movimenti studianti, fluidi, ipnotici. Allungò le mani e
piano tolse il cappuccio che celava il suo volto. Un volto di angelo, che
apparteneva a un corpo di demone. Slacciando, infine, la tunica, proprio
sotto il collo, essa cadde a terra. Ora, la sua bellezza era visibile a
tutti. Il suo corpo, nudo, i suoi muscoli possenti, la sua pelle diafana e i
suoi capelli d’ebano. Kaede, aprì gli occhi, quegli occhi che sembravano
assumere sfumature color ametista, intonando poi una nenia. Subito seguito
dalla madre e dagli altri vampiri. Il rito, ebbe inizio. Parole sconosciute
all’uomo, parole antiche, che riportavano alla memoria tempi assai lontani,
quando ancora gli dei camminavano sulla terra insieme ai mortali.
Invocazioni di demoni e bestie antiche. Un canto, dove ognuno seguiva un
proprio spartito, un proprio sentiero. Parole diverse uscivano dalle diverse
bocche presenti. Eppure, ogni voce si avvicinava all’altra, la sovrastava,
la incitava, la completava, e tutte, insieme, prendevano un’unica direzione.
Il canto divenne uno solo. Un’unica voce. Un richiamo. Un appello. Una
richiesta. Una supplica a fare di Kaede il kenryoku. Il suono dell’acqua e
il rumore dei tamburi erano ora come spariti, lasciando il posto alle parole
del rito, alla nenia che risuonava, ritornava come un’eco, sulle alte pareti
del tempio. Quindi, la donna, si voltò verso la giovane fanciulla, il cui
viso ora era rigato da candide lacrime. Un sospiro, una preghiera che mai
nessuno ascolterà, usciva dalle sulle labbra, incapaci di trattenerla. Le si
avvicinò, inesorabile, fino a soffiarle sulle labbra le ultime parole del
canto, prima di far scomparire una mano, con un gesto lento, quasi il tempo
rallentasse solo per lei, nel petto della vergine. Estraendone poi il cuore,
ancora pulsante, ancora vivo. Nessuna macchia scarlatta sul suo vestito
candido, che restò immacolato, nessuno squarcio sul suo petto. Gli occhi
sbarrati, della vergine, aperti dinanzi a lei, vedevano il vuoto, il nulla.
Poi, più niente. Silenzio, adesso, nella stanza. Un tonfo. Kaede
inginocchiato a terra. Aspettava. Il viso rivolto verso l’alto, le braccia
aperte lungo i fianchi, gli occhi, ora screziati di cremisi, sulla figura
che lo sovrastava. La mano della sua genitrice, tesa sulla sua testa. Le
gocce di sangue che fluivano dal muscolo che ancora pompava, cadevano sulla
sua fronte, sui suoi capelli, sulle sue guance, le sue labbra, le sue
palpebre di nuovo serrate, sulla sua gola, scivolando in basso, sul suo
addome. E mentre la donna, teneva ancora con una mano il cuore, con due dita
dell’altra, scese a toccare quella pelle adesso non più nivea. Contornando,
dapprima, le sue morbide labbra, con le gocce di quel sangue caduto sul suo
corpo. Quindi, le palpebre e poi, disegnò una linea verticale che dalla gola
scendeva fino a non oltrepassare l’altezza del cuore e, quindi, un’altra
orizzontale sui pettorali, che andava ad incrociare la prima esattamente nel
mezzo. Poco oltre le ginocchia di Kaede, vi era un pugnale. Un drago,
allungava la sua testa a formare un’impugnatura d’oro puro, le sue fauci,
spalancate, tenevano fra i denti un rubino e un serpente avvolgeva le sue
spire sul corpo della bestia sacra, fino alla punta affilata della lama. Lì,
vi era la sua piccola testa, i suoi occhi, chiusi. Kaede lo prese tra le
mani e si alzò. La donna, adesso, gli tendeva il braccio e sul palmo,
aperto, il cuore della vergine. Un dono. Il principe strinse il polso che
gli veniva offerto e lo incise, con l’altra mano, nella quale teneva saldo
il pugnale e la cui lama richiamava il colore dell’ardesia. Il sangue del
vampiro iniziò a scorrere copioso, mischiandosi a quello della fanciulla da
poco sacrificata. Senza indugiare ancora, senza aspettare oltre. Non vi era
bisogno di parole. Abbassò il suo viso a lambire quel liquido rosso,
dissetando la sua sete, appagando la sua fame. Il rito, era quasi compiuto.
