Due cose, prima di cominciare: 

1)  Questo racconto è ambientato all’epoca di Alessandro il Grande, in Macedonia. Però, durante la stesura si sono infilati, non so come, elementi che appartengono più all’Impero Romano che a quello Macedone (tipo le matrone e i senatori). Inoltre i Macedoni non hanno mai sottomesso i popoli dell’Europa Centrale, come invece accade qui. Però il racconto mi suonava bene così. Dopo tutto è un Fantasy, quindi può succedere di tutto, no?

2)  I personaggi sono miei, e durante la stesura del racconto mi sono davvero molto affezionata a loro, tanto da soffrire e gioire con loro. Non vi chiedo tanto, ma spero che, conoscendoli, possiate volere loro un po’ di bene.

 Buona lettura! 


Il Lupo Bianco

di Schwarze Fee


Prologo

 La prima volta che Ulf vide la Dea aveva cinque anni.

 Ulf apparteneva alla tribù del Lupo Grigio. Tutti dicevano che era un bambino alto e forte per la sua età, in effetti era quasi alto come Arne, che aveva due anni più di lui. Arne era il suo fratello adottivo, anche se lui gli voleva bene come a un fratello vero. Dato che Arne era stato adottato prima che lui nascesse, se lo vedeva girare in torno da sempre. Cos'era un vero fratello se non questo? Del resto si assomigliavano molto.  

Quel giorno si trovavano nella Radura, nel Bosco delle Querce.

Lui e Arne ci andavano spesso a giocare, era il loro rifugio, il loro "posto". Di solito non ci andava mai nessuno perchè in realtà quello era un luogo sacro, usato solo durante le cerimonie. Certo era vietato andarci per una cosa stupida come giocare, ma Ulf era convinto che non ci fosse nulla di male. Lui "sentiva" certe cose, era come se percepisse attraverso la pelle l'energia che emanava dalla terra, sentiva le piante e gli animali. Non sapeva spiegarlo ma quel luogo lo faceva sentire bene. Era un posto "buono". Sapeva per certo che, anche se gli adulti li avrebbero puniti trovandoli lì, la Dea non lo avrebbe fatto, anzi, ne sarebbe stata felice.

 La Dea si trovava in fondo, dove la Radura si chiudeva. Al di là non ci erano mai andati perchè il bosco si faceva fitto. Se ne stava in piedi e li guardava. Aveva l'aspetto di una cerva, una bella cerva rossa, con una macchia bianca sulla fronte. Ulf la riconobbe subito, non sapeva spiegarsi come, ma sapeva che era Lei, non poteva essere altro. Rimase come incantato a guardarla. Sarebbe rimasto così per sempre. Da Lei emanava un'energia buona, come un calore di... di mamma. La sua mente di bambino non sapeva trovare un paragone più adatto.

Stranamente anche Arne la riconobbe, e ne fu terrorizzato. Sapeva del dono di Ulf, ma lui non aveva mai provato niente del genere. Per lui le piante erano piante, davano ombra d'estate e legna d'inverno, e gli animali erano buoni da mangiare. Lui era un guerriero e non aveva tempo per simili stupidaggini. Però adesso la riconosceva, sentiva un po' di quel calore che sentiva Ulf e, anche se era piacevole, non gli piaceva affatto. Non lo capiva e non sapeva come combatterlo e questo lo faceva sentire impotente. E poi alla sua età già conosceva alcuni degli insegnamenti dello Sciamano. Sapeva che chi vede la Dea e la riconosce è destinato a diventare un potente Sciamano, oppure è presagio di morte.

Arne aveva solo sette anni ma sapeva per certo che non sarebbe diventato Sciamano. 

Capitolo 1

La preda

Fu dopo due giorni che Ulf catturò la sua prima preda. Già da dieci giorni tenevano d'occhio la tana di un coniglio. Se lo erano lasciato sfuggire per due volte, ma Ulf era sicuro che sarebbero riusciti a prenderlo. Ulf era appostato immobile dietro la tana già da parecchio tempo e l'unica cosa che gli impediva di addormentarsi era la sensazione che da un momento all'altro sarebbero iniziati i crampi causati dalla prolungata immobilità. Improvvisamente se lo trovò davanti. Fu un attimo. Agì d'istinto. Senza sapere come, si trovò una zampa del coniglio fra le mani. L'animaletto si divincolava e scalciava con le tre zampe libere, graffiandogli le mani. Non era molto grosso, ma la disperazione gli dava un'incredibile forza. Faceva un male tremendo, ma Ulf non lo avrebbe lasciato nemmeno se si fosse ridotto a tenerlo con dei moncherini. Sentiva la paura del coniglio, per un attimo fu sul punto di lasciarlo andare. Allora ricordò gli insegnamenti di suo padre: quando i cacciatori partono per la caccia, donano la loro vita al cinghiale. Durante una cerimonia pregano la Dea, sotto forma di Scrofa, di dare loro una buona caccia, però in cambio mettono la loro vita a Sua disposizione. Il cinghiale si sacrificherà per il benessere della tribù, però può anche capitare che deve essere il cacciatore a sacrificarsi.

Così Ulf prese una decisione: in cambio della vita del coniglio offrì alla Dea il suo sangue e il dolore che il coniglio gli stava provocando. Pensò che non era molto, ma lui aveva solo cinque anni e forse la Dea si sarebbe accontentata. Fu allora che Arne intervenne. Prese il coniglio per la pelle della schiena e lo sbatté contro un albero.

Poi, colmo di gioia, sollevò il fratellino da terra e lo fece girare, gridando di felicità. Con reverenza guardò le mani di Ulf, andò a prendere il sacchetto di pelle di cervo in cui tenevano dell'acqua, e gliele lavò. Per tutto il tempo non fece altro che rivolgere a Ulf un sorriso pieno di affetto e orgoglio. Ulf si sentiva scaldare da quel sorriso, aveva gli occhi che brillavano e le guance rosse per l'imbarazzo. Sentiva che Arne era fiero di lui e per questo si sentiva soffocare dalla gioia. Pensò che voleva bene ad Arne e che gliene avrebbe sempre voluto.

Improvvisamente ebbe una sensazione terribile, come se un pezzo di ghiaccio si fosse formato dentro di lui. Durò solo un attimo, tanto che poi pensò di esserselo solo immaginato, ma in quel momento si spaventò a morte. Arne lo vide impallidire e vacillare.

- Cos'hai? Non ti senti bene?-  - No... niente... niente - Tentò di sorridere. Arne era tanto felice che dimenticò subito l'episodio, dando la colpa alla stanchezza e all'emozione. Ma Ulf ripensò a lungo a quella sensazione; non sapeva cos'era, ma era certo che, in qualche modo, riguardava Arne.

 Per la loro gente, popolo di cacciatori, quando un bambino catturava da solo la prima preda, anche se si trattava solo di un coniglio, era motivo di grande gioia e festeggiamenti. E più il bambino era piccolo più veniva festeggiato.

Con il coniglio in una mano e una mano di Ulf nell'altra, Arne fece ritorno al villaggio, gonfio d'orgoglio

- La prima preda! - gridava, - Ulf ha catturato la sua prima preda! - Lo portò dritto alla capanna di suo padre. - Guarda Olaf, tuo figlio ha catturato questo coniglio, è la sua prima preda! - e mostrava fiero le mani di Ulf graffiate e sanguinanti, a prova del suo coraggio. Olaf prese il figlio fra le braccia e lo sollevò in aria ridendo, mente Gudrun, la madre del piccolo, lo guardava sorridendo piena d'orgoglio. Era felice per Ulf, ma anche per Arne che, nonostante non fosse il vero fratello di Ulf, si comportava come se lo fosse. La madre di Arne era morta dandolo alla luce, così il padre, il capo del villaggio, lo aveva affidato a Olaf, il suo migliore amico e grande cacciatore. Due anni dopo anche lui era morto. Olaf aveva preso la guida del villaggio.

L'anno seguente era nato Ulf. Tra i due bambini si era creato un legame molto forte.

Nessuno allora immaginava quanto forte sarebbe diventato.   

Quella sera si fece festa, si mangiò anche il coniglio e la porzione più grande fu data a Ulf.


Capitolo 2

Il presagio

 

La seconda volta che videro la Dea fu esattamente dieci anni dopo, esattamente nello stesso posto. Anche quella volta la riconobbero immediatamente.

Dieci anni prima erano seduti sotto la Grande Quercia e stavano costruendo un arco con dei ramoscelli. Ora stavano sotto lo stesso albero, ma non erano più dei bambini.

Arne era diventato alto e imponente. A diciassette anni superava in statura la maggior parte degli uomini adulti del villaggio e pochi di loro potevano sfidarlo ad un incontro di lotta e sperare di poterlo battere. Come aveva sempre desiderato, era diventato un abile cacciatore. Durante la sua prima caccia, a quindici anni, aveva ucciso da solo ben tre cinghiali. Come tutti i cacciatori portava una tunica di pelle di cervo; i capelli erano sciolti sulla schiena, solo la parte anteriore era divisa in due e raccolta in due trecce che scendevano ad incorniciare il viso abbronzato. La sua pelle era più scura di quella della maggior parte degli Ariani perchè sua madre veniva da un paese molto lontano, verso sud-ovest, il naso era lungo e sottile e le labbra carnose come quelle della madre, i capelli, biondissimi da bambino, crescendo si erano un po' scuriti assumendo una tonalità color miele, mentre gli occhi erano azzurri e ridenti, come quelli del padre, e avevano un'espressione furba e spavalda. Ancora non portava la barba perchè quella era solo per gli uomini ammogliati.

Ulf invece aveva ancora l'aspetto del ragazzino, era più alto della maggior parte dei suoi coetanei, ma aveva mantenuto un fisico esile. Nessuno avrebbe detto che era in realtà molto forte. La pelle era bianchissima, e anche i capelli erano rimasti chiari come quando era bambino. Li teneva ancora raccolti in una treccia perchè non aveva fatto la sua prima caccia, perciò non era ancora un vero cacciatore. Per lo stesso motivo non indossava la tunica ma il corto gonnellino destinato ai ragazzini. Il naso era piccolo e un po' a "patata", mentre la bocca era piccola e ben fatta, con il labbro inferiore leggermente più carnoso di quello superiore, cosa che gli dava un'aria perennemente imbronciata. Gli occhi erano invece grandi e pensosi, di una tonalità di azzurro chiarissima. Le ciglia e le sopracciglia erano talmente chiare da essere quasi invisibili e questo gli dava un'espressione un po' indefinita. Chi lo vedeva per la prima volta non riusciva mai a capire subito com'era la sua faccia, doveva riguardarlo una seconda volta. Ma una volta guardatolo bene, si rendeva conto che il ragazzo possedeva una bellezza incredibile, un po' eterea, come se invece di una persona in carne e ossa fosse stato uno spirito, uno di quelli che popolavano le leggende di quel popolo. Arne era l'unico che lo paragonava alla cosa più simile a lui di cui parlavano le leggende: una fata. Si, Ulf aveva il viso di una fata.

 In tutti quegli anni aveva coltivato il suo Dono, lo Sciamano Lupo Grigio lo aveva preso sotto la sua ala e lo aveva iniziato alle sue Arti. Quel ragazzo, pensava lo Sciamano, era un dono della Dea, sarebbe diventato un grande Sacerdote. 

 Quel giorno Ulf e Arne non pensavano alla caccia, ne' al Dono, ne' a null'altro. Ulf se ne stava sdraiato su una stuoia di erba che loro stessi avevano intrecciato, con gli occhi chiusi e le mani dietro la testa. Sul suo viso aleggiava un sorriso soddisfatto. Allungò una mano e strappò un filo d'erba, mettendoselo poi in bocca. Arne stava coricato al suo fianco e lo guardava. Con una mano si reggeva pigramente la testa, mentre con l'altra accarezzava Ulf lungo il corpo. Ogni tanto gli posava un bacio sul collo o sulle labbra. Avevano appena finito di fare l'amore e ora erano perfettamente rilassati e dimentichi di tutto.

Nessuno dei due avrebbe saputo dire come tutto era cominciato. All'inizio era stato soltanto un gioco. Fin da quando era molto piccolo, capitava che nel cuore della notte Ulf si svegliasse sulla sua stuoia e sentisse il bisogno di qualcuno che lo coccolasse. Certo non poteva andare dalla madre, che lo avrebbe cacciato. Cercare coccole non si addiceva ad un futuro cacciatore. Così si intrufolava nel letto di Arne. Arne non lo avrebbe mai confessato, ma a volte non riusciva a prendere sonno e restava sveglio con la speranza che Ulf si accoccolasse vicino a lui. Era bellissimo sentirlo vicino, sentire il suo corpicino caldo che si stringeva al suo. Aveva imparato ad accarezzarlo lungo la schiena, poi lungo il ventre. Faceva scorrere le sue mani sulle spalle e sulle braccia. A quel contatto Ulf mugugnava di beatitudine e si stringeva ancora di più a lui. Gli anni erano passati, ma quell'abitudine era rimasta. Ulf aveva ormai quattordici anni, e quando si intrufolava nel letto del fratello stava bene attento a non farsi sentire dai suoi genitori. Non sapeva bene il perchè, dopo tutto non faceva niente di male, ma sentiva che comunque a loro non sarebbe piaciuto. Inoltre non era bene che un ragazzo alle soglie della sua prima caccia cercasse ancora le coccole.

