Pairing: bah…nessuno…giusto una goccia di Hana e Ru nel finale, per non perdere l’abitudine ^^ Rating: è triiiiste… Note: POV di Hana e udite udite…di Okusu!!!! In corsivo POV Hana, normale il POV esterno e in corsivo-grassetto quello di Okusu. Gli asterischi segnalano un cambio di scena o di POV, dove non indicato si tratta di POV esterno Ci tengo a fare presente che questa storia è autobiografica… Lasciatemi salvare Haruko in questa ficci…ha preso il posto di un ragazzo a cui devo molto. L’ho amato tanto, lui non mi ha mai ricambiata ma quando ne ho avuto bisogno c’è stato. Senza chiedere, senza dire. Semplicemente era lì. Gli ultimi POV di Hana sono cose scritte da me per il mio Andy, quindi potrebbero risultare un po’ troppo poetici, ma che volete farci…dovevo scriverli… Andy…you’re here with me, now as always… Disclaimers: i psg sono di Inoue (ç__ç) ormai è chiaro. Dediche: tantissimi auguri a Leyla!!! ^^ Grazie di esistere!!! Aspetto con ansia la fine delle tales… Un baciottolo! Marty
Mantenere una promessa di Marty
“Sei un maledetto egoista!” Il ragazzo gli dava le spalle, tremante di rabbia. “Non capisco…” rispose confuso Hanamichi avvicinandosi al suo migliore amico. Yohei si voltò, furente, con i pugni stretti. “Ah, no?” sibilò tra i denti “allora vediamo di rinfrescarti la memoria… Quando pensavi di dirmi che te ne vai? Quando pensavi di avvertirmi che non ti rivedrò mai più perché hai deciso di vivere a Tokio? Scusa, sai, se me la prendo tanto, PENSAVO di essere il tuo migliore amico…” Concluse sarcastico tornando a concentrare lo sguardo sulla città silenziosa. Hanamichi aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza riuscire a spiccicare parola. “Ma…ma Tokio non è così lontana!” riuscì finalmente ad articolare. “Mia madre è stata trasferita per lavoro e…non posso restare…te l’avrei detto, ma ho cercato di rimandare fino all’ultimo… Insomma, non è detto che ci perderemo no? Anzi, guarda, ti prometto che non mi perderai! Possiamo restare in contatto, io verrò a trovarti per le vacanze e tu potresti…” “Non mi interessa!” lo interruppe l’altro con voce fredda e atona. “Puoi andare anche a Timbuctù, per quel che me ne importa. Non voglio vederti mai più. Abbiamo chiuso.” E con queste parole lapidarie si allontanò a grandi passi dalla terrazza, lasciando il rossino solo a guardare la sua schiena un po’ incurvata che spariva dal suo campo visivo.
**************POV HANA*****************
Era l’ultimo giorno delle scuole medie. Yohei era stato bocciato, quell’anno, e avrebbe dovuto ripetere la terza, mentre io mi sarei trasferito a Tokio di lì a qualche settimana. Avevo progettato di passare con lui tutto il tempo che mi restava, ma aveva deciso diversamente. Dopo essersene andato, non mi cercò più. Andai a casa sua, gli feci le poste nei locali che frequentavamo di solito, chiamai sua madre…niente. Sembrava sparito. Mi sentivo solo da morire, senza di lui. Lo avevo sempre avuto accanto, in ogni momento della mia vita, bello o brutto che fosse. Quando mio padre era morto, se non ci fosse stato lui sarei impazzito. Fu proprio la sua assenza il motivo della mia partenza. Mia madre si era data da fare, per cercare un lavoro che le permettesse di tirare avanti con me e mia sorella, e l’unico che riuscì a trovare fu un posto come segretaria di un importante ente assicurativo di Tokio. Lo stipendio era decisamente buono, e il trasferimento fu accettato all’unanimità, anche dietro promessa solenne della mamma di tornare a Kanagawa non appena si fosse reso disponibile un lavoro là. In effetti, restammo a Tokio per meno di un anno, ma quando tornai era tutto diverso. Yohei aveva lasciato la scuola, ritirandosi dall’ultimo anno, ed era andato a vivere da solo: nessuno fu in grado di darmi il suo nuovo indirizzo. Dopo un paio di mesi, rinunciai a cercarlo. Avevo capito che in ogni caso non avrebbe voluto parlarmi. I mesi iniziarono a scorrere, lenti. La mia vita scolastica al liceo Shohoku era scandita da tante piccole diatribe quotidiane, nuove amicizie e… Nuovi amori. Avevo incontrato una ragazza adorabile, di nome Haruko Akagi. Mi piacque subito, dal primo istante che la vidi. Era una persona eccezionale: vestiva sempre con pantaloni di due taglie più grandi, magliette scolorite e scarpe la cui tomaia era ormai ridotta all’osso. Il suo zaino era sfondato e pieno di macchie, ma non se ne curava affatto. Era sempre lì, fresca e sorridente come una bambina, che correva su e giù per le scale per avvertire gli studenti dell’imminente assemblea d’istituto. Impegnata politicamente, comunista convinta, era stata eletta all’unanimità rappresentante degli studenti e come tale organizzava anche le manifestazioni pacifiche cui tutti aderivano con entusiasmo. La sua energia e la sua voglia di fare erano contagiose, così come la sua risata e la sua voce profonda. Suonava la chitarra. Mi incantavo per ore nell’aula di musica, mentre faceva le prove col suo gruppo scalcagnato, a guardarla mentre con uno sbuffo si scostava la frangia dalla fronte madida di sudore e si mordeva il labbro se sbagliava un accordo, maledicendosi in silenzio. Non potevo cercare una compagna migliore. Tutti gli altri esseri viventi non m’interessavano più. Ma poi mi bastava camminare da solo sul lungomare perché i miei pensieri volassero ad altri occhi scuri e ad un altro sorriso che mi scaldava il cuore. E allora mi fermavo a chiedermi cosa stesse facendo, se tutto andava bene, se gli mancavo almeno un po’. Spesso arrivai anche a comporre il suo numero di telefono dalla cabina sotto casa mia, ma finivo sempre col riattaccare prima che rispondesse. - No!