Il sangue di un mortale, il sangue della madre. Da essi era nato una volta e
di nuovo, adesso, stava per rinascere, kenryoku. Era come un’estasi, la sua
mente stava scivolando altrove, in un luogo che non era tale, in uno spazio
dove sarebbe stata in pace in eterno, annullandosi. A fatica si ritrasse dal
continuare ad assaporare quel fluido caldo e metallico, per lui pari
all’ambrosia. Posò lo sguardo sul volto della donna e lei, in un gesto quasi
affettuoso, gli passò una mano sui capelli e sul volto, lasciando poi che le
desse le spalle. Kaede percorse pochi passi, raggiungendo il bordo della
piattaforma. Piano, iniziò a scendere gli scalini. Piano, lasciò che l’acqua
lo avvolgesse. La sua mente stava per essere liberata da ogni cosa,
svuotata, di nuovo, ma in senso diverso. I suoi poteri, tutti, stavano per
essere risvegliati. Il suo corpo fremeva, eccitato. Il sangue della vergine
e della madre ancora in circolo. I suoi occhi ancora una volta schiusi,
rivelavano due iridi cobalto e piccole pagliuzze scarlatte sempre più
accese. Due serve, vestite di un abito scarno e molto succinto, lo
raggiunsero nell’acqua. Togliendo dal suo corpo ogni residuo di quello che
rappresentava, in quel momento, il suo passato. L’acqua non era profonda, a
mala pena arrivava a lambirgli il petto, ma era calda, assai calda. Eppure,
per lui, quel calore non era niente. Placidamente, gli passavano le mani e
l’acqua sul corpo, sul viso, sui suoi capelli di seta. Il rosso del sangue
colava nelle trasparenti acque termali, eppure, senza sporcale.
Semplicemente spariva come d’incanto, non appena raggiungeva la superficie
dell’acqua. Lentamente, camminando sul fondo, raggiunse gli altri scalini.
Le due dame si fecero da parte, permettendo solo a lui di percorrere quei
piccoli gradini, che lo condussero fuori dalla vasca. Lì, ad attenderlo, vi
era il principe Ryuusei. "Kaede." Una dolce e delicata melodia. Il suo nome
dalle labbra dell’adorato fratello, che gli si avvicinò, allacciandogli in
vita un drappo di seta nera, finissima. Lavorata e decorata con fili d’oro
che, intrecciandosi, disegnavano motivi ancestrali. Scendeva sulla sua pelle
di luna, fin sopra le ginocchia lasciando scoperti entrambi i fianchi. "Kaede."
Quella voce, che ancora pronunciava quasi inquieta il suo nome, lo riportò
alla realtà, sciogliendo l’incanto che le acque sacre avevano sul suo corpo
e sulla sua mente. Quella voce, lo esortava a posare lo sguardo sulla figura
dinanzi a sé e così, fece. Iridi color dell’iris che sfumavano al vermiglio,
sempre più accesso, ora fissavano, annegavano nelle sue color smeraldo. Di
nuovo, i tamburi. Di nuovo, le voci degli undici fedeli intonavano un nuovo
canto, una nuova nenia. Nuovamente, la superba e ferma voce della madre si
innalzava sopra le altre e scandiva, lentamente, le parole del rito, una per
volta, sillabandole. Ryuusei, il suo sguardo incatenato a quello del
fratello, si sporse per baciare con le sue, quelle labbra morbide e in quel
momento arrendevoli. Per poi inclinare il volto da un lato e offrirgli,
spontaneamente, il collo. Non in un gesto di resa, bensì un patto, una
promessa. Un’accettazione. E Kaede bevve il suo sangue e in quel momento
pareva avere un gusto diverso, più piacevole, più forte e intenso. Altre due
dame, subito si fecero innanzi, accompagnando il loro nuovo signore al
centro di quello che era il semicerchio formato dalle undici creature.