Un giorno erano sotto la loro quercia, sdraiati uno accanto all'altro, quando Ulf si era accoccolato accanto ad Arne. Arne era stato preso alla sprovvista. Fare quel gioco sotto le coperte, al buio, era una cosa, farlo così, alla luce del sole, era tutta un'altra cosa. Arne si sentiva imbarazzatissimo, ma Ulf si stringeva a lui con tanta innocenza che non seppe dire di no. Mentre lo accarezzava lo guardava: Ulf era bellissimo, si strusciava contro di lui come un gatto e cambiava posizione per permettergli di accarezzarlo sempre in nuovi posti. Arne sentiva una sensazione strana, una particolare eccitazione. Sentiva il suo corpo reagire a quel contatto come non gli era mai capitato. Sentiva che anche per Ulf era la stessa cosa. Anche Ulf lo stava guardando, teneva gli occhi e le labbra socchiusi, era rosso come il sole al tramonto, ma continuava a cercare le sue carezze. Arne ebbe improvvisamente il dubbio che ciò che stava accadendo non era del tutto normale, ma non riusciva a smettere. Si faceva sempre più intraprendente e lo accarezzava anche in zone dove non avrebbe mai pensato di toccare un altro ragazzo. E Ulf sembrava gradire, il suo respiro era accelerato e ogni tanto gli sfuggiva un gemito. Ma le sorprese non erano finite. Ulf cominciò a ricambiare le sue carezze. Lo faceva timidamente, come se non sapesse bene dove toccare e come, ma sembrava smanioso di ricambiare il piacere che provava. Arne era sconvolto. Si sentiva come se dentro di lui ci fosse un incendio. Sentiva tutti i suoi muscoli tendersi e il sangue scorrere più velocemente. La sua pelle era diventata incredibilmente sensibile e reagiva a qualsiasi sollecitazione, anche la più debole. Senza sapere bene cosa stesse facendo, fece sdraiare Ulf e si sdraiò sopra di lui. Sentiva i loro corpi aderire come se fossero stati fatti per quel momento. Con infinita sorpresa sentì che il corpo di Ulf stava reagendo proprio come il suo. Sentì prepotente il bisogno di vederlo. Si alzò e, sempre fissando Ulf, gli tolse il gonnellino, poi si tolse la tunica. Rimasero nudi. Erano entrambi rossi come il fuoco, più per l'imbarazzo che altro. Arne, in piedi sopra Ulf, fece scorrere il suo sguardo su quel corpo che aveva visto infinite volte da quando erano bambini, ma non aveva mai notato che fosse così bello, e mai come allora gli aveva fatto quello strano effetto.

Non si era ingannato, Ulf era veramente eccitato. Arne si riadagiò su di lui. Piano cominciarono a strusciarsi uno contro l'altro. Ulf lo fissava mentre una selva di sensazioni contrastanti passavano sul suo viso. Desiderio ma anche paura. Cosa stava succedendo? Perchè si stavano comportando a quel modo? Anche Arne era spaventato, forse la cosa migliore era smettere e dimenticare. Ma Ulf era così bello e così dolce... no, era impossibile smettere. L'unica cosa da fare era aspettare e vedere.

Improvvisamente Ulf aprì la bocca in un grido muto e spalancò gli occhi, poi ebbe un fremito, come una scossa. Infine emise un respiro come di un uomo che sta per annegare e riesce alla fine a raggiungere la superficie dell'acqua. Arne si accorse di uno strano calore all'altezza dell'inguine. Sapeva cos'era, a lui era successo di notte. Spesso si era svegliato bagnato e appiccicaticcio. E adesso era successo anche a Ulf. E gli era successo strusciandosi contro di LUI. Non se lo spiegava ma si sentì come quando Ulf aveva preso il coniglio, felice ed eccitato. Istintivamente, abbassò la testa e premette le sue labbra contro quelle di Ulf. Accarezzò le sue labbra con la lingua e poi la intrufolò nella bocca, esplorando quella cavità che sapeva di buono. Ulf lo lasciava fare, anzi, ricambiava il bacio, lasciando che le lingue si accarezzassero. Senza rendersene conto aveva ricominciato a strusciarsi. Alla fine, con un gemito nascosto nella bocca di Ulf, esplose. Era successo anche a lui! Ed era stato molto più bello di quando gli succedeva di notte. Staccò le labbra dal suo amico e ansimando lo guardò: Ulf stava sorridendo, anche lui ansimava ed era ancora rosso come il fuoco. Non lo guardava direttamente negli occhi, ma lo sbirciava ogni tanto, come un bambino sorpreso mentre faceva una marachella. Dea, come era bello! Più bello di una fanciulla. Bello come ... una fata. Senza dire una parola si alzarono e, tenendosi per mano, andarono al ruscello a lavarsi. Mai nella loro vita erano stati più felici.

 Del sesso sapevano poco. Il vecchio Sciamano insegnava che serviva per procreare, e comunque lo facevano gli uomini con le donne. Non avevano mai sentito di due uomini che si baciavano tra loro. Si sentivano strani, e anche un po' spaventati. Non erano sicuri se ciò che facevano fosse bene o male, ma era maledettamente ... eccitante. Così andarono avanti, senza porsi troppe domande, ma godendo di quelle nuove sensazioni e sentendosi sempre più uniti.

Questo fino a quando Arne non ebbe una specie di fulminazione. Come sempre accadeva, si stava strofinando contro l'inguine di Ulf. Intanto lo guardava, spiava le sue smorfie di piacere, lasciava correre il suo sguardo sul suo corpo glabro e bianco, come una giovane betulla. Lo vedeva muoversi lentamente, udiva i suoi gemiti e il suo cuore si inondava di amore e di desiderio. Improvvisamente sentì il bisogno di farlo suo, completamente. Ultimamente aveva come la sensazione che mancasse qualcosa. Non sapeva spiegarselo ma quello strusciarsi uno contro l'altro, anche se molto piacevole, non gli bastava più. Uno strano istinto si impadronì di lui. Come se qualcuno gli avesse spiegato cosa fare, in un attimo alzò le cosce di Ulf e lo penetrò con tutta la sua forza. Ulf gridò, ma Arne era troppo sconvolto da quello che provava, la sensazione che quello fosse il modo giusto. La pressione del retto intorno al suo pene congestionato, il suo calore, tutto era come doveva essere. Si mosse tre, quattro volte, poi esplose. Mai nella sua vita aveva provato un piacere così forte e intenso. Solo quando il pulsare si spense, e il cuore recuperò il ritmo normale, Arne vide davanti a sé un viso terrorizzato e inondato di lacrime. Si rese conto di quello che aveva fatto: aveva violentato l'amico sotto la loro quercia.

 Ulf si spaventò da morire, perse sangue e provò molto dolore. Vedeva Arne sopra di lui, improvvisamente diverso dall'amico che lo accarezzava dolcemente, sembrava un animale, si muoveva con forza, grugnendo come un cinghiale, con gli occhi rovesciati e i denti scoperti, insensibile alle sue grida di dolore e paura. Per qualche giorno lo odiò, non capendo perchè gli avesse fatto una cosa del genere.

Dopo quell'episodio si tennero alla larga per un po' uno dall'altro. Ci volle molta pazienza e molta dolcezza da parte di Arne per recuperare la fiducia di Ulf. Mille volte chiese scusa, arrivando a piangere davanti all'amico perchè lo perdonasse. Passò decine di notti insonni, in preda ai sensi di colpa. Ma dentro di sé non riusciva a liberarsi della sensazione che quello fosse il modo giusto. Pensò alla differenza di età che lo separava da Ulf, a quell'età due anni erano tanti! Lui aveva fatto quella scoperta a quasi diciassette anni. Prima o poi ci sarebbe arrivato anche Ulf. Così si dispose ad aspettare. Avrebbe aspettato per tutta la vita. Nel frattempo fu particolarmente dolce con il suo Ulf.

Ma non dovette aspettare molto. Soltanto pochi mesi dopo quell'istinto si risvegliò anche in Ulf. Improvvisamente capì cosa aveva fatto Arne quel giorno, e comprese che è così che si amano due uomini. La volta dopo fu lui stesso a guidare Arne dentro di sé. Anche quella volta fu doloroso, ma come aveva ormai imparato a fare, offrì il suo dolore alla Dea. E la Dea, in cambio gli regalò il piacere più intenso della sua vita. Alla fine si abbandonò fra le braccia di Arne e, incapace di sopportare tutte le emozioni che si accavallavano dentro di lui, come un mare in tempesta, scoppiò in lacrime. Arne lo strinse a sé, anche lui tremando, commosso da quello sfogo. Era stato sconvolgente per tutti e due.

Baciandogli i capelli sussurrò: "Mia fata..." 

Quando la Dea apparve dinanzi a loro, le loro reazioni furono inverse a quelle della prima volta.

Arne si sentiva tranquillo. Il presagio di morte si era dissolto dalla sua mente, visto che erano passati ormai dieci anni. Certo non sarebbe diventato Sciamano, ma non sarebbe nemmeno morto tanto presto.

Ulf invece si spaventò a morte. Improvvisamente si rese conto di una cosa a cui non aveva mai pensato, o forse a cui non aveva mai voluto pensare. 

Come insegnava lo Sciamano, la Dea non permetteva che il suo dono più prezioso, il seme, che serviva a creare una nuova vita nel grembo della donna, venisse in alcun modo sprecato; e qual'era il modo peggiore di sprecarlo, se non gettarlo nel corpo sterile di un altro uomo? Ulf aveva sempre disobbedito a questi insegnamenti, permettendo inoltre ad Arne di disobbedirvi. Si sentiva colpevole per entrambi. Però un giorno non lontano Arne avrebbe avuto dei figli e la Dea lo avrebbe sicuramente perdonato. Ulf invece sapeva che non avrebbe mai potuto giacere con una donna, ne' lo desiderava, e per questo era condannato. 

Questo, ne era sicuro, era il motivo della seconda apparizione.

Cercò di alzarsi in piedi ma le gambe non lo ressero. La Dea scomparve nel folto della foresta.

 Però entrambi si sbagliavano. L'uomo non può comprendere cosa si nasconde nel cuore della Dea. Può conoscere i Suoi progetti solo quando questi si sono compiuti.

 Qualche giorno dopo arrivarono gli Stranieri, e cominciò la guerra.


Capitolo 3

Attalo

 

Per la prima volta in vita sua, Attalo era stanco della guerra. Da due anni ormai non tornava a casa, ad Altea, in Macedonia. A trent'anni era uno dei più valorosi generali dell'esercito di re Alessandro, soprannominato il Grande dagli amici, e ormai anche dai nemici.

Mentre Alessandro proseguiva la sua vittoriosa marcia verso Sud, Attalo e alcuni altri generali avevano il compito di tenere sotto controllo i territori del Nord. Purtroppo quei barbari Ariani erano molto più testardi e forti del previsto. L'esercito macedone, non molto numeroso, dal momento che la maggior parte degli uomini disponibili erano al seguito del Re, ma fornito di cavalli, carri e macchine da guerra, guidato da ufficiali esperti in tattiche di battaglia, era stato decimato da quell'orda, senza mezzi che non fossero le loro gambe, armati solo di corte spade e archi, senza capi e senza piani. Quei barbari coperti di pelli, dai capelli lunghi e biondicci, trattenuti in code e trecce, e dalle facce rosse coperte da una folta barba, combattevano con coraggio, guidati dalla voglia di scacciare i macedoni e di tornare in possesso delle loro terre.

I generali macedoni non avevano altra scelta, per il momento, che ritirarsi, cercando però di lasciare dietro di sé la più totale distruzione. Mentre indietreggiavano mettevano tutti i villaggi che incontravano a ferro e fuoco, uccidendo anche animali e vecchi, donne e bambini, e incendiando tutto ciò che potevano. Se ne andavano, ma volevano lasciare un brutto ricordo a chi rimaneva in vita.

 Attalo riposava sotto un albero quando tornò la pattuglia mandata in perlustrazione. A poca distanza sorgeva un villaggio. Da quanto si poteva vedere c'erano solamente donne, bambini, vecchi e qualche ragazzino. Probabilmente gli uomini adulti erano a caccia oppure morti in qualche battaglia. Una facile preda, insomma.

Gli ultimi superstiti dell'esercito macedone si misero in formazione e partirono all'attacco.

La battaglia fu più dura di quanto immaginato. I pochi ragazzini rimasti a guardia del villaggio erano ben armati e sapevano combattere. Erano molto forti per la loro età e più alti dei soldati macedoni. Ma erano comunque pochi e con poca esperienza. Ben presto furono massacrati quasi tutti. Mentre una parte dei macedoni combatteva, un altro gruppo si occupava di scovare chi si nascondeva e fare una strage. 

Attalo si trovò a combattere contro un ragazzo molto giovane, ma sorprendentemente forte. Indietreggiando inciampò e cadde a terra. Il ragazzo fu subito sopra di lui e stava per infilzarlo con la sua spada, quando un soldato macedone lo colpì con una lancia in pieno petto. Il ragazzo cadde a terra, morto.

Improvvisamente un altro ragazzo, abbattuto l'uomo contro cui stava combattendo, con un grido straziante si lanciò sopra il corpo ormai senza vita del compagno. Gridava qualcosa, forse il nome dell'amico morto. Gli strappò la lancia dal petto e, piangendo, lo prese per le braccia, cercando di farlo alzare, come se, mettendolo seduto, il ragazzo avesse potuto riprendere i sensi. Sembrava non accorgersi che intorno a lui c'erano solo soldati macedoni che avrebbero potuto ucciderlo come un topo in trappola. Era letteralmente impazzito dal dolore. La scena era così straziante che nessuno osò avvicinarsi. 