- mi ripetevo, testardo e orgoglioso. - È lui lo stronzo, è lui che ha sbagliato, che mi chiami e si scusi! Non mi abbasso a mendicare il suo affetto! Se non ha bisogno di me, beh allora la cosa è reciproca!- Stringevo la mascella e me ne andavo. Così, senza che me ne accorgessi, era passato un altro anno, ed era arrivata l’estate. Lavoravo come telefonista, per contribuire con mia madre alle spese di casa. Stavo chiuso in un ufficio umido per undici ore al giorno, con il telefono in una mano e un blocco di fogli dattiloscritti nell’altra. Vendevo contratti telefonici. Se non raggiungevo un certo numero di attivazioni, non venivo pagato. Ma, per fortuna, sembrava che avessi innato il dono della persuasione. Il capo spesso mi lodava, e alla fine mi aumentò lo stipendio. Ero felice di essere utile, e soprattutto di vedere mia madre finalmente serena, ora che il peso non gravava più solo sulle sue spalle. Una sera, ho visto Yohei. Stava passeggiando con tre strani tipi. Uno era molto alto, con dei pronunciati baffetti scuri che non smetteva di allisciarsi: sembrava più grande di noi. Il secondo aveva dei folti capelli biondi, tutti riccioluti, e sembrava ridere perennemente. L’ultimo era rotondo come un’enorme mongolfiera, con degli stupidi occhialetti sul naso schiacciato, le labbra carnose ed una corta zazzeretta sulla testa a uovo. Si strafogava di patatine, che estraeva a manate dal pacchetto formato famiglia che stringeva possessivamente ma contemporaneamente non smetteva un attimo di blaterare. Praticamente, un fenomeno da circo. Mi sono fermato a guardarlo: aveva tra le mani la sua divisa scolastica, fresca di tintoria, e questo mi ha tranquillizzato, aveva intenzione di tornare a scuola. Sembrava felice. Anche senza di me. Ho provato una stretta nel petto, ma poi ho scosso la testa: se andava bene a lui, perché per me avrebbe dovuto essere diverso? Quando e se avesse deciso di mettere fine a quel comportamento infantile, sapeva dove trovarmi. Io avrei mantenuto quella promessa, ad ogni costo. L’estate, in qualche modo, è passata, e, con lei, il primo semestre del terzo anno del liceo. E io mi ritrovo ad affrontare il vagellino con i miei risultati.
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Lo sguardo dardeggiante di sua madre era molto eloquente, perlomeno quanto il tremito inconsulto delle sue spalle…stava per esplodere… Hanamichi strinse le palpebre, mentre quello che paventava prendeva forma. “HANAMICHI SAKURAGIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII” tuonò la donna furente. “MA TI RENDI CONTO DI CHE RAZZA DI ASINO SEI?! COSA ASPETTI A CHIEDERE AIUTO, MALEDIZIONE! PERCHÉ DEVI ESSERE COSì ORGOGLIOSO?! BASTA, ADESSO SI FA COME DICO IO! CHIAMA SUBITO LA TUA PROFESSORESSA DI AMTEMATICA DELLE MEDIE E CHIEDILE DI DARTI RIPETIZIONI! FILAAAAAAAAAAAAAA!” Sbuffando, il rossino si diresse alla volta del telefono che si trovava all’ingresso e fece il numero. Mentre aspettava di prendere la linea, si morse il labbro inferiore. Che colpa ne aveva lui, se quella strega dell’insegnante di matematica e fisica lo odiava tanto? Certo, forse era perché bigiava sempre le sue lezioni, o perché non studiava mai, o forse perché non stava mai zitto… Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da una voce affaticata. “Pronto? Scuola media Tomigaoka, sono la vicepreside” “Professoressa? Salve, sono Sakuragi, Hanamichi Sakuragi, della III E. si ricorda?” “Hanamichi, ma certo! Come stai? Tutto bene?” “Si, sono un po’ stanco, sa, gli esami di fine quadrimestre, il lavoro…” “Dove stai studiando?” “Al liceo Shohoku” “Ma che bella notizia! Allora sei tornato a Kanagawa! Beh, mi fa piacere, sai? E continui a lavorare… Ah, quella cara donna che è tua madre è fortunata ad avere un figlio come te… Ma perché mi chiamavi?” “Ecco…vede…ho dei grossi problemi con la fisica e la trigonometria… Non ci capisco nulla e ho delle grosse insufficienze. Per mantenere la borsa di studio dovrei risollevare la media, e così, dato che con lei non ho mai avuto problemi di comprensione, mi chiedevo se sarebbe disponibile a darmi delle ripetizioni…” “Ma certo, caro, certo! Con molto piacere! Solo che dovrai avere un po’ di pazienza. In questo momento a scuola è tutto un po’ sottosopra, per via di quello che è successo, e quindi sono impegnatissima con le questioni burocratiche, ma se puoi richiamarmi fra una settimana vedremo di organizzarci a dovere!” “Per me va bene, professoressa, la ringrazio! Ma…che cosa è successo esattamente?” “Non mi dire che non sai niente! Le terze sono andate in gita scolastica dieci giorni fa, uno dei ragazzi è caduto da un balcone ed è morto. Chissà, forse l’hai anche conosciuto, visto che era un ripetente…Yohei Mito… …Hanamichi? Hanamichi, ci sei?”
*************POV HANA********************
Il vuoto. Il freddo. Sono le uniche sensazioni che avverto. Il nero è l’unico colore che vedo. Ma forse è perché ho gli occhi chiusi. Provo ad aprirli, ma la percezione non cambia. Allungo la mano per toccarmi il viso: è coperto da un panno, per questo pensavo di essere diventato cieco. Una mano sulla mia. Mieko. “Hana! Come ti senti? Che è successo? Ti abbiamo trovato svenuto accanto al telefono nell’ingresso, eri così pallido… Io e la mamma abbiamo avuto paura…” Paura… Telefono… Non riesco a ricordare. Che ci facevo nell’ingresso? Ah, sì. Dovevo telefonare alla mia professoressa. Ci ho parlato… Mi ha detto di avere pazienza perché è successo qualcosa. Sì, ma cos’era? “Uno dei ragazzi è caduto da un balcone… forse l’hai anche conosciuto…” NO! Non è possibile… Yo…Yohei… Lui… Kami… Devo vomitare…
**********POV HANA************
Sono passati tre giorni. Mia madre vuole che torni a scuola. Non posso restarmene qui al buio ancora a lungo. Non ho mangiato niente. E non riesco a piangere. Ho un nodo in gola che non mi fa dormire, non mi fa pensare, non mi fa vivere. Kami maledetto, maledetto… Ti odio! Mi senti, divinità del cazzo? Ti odio! Esisti solo per fottere chi si spacca in quattro per vivere! Noi sputiamo sangue per tirare avanti e tu te ne stai a guardare, come il bastardo che sei, e non ci dai in cambio niente! Un cazzo di niente! Avevo solo lui, era l’unica persona che contasse davvero per me! C’era bisogno di essere così meschino da portarlo via? Aveva sedici anni, cazzo, sedici anni! Una vita da vivere! Forse non era ancora riuscito neppure a fare sesso! Non si era fumato mai una canna, non si era mai sbronzato, non aveva mai vomitato sulle scarpe del buttafuori di un locale elegante. Voleva essere un calciatore, diventare famoso… Ma lo sai vero? Lo sapevi e te ne sei fottuto! Ma apri bene quelle cazzo di orecchie: ti maledirò finché avrò vita, e cercherò tutti i modi possibili per offenderti e per cancellarti quel ghigno dalla faccia, stronzo! Godi a vedere la gente che soffre, eh? Ti senti potente? Ti senti grande? Beh, notizia dell’ultima ora: non sei nessuno! Non vali un cazzo! Hai solo dimostrato di essere un burattinaio perverso che gioca col dolore. Mi fai schifo. Oh, merda, un altro conato.
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Haruko lo guardava preoccupata. Finalmente era tornato a scuola, ma qualcosa le diceva che forse avrebbe fatto meglio a temporeggiare ancora un po’. Il giorno prima, l’aveva visto arrivare, entrare nel cortile, guardarsi intorno con aria smarrita e poi, mentre le guance gli si rigavano di lacrime, scappare via. Avrebbe voluto chiamarlo, farlo tornare indietro, ma poi non se l’era sentita. Sapeva quali erano i suoi sentimenti per lei, ma non poteva ricambiarli. Non lo amava. Certo, gli voleva un bene dell’anima, era il migliore amico che avesse mai avuto, ma nient’altro. E sapeva che non ci sarebbe mai stato nient’altro. Ma nonostante tutto non poteva vederlo così. Era pallido, emaciato, con delle grandi occhiaie. Non parlava più, e il suo sguardo era freddo e vacuo. La spaventava. In più sua madre, quando lo aveva chiamato a casa per chiedere come stesse e quando sarebbe tornato a scuola, le aveva detto che non mangiava più. E si notava benissimo, infatti annaspava nella divisa scolastica che ora gli stava due volte. Non poteva andare avanti per molto. Il suo fisico non avrebbe retto. Per non parlare dei danni psicologici che avrebbero potuto derivare da una simile chiusura in se stesso. Non doveva stare solo, aveva bisogno d’aiuto. Ma lei non sapeva come darglielo. Aveva paura di peggiorare le cose, e d’altronde non poteva fingere d’amarlo per farlo uscire da quello stato comatoso: una volta scoperta la verità avrebbe potuto ricaderci, e magari questa volta decidere di non voler continuare a vivere. Scosse la testa. Qualcosa doveva fare. In quel momento si accorse che la professoressa gli stava facendo una domanda. Aspettò col fiato sospeso una risposta. Hanamichi si alzò, e la sua voce tremante e roca, come di chi ha smesso da tempo di usarla, spiccicò un paio di parole, prima che il corpo del suo amico venisse scosso da forti brividi e le lacrime non tornassero a scorrere: al che lui senza aggiungere altro scappò correndo dall’aula. La professoressa rimase basita per qualche istante, non capendo cosa stesse accadendo, e la confusione nei suoi occhi aumentò quando Haruko le chiese di poterlo seguire per sincerarsi delle sue condizioni. La ragazza iniziò a percorrere i lunghi corridoi del piano su cui si trovava la loro classe, ma non c’era traccia di lui, così come al secondo e al primo piano. Neanche in sala mensa lo avevano visto, e i bagni ripetevano come un eco il suo nome, invano. Sempre più preoccupata, Haruko corse per le scale in direzione della terrazza, mentre il suo cuore ripeteva come una litania “Resisti…ti prego…non farlo…” Spalancò la porta, ansimando col fiato corto per la corsa, e lo vide. Era seduto a cavalcioni sulla ringhiera, con le braccia tese a sorreggerlo, mentre scrutava sotto di sé. “Basta…” ripeteva con voce spenta. “Doshite…ore wa…hitori bochi…” L’amica si avvicinò e lo chiamò. “Sakuragi!” Lui si voltò a guardarla come se non la ricoscesse. Lei non tollerò oltre. Lo schiaffo le partì senza neanche accorgersene. “Cosa cazzo pensavi di fare, Hanamichi? Sei impazzito? Torna subito dentro, muoviti, altrimenti ti ci butto io giù dalla terrazza, ma a calci nel culo, hai capito?” Il rosso, confuso, obbedì, mentre sulla sua guancia la netta impronta di una mano aperta si andava delineando. “Io…sono stanco…” sussurrò. “Voglio…andare da lui… Ore wa…Hitori bochi…” “Smettila!” gridò Haruko. “E io, eh? Non conto niente io? Non sono niente per te? Sei solo? E come pensi che sarei io, se tu te ne andassi? Ti sei mai accorto che sei il mio unico amico? Smettila di pensare solo a te, a come stai tu, a quanto stai soffrendo, e guardati intorno. Scoprirai che la gente che credi stia così bene, in realtà nasconde dolori così grandi che non li puoi neanche immaginare!” Hanamichi chinò il capo. “Goumen nasai…” disse, prima di rientrare nell’edificio. Haruko tirò un sospiro di sollievo. Poteva capire come stesse il suo amico, ma non doveva permettergli di crogiolarsi in quella sofferenza. Era pericoloso. Doveva scuoterlo, farlo reagire. Ma ancora non sapeva se ci sarebbe riuscita. Decise che la cosa più facile era lasciarsi guidare dall’istinto. Il giorno dopo, Hanamichi scomparve di nuovo. Questa volta se la prese con più calma nella ricerca, premendosi la mano sul petto per calmare il battito impazzito del suo cuore. Lo trovò seduto a un tavolo, in un angolo non utilizzato del corridoio. Aveva la testa e le braccia abbandonate sul tavolo, e pesanti respiri gli uscivano dal petto, scosso da singulti che sembravano bloccati da un argine insormontabile. Sapeva che se non l’avesse fatto sfogare, il peso che si portava dentro l’avrebbe schiacciato. Si avvicinò senza fare rumore, e si sedette sulla scrivania. Lasciandosi cadere all’indietro, appoggiò le mani aperte sul piano e le intrecciò a quelle dell’amico, per trasmettergli sostegno e conforto. Poi attese.
**************POV HANA******************** Buio. Nero. Vuoto. Ormai sono abituato a questo brivido che mi scuote lo stomaco e mi sballotta il cuore di qua e di là, come delle montagne russe solo in salita… Vorrei solo non dover uscire da questa incoscienza che mi fa dimenticare per un po’ che sono solo, senza nessuno accanto. Ma è giusto che lo sia, io ho lasciato che restasse solo, io ho infranto la promessa. Sono uno schifoso bugiardo. Nessuna meraviglia che a nessuno importi niente di me. Finché ero il buffone di corte, avevo tanti amici: faceva comodo avere qualcuno che sorrideva sempre e ti faceva sentire che tutto sarebbe andato a posto. Ma ora, ora che avrei bisogno IO di qualcuno che mio dicesse che devo andare avanti, e che il dolore passerà, non c’è nessuno con me. Non servo più, sono un peso inutile. Chissà se anche per Yohei ero un peso. Forse non vedeva l’ora che me ne andassi per liberarsi di me. Sono proprio uno stupido. E un fallito. Inizio a sentire caldo, mi formicolano le dita. Vorrei muoverle, ma non ci riesco. Da quant’è che sono sdraiato qui? Apro gli occhi, e ripeto il gesto più di una volta per capire se sono sveglio davvero: davanti a me c’è la schiena di Haruko. E non solo, sono le sue mani che stringono le mie accarezzandole dolcemente con i polpastrelli. È un gesto sconvolgente, nella sua semplicità. Vuole farmi sentire che c’è, che non sono solo, che se voglio parlarle mi ascolterà. “Haruko…” provo a dire. Lei mi guarda e mi sorride. Com’è dolce, il suo sorriso, è caldo e pieno d’affetto. Come una scarica elettrica mi attraversa e io vorrei rispondere, ma non ce la faccio. Il groppo in gola pulsa dolorosamente e non lascia uscire le parole. Mi alzo di scatto, sciogliendo le nostre mani, e faccio due passi verso le scale per allontanarmi da lei. Ma qualcosa mi trattiene. Abbasso lo sguardo: le sue dita stringono un lembo della mia giacca e mi tirano dolcemente indietro. Mi volto di scatto, ma nel movimento mi ritrovo a cozzare con le sue gambe e non so come cado a terra. Mi metto in ginocchio, mentre cerco di rialzarmi, ma lei è più veloce di me e mi stringe fra le sue braccia. Alzo la testa per cercare i suoi occhi: sono lucidi, mentre annuisce e mi accarezza lentamente i capelli. Io allora affondo il viso nel suo petto, abbracciandole la vita, e sento che il nodo si scioglie.
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E Hanamichi, finalmente, pianse tutte le sue lacrime. Pianse per la promessa infranta, per il sorriso del suo migliore amico che si accorgeva di aver quasi dimenticato, pianse per tutte le cose che avrebbe dovuto dirgli e per quelle che avrebbe dovuto tacere. Pianse per i pomeriggi al telefono, le vacanze sempre troppo brevi, le bravate ai danni degli adulti, le punizioni condivise. Pianse per i litigi e per le riappacificazioni, pianse perché gli mancava, pianse perché avrebbe voluto poterci parlare, solo una volta ancora, per chiedergli scusa di essere stato così stupido, e sentirsi rispondere che era acqua passata e non importava più. Pianse perché non gli aveva mai detto quanto gli voleva bene, e quanto nella sua vita fosse stato fortunato ad averlo incontrato. Pianse per l’Hanamichi che era stato e che non sarebbe tornato ad essere mai più. Tra i singhiozzi, finalmente liberi di manifestarsi, e il torrente che gli scorreva sulle gote, frasi spezzate rivelavano ad Haruko tutto quello che aveva fatto soffrire così tanto il suo amico, facendola sentire insensibile per non aver cercato prima di parlargli e di capire che cosa lo tormentasse tanto. Passarono ore, o forse solo minuti, senza muoversi, mentre il sacco di dolore che Hanamichi aveva portato fino ad allora si svuotava riversandosi sulla ragazza che non smetteva un attimo di stringerlo. Finalmente il rossino tacque e, lentamente, anche i singhiozzi si acquietarono. Haruko si scostò leggermente e gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi. Gli occhi gonfi di Hanamichi brillavano di gratitudine. Poi, rabbuiandosi, questo disse “Non l’ho neppure salutato.” “Nani?” chiese la ragazza che non capiva. Il rosso sospirò, sedendosi e indicando a lei la sedia di fronte. “Quando ho chiamato a scuola ed ho scoperto cos’era successo, erano già passati otto giorni e…il funerale…si era già svolto. Io non ho avuto la forza di andare al cimitero da lui, non voglio vedere…” si morse il labbro per trattenere altre lacrime “…un pezzo di marmo col suo nome sopra…quello non è lui! Io voglio ricordarlo com’era! Anche se comincia a sbiadire. In fondo, erano quasi tre anni che non lo vedevo e non ci parlavo, e ho paura…paura di perderlo…” “Non lo perderai, Hana. Ma se vuoi, c’è una cosa che puoi fare per lui” gli rispose dolcemente l’amica. Hanamichi la guardò interrogativo. “Mi hai detto che aveva dei nuovi amici, no? Vai a parlarci. Cerca di conoscere il ‘loro’ Yohei e condividi il tuo. Lo sentirete meno lontano, e tutti avrete l’impressione di conoscerlo meglio”. Lui sorrise. “Hai ragione, Haruko” disse. “Ci parlerò”.
*************POV HANA****************** Già, hai ragione, Haruko. Ma come faccio a parlare con loro? Il dolore che sentono lo capisco bene, ma magari stanno superandolo a fatica come me e tirare fuori i miei ricordi e i loro riaprirebbe la ferita… “Ma tu non sei Hanamichi?” Ho spiccato un balzo, non mi ero accorto che c’era qualcuno alle mie spalle! Mi volto e…sono loro. Mi stanno sorridendo. Il biondo ha gli occhi lucidi mentre mi tende la mano. Vorrei afferrarla, ma non ne ho il tempo. Mi serra in un abbraccio fraterno, imitato dagli altri. “Ciao, fratello” mi dice con la voce rotta dall’emozione. “Siamo la tua armata”.
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I quattro ragazzi erano seduti su una panchina in una piazzetta da cui si poteva vedere il mare. La brezza leggera di fine inverno sollevava le foglie che riposavano sul selciato. Dalle tazze che tenevano tra le dita si sollevavano nuvolette di vapore. Noma soffiò sulla sua e ne bevve una gran sorsata, poi si schiarì la voce per raccontare ad Hanamichi la parte della storia di cui non era a conoscenza. “Abbiamo conosciuto Yohei durante la scuola preparatoria estiva. Tutti e quattro avevamo lasciato la scuola e dovevamo riprendere a frequentarla quest’anno, quindi per non presentarci del tutto impreparati abbiamo seguito un corso che la Tomigaoka metteva a disposizione di chi doveva rimettersi in pari con il programma. Ci siamo trovati in sintonia da subito. Noi uscivamo tutti insieme già da parecchio, ma Yohei è diventato un membro a tutti gli effetti fin dall’inizio, come un tassello mancante. È stata un’estate fantastica, davvero, ne abbiamo combinate tante… Eppure Yo ogni tanto si rabbuiava, e non capivamo cosa gli succedesse. Così una sera gli ho chiesto di parlarci di quello che lo preoccupava: e lui ci ha raccontato di te, del litigio che avete avuto. Aveva capito di aver sbagliato e non sai quante volte avrebbe voluto chiamarti per dirtelo, ma sai meglio di me com’era cocciuto e orgoglioso! Allora abbiamo deciso di invitarti al compleanno di Taka, il 24 Maggio, senza dirglielo, in modo che poteste chiarirvi…” gli si incrinò la voce. Hanamichi gli mise una mano sulla spalla per incoraggiarlo. Il ragazzo respirò profondamente, e poi riprese: “A fine marzo, per ricompensarci del lavoro svolto, il consiglio dei docenti ha organizzato una gita di un fine settimana a Osaka, solo per noi delle terze. Come ben sai, i professori erano peggiori dei cani mastini e dopo le dieci non volevano nessuno in giro. Facevano addirittura le ronde nel corridoio! Ma io aveva deciso di sfruttare la vicinanza delle nostre stanze per riunirci tutti in quella di Taka e Okusu che era più grande: infatti bastava un balzo per saltare da un balcone all’altro. Io sono andato per primo. Non so che cosa sia successo. So solo che invece di arrivare dalla nostra parte, Yohei è caduto giù. Senza un fiato. Noi l’abbiamo visto spalancare gli occhi, sorpreso. E poi abbiamo sentito…” Noma si coprì la bocca con la mano. Takamiya distolse lo sguardo. Fu Okusu a concludere il racconto. “Eravamo come gelati. Nessuno di noi riusciva a muoversi. Poi non so chi si è sbloccato, ed ha iniziato a gridare. Chiamando aiuto, disperati, ci siamo precipitati giù dalle scale, non potevamo credere che fosse successo davvero. Non a lui. Ma lui era lì. Sul marciapiede. Ed era…vivo, sai? Sono arrivato per primo. Mi ha guardato e mi ha sorriso. “Ho l’agilità di un rinoceronte” ha borbottato. Io, che avevo già il viso rigato di lacrime, ho accennato una risatina. Intanto gli altri erano sopraggiunti. Lui ci ha abbracciato tutti con lo sguardo, e mentre una lacrima scappava pure a lui ha detto “Beh, ciao ragazzi, grazie di tutto! Andate a cercare quel demente del mio migliore amico e ditegli che…gli…voglio bene… Non gliel’ho mai d…” Con un singulto Hanamichi si nascose il volto tra le mani. “Anche io…” balbettò “anche io gliene volevo…” Taka lo fissò per un istante, per poi dargli un pugno scherzoso. “Ma lui lo sapeva” gli disse sorridendo.
***************POV OKUSU (^^)************************
È proprio come ce l’avevi descritto. Mi sembra incredibile essere qui a parlare con lui. Il suo sguardo mi parla di te, amico mio. Tutto in lui mi parla di te. Perché ci hai lasciato, eh? Baka… Saremmo stati un gruppo fantastico, mi sembra di vederci, tutti stipati sulla tua vespa, mentre ce ne andiamo in sala giochi, oppure al mare tutti concordi nello sfottere Taka perché la sua pancia sembra un budino tremolante e Hanamichi che riceve l’ennesimo due di picche. Sai, Hanamichi ha iniziato a giocare a basket e noi ci siamo ovviamente autoeletti sua tifoseria ufficiale. Ha tanto da fare, tra studio ed allenamenti, vuole essere il migliore. E noi cerchiamo sempre di tenerci occupati con lui, per fargli sentire che ci siamo. Eppure non passa un giorno senza che il tuo pensiero sia con noi. Ogni litigata si spegne da sola, come se la tua voce calma e paciosa fosse ancora qui per sedare le rivalità. Ognuno dei nostri sorrisi ha un che di nostalgico, e sappiamo bene che qualcosa di noi è cambiato, qualcosa te lo sei portato via e non saremo più gli stessi. Hana non capiva perché non volessimo piangere per te. Ci ha raccontato di quanto gli è costato liberarsi di quel peso che gli gravava addosso, e pensava che per noi fosse lo stesso. No. Noi ti avevamo promesso che non avremmo pianto. Ci hai chiesto di essere forti, di ricordare solo il meglio di te e perdonare tutti i tuoi errori. Ci hai chiesto di non mollare mai, perché tu ci stimavi e ci volevi bene anche per questo. Ci hai chiesto di non perdere la fede, perché tu che non l’avevi mai avuta ne hai sentito la mancanza negli ultimi momenti. Ci hai chiesto di guardare al futuro, e di credere in noi stessi. Ci hai chiesto di parlargli di te.
*************POV HANA**************** Ciao, papà. Ti stupirai di vedermi qui, da solo. I ragazzi mi aspettano all’angolo. Volevo parlarti. Non ce l’ho fatta ad arrivare da lui, ma era troppo tempo che non stavo un po’ con te. Così alla fine sono venuto. Il cuore oggi mi faceva così male che ho dimenticato per un po' quanto mi manca. Sento delle gocce sul dorso della mano. Sta piovendo? …Kuso! Ormai neanche mi rendo più conto di quando sto piangendo.Non è il tuo ricordo quel freddo che mi fa torcere le mani, né quello dell'altra meravigliosa creatura che manca nella mia vita. Non è il miele dei tuoi capelli, o l'ebano dei suoi, non sono le sue carezze o il tuo abbraccio, non sono il tuo richiamo o il suo sorriso, che graffiano i miei giorni. Ciò che fa male davvero è l'assenza di tutto quello che avevo imparato da voi, delle vostre parole e del vostro appoggio, è la paura di non essere come mi vorreste. Spero che tu l'abbia conosciuto: è una persona incredibile, sono sicuro che gli vorrai bene subito, d'istinto. È stato a lungo il mio unico amico, l'unico che quando mi vedeva triste mi saltava sulle spalle abbracciandomi e mi diceva "Può solo andare meglio!"... Un ragazzo che non si può non amare. Tu...voi... Mi mancate, da soffocare, mi manca tutto quello che non abbiamo fatto in tempo a condividere. Mi manca il vederlo uomo, e crescere con te. È terribile avere solo passato. Presente, e futuro, per voi, sono un concetto più che astratto. Che dovrei fare io? Dimenticarvi, come mi hanno suggerito? Trasformarvi in ricordi? Asciugare l'ennesima lacrima stanca e rabbiosa che non mi permette di vedere dove metto i piedi? Non riesco a pensare che la vita continua, o che non sono l'unico che ha perso qualcuno d'importante. Non riesco a non sentire questa morsa di solitudine pensando a quanto non ci siamo detti... So che tu mi diresti di andare da lui, perché ho bisogno di dirgli addio. Ma non gli dirò mai addio guardando una lastra di pietra. Lo cercherò nei luoghi così importanti per noi e lo saluterò a modo mio. Ti voglio bene, papà…
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“Ehi, Hana! Dove vai?” “Scusate ragazzi, mi sono ricordato di un appuntamento che proprio non posso rimandare! Ci vediamo domani a scuola ok?” “Roger, capo! A domani!”
*************POV HANA****************
Che pace che c’è qui…Sembra che il mondo si sia fermato per permettermi di salutarti. Sei qui, vero amico? Quante volte siamo venuti a giocare a pallone in questo parco. Dalla panchina su cui sono seduto non posso vederlo, ma c’è un campetto dietro quegli alberi. Ricordi quando ci arrampicavamo sul canestro? E quante volte il custode ci ha inseguito brandendo il rastrello e gridando di non farci più vedere? Ah, che risate… Ouch! Kuso! Mi sono tagliato con un chiodo sporgente della panchina… Mi guardo la mano, la graffio, la muovo; mi sento vivo, mio malgrado, e mi fa male, mentre il mio pensiero corre al dolore che devi aver sopportato in quei momenti. Non riesco a trattenermi: le lacrime scendono inzuppando il cuore e rivedo il tuo profilo, che, ora che non ci sei più, mi fa soffrire. Non dormo più: non ero, ormai da troppo, parte della tua vita! E per quanto possano dirmi che avevi capito di aver sbagliato, una parte di me si incolperà sempre per non averti cercato quando avrei potuto farlo. Ma poi scuoto la testa: quel che è stato è stato, e rivangare annegando nei “se” è inutile. Così guardo al futuro e credo ai sogni, come facevi tu, e continuerò così fino al giorno in cui ti rivedrò. Mia madre una volta, nel cercare di scuotermi dalla mia apatia, mi ha detto che ormai te n’eri andato e che era quindi da stupidi continuare a pensare a te. Ma io rido di quelli che ti dicono morto: hanno visto il tuo corpo e ti hanno detto addio, ma tu sei ancora qui, sorridi alle mie spalle, e anche se posso solo intravedere la tua ombra so che ci sei. E tanto mi basta per tirarmi su e ricordarti come penso vorresti; se un giorno ti dimenticassi, e pezzi di te si nascondessero nelle pieghe della mia memoria, solo allora tu moriresti, e solo allora mi potrò incolpare di una scomparsa sbagliata perché ora tu stai solo occupando il posto che ti spetta. E noi piangiamo per questo? È stupido... E allora perché i miei occhi sono ancora umidi…? Perché ti avevo fatto una promessa e non sono stato in grado di mantenerla. Ho tradito l’amicizia che ci legava. Saresti fiero di me, piccolo amico dai grandi sorrisi? Dì, saresti fiero di me, chiaro ragazzo dagli occhi scuri? No, credo mi rimprovereresti, e ti faresti del male, Se potessi vedere ciò che ho fatto di quella vita che a te hanno negato. Soffriresti, se potessi vedere il tuo vecchio amico Ferito e demotivato, triste ed isterico, con le lacrime in tasca e la rabbia sulla punta della lingua. Se fossi ancora qui non sarebbe così difficile, perché tu mi abbracceresti, fragile amico dalla grande forza, e mi risveglieresti l’anima, restituendomi la fiducia nel domani che io stesso ti donai in quella che a ripensarci ora sembra un’altra vita; e allora risalirei la china del dolore. Ma non ci sei. E sono solo. Mi faccio forza, stringo i denti, e corro diritto, sempre avanti, non mi volto più. Vorrei solo non sentire questo vuoto addosso. Vorrei avere qualcuno accanto, qualcuno che mi voglia bene davvero, per quello che sono e non per quello che sembro. Tu lo sapevi, che dietro il sorriso che mostravo a tutti c’era una persona che aveva bisogno d’amore, di tanto amore. Un giorno forse arriverà qualcuno che mi darà quell’amore senza chiedere niente in cambio; e tu non sarai qui a condividere quel momento con me. Non so se mi stai ascoltando, Yohei… Ti voglio bene. Scusa se ti disturbo solo per dirti questo, ma mi manchi da morire…anche se mi manco di più io. Vedi, da quando te ne sei andato ho disimparato a ridere. Una volta la gioia riusciva ad illuminarmi tutto il viso; tu lo notavi e sorridendo mi dicevi “Hai le stelle negli occhi”. Ora i miei occhi luccicano ancora, ma sono solo lacrime amare. Rimpianto. Rimorso. Per te, che mi volevi bene senza amare. Per te, che soffrivi in silenzio. Per te, che sapevi sempre cosa dire. O fare. Ho bisogno di sentirti vicino, anche se ora sembro più forte; il dolore è cresciuto con me, e gli ostacoli conquistano terreno. Respirare non mi riesce più, mi mancano i tuoi occhi scuri. Ma non posso raggiungerti, un giorno, forse, non ancora: mi odieresti, se rinunciassi a vivere, perché, in fondo, sono qui anche per te. Certo, abbiamo perso tanto tempo! Non sai più quale sia il mio frutto preferito, cosa sogno la notte, quali sono i miei progetti per il domani. Sì, Yohei: ho dei progetti per il domani. Voglio giocare a basket. Ho scoperto di amare questo sport più di qualunque altra cosa, anche più di Haruko. Mi è stata molto vicina, in questo periodo, anche se ultimamente si è un po’ raffreddata nei miei confronti. Probabilmente perché mi vuole bene, ma non vuole che mi illuda che tra noi possa nascere qualcosa di diverso. Domani le parlerò in modo che si tranquillizzi sapendo che ora anch’io le voglio bene e basta. Grazie per non avermi dimenticato. Hai pensato a me fino alla fine, lasciandomi degli amici veri su cui potrò sempre contare. Sono loro a darmi la forza di alzare la testa, ora, e di alzarmi da questa panchina. Posso sorriderti ancora. Come ieri. Come un anno fa. Come quando ho saputo che ti avevo perso. Come quando qualcosa mi si è spezzato dentro, e nonostante tutto sono riuscito a ricomporre i cocci. Come quando ho dimenticato il mio cuore da qualche parte e ho avuto paura di non riuscire più a ritrovarlo. Ma continuerò a tenderti le braccia, perché ho bisogno del tuo calore, mentre aspetto che una brezza leggera mi avverta che sei qui. Posso scriverti quello che non ho potuto dirti. Per non dimenticare. Ti porterò dentro, amico, per sempre. Ciao, Yohei.
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Il rumore di una palla che rimbalzava attrasse la sua attenzione. Qualcuno si stava allenando nel campetto alle sue spalle. Fece dietro front e raggiunse la piccola radura: un ragazzo dalla pelle chiarissima e lunghi capelli neri stava scartando avversari immaginari sotto canestro, per poi elevarsi con un salto formidabile andando ad insaccare il pallone nel cesto con una schiacciata magistrale. Hanamichi rimase a guardare sbalordito quell’angelo in pantaloncini che si asciugava il sudore con una fascetta di spugna nera, poi si fece coraggio e mosse qualche passo verso il centro del campo. “Chi…chi diavolo sei tu?” chiese con la bocca asciutta. Lo strano ragazzo lo squadrò da capo a piedi alzando un sopracciglio, poi puntò i suoi occhi blu nei suoi e rispose “Kaede Rukawa” andandosene poi lasciando un esterrefatto rossino a guardare imbambolato il suo posteriore allontanarsi con un’andatura felina ed elegante. “Rukawa…” ripetè Hana. Non sapeva perché, ma sentiva che l’avrebbe rivisto molto presto. Ma questa è un’altra storia…
* OWARI *
ç_ç ueeeeeeeeeeeeè… spero tanto che ti piaccia, principessa dolce… scusa per la depressione incipiente, ma è una storia vera… è quello che è successo tra me ed il mio migliore amico. Ce l’avevo nel cuore e non potevo esimermi dallo scriverla. Te la dedico con tanti baci, e scusami per il ritardo mostruoso!!!
Marty
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