Principiando a tracciare sul suo torace, sulle sue braccia, sulla sua
schiena e sulle sue gambe, simboli e parole magiche, pentacoli e numeri
della cabala. Infine, sul suo viso, intorno ai suoi occhi, piccole e veloci
linee nere d’inchiostro, preparato anche col sangue. Un calice d’oro e
d’argento sul cui manico si attorcigliava, contorto, un serpente, passò di
mano in mano ad ogni vampiro. E ognuno di essi, dopo essersi lacerato un
polso vi fece colare al suo interno, il suo sangue. L’ultimo, fu il
principe, che poi si portò di fronte al fratello e, lì, attese. La voce
della loro madre si spense in un ansito, per lasciare il posto a quella del
figlio che si apprestava a divenire kenryoku. Nuvole nere coprirono il
cielo, fulmini iniziarono a scendere perfidi sulla nuda terra, subito
seguiti dal rombo dei tuoni che chiedevano rivalsa. La sua voce, profonda,
infernale, aveva il potere di far tremare la terra, di alzare il vento e
chiamare ancora fulmini e ancora tuoni. Poi si acquietò, divenendo quasi un
sussurro, e un ultimo fulmine si intravide dal piccolo lucernario, in alto,
illuminando l’immensa stanza, seppur per pochissimi istanti. Adesso,
silenzio. Il suo corpo, tutto, i suoi muscoli, tesi, frementi e accaldati,
vibravano e da lui si espandeva come una luce oscura, agghiacciante.
L’inchiostro come una bava di lava bruciava sulla sua pelle fino a
penetrarvi all’interno e scomparire, per poi lasciarla di nuovo candida. I
suoi occhi, sul suo fratello che gli porgeva la coppa ricolma di sangue. Con
un gesto, volutamente lento, la prese dalle sue mani, portandosela alla
bocca e abbeverandosi come fosse, per lui, la prima volta. Il liquido denso
scivolava giù nella sua gola, accarezzando il suo palato con violenza. Lo
sentiva, lo invadeva piacevolmente e in profondità. Era caldo, carezzevole,
inebriante. Ogni cellula del suo corpo ne assaggiava la consistenza,
svegliando il suo potere nascosto, svegliando il kenryoku. Ora, Kaede, non
era più solo un junjou, ma kenryoku e deteneva le sorti e il destino di
tutto il suo clan. Il rito, era compiuto. Il patto, stipulato per l’eternità
e oltre. I suoi occhi ora aperti, fissavano ancora il fratello. Le sue iridi
ora completamente di fuoco. Le pupille piccole e nere, contratte. Il calice
finì a terra versando sulla pietra levigata le ultime gocce del sangue che
conteneva. Forti braccia strinsero subito il corpo di Kaede prima che, privo
di sensi, cadesse anche lui al suolo.
…tsuzuku
I miei soliti commenti p.s.
Adesso inizia a esserci un po’ di
storia, no?! Beh, spero piaccia e faccia venire voglia di continuare a
leggere… anche perché io ho fatto una faticaccia?! ^^’ E poi...
Un piccolo chiarimento, per evitare
problemi in seguito… o meglio, volevo ribadire il fatto, se non si fosse
capito, che Kaede e Ryuusei (quest’ultimo un original PG) sono FRATELLI e
sono fisicamente UGUALI!! ^^’
Dopo qst... sarà il caso che non
dica più niente... --’
Solo… un immenso grazie a chi legge
le mie storie da fuori di testa…!?!?