Attalo era impietrito. Chi erano quei due ragazzi? Perchè il più giovane era tanto sconvolto? Cos'era per lui il ragazzo ucciso? Un amico? No, forse un fratello. Non era giustificato tanto dolore per un semplice amico. 

Il tempo sembrava essersi fermato. Nel villaggio erano rimaste vive poco più di una decina di persone. Il fuoco stava divorando gli ultimi resti delle capanne di legno e paglia. I gemiti dei moribondi si stavano spegnendo.

Il ragazzo alzò lo sguardo e incrociò quello di Attalo. Non piangeva più. Sembrava sopraffatto da un dolore più grande di lui. Aveva i capelli biondi incrostati di sangue e fango, e appiccicati al viso dal sudore e dalle lacrime. Gli occhi, sicuramente azzurri, in quel momento erano grigi come un cielo in tempesta. Traboccavano di odio e mostravano un'infinita stanchezza, come di chi ha vissuto ormai cent'anni e sogna la pace della morte, ma c'era anche qualcos'altro: era disperato ma non sconfitto. Non lo sarebbe mai stato.

Attalo vide tutto questo e il suo cuore prese fuoco. Non si spense più.

Radunò gli uomini rimasti e ordinò la ritirata.

 

Capitolo 4

La malattia

 

Pochi giorni dopo essere tornato ad Altea, Attalo si sentì male. Il suo medico personale, Eteocle, gli diagnosticò la malaria. L'anno che seguì fu terribile, fatto di giorni in cui non mangiava quasi nulla e beveva i disgustosi decotti di Eteocle, e notti in cui giaceva nel suo letto che, per quanto morbido fosse, al suo corpo sembrava sempre un tavolato di legno pieno di chiodi roventi. In quelle notti restava sveglio ansimando, bruciato dalla sete e divorato dalla febbre, con le labbra secche e gli occhi spalancati verso il soffitto, mentre davanti ai suoi occhi allucinati passavano scene di guerra, uomini che crollavano al suolo in una pozza di sangue, con la testa e gli arti mozzati; ma c'era un'immagine che più di tutte lo torturava ogni volta che chiudeva gli occhi: il viso di quel ragazzo, l'espressione dei suoi occhi; lo guardava con odio, un odio tanto grande che, sotto quello sguardo Attalo si sentiva letteralmente andare a fuoco, e allora cominciava a gridare, fino a quando Eteocle accorreva a rinfrescarlo con pezze di stoffa imbevute di acqua e gli dava da bere qualche sorso di quelle sue orrende tisane che Attalo trangugiava come se fossero state puro nettare.

 Ma c'erano anche momenti, come è tipico della malaria, in cui si sentiva meglio, la febbre calava e le sue ossa gli davano un po' di tregua. In quei momenti aveva un solo pensiero: trovare il ragazzo, sapere cosa ne era stato di lui. Aveva mandato sul confine alcuni dei suoi uomini con il compito di tenerlo sempre informato su ciò che stava succedendo nei villaggi Ariani. Quello che gli era dato sapere era che i superstiti si erano riuniti in nuovi villaggi e, piano piano, stavano ricostruendo le case. Si erano formate nuove comunità, nuove famiglie ed erano stati eletti nuovi capi. Il villaggio del ragazzo non esisteva più; i pochissimi abitanti sopravvissuti si erano trasferiti in un villaggio vicino. Naturalmente nessuno poteva sapere se anche quel ragazzo fosse sopravvissuto, ma Attalo faceva tenere d'occhio quel nuovo villaggio con grande interesse.

In primavera fu annunciata una nuova spedizione. Re Alessandro aveva fatto reclutare nuove forze, voleva assolutamente consolidare i suoi confini settentrionali. Attalo accolse con gioia la prospettiva di una nuova guerra. Lui naturalmente si sarebbe riservato di attaccare per primo quel villaggio. Avrebbe trovato il ragazzo, lo avrebbe fatto prigioniero e mandato ad Altea. Una volta finita la guerra sarebbe tornato e allora...

E allora cosa? Fu in un momento di lucidità che si rese conto di quanto fosse assurda tutta quella storia. Da quasi un anno non faceva altro che pensare a un ragazzino ariano che aveva visto una sola volta durante un combattimento, un nemico che, se avesse potuto, lo avrebbe ucciso senza pensarci un attimo. Perchè? Forse si sentiva responsabile per la morte dell'amico? Certo era responsabile della morte di un sacco di gente, ma non se ne era mai fatto un problema. La guerra, dopo tutto, è guerra e serve apposta per uccidere i nemici; e allora cos'era quell'ossessione?

In realtà una risposta l'aveva, ma era una cosa che rifiutava di prendere in considerazione. Attalo non aveva una compagna, e non aveva mai pensato seriamente al matrimonio. Fin dalla più tenera età aveva pensato solo alla sua carriera nell'esercito. Aveva frequentato l’accademia più prestigiosa e si era sempre addestrato duramente. Suo padre era stato un grande generale e il suo più grande sogno era di prenderne un giorno il posto. Per questo, anche quando i suoi compagni lasciavano l'accampamento per andare in città, a bere e divertirsi con qualche etéra del bordello più rinomato, lui se ne stava ancora lunghe ora ad allenarsi con la spada e con la lancia, oppure nella sua camera a studiare; i suoi unici amanti erano la sua armatura, la sua spada luccicante, la sua lancia, il suo scudo che strofinava per ore fino a farlo risplendere come se fosse stato di puro argento. Per tutta la sua vita aveva avuto un solo amico, un ragazzo della sua età di nome Efestione, avevano passato insieme gli anni della scuola e anche tutti gli altri fino a tre anni prima, quando era partito per l’Egitto al seguito dell’Imperatore. Ma la loro era stata una vera amicizia fra uomini, non certo una di quelle storie di cui sentiva parlare. No, non erano cose che facevano per lui! Anche lui aveva avuto delle etére. E sapeva di alcuni ufficiali che preferivano etéri maschi. Ma a lui mai sarebbe venuta in mente una cosa simile. Le poche volte in cui sentiva il desiderio di un altro corpo vicino al suo, cosa c'era di meglio della calda morbidezza di un corpo femminile? 

 Ma ora c'era qualcosa di diverso. La risposta alla sua domanda era tutta in un sogno che a volte accompagnava l'incubo. Quando dormiva e la febbre era bassa, iniziava sempre nello stesso modo: morti, sangue e orrore, poi vedeva il ragazzo che lo fissava con odio. Questa volta però il fuoco non lo sentiva sulla pelle ma dentro di sé, e non faceva male. Era un calore che partiva dallo stomaco e si espandeva. Saliva fino a fargli divampare le guance e contemporaneamente scendeva fino all'inguine. Era una sensazione strana e terribilmente piacevole. Allora si avvicinava al ragazzo e fissandolo in quegli occhi grigi pieni di dolore, gli diceva: - Non odiarmi. Non ho ucciso io il tuo amico - Allora il ragazzo lasciava il corpo ormai morto dell'amico e si gettava fra le sue braccia, piangendo come un bambino, sfogando così il suo dolore. Poi alzava il viso verso di lui, un viso sereno e bello come quello di una fanciulla, illuminato da due occhi adesso azzurri come il cielo. Attalo continuava a stringerlo, il corpo era caldo contro di lui. Non era morbido e delicato come quello di una ragazza, era forte e sodo, poteva sentire uno per uno i muscoli guizzare e tendersi. E allora lo stringeva, lo stringeva sempre più forte. Lo prendeva per i fianchi e lo schiacciava contro di sé. Sentiva il calore crescere, e crescere. Alla fine si svegliava e si rendeva conto con vergogna di avere le cosce bagnate e appiccicose. Ma la cosa peggiore in quel momento era che sentiva la mancanza di quel ragazzo, una mancanza fisica e dolorosa, come se il suo corpo fosse stato frustato durante il sonno, come se il risveglio gli avesse strappato, insieme al ragazzo, anche tutta la pelle che aderiva contro di lui. Ecco la risposta. Anche se non voleva ammetterlo, tutto quello che voleva era quello. Avrebbe dato la vita per vivere quel momento nella realtà anche solo per una volta.

 Come spesso accade, anche questa volta la Dea aveva disposto diversamente. Quando l'esercito macedone ripartì verso nord, Attalo stava ancora male. Aveva tentato lo stesso di partire, contro il parere di tutti, ma dopo pochi metri a cavallo, aveva perso i sensi, colto da un violentissimo attacco di febbre. Per più di un mese aveva giaciuto fra la vita e la morte. Poi, come era venuta, la malaria era passata. Eteocle diceva che era un miracolo. Eteocle non sapeva però che a volte la mente può vincere sul corpo. Attalo era guarito perchè VOLEVA guarire, non avrebbe permesso al male di ucciderlo, almeno fino a quando non avesse rivisto "lui". Piano piano aveva ricominciato a stare bene, ma ormai era tardi per partire. Questa volta la guerra era stata vinta. I confini erano stati consolidati, gli Ariani quasi completamente sterminati. Ma Attalo non si diede per vinto. Si rifiutava di perdere la speranza. Diede ai suoi uomini un nuovo incarico: controllare tutti i posti dove venivano portati i prigionieri ariani. Ne era certo: anche se le speranze erano contro di lui, era sicuro che prima o poi lo avrebbe trovato. 


 

Capitolo 5

Il prigioniero

    

Ulf era stato fatto prigioniero. Giaceva per terra, al centro di un accampamento macedone, insieme ad altri prigionieri. Erano stanchi, sporchi e affamati, erano costretti a camminare tutto il giorno, con poca acqua e ancora meno cibo; erano tutti incatenati uno all'altro e le catene causavano piaghe. Molti erano già morti e molti altri sarebbero morti prima di arrivare. Ulf non sapeva dove lo avrebbero portato, sapeva solo che camminava ormai da giorni, il paesaggio intorno a lui cambiava continuamente e sentiva con disperazione la sua terra allontanarsi sempre di più. 

Ulf "sentiva " la terra, al suo paese poteva riconoscere qualsiasi pianta o roccia dall'energia che emanava, percepiva la presenza di un animale, poteva comunicare con lui. Fin da bambino aveva questo dono, essere tutt'uno con ciò che lo circondava. Lo stesso dono che gli aveva permesso di vedere la Dea.

Ma ora sentiva che anche la Dea lo aveva abbandonato. Sentiva che ciò che lo circondava era estraneo e ostile. Non si era mai sentito così solo.  Dopo tutto, i suoi timori si erano avverati. La Dea alla fine lo aveva punito. Arne era veramente morto.  

Da quel momento la sua vita si era trascinata, tra mille orrori, nel vuoto e nella disperazione. Il villaggio era stato completamente distrutto, degli abitanti non erano rimasti che pochi vecchi e qualche donna. Ulf aveva perso tutto, i genitori, gli amici, quasi tutti coloro che conosceva e amava. Gli era rimasto solo Lupo Grigio. Il vecchio sciamano era sopravvissuto e si era preso cura di Ulf, cercando di scuoterlo dal torpore nel quale viveva dalla morte dell’amico. All’apparenza il ragazzo era ancora quello di prima, aveva lavorato duramente per ricostruire il villaggio con gli altri superstiti. Andava a caccia, anche se non era un cacciatore, ma in quei tempi non si badava a certe sottigliezze. C’era bisogno di cibo e tutti coloro che potevano dare una mano a procurarlo erano bene accetti. 

Continuava anche il suo apprendistato con Lupo Grigio, ma quest’ultimo si era accorto del cambiamento interiore di Ulf. La sua energia, tanto potente prima della guerra, si era quasi del tutto spenta, soffocata dal dolore che provava. 

Poi gli stranieri erano tornati a completare l’opera. E anche Ulf era stato catturato.

Passò un anno. Un anno infernale. Per Ulf fu una discesa negli inferi. 

Per Attalo fu un anno di dubbi, incertezze, un continuo guardarsi dentro per capire cosa era cambiato in lui da quel giorno in cui tutta la sua vita era stata scossa dalle fondamenta. Per capire cos’era questa ossessione. Un anno di incubi.

 Finalmente la Dea decise che erano stati messi sufficientemente alla prova. E la prova era stata durissima. Entrambi la avevano completamente soddisfatta. Ce ne sarebbero state altre, di prove, ma ormai erano pronti. 

Era arrivato il momento di farli incontrare.


Capitolo 6

Un racconto al mercato degli schiavi

 

Una mattina Attalo ricevette un messaggio dall’Imperatore in persona. Aveva avuto notizia della sua guarigione e, considerandolo uno dei migliori ufficiali del suo esercito, gli chiedeva di raggiungerlo al più presto in Egitto.

Attalo ne fu inizialmente annientato. Andare in Egitto significava abbandonare la sua ricerca.  

Fu preso dal panico. Forse non avrebbe mai trovato il ragazzo, ma la sola speranza lo aiutava a vivere.

Poi ci pensò più freddamente. Forse era un'occasione per mettersi alla prova. Se l’ossessione continuava a perseguitarlo anche laggiù, sarebbe semplicemente tornato. Ma forse avrebbe anche potuto dimenticarlo ed essere finalmente libero. Non sapeva se lo spaventava di più la prima ipotesi o la seconda. Comunque lo prese come un segno degli Dèi e decise di partire.

Il giorno dopo fece la sua ultima visita al mercato degli schiavi, con il solo proposito (mentì a sé stesso) di salutare tutti coloro che in quell’anno lo avevano aiutato e sopportato e di comunicare loro la sua partenza.

 L’ultima persona che visitò fu un vecchio mercante che ormai considerava un amico. L’uomo sembrava attenderlo. Durante la notte si era improvvisamente ricordato di una storia che aveva sentito in giro e non vedeva l’ora di raccontarla al generale. Quindi, non appena lo vide, gli corse incontro e gli strinse la mano. 

- Ho una cosa importantissima da dirti, generale – cominciò – e non so per quale motivo questa storia mi è venuta in mente solo ora. Conosco questa storia da molto tempo e proprio una settimana fa la stavo raccontando a mio cognato. Molte volte mi sono ripromesso di raccontartela, perché sicuramente ti interessa molto, ma stranamente, quando ti vedevo, non riuscivo proprio a ricordarmene. -

Attalo spalancò gli occhi. Immediatamente si tese, una fievole speranza si impadronì di lui.

- Avanti, amico, racconta…-

Il mercante cominciò: - L’ho sentita raccontare da un ufficiale che, con le sue truppe, scortava i prigionieri dal nord, ma si tratta di una storia che risale ormai a qualche mese fa. Sembra che un ragazzo quasi albino, giovanissimo, sui sedici, diciassette anni, abbia ucciso una guardia in un modo atroce. L’ufficiale mi ha raccontato che quella notte si trovava di guardia, ed era seduto davanti al falò con altri quattro uomini. I soldati erano quasi ubriachi, parlavano tra loro gridando e ridendo forte, facendo commenti volgari sulle prigioniere, ognuno di loro vantandosi di quante ne avevano violentate ed esibendosi in particolari rivoltanti. Dopo un po’ la conversazione cadde su una prigioniera particolarmente bella, tutti e quattro gli uomini concordavano sul fatto che era la più bella che avessero mai visto. Parlavano dei suoi capelli biondissimi, e del suo sguardo altero. Solo dopo un po’ l’ufficiale si rese conto che stavano parlando di un ragazzo. Ne rimase sbalordito perché non aveva mai sentito nessuno dei suoi uomini fare apprezzamenti sui maschi. Pensò che stessero scherzando, prendendo in giro un ragazzo particolarmente effemminato, invece si rese presto conto dal tono della loro voce che erano serissimi. Con orrore li ascoltò mentre descrivevano nei dettagli ciò che avrebbero voluto fare al ragazzo. Uno di loro era particolarmente serio, da un po’ non parlava, anzi, sembrava pallido e sudato. Improvvisamente, senza dire nulla si alzò e se ne andò. L’ufficiale pensò che forse non si sentiva troppo bene. Comunque i racconti di quei tre maiali avevano stomacato anche lui, quindi tornò nella sua tenda e si addormentò. Dopo poco un urlo straziante lo strappò al sonno. Scattò in piedi e corse fuori. Appena fuori dal recinto dei prigionieri una scena raccapricciante lo attendeva. Il soldato che aveva lasciato il falò giaceva a terra, con le mani premute contro la bocca. Urlava e si dimenava tanto che in tre non riuscivano a tenerlo fermo. L’ufficiale si chinò su di lui ordinando di fare luce con una torcia. Quando la luce illuminò il volto del soldato, l’ufficiale cacciò un grido di spavento. La faccia era una maschera di sangue, l’uomo non aveva più ne’ occhi ne’ naso, la bocca rigurgitava sangue. L’ufficiale gliela aprì con la forza: la lingua non c’era più. Ordinò ai suoi uomini di portare il soldato nella tenda dei medici. Era sconvolto. Alzò la testa e quello che vide per poco non lo fece svenire dall’orrore: davanti a lui, in ginocchio, c’era un ragazzo dai capelli biondi. Lo fissava con assoluta tranquillità. Quello sguardo tranquillo strideva spaventosamente con il resto della faccia, completamente imbrattata di sangue. Dalla bocca semiaperta colava una bava vermiglia, mentre all’interno si potevano scorgere denti stranamente aguzzi, sporchi anch’essi di sangue. Gli occhi mandarono un bagliore giallognolo. L’ufficiale pensò che quel ragazzo assomigliava a un lupo. –

Il mercante si fermò e guardò il generale, il quale lo fissava a bocca spalancata. Attalo era sconvolto. Non sapeva come, ma era certo che quello era il “suo” ragazzo. Con un balzo afferrò le spalle dell’uomo. 

  E poi, cosa è successo, cosa ne è stato di quel ragazzo? E’ stato ucciso? 

  No, no – rispose il mercante, sorpreso da tanta veemenza, - no, è arrivato qui in città in catene, ed è stato portato al bagno degli schiavi.

  Al bagno degli schiavi? E perché? 

  Perché era stato scelto per il bordello del palazzo reale. Sai benissimo che i prigionieri più belli vengono segnati con un unguento rosso, e da quel momento appartengono all’Imperatore. Solo lui può decidere della loro vita. Per questo non è stato ucciso. Comunque se vuoi la mia opinione, a quest’ora sarà già morto. Tu sai che fine fanno quasi tutti gli schiavi che finiscono nel bordello imperiale. La maggior parte delle volte vengono acquistati da importanti personaggi, generali, senatori, o anche semplici contabili di corte, che spesso hanno vizi strani, se va bene, o orrende perversioni, se va male, e ne abusano fino alla morte. Altri sono più fortunati. Vengono acquistati da brave persone che li tengono come favoriti o come amanti, arrivando perfino ad adottarli. L’unica cosa che puoi fare a questo punto è sperare che sia stato fortunato e…

Ma il commerciante non poté finire la frase. Attalo era già corso via.

 

Capitolo 7

Il Bagno degli Schiavi

Naturalmente dopo pochi minuti il generale era già arrivato a quelle grotte, appena fuori dalla città, che venivano chiamate Bagno degli Schiavi.

Si trattava di grotte naturali, utilizzate per lo più come prigione per gli schiavi che si erano macchiati di qualche delitto. In quelle caverne buie, umide e maleodoranti, nelle quali erano state ricavate celle chiuse da pesanti sbarre di metallo, i prigionieri venivano lasciati per giorni, senza cibo e acqua, o venivano torturati, mentre attendevano di essere giustiziati.

Ma c’era una parte della caverna che era completamente diversa e poteva sembrare un angolo di paradiso. Si trattava di una splendida grotta, vasta e illuminata da un foro nella volta, con diverse sorgenti di acqua calda. Qui venivano condotti alcuni prigionieri, scelti con cura da personaggi specializzati, per essere rimessi in sesto e resi presentabili, per speciali aste, dove venivano venduti come schiavi addetti a particolari mansioni. A queste aste partecipavano soprattutto matrone tenutarie di bordelli in cerca di fanciulle appena sbocciate o bellezze esotiche, procuratori di schiavi particolarmente avvenenti da far partecipare come attrazione a feste aristocratiche, o anche semplici privati che avevano voglia di avere un po’ di carne fresca con cui trastullarsi nelle giornate di noia.

Alcuni prigionieri però non partecipavano alle aste. Avevano già una destinazione particolarmente prestigiosa: il Lupanare Imperiale.

Questi arrivavano al bagno già marchiati con una croce rossa fra le scapole e venivano trattati con particolare riguardo. Venivano subito lavati e le loro ferite e piaghe venivano curate. Erano nutriti con alimenti sostanziosi per recuperare i chili persi durante i giorni di viaggio durante i quali avevano mangiato poco e male. Alla fine venivano pettinati e vestiti con abiti che mettevano in risalto i loro particolari pregi. Insomma erano addobbati come cavalli ad una fiera.

Attalo entrò come una furia, accompagnato da venti delle sue fedeli guardie. Subito gli uomini si sparsero per il bagno e andarono a guardare dappertutto. Sotto gli occhi stupefatti e impotenti del personale, Attalo pretese di vedere tutti i prigionieri, dal primo all’ultimo. Naturalmente cominciò da quelli che si trovavano ai bagni. Alcuni erano immersi nelle vasche di acqua calda, con espressione perplessa. Altri erano coccolati da fanciulle esperte che li spalmavano di oli e unguenti, li massaggiavano o medicavano le loro ferite. Alcuni venivano rasati a zero, per eliminare eventuali parassiti che si annidavano nei capelli, mentre altri, soprattutto le fanciulle, venivano accuratamente spazzolati ed acconciati. Tutti questi poveri ragazzi si guardavano in giro sperduti, e si guardavano l’un l’altro, con aria interrogativa. Attalo pensò che probabilmente si stavano domandando  il motivo di tante cure, dopo che per giorni erano stati trattati come animali. Certo la cosa li spaventava, nessuno di loro sembrava felice di tale trattamento. Si sentivano un po’ come il vitello che viene strigliato, profumato ed addobbato con nastri colorati prima di venire abbattuto sull’altare sacrificale.

Dopo più di un’ora Attalo cominciava a sentirsi scoraggiato. Si chiedeva come avrebbe fatto a riconoscerlo. In un anno quel ragazzo avrebbe potuto essere cambiato molto, e dopo tutto lo aveva visto solo per pochi minuti. Era sporco e sconvolto, in realtà non lo aveva visto nemmeno molto bene. Inoltre il suo ricordo potrebbe essersi modificato. Pensandoci bene, era quasi impossibile riconoscerlo. Avrebbe anche potuto averlo davanti e non accorgersene, oppure prendere qualcun altro per lui. C’erano molti ragazzi biondissimi e tutti avevano quello sguardo perso e spaventato… 

Scosse la testa e scacciò quei pensieri. “No, non mi darò per vinto. Non dopo tutto questo tempo. Proprio mentre stavo per abbandonare tutto, gli Dei mi hanno mandato un segno. Sono certo che quando sarà il momento lo saprò. Si, quando lo vedrò non potrò sbagliare. Lo riconoscerò!” 

Mosso da questa nuova fiducia, richiamò i suoi uomini e si diresse verso le prigioni. Non avrebbe lasciato quel luogo senza aver guardato in faccia ogni singolo prigioniero.

 All’entrata delle grotte, gli si fece incontro un ufficiale. Sembrava agguerrito.

-  Qui non si può entrare. Vi ho lasciato fare i vostri comodi mentre eravate ai bagni perché ho visto che eravate un alto ufficiale dell’Esercito Imperiale, e qui non c’è nessuno di grado pari al Vostro, ma ho degli ordini molto precisi: in questa zona non può entrare nessuno! –

Attalo gli si parò davanti a gambe larghe. I suoi occhi erano due tizzoni ardenti. L’ufficiale, involontariamente, fece un passo indietro. Attalo lo superò senza dire una parola

- Portatemi delle torce. Non si vede niente qui dentro! –

L’ufficiale lo seguì.

- Forse non mi sono spiegato. Ci vuole un permesso speciale dell’Imperatore per entrare qui senza motivo. Io non posso permettere…-

Attalo si girò di scatto e sguainò la spada, facendola sibilare nell’aria e bloccandola ad un soffio dalla gola dell’ufficiale. La voce era tanto bassa che si sentiva a malapena.

- Questo è il mio permesso. E in questo momento, per quello che ti riguarda, IO sono l’Imperatore. - L’ufficiale deglutì, la sua fronte si era coperta di sudore. Per un attimo non avrebbe dato un soldo per la sua vita. Attalo rinfoderò la spada, sempre fissando negli occhi l’ufficiale, che ancora non osava muoversi. Poi gli volse le spalle.

-  Inoltre non sono qui senza motivo. Sto cercando una persona e se la trovo, prega i tuoi Dei che sia viva. - Prese una torcia e incominciò la ricerca.

Dopo alcune celle la situazione gli era drammaticamente chiara. Le persone chiuse lì dentro erano in condizioni pietose. Giacevano su paglia sporca e bagnata, coperta di escrementi e attraversata di tanto in tanto da topi lunghi quasi come un avambraccio. La maggior parte erano nudi e coperti di piaghe. Pochi avevano ancora voce per lamentarsi. Attalo, nonostante fosse abituato agli orrori dei campi di battaglia, non riusciva a guardare quella povera gente, tra cui c’erano anche donne e vecchi, senza che qualcosa di viscido si agitasse nel suo stomaco. L’odore di morte era insopportabile. Sentì la testa girare e le gambe diventare improvvisamente deboli. Si fermò e si appoggiò un momento contro una parete, fredda e scivolosa. No, non era certo di volerlo ancora trovare, non lì e non in quel modo. Soltanto l’orgoglio gli impedì di voltarsi e fuggire via, lasciando quello stupido soldato a ridere di lui. Proseguì cercando di guardare nelle celle il meno possibile.

Fu quasi alla fine, in fondo a uno dei corridoi più bui e maleodoranti, che il suo sguardo fu attratto da una cosa strana. In una cella c’era solo una persona, mentre tutte le altre che aveva visto contenevano molte persone, spesso ammassate le une contro le altre.

Si volse verso l’ufficiale che non lo aveva mollato un solo istante. L’uomo capì subito cosa Attalo voleva sapere perché rispose prontamente.

- E’ pericoloso. Da quando è qui ad Altea ha già ucciso tre persone, e ne ha mutilate altre. Attacca con le unghie e con i denti e ti strappa pezzi di carne dalla faccia. Se riesce, ti cava gli occhi con le dita. E’ una specie di belva! –

Si avvicinò ad Attalo parlando sottovoce, con aria di cospirazione, come se tentasse di rendersi gradito confidando un importante segreto. - Dicono che sia un lupo mannaro! - Attalo lo guardò con aria feroce e l’ufficiale si ritrasse, ma annuì più volte con forza. - E’ qui da una decina di giorni, e ogni giorno ha ricevuto la sua dose di punizione. Domani finalmente verrà decapitato e poi bruciato. Già, la morte riservata ai lupi mannari. - Annuì ancora come se la cosa fosse giusta e ben fatta.

- Apri al cella! - Il tono non ammetteva repliche, e l’ufficiale, anche se non nascose di essere contrario a quella nuova pazzia, aprì la cella. Aveva imparato che ad Attalo non si poteva negare quello che chiedeva. Però non lo seguì quando entrò nella cella, ma rimase fuori dietro le sbarre, aspettando che il lupo mannaro saltasse al collo di quello sconsiderato e lo facesse a pezzi come meritava.

Il “lupo mannaro” giaceva in un angolo della cella, completamente nudo, rannicchiato su se stesso. Teneva la faccia fra le ginocchia e non si muoveva, quasi non respirava. Attalo si avvicinò facendo luce con la torcia. Ancora una volta si appoggiò al muro. Nessuno vide il suo viso, ma quando parlò la sua voce era strozzata e tremante. - Portate una barella, mettetelo su e portatelo all’accampamento. Fategli preparare un giaciglio nella mia tenda e chiamate Eteocle. - Poi si girò e si diresse verso l’ufficiale, la faccia trasformata in una maschera di pietra. Si avvicinò tanto che i due nasi si sfioravano. L’ufficiale tratteneva il fiato.

-  Chi è stato? Chi lo ha ridotto così? –

- Ma… lui ha… è stato punito per quello che…- 

- CHI E’ STATO? - Il grido echeggiò per qualche secondo nelle grotte.

- Io… mi occupo personalmente di casi così… delicati - La voce dell’ufficiale era incrinata come se stesse per mettersi a piangere. La voce di Attalo era ora un sussurro.

- Se muore, tu sei morto! -

Poi si diresse con passo marziale verso l’uscita e sparì.   

 

Capitolo 8

Finalmente insieme

 

Finalmente l’aveva trovato. Alla fine era lì davanti a lui. Dopo mesi di ricerche, mesi in cui era stato più volte sul punto di perdere la speranza, mesi in cui aveva pensato di avere perso la ragione. Ora era lì e nessuno avrebbe potuto portarglielo via.

Gli ultimi tre giorni erano stati un incubo. Il ragazzo era stato portato alla sua tenda dove Eteocle lo aveva visitato. Le sue condizioni erano peggiori di quanto sembrava a prima vista. Quello che aveva detto l’ufficiale delle prigioni era vero: quel povero ragazzo era stato torturato per giorni e giorni. Aveva il corpo coperto da tagli, abrasioni, piaghe, ustioni; le unghie dei piedi non c’erano più. Era quasi completamente disidratato. Fortunatamente non aveva ossa rotte, solo qualche costola era incrinata. Il viso non era stato quasi toccato. Quel viso… Eteocle aveva fatto preparare una vasca di acqua tiepida in cui aveva fatto sciogliere del sale e vi aveva immerso il ragazzo, pulendolo dallo sporco e dal sangue incrostato che lo ricopriva. Poi aveva spalmato le ferite con unguenti e pomate, bendandolo dove serviva con pezze di lino. Il ragazzo non aveva aperto gli occhi per tutto il tempo, aveva emesso solo qualche debole lamento mentre veniva lavato. Poi aveva bevuto qualche sorso di uno dei disgustosi decotti di Eteocle. Aveva passato tre giorni e tre notti bruciato dalla febbre e in preda agli incubi. Attalo gli era stato accanto tutto il tempo, tenendogli pezze fresche sulla fronte e dandogli da bere di tanto in tanto. Poi la febbre era finalmente passata. Ora dormiva tranquillo, respirando piano.

Attalo lo guardava. No, non avrebbe potuto ingannarsi. Era esattamente come lo ricordava, come era nei suoi sogni. E questo era un sogno divenuto realtà. Mentre dormiva aveva il viso serio e dolce di un bambino. Improvvisamente la tensione di tutto quell’anno infernale cadde. Attalo si lasciò finalmente scivolare sul pavimento, appoggiò la testa alle mani e permise alle lacrime di uscire.

 Quando Ulf aprì gli occhi non capì dove si trovava. Il primo pensiero fu che era finalmente morto e si trovava in uno di quei paradisi dove andavano i guerrieri quando morivano. Poi pensò che lui non era un guerriero. Comunque in quel posto c’erano armi appese a rastrelliere, non erano armi come quelle del suo popolo, sembravano piuttosto armi … macedoni. Era sempre più confuso. Così smise di fare ipotesi e si dispose a raccogliere più informazioni che poteva per farsi poi un quadro della situazione. Per prima cosa osservò se’ stesso. L’ultima cosa che ricordava chiaramente era che stava scappando in un bosco e si era arrampicato su un albero. Poi era stato abbattuto da una sassata alla spalla. Era stato aggredito ancora una volta e ancora una volta lui si era difeso. Poi era stato portato in quel posto buio e puzzolente e da quel momento non ricordava altro che dolore, dolore e ancora dolore, intervallato da pochi e brevi momenti di oblio.

Ora era pulito, e a quanto sembrava, era stato medicato. Tentò di alzarsi in piedi ma subito ricadde. Era ancora troppo debole. Improvvisamente fu preso dal panico. Già un’altra volta era stato medicato e ripulito, e poi la sua vita era diventata un incubo ancora peggiore di quello che era già. 

In quel momento notò una cosa a cui non aveva ancora fatto caso. Un uomo giaceva ai piedi del suo giaciglio. Era certamente un macedone. Indossava una tunica rossa e pezzi di armatura erano sparsi attorno a lui, come se li avesse tolti da quella posizione e li avesse gettati qua e là a caso. A quanto pareva stava dormendo su quello che sembrava il suo mantello. Chi era e cosa ci faceva lì? Se era una guardia, non era molto in gamba, dal momento che si era addormentato. Se avesse voluto, Ulf avrebbe potuto saltargli al collo e strangolarlo, mentre era inerme, ma Ulf non voleva. Sentiva che quell’uomo non era una minaccia. Lo guardò meglio. Sembrava piuttosto giovane, sulla trentina forse, e aveva lineamenti decisamente belli, il naso e la bocca erano ben disegnati. I capelli erano neri e lisci, tagliati piuttosto corti. Mentre Ulf lo fissava cercando di decidere cosa fare, l’uomo si svegliò. La prima cosa che fece fu di volgere lo sguardo verso Ulf. Sembrò sorpreso di vederlo sveglio. Ulf pensò che anche i suoi occhi erano belli, neri come la notte, la loro espressione era severa ma avevano anche qualcosa di dolce, e di triste, si, terribilmente triste. L’uomo si mise a sedere senza togliergli gli occhi di dosso e poi fece una cosa che Ulf non vedeva più da tanto tempo: gli sorrise.

 

Capitolo 9

Uno strano ragazzo

 

Attalo si svegliò indolenzito. Si era addormentato per terra, sopra il mantello. Si era addormentato piangendo e ora sentiva gli occhi gonfi e la pelle del viso tirata. Quando aprì gli occhi guardò subito verso il giaciglio del ragazzo ed ebbe un tuffo al cuore quando se lo trovò davanti seduto.

Subito si alzò con le mani davanti a sé, per far capire al ragazzo che non voleva fargli del male. Ma il ragazzo non sembrava spaventato, piuttosto incuriosito. 

- Tu mi capisci? So che sono molti mesi che sei qui ad Altea. Capisci la mia lingua? Io mi chiamo Attalo. Sono un ufficiale dell’esercito Macedone. Lo so, sono un tuo nemico, ma tu non devi temere niente da me. Non ho intenzione di farti del male. No, voglio aiutarti. –

 Si avvicinò e si sedette davanti al ragazzo, che continuava a fissarlo per niente preoccupato. Attalo era confuso. Se avesse passato quello che aveva passato quel ragazzo, sarebbe stato terrorizzato alla sola idea di un macedone che si avvicinava. Per la prima volta, la prima di moltissime altre, si trovò a pensare che quello era uno strano ragazzo. Alzò una mano per toccargli il viso. Gli accarezzò una guancia. Il ragazzo non si ritrasse. “Dio, eri quasi morto…” Il ragazzo sorrise. Attalo fu sul punto di piangere.

- Ulf - Attalo spalancò gli occhi davanti a quello che era sembrato il latrato di un cane.

- Cosa? -

- Ulf, il mio nome. -

- Cosa? Cosa? Tu mi capisci! Parli la mia lingua! Ma è fantastico! -

- Si, è molto che sono qui. Mesi. - I suoi occhi si fecero tristi.

- Ma tu… non hai paura di me?

- No, tu non vuoi farmi male. Tu mi sei amico. Io lo so -

- Allora tu mi credi? -

- Io lo so -

Per la seconda volta Attalo pensò che quello era uno strano ragazzo.

 Da quel momento cominciò quella strana convivenza. Ulf guarì velocemente (a detta di tanti troppo velocemente) e passò i primi giorni ad esplorare il suo nuovo territorio. Poi, come un giovane animale, ne prese possesso. Attalo passava le giornate come sulle nuvole. Si era già reso ridicolo di fronte a tutto l'accampamento. Dopo pochi giorni era già la leggenda di tutti i soldati, che seguivano con divertimento le acrobazie del loro generale. Implacabile e spietato come sempre durante l’addestramento dei suoi uomini, si trasformava in un cagnolino scodinzolante non appena appariva la chioma bionda di Ulf.

Comunque Ulf si era emancipato velocemente. Aveva scoperto con stupore che c’erano dei cavalli nell’accampamento. Certo, c’erano anche al suo paese, ma erano selvaggi e nessuno se ne serviva. Era nata così in lui una vera e propria passione per quegli animali. Passava le sue giornate nelle stalle, li strigliava, li nutriva e cambiava la paglia sporca con quella pulita, teneva in ordine le finiture. Non senza difficoltà, perché all’inizio era un po’ spaventato da quelle bestie enormi, aveva imparato a cavalcare, così poteva portare i cavalli a fare lunghe galoppate. Inoltre aiutava i soldati a cucinare, a pulire le armi e a fare tutti quei lavori di manutenzione che continuamente occorrevano in un accampamento. Partecipava addirittura agli addestramenti. Quando poteva, andava a caccia nel bosco e portava sempre qualche capo di selvaggina che cuoceva allegramente sul fuoco. Si era fatto una tunica di pelle di cervo, come quella dei cacciatori del suo popolo. Lui non era un cacciatore, non ancora, ma aveva optato per quell’abbigliamento quando aveva notato che il vederlo girare con il gonnellino aveva uno strano effetto su una parte dei soldati di Attalo, e soprattutto su Attalo stesso. Aveva trasferito il suo giaciglio nelle stalle, per lo stesso motivo. Attalo era turbato da lui, questo Ulf lo sentiva e se ne dispiaceva perché avrebbe voluto essergli amico. Solo amico. 

Inoltre i soldati parlavano. Trovavano strano che lui, uno schiavo, facesse la stessa vita di un soldato, anzi, molto meglio perché ne godeva tutti i benefici senza averne i doveri e gli obblighi. Però nessuno si lamentava, anzi, tutti trovavano la cosa molto divertente. Presto tutti presero a voler bene a quel ragazzino che non stava mai fermo, era sempre allegro ed era sempre disposto a dare una mano. Portava una ventata di allegria ogni volta che passava. 

Da parte sua Attalo era felice, non si curava dei pettegolezzi dei suoi uomini e trovava stupendo che Ulf si fosse ambientato tanto in fretta. Sembrava anche lui felice di quella vita e questa era la cosa più importante. Ulf si era rivelato ancora meglio di quello che si era aspettato. Era un ragazzo incredibilmente intelligente, imparava in fretta ed era pieno di entusiasmo. La sua padronanza della lingua migliorava di giorno in giorno. Attalo fu sorpreso dal fatto che Ulf non era un piccolo selvaggio come immaginava, ma era una persona con una sua cultura, conosceva la storia del suo popolo, i canti e le leggende, aveva una sua religione e conosceva i poteri delle erbe, con le quali preparava decotti, pomate e medicamenti di ogni genere, tanto che Eteocle stava già pensando di prenderlo come aiutante. Sembrava che al suo paese fosse destinato a diventare una specie di stregone. Era forte e abile con le armi, sapeva lottare e cacciare. “Se non lo amassi così tanto” pensava Attalo sorridendo, “penso proprio che non potrei sopportarlo, quel piccolo saputello…”

Ma c’era una cosa che lo lasciava sgomento: Ulf non sembrava minimamente interessato a lui, non come voleva. La situazione aveva preso una piega che Attalo non aveva previsto. Aveva immaginato di tenerlo con se’ come servitore o qualcosa del genere, lo avrebbe sempre tenuto vicino e, giorno dopo giorno, gli avrebbe dimostrato affetto e tenerezza, fino a conquistarlo e farne finalmente il suo amante. Invece non stavano insieme per niente. Ulf si era creato una sua vita, Attalo lo vedeva ogni tanto agli addestramenti, ma poi spariva per tutto il giorno e lo vedeva solo di sfuggita. 

Solo alla sera gli dedicava un po’ di tempo. Di solito compariva dopo il tramonto con qualche pezzo di lepre o qualche pesce cotto sulle pietre, e delle erbe bollite e frutta. Entrava nella tenda di Attalo e si sedeva su un tappeto, a gambe incrociate. Attalo si sedeva davanti a lui e insieme mangiavano. Poi bevevano qualche bevanda calda preparata dai servitori del generale. Infine Attalo si sedeva su una panca di legno dietro la tenda, verso il bosco, e Ulf si sdraiava accanto a lui, posandogli la testa in grembo. E qui passavano un paio d’ore parlando, mentre Attalo gli accarezzava dolcemente i capelli. Quello era l’unico contatto che Ulf gli permetteva, ma soltanto perché sembrava una cosa di cui aveva bisogno. Sembrava affamato di carezze, se ne stava immobile con gli occhi chiusi, come se non volesse perdersi neppure una briciola delle sensazioni che provava. Ma se Attalo tentava qualcosa di più, se cercava solo di parlargli di quello che provava per lui, subito Ulf si ritraeva, cambiava argomento o semplicemente trovava una scusa qualsiasi e se ne andava. 

Così passavano il tempo insieme parlando. Ora Attalo sapeva quasi tutto sulla vita di Ulf, cosa faceva prima della guerra, come viveva, cosa gli piaceva e cosa no, ma nonostante questo Ulf era ancora un mistero per lui. Ancora non sapeva niente di quel ragazzo morto durante la battaglia in cui lo aveva visto per la prima volta, e non sapeva cosa era successo da quando era arrivato ad Altea fino a quando lo aveva trovato in quella cella. Avrebbe voluto fargli mille domande ma capiva che Ulf evitava di proposito quei due particolari argomenti. Forse gli causavano troppo dolore per parlarne.


Capitolo 10

La storia di Ulf

Fu Ulf a rompere il silenzio, quando si sentì pronto a farlo. Era una notte bellissima, il cielo era limpido e pieno di stelle. La luna era piena. Ulf era stato nel bosco fino a tardi. Per lui la luna piena aveva un significato speciale. In quelle notti la Dea si manifestava in tutto il suo potere, così Ulf restava in una radura nel bosco dove aveva eretto un piccolo altare, pregava e le dedicava sacrifici. Quella sera non aveva mangiato carne, ma solo qualche radice, e ora, rilassato e tranquillo, si godeva beato le carezze di Attalo. 

- Non posso credere che sia tutto finito. – Attalo lo guardò – Finito cosa? – 

- Oh, tutto. La guerra, il dolore… E’ davvero finita? Tu… insomma, tu sei mio nemico. Tu eri là, hai ucciso, hai sterminato il mio popolo. Ma mi sei amico, da quando sono qui tu mi hai sempre trattato bene. Perché?

- Davvero non lo sai? Tu sai tutto, leggi nel cuore delle persone come in un libro. Davvero non sai leggere nel mio?

Ulf tacque per un po’. Certo che lo sapeva. Non c’era bisogno di leggere nel cuore di Attalo per sapere. Gli si leggeva in faccia, lo si capiva da come lo guardava, da come gli girava sempre intorno. Ne parlava tutto l’accampamento. Anche ora Ulf poteva sentire il desiderio di Attalo che si sprigionava dalle sue mani mentre lo toccava. 

- Tu sei buono con me. So cosa provi e questo è un altro motivo per cui ti rispetto. – Attalo ebbe un tuffo al cuore. Allora sapeva… Era la prima volta che accennava a quell’argomento di sua volontà. Il cuore di Attalo batté più velocemente. Ulf continuò:

- Un altro, al tuo posto, mi avrebbe già… - per un attimo strinse gli occhi e la voce tremò – Oh, Dea! Da quando sono qui è successo tante volte…

- Cosa? Cosa è successo? – Attalo si riempì di orrore. Gli prese il volto fra le mani – Cosa?

Ulf si mise a sedere.

Per qualche secondo non parlò. Se ne stava lì, guardandosi le mani appoggiate sulle ginocchia. Improvvisamente Attalo si rese conto che era tutto finto, l’allegria che ostentava con tutti, la sua spensieratezza, era solo una maschera, che tutto quell’affaccendarsi, quel trovare sempre mille cose da fare, quel saltare di qua e di la’ per il campo, era soltanto un modo per non pensare, per non ricordare.

Quando alla fine la chiusa saltò, un fiume in piena lo travolse.

- Al mio paese, prima della guerra, avevo un fratello. Non era un vero fratello, ma eravamo cresciuti insieme ed eravamo molto legati. Si chiamava Arne. Era più grande di me di due anni. Oh, dovevi vederlo! Era il ragazzo più bello che avessi mai visto. Era anche forte, e dolce a volte. – gli occhi di Ulf luccicavano mentre ricordava 

- Io gli avevo dato tutto – alzò gli occhi e guardò Attalo per un istante, come per assicurarsi che avesse capito cosa intendeva. Attalo aveva capito perfettamente e una spina di gelosia gli si era infilata nel cuore. Comunque annuì e Ulf continuò.

- Tu non sai come lo amavo. Sarei morto per lui. E invece… - una lacrima gli rigò una guancia.

- Io non potevo. Lo sapevo, ma lo facevo lo stesso. La Dea non voleva. Lei mi aveva scelto per se’ e io avrei dovuto serbarmi per Lei. Un giorno Le sarei stato consacrato e il mio corpo e la mia anima avrebbero dovuto essere solo Suoi. Invece io avevo donato tutto ad Arne, corpo e anima. Lei non avrebbe mai avuto niente che fosse solo per Lei. Io lo sapevo fin dall’inizio, e sapevo che prima o poi la punizione sarebbe arrivata e sarebbe stata implacabile. Ma credevo che avrebbe punito solo me… Ero stato io a cominciare. Arne era innocente, lui non sapeva niente di queste cose. Lui mi voleva bene e basta… Invece ho sbagliato. Quando la punizione è arrivata è stata la peggiore di tutte. Mi ha tolto tutto, la casa, la famiglia, e mi ha tolto Arne. Ha punito anche lui. E tutto per colpa mia. –Ora Ulf piangeva come un bambino. Tutto il dolore di quegli ultimi due anni stava uscendo da lui come un fiume in piena. Attalo era paralizzato. Molte delle sue domande stavano trovando risposta. 

- Ora io non posso… forse adesso capisci. Io ti sono grato per tutto, tu mi hai salvato la vita. Forse avrei preferito di no, sarei morto e tutto sarebbe finito. Ma io credo che la Dea ti abbia mandato a salvarmi. Non so perché, forse la mia punizione non è ancora finita, o forse vuole solo darmi un’altra possibilità. Io non posso… Non so neanche se lo vorrei… Mi sento ancora troppo legato ad Arne. Tu sei buono con me e io ho imparato a volerti bene, se fosse solo per farti felice non esiterei un istante. Ma non posso, sento che Lei non vuole. – tacque per un istante, una certezza improvvisa balenò nella sua mente - Lei mi lascerà qui fino a quando la mia mente e il mio cuore saranno ancora puri, e poi troverà il modo di riportarmi a casa.

 Attalo lo guardava. Senza rendersene conto aveva preso le mani di Ulf tra le sue e ora le stava stringendo. Ulf si riscosse, come se una specie di torpore si fosse impadronito di lui. Tolse le mani da quelle di Attalo e si alzò, entrò nella tenda e uscì con due tazze fumanti. Bevvero in silenzio.

- La prima volta è successo durante il viaggio. Era un inferno, eravamo tutti incatenati, camminavamo tutto il giorno e avevamo i piedi scorticati fino all’osso. Ci davano da mangiare quello che bastava per tenerci vivi. Vedevo continuamente gente che moriva, alcuni si accasciavano a terra, sfiniti, e imploravano di potersi fermare, anche solo per pochi minuti, e loro li picchiavano. C’erano donne che vedevano i loro bambini morirgli fra le braccia.  Una notte, mentre dormivo, un sonno che sembrava più una perdita di conoscenza, ho sentito qualcosa che mi toccava. Era un uomo, un soldato, che mi stava toccando dappertutto. – Ulf rabbrividì - Io ero incatenato e non potevo difendermi. Era come un incubo, sentivo il suo odore, il suo alito pestilenziale sulla mia faccia, e le sue mani… - ancora una volta strinse gli occhi – che mi frugavano dappertutto… Oh! Dea…   Poi improvvisamente ho sentito dentro di me un’energia che non avevo mai provato. Per giorni mi ero sentito abbandonato dalla mia Dea. In quel momento invece la sentii vicino a me più che mai. Non provavo più ne’ fame, ne’ sete, ne’ dolore… Riuscivo a muovermi con facilità, con… leggerezza. Non ricordo bene cosa successe, ma ricordo che quell’uomo si divincolava fra le mie mani e non riusciva a liberarsi. Le mie unghie penetravano nella sua carne. Affondai i denti e sentii il sapore del suo sangue… E’ stato allora che ho pensato per la prima volta che forse la Dea mi stava dando un’altra possibilità. Quando siamo arrivati ad Altea mi hanno portato in uno strano posto, dove mi hanno pulito e medicato. E lì è successo un’altra volta. Un altro uomo ha tentato di toccarmi. Il mattino dopo sono stato portato in una cella. Tutti mi guardavano in modo strano, come se avessero paura di me. Io non capivo cosa dicevano, ma sentivo che non erano cose buone. Adesso ti faccio una domanda… Perché? Perché io faccio questo effetto sulle persone? Perchè tutti quelli che mi vedono provano una strana attrazione per me, al punto che alcuni sono pronti anche a farmi del male? – Attalo rimase perplesso. Davvero non lo sapeva? Aveva fatto quella domanda con tanta innocenza… Davvero non si rendeva conto del potere che aveva sulle persone?

-  Non è facile rispondere…- disse Attalo – tu possiedi una bellezza molto particolare. Fai pensare ad una ragazza, ma non sei effemminato, anzi. Fai nascere negli uomini, anche quelli che solitamente non sono attratti dai ragazzi, un forte desiderio di proteggerti, di… stringerti fra le braccia. Non ti so spiegare il perché, ma è così. E’ quello che provo anche io… Però ci sono uomini abituati ad avere tutto con la forza, e questi non possono fare a meno di tentare di avere anche te in quel modo. – Attalo abbassò gli occhi e la voce – Anche io ho avuto quella tentazione, più di una volta. L’unica cosa che mi ha trattenuto è stata la certezza che questo significherebbe perderti per sempre. Così preferisco tenerti vicino in questo modo e accettare quello che tu vuoi darmi. Io non sono solo attratto da te. Forse all’inizio era così, ma ora che ti conosco bene, so che quello che provo per te è molto di più. – Attalo guardò Ulf. Questo lo stava fissando a bocca aperta. Certo non si aspettava una confessione in piena regola. Per la prima volta il ragazzo si rese conto della vera portata del sacrificio che Attalo stava sopportando per lui. Preso dal panico, cercò qualcosa da dire ma Attalo lo prevenne:

- Avanti, se te la senti, puoi continuare il racconto. Io sono pronto ad ascoltarti. Se per te non è troppo doloroso…

- No, no, - Ulf lo ringraziò dentro di sé per averlo tolto dal quel momento di terribile imbarazzo – dopo qualche giorno è venuta una donna, mi ha guardato da capo a piedi, ha voluto vedere anche le mie parti intime, e i denti, e ha guardato anche fra i capelli. E’ stato terribile, così umiliante. Nulla, comunque, a confronto di quello che sarebbe venuto dopo. Poi se ne è andata. Due uomini mi hanno preso in consegna e mi hanno portato in un altro posto. Anche questo era un posto così strano. C’erano ragazze e ragazzi, con strani vestiti, e avevano tutti odori molto forti, pungenti, come di fiori appassiti e frutti troppo maturi. Tutti ridevano, ma nessuno era felice. Allora non capivo niente, ero stordito da tutto quel rumore, quella confusione, e quella puzza mi nauseava. Mi hanno portato in una stanza e mi hanno chiuso dentro. Poi sono entrate due donne che mi hanno lavato e mi hanno spalmato sul corpo un olio che aveva quella puzza terribile! Alla fine mi hanno lasciato solo. In quella stanza non c’erano finestre, perciò non so quanto tempo sia passato. Non c’erano sgabelli, ne’ letti, così mi sono accucciato in un angolo e mi sono addormentato. Poco dopo il mio risveglio è entrato un uomo. Le sue intenzioni mi sono state subito chiare. Mi ha bloccato contro il muro ed ha tentato di baciarmi. In un attimo ho capovolto la situazione, l’ho preso per le spalle ed ho picchiato lui contro il muro. Solo che devo averlo fatto con troppa forza, perché subito è crollato a terra, con una pozza di sangue che si allargava dietro la sua nuca. Allora ho tentato di scappare ma la porta era bloccata da fuori. Sono accorsi degli uomini e mi hanno subito fermato. E’ strano, ma quella forza spaventosa si risvegliava in me solo quando stavo per essere aggredito sessualmente, mentre quando venivo picchiato la Dea mi lasciava inerme come un bambino. Non è ridicolo? No. Non lo è per niente. Faceva tutto parte della mia punizione. E questo è quello che è successo: mi hanno picchiato e frustato e ancora picchiato. Poi mi hanno incatenato i polsi, con la faccia rivolta al muro, e le caviglie al pavimento.  – Ulf si interruppe per bere un sorso della tisana che ormai era fredda. Attalo lo ascoltava, agghiacciato. - Non immagini cosa è successo dopo? Nemmeno la Dea ha potuto difendermi. Entravano e facevano quello che volevano. A volte anche tre, quattro in un giorno. Alcuni, prima, si divertivano a farmi del male. Smettevano solo quando mi accasciavo a terra, senza forze. Poi entravano quelle donne, mi lavavano, mi davano da mangiare e se ne andavano. E il giorno dopo tutto ricominciava. – A questo punto Attalo lo fermò.

- Basta, ti prego! Fermati un attimo, non ce la faccio più ad ascoltare. – Si era appoggiato con le mani al tronco di un albero. Sembrava incapace di reggersi in piedi da solo. Ulf lo prese per una spalla, e con uno strattone, lo costrinse a girarsi. I suoi occhi fiammeggiavano

- Be’! Cosa ti prende? Non volevi sapere? Non volevi conoscere il destino di tutte quelle persone che avete strappato alla loro terra, alle loro case? – Attalo si ritrovò davanti il ragazzo che aveva visto quel giorno, durante la battaglia, con gli occhi così pieni di odio che Attalo si sentì travolgere e barcollò. – Non volevi sapere? Eccoti accontentato: ora lo sai! – Ma poco dopo la rabbia aveva già lasciato il viso e la voce di Ulf, che ora esprimevano solo un’infinita tristezza. -  Forse la Dea ha avuto pietà di me, o forse ha temuto che morissi troppo presto. Comunque ha mandato qualcuno a salvarmi da quell’inferno: un vecchio, ormai prossimo alla morte. Oh, non un vecchio qualsiasi, un senatore, niente meno, più vicino agli ottanta anni che ai settanta. Non so come ha saputo di me, e non so perché lo abbia fatto, comunque mi ha portato via da quell’inferno e mi ha accolto in casa sua. Per la prima volta da quando sono arrivato ad Altea, sono stato sereno. Non felice, ma almeno sereno. Per i pochi mesi che ho vissuto a casa di quell’uomo, non ho avuto paura. Mi trattava bene, mi nutriva e mi vestiva. In cambio voleva solo che stessi sempre accanto a lui, e questo non mi pesava molto. Quando andava a passeggio, nel grande parco intorno alla sua immensa villa, si appoggiava al mio braccio. Poi non ha più potuto camminare, così se ne stava seduto fuori, all’ombra di un grande albero, e mi faceva sedere ai suoi piedi e mi teneva una mano sulla testa. Intanto parlava, parlava per ore. E io lo ascoltavo. Da lui ho imparato la vostra lingua e tutto quello che so sul vostro mondo. Alla fine non si è più alzato dal letto. Gli sono stato vicino fino alla fine. E’ morto con la sua mano fra le mie. Allora ho pianto. Per me è stato un po’ come Lupo Grigio. Era vecchio e saggio, e ho provato un dolore molto forte quando è morto. – Ulf si concesse un momento di silenzio, per ricordare quell’unico amico – E’ stato l’unico che mi ha trattato come un essere umano. -

- Penso che a quel punto la Dea ha deciso che avevo riposato a sufficienza. Insieme alla casa e a tutte le proprietà del vecchio, schiavi compresi, sono stato ereditato dal figlio. Non si era mai fatto vedere, mentre il padre stava morendo, ma è stato velocissimo ad arrivare quando si è trattato di prendere possesso della casa. Oh, era molto diverso dal vecchio, era un bastardo, un sadico. Si divertiva a torturare gli schiavi, inventava ogni volta punizioni diverse e sempre nuove. Per me, poi, aveva una predilezione particolare. Ormai conoscevo abbastanza bene la lingua da capire i suoi insulti. Mi accusava di avere traviato suo padre, di averlo indotto a pratiche contro natura, di avere approfittato di un povero vecchio per la mia schifosa lussuria. Un giorno gli risposi che doveva amare molto suo padre per difendere a quel modo la sua memoria. Però non capivo perché, se lo amava così tanto, non si era mai fatto vedere per tutto quel tempo, nemmeno per vedere come stava. Inutile dire che da quel momento sono stato segnato. Mi faceva fare tutti i lavori più faticosi, dall’alba al tramonto, e non perdeva occasione per punirmi, per qualsiasi cosa, per qualsiasi motivo, anche inventato. Alla fine non ce l’ho fatta più, ed ho tentato di scappare. E’ stata l’ultima goccia. Naturalmente mi ha fatto inseguire dai suoi uomini e dai suoi cani. Sono stato subito raggiunto dai cani e ho dovuto rifugiarmi su un albero. Qui mi hanno raggiunto gli uomini e uno di loro mi ha lanciato un grosso sasso e mi ha colpito. Ci crederai? Anche lui ci ha provato. Ha ordinato ai due compagni di tenermi e si è spogliato. Dopo poco della sua faccia rimaneva solo un grumo di carne sanguinolenta.  Da allora ricordo poco. Sono stato riportato alle prigioni e sono stato condannato a morte. Avevo ucciso quattro persone dalla mia cattura fino a quel momento. E qui finisce il mio racconto. Poi sei arrivato tu, e il resto lo sai. -

 A quel punto Attalo, completamente annientato, si era abbattuto sulla panca e non aveva più nemmeno la forza di tenere la tazza fra le mani. Voleva sapere, ed era stato accontentato. Ora si sentiva colpevole, come se lui stesso avesse causato a Ulf tutte quelle sofferenze, e in un certo senso era proprio così. Dopotutto lui era un condottiero dell'esercito macedone, aveva guidato i suoi uomini nella guerra contro gli Ariani, aveva ordinato, proprio lui, di uccidere e fare prigionieri da portare ad Altea come schiavi. Ora si sentiva in colpa e contemporaneamente si sentiva un dannato ipocrita. Ricordava perfettamente come era felice quando poteva andare in guerra, come amava sentire l’energia che scorreva in lui durante i combattimenti. Sapeva benissimo come venivano trattati gli schiavi, lui stesso ne aveva, sapeva anche dei bordelli dove ragazze e ragazzi venivano venduti come oggetti. Ma fino a quel momento era stato tutto lontano da lui, tutto era stato considerato normale e giusto. Era il naturale corso della vita, c’era chi comandava e chi era schiavo, chi vinceva e chi perdeva. Persino ora non riusciva a dispiacersi per tutti gli altri che avevano avuto la stessa sorte di Ulf, erano persone che non conosceva, di cui non gli importava, e che comunque continuavano a fare parte delle cose normali e giuste, come erano sempre state. Lui soffriva solo per Ulf, solo di lui gli importava. Si sentiva colpevole perché non aveva potuto fare niente per impedire tutto quel dolore, e lo avrebbe fatto a costo della sua vita.

Ulf era sempre in piedi davanti a lui. Voleva gettarsi ai suoi piedi, abbracciargli le ginocchia e implorare il suo perdono. Ma il suo orgoglio glielo impedì. Nella sua vita non aveva mai chiesto scusa a nessuno. Ulf se ne andò.


Capitolo 11

Un nuovo presagio

 

Ulf non tornò subito alle stalle, anche lui si sentiva distrutto. Non riusciva a capire perché aveva raccontato ad Attalo tutta la sua storia, non era mai stata sua intenzione. Era una parte della sua vita che si era sforzato di dimenticare, e quel racconto lo aveva obbligato a rivedere ogni scena, a riprovare ogni sensazione. Era stato come rivivere quei momenti. Decise di passare per il bosco, l’aria e l’oscurità lo avrebbero aiutato a rimettere ordine dentro di sé. Dopo tutto non era stato doloroso come immaginava, forse il tempo stava realmente guarendo le sue ferite, e parlarne lo aveva alleggerito di un peso che si portava dentro da troppo tempo. Era come se le parole, uscendo da lui, avessero trascinato con sé anche il significato, lasciandolo sorprendentemente libero. Gli era dispiaciuto vedere come Attalo aveva reagito al suo racconto, il suo dolore era sincero e l’ultima cosa che Ulf voleva era vedere Attalo soffrire, ma nello stesso tempo, la sua parte ariana e nemica, ne aveva goduto: una piccola vendetta contro chi, dopo tutto, aveva avuto una parte, anche se indiretta, in tutto quello che gli era capitato.

La notte era ormai quasi al suo termine, da lontano si vedeva una debole luce rosata che annunciava l’alba. Ulf si diresse verso le stalle, anche se ormai non avrebbe più potuto dormire molto. Un movimento attrasse il suo sguardo, fra gli alberi.

Lei era la’, come quel giorno di tanto tempo prima, e come allora lo fissava. La cerva rossa si avvicinò. Ulf allungò la mano e per la prima volta la toccò. – Madre – disse in un sussurro. Finalmente il tempo era giunto, ora avrebbe potuto tornare a casa. 


Capitolo 12

Un ritorno inaspettato

Il giorno dopo si rividero alle esercitazioni e si comportarono come se niente fosse accaduto. Attalo fu severo come al solito e non perse occasione di insultare i suoi uomini e di trattarli come bambini deficienti. Ulf si impegnò e si divertì come sempre. Nessuno dei due aveva dormito, quella notte.

Ad un certo punto Attalo lasciò liberi gli uomini e, senza una parola, se ne andò. Ulf e un soldato, un ragazzo più o meno della sua età con cui aveva stretto amicizia, si sedettero su una panca per bere e rinfrescarsi dopo l’addestramento. Il soldato aveva uno strano sorriso sul volto.

- Dimmi la verità, cosa è successo questa notte? Il comandante aveva una faccia che sembrava il culo di un gatto e non ti ha tolto gli occhi di dosso per un solo minuto. Non è che non gliel’hai dato? – Ulf rise. Il soldato continuò.

- Dai, raccontami. Il comandante lo conosciamo bene tutti, da un bel po’ di tempo, ma com’è quando siete soli? E’ autoritario come con noi oppure, fra le tue braccia, si trasforma in un tenero cucciolone? – Ulf continuava a sorridere ma non rispondeva. – Insomma, Ulf, ti decidi a parlare? Va bene, te lo chiedo chiaro e tondo: com’è il nostro generale a letto? – Ulf lo guardò – E perché dovrei saperlo? – Avanti, non scherzare. Lo sa tutto il campo che il comandante ha perso la testa per te. Si racconta che ha passato due anni della sua vita a cercarti, e adesso ti tratta con tutti i riguardi. Non posso credere che non voglia niente in cambio. –

- Tu non ci crederai, come non ci crederà mai nessuno. Ma è così. Noi non siamo mai stati a letto insieme. – Il sorriso di Ulf si appannò – Sai, a volte le cose non sono semplici come sembrano. – Poi guardò il soldato e di nuovo sorrise – Ma perché ti interessa tanto sapere com’è a letto? – Il soldato avvampò e un’aria imbarazzata gli si dipinse sul viso – No, niente, così… Bè, insomma, lui è così… bello! E poi, è come si muove, come cammina, e come combatte… - Il soldato abbassò gli occhi e poi li rialzò per incontrare quelli di Ulf – Insomma, se lo chiedesse a me, non me lo farei ripetere due volte. Invece tu vuoi farmi credere che… - Ulf era intenerito dalla confessione del compagno. Lo fissò negli occhi – E’ così, te l’ho detto. Spesso le cose sono molto più complicate di quello che sembrano.-

 Attalo si sentiva terribilmente stanco e non aveva testa per l’addestramento, quel giorno. Aveva fatto tutto il possibile ma alla fine non ce l’aveva fatta più. Così aveva deciso di interrompere tutto, con immensa gioia dei suoi uomini. Dentro di lui una moltitudine di pensieri e sentimenti diversi si accavallavano, si spingevano, emergevano e poi venivano di nuovo schiacciati da altri, tanto che ormai era completamente confuso. Non sapeva più cosa provava realmente, cosa voleva e cosa aveva intenzione di fare. Ulf, in fondo, non era felice. La cosa migliore era rimandarlo dal suo popolo, dove forse avrebbe ritrovato uno scopo per cui vivere. Ma il pensiero stesso di separarsi da lui gli risultava intollerabile. Però, anche continuare a vivere così, con quel costante desiderio dentro di lui, con l’oggetto di tutti i suoi sogni che gli ballava continuamente davanti, senza che lui potesse MAI sfogare finalmente la sua brama, no, non poteva nemmeno continuare a quel modo. Non era molto lontano dall’impazzire completamente. E allora? Cosa fare? Una decisione andava presa, e al più presto.

 Entrò nella tenda, meccanicamente tolse i pezzi dell’armatura, si avvicinò alla tinozza e si versò dell’acqua sul viso e sulla testa. Solo allora si accorse di una presenza nella sua tenda. Immediatamente estrasse la spada, voltandosi di scatto e dandosi mentalmente dell’idiota. Questa era un’altra prova della sua degradazione mentale, prima di tutta quella storia non si sarebbe mai fatto cogliere di sorpresa, invece adesso era completamente distratto e perso nei suoi pensieri. Se quell’uomo fosse stato un nemico avrebbe potuto ucciderlo dieci volte. 

Ci mise un po’ per metterlo a fuoco. Era una figura alta, in uniforme macedone. Mentre Attalo lo scrutava per capire chi fosse, l’uomo avanzò e si portò in piena luce. Attalo lasciò cadere la spada, fece un passo verso l’uomo, poi un altro, poi altri tre passi, sempre più veloci. Ora era a pochi centimetri dall’uomo. Lo guardò per un minuto, il cuore che batteva all’impazzata, gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime. Un altro piccolo passo, poi le sue braccia si chiusero intorno all’ampio torace dell’uomo, e la sua guancia si posò sul suo petto. Una serie di singhiozzi si spensero sulla tunica rossa. Poi un sospiro, un sussurro, e una sensazione di pace allagò il petto di Attalo – Sei tornato! –

Efestione era tornato. Attalo non lo vedeva da quattro anni, da quando Efestione aveva deciso di seguire l’Imperatore in Egitto, mentre Attalo era rimasto in Macedonia. Non aveva mai capito come mai l’amico avesse preso quella decisione improvvisamente, senza nemmeno consultarlo, e comunicandoglielo solo poche ore prima di partire. Sembrava che lo avesse fatto di proposito per impedirgli di seguirlo. Perché lo avrebbe fatto, certo che lo avrebbe seguito. Da quando si erano conosciuti, a quattordici anni, non si erano mai separati, se non per pochi giorni.  Avevano frequentato la stessa accademia, e poi avevano sempre fatto di tutto per essere assegnati agli stessi battaglioni o comunque per non allontanarsi mai molto uno dall’altro. Avevano combattuto sempre insieme, uno al fianco dell’altro, e le loro carriere nell’esercito erano proseguite quasi parallelamente. Attalo non contava le volte in cui si erano salvati la vita l’un l’altro. Poi, quattro anni prima, quell’assurda decisione li aveva separati. 

Ora Efestione era tornato, ed era ancora lì davanti a lui. Era molto cambiato dall’ultima volta. Il suo viso era invecchiato, la pelle era più scura e c’erano nuove rughe e nuove cicatrici. I capelli erano tagliati cortissimi, mentre una volta erano lunghi fino alle spalle e sempre trattenuti da un laccetto di cuoio. Anche l’espressione era diversa, più dura, persino feroce, la bocca aveva preso una piega amara, mentre gli occhi azzurri erano gelidi, sottolineati da due righe nere. Aveva un’aria stanca. Attalo pensò che dimostrava più dei suoi trentadue anni. 

Efestione era un macedone atipico, suo padre era un nobile molto amico di Filippo, il padre dell’Imperatore Alessandro, mentre la madre era una schiava ariana, morta quando Efestione era piccolissimo. 

Efestione non ricordava sua madre, e non amava suo padre, però gli era grato. Avrebbe potuto benissimo liberarsi di lui, vendendolo e facendolo vivere per sempre come uno schiavo. Invece, anche se non lo aveva mai riconosciuto come figlio, lo aveva tenuto con sé e si era occupato della sua educazione. A quattordici anni lo aveva mandato in accademia. Certo non avrebbe mai ereditato il nome e le sostanze del padre, ma il vecchio gli aveva lasciato i mezzi per mantenersi da solo e guadagnarsi una posizione.

 Attalo non stava più nella pelle. Mentre bevevano una tisana calda, tempestava Efestione con decine di domande. Voleva sapere tutto di quei quattro anni, dove era stato, cosa aveva fatto. Efestione rispondeva a tutto, sorridendo. Ma il suo atteggiamento era strano. Anche se sembrava felice di rivederlo, non dimostrava l’entusiasmo che provava Attalo e che questi si sarebbe aspettato da lui. Se ne stava seduto impassibile sorseggiando la tisana e guardandolo con quel suo sorrisetto più finto che sincero, e teneva le distanze. Quando Attalo lo aveva abbracciato non aveva mosso un muscolo, mentre ai tempi della loro amicizia bastava che stessero lontani per due giorni per abbracciarsi e ridere e ballare per ore come se non si fossero visti per mesi. Cos’era successo? Aveva forse a che fare con il motivo dell’improvvisa partenza, quattro anni prima? La domanda era lì, che aleggiava fra loro due. Ma Attalo non osava esprimerla ed Efestione non affrontava l’argomento. A notte tarda si separarono. Attalo fece approntare una tenda per Efestione, e poi si ripromise di risolvere la questione il giorno dopo, a mente fresca. Solo prima di addormentarsi si rese conto che, per qualche ora, non aveva pensato a Ulf, per la prima volta da almeno due anni.

 Il giorno dopo Attalo si ritagliò un paio d’ore fra i suoi numerosi impegni, da passare con Efestione. Aveva molte, troppe domande da fargli. Mentre passeggiavano lungo l’argine del fiume, Attalo decise di non girare troppo intorno all’argomento, ma di affrontare subito quello che gli stava a cuore.

- Perché te ne sei andato? – domandò improvvisamente, a bruciapelo. Efestione fu colto di sorpresa, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare l’argomento, ma non credeva così presto. Non era ancora pronto, così contrattaccò. Anche lui aveva una domanda. 

- E tu? Cosa stai combinando? – si fermarono e Efestione si piazzò davanti all’amico, gambe larghe e braccia incrociate. – Ci sono strane voci, su di te, voci che arrivano fino ad Alessandria. Già dall’anno scorso si sentiva parlare di una strana storia, di un generale macedone che si era pazzamente innamorato di una ragazzina ariana e la stava cercando in lungo e in largo. Si racconta che questo generale abbia trovato l’oggetto delle sue ricerche e che ora vivano insieme felici e contenti. La cantano i cantori nelle piazze e nelle feste patrizie le dame se la raccontano l’un l’altra sospirando. E’ la storia che più va di moda di questi tempi.  – Attalo era impallidito, ma cercò di non darlo a vedere – Da quando in qua provi interesse per queste storielle per dame annoiate? Non ti facevo così romantico! – 

- Non ho mai provato interesse per questo genere di cose, ma ho cominciato ad averne quando nella storia ha fatto capolino un nome: il generale Attalo. Si, hai capito bene. Si fa il tuo nome. Non capisci? Tutti ti conoscono, e ora tutti parlano di te. - Attalo cominciava a capire il perché del ritorno del suo migliore amico, e, a quanto pare, non aveva niente a che fare con l’amicizia. – E così tu sei tornato qui per controllare, per vedere cosa c’è di vero in quella stupida storiaccia da bordello! E io che pensavo che avessi soltanto voglia di vedermi! – Attalo riprese a camminare con passo sostenuto ed Efestione fu costretto a rincorrerlo. – Ma non è tutto, l’ultima versione della storia è quella più interessante di tutte. La vuoi sentire? – Attalo si girò e fissò l’amico con aria di sfida. – Avanti!-  - Si narra che la ragazzina sia in realtà un ragazzo. Quando l’ho sentita sono quasi svenuto dalle risate! Il generale Attalo, innamorato di un ragazzo? Ha! Proprio lo stesso uomo che non si sarebbe fatto toccare da un altro uomo nemmeno sotto minaccia di morte! Ridicolo, davvero ridicolo! E’ vero, sono tornato per vedere con i miei occhi per poi tornare e ricacciare loro in gola tutte quelle calunnie. E invece… Prima di venire da te ho chiesto un po’ in giro, ma ancora non ci potevo credere. Poi ho visto. E’ lui, vero? E’ quel ragazzino biondo. –

Attalo non sapeva più dove guardare. Non sapeva cosa dire. Si sentiva piccolo  e sporco, sotto lo sguardo tagliente di Efestione. – E’ vero.- furono le sole parole che fu in grado di dire. Efestione tornò al campo, Attalo, mesto, lo seguiva.

 

Capitolo 13

La confessione

 Tornarono nella tenda. Ora Efestione si sentiva pronto. 

- Perché me ne sono andato? E’ strano che tu me lo chieda quando dovresti sapere la risposta. Davvero hai passato questi quattro anni chiedendoti perché? Non capisco se sei ingenuo oppure soltanto stupido! – Attalo era sconvolto. Aveva sperato di passare un po’ di tempo con Efestione, per parlare del loro passato, per ritrovare almeno un po’ dell’antica felicità, invece Efestione non faceva altro che accusarlo. Perché? Perché era tornato in realtà? Cosa voleva da lui?

- Non lo sai? Allora non ricordi! Se è così ora ti rinfrescherò la memoria! Quindici, anzi no, diciassette. Sono passati già diciassette anni… Tu forse davvero non lo ricordi, per te è stato solo un episodio senza importanza, ma nella mia memoria quella notte è impressa a fuoco. Era il secondo anno all’accademia, noi due eravamo già molto amici. Tu eri un ragazzino solitario, non avevi amici, tutto quello che ti interessava era diventare bravo con le armi. Ma con me eri diverso, mi hai permesso di entrare nel tuo mondo e mi hai dimostrato affetto. Tanto che io ho pensato di vedere in quell’affetto qualcosa che non c’era. Capisci cosa intendo? – No, Attalo non capiva. Fissava Efestione socchiudendo gli occhi. Cosa stava cercando di dire? Efestione continuò – Ora ti dirò una cosa che ti stupirà. Io ti guardavo mentre ti allenavi. Passavo ore ad osservarti. Avevi un modo di muoverti mentre combattevi, forza e grazie insieme, eri diverso da tutti gli altri. E avevi uno sguardo… era come se in quei momenti la tua vita fosse tutta lì, racchiusa nella tua spada. Eri nato per combattere. E io ero incantato da te. – Attalo spalancò gli occhi. Efestione stava proprio dicendo che… - Il fatto che tu avessi permesso a me, solo a me fra tanti, di esserti amico, be’, mi dava modo di sperare. Così quella notte ti ho baciato. Davvero non ricordi? Eri sdraiato nel tuo letto e io sedevo al tuo fianco. Parlavamo un po’ prima di dormire. La luna entrava dalla finestra ed accarezzava il tuo viso. Eri così bello… Non ho più potuto trattenermi ed ho appoggiato le mie labbra sulle tue. Tu non hai fatto un movimento. Con calma mi hai allontanato con le mani. Io sono andato a letto e non ho chiuso occhio per tutta la notte. Ero terrorizzato, avevo paura di avere distrutto per sempre la nostra amicizia. Invece il giorno dopo ti sei comportato come al solito, come se niente fosse. Solo nel pomeriggio mi hai tirato da parte e mi hai detto, con molta serietà, che eri lusingato dal mio gesto e che anche tu mi volevi bene, che io ero molto importante per te, ma fra di noi c’era solo una bella amicizia e ci sarebbe stata solo quella. -

Attalo era sconvolto. Aveva davvero dimenticato quella notte! Come aveva potuto farlo? Ora invece ricordava benissimo, tutto stava tornando come se fosse successo il giorno prima. Ricordava la luna, il silenzio della camerata, e il calore del corpo di Efestione mentre si avvicinava. Ricordò con un brivido le labbra dell’amico sulle sue e il senso di calore che aveva provato alla bocca dello stomaco. Si era spaventato, aveva avuto paura di quella sensazione e lo aveva respinto. Poi aveva cercato di non pensarci più. E ci era riuscito maledettamente bene.

- Allora non ricordi nemmeno dell’altra volta? – Attalo si sentiva male. Si, c’era stata anche un’altra volta.

- Allora non eravamo più ragazzini. Ci stavamo allenando alla lotta, io contro te. Erano momenti che odiavo e temevo come la morte, e allo stesso tempo non desideravo altro. Erano gli unici istanti in cui potevo toccarti e bloccare il tuo corpo contro il mio. Potevo fare quello che volevo, toccare le tue braccia, le tue gambe, stringere il tuo petto, avvicinare il tuo viso al mio fino a sfiorarlo. Ma avevo paura, ormai ero un uomo, e sapevo che prima o poi avrei perso il controllo. – Efestione tacque per un attimo, e osservò Attalo diventare sempre più pallido. Ora ricordava. - E quella volta accadde. Eri sotto di me, completamente immobilizzato, inerme. Io sono sempre stato più forte di te. Eri più abile con la spada ma nella lotta non sei mai riuscito a battermi. Le nostre labbra erano così vicine… Così ti ho baciato di nuovo, e anche quella volta tu hai cercato di allontanarmi, ma io non te l’ho permesso. Tu ti dibattevi e mi insultavi, ma io non avevo nessuna intenzione di smettere. – Attalo ricordò. Aveva avuto paura quella volta. Era stato certo che Efestione non si sarebbe fermato. 

-  Ho tentato in tutti i modi – disse – ma non riuscivo a liberarmi. Poi però mi hai lasciato andare. -

- Si, sapevo di essere molto vicino ad averti. Ma non volevo che fosse così, non in quel modo. Non appena sei stato libero, ti sei ribellato e me le hai date di santa ragione – Efestione rise, ma i suoi occhi erano tristi.

- Capisci ora perché me ne sono andato? Io non potevo più continuare in quel modo. Certo potevo avere tutti i ragazzi che volevo, ero il re dei bordelli all’epoca, e molte reclute sono cadute sotto il mio fascino. Ma io volevo te. E tu non c’eri mai per me. Così alla prima occasione sono andato in Egitto ed ho fatto di tutto per impedirti di seguirmi. Ne avevo abbastanza di quell’inferno. -

 Era incredibile come due momenti del genere fossero completamente scomparsi dalla mente di Attalo. Probabilmente era accaduto perché lui aveva voluto dimenticare. Fin da ragazzo era sempre stato convinto che un vero uomo, un vero soldato, non avrebbe mai potuto provare attrazione per un altro uomo. Era come se la virilità ne fosse in qualche modo compromessa, e Attalo avrebbe difeso la sua a costo della vita. Era una cosa che disprezzava negli altri. Come si infuriava quando sentiva qualcuno dire che anche il suo amato Imperatore Alessandro aveva quella “tendenza”. Era pronto ad uccidere pur di mettere a tacere quelle calunnie. Non poteva concepire che un uomo potesse essere un grande condottiero, un soldato coraggioso e contemporaneamente un omosessuale. Ecco perché aveva rimosso quei ricordi. Per lui Efestione era sempre stato il suo ideale di soldato, fiero e forte. Per questo aveva sempre evitato come la peste di riconoscere che Efestione era attratto dai ragazzi. Che era attratto da lui. Ammetterlo e accettarlo avrebbe significato spazzare via una buona metà delle sue convinzioni e dei suoi principi. E soprattutto aveva sempre evitato di riconoscere certe sensazioni dentro di sé. Tutte e due le volte che Efestione lo aveva baciato, lui ne era stato sconvolto. Tutte e due le volte avrebbe voluto permettere all’amico di continuare. Ma poi il suo orgoglio era stato più forte di tutto, e ora si rendeva conto che era stato il suo orgoglio a rovinare la loro amicizia.

 Tutto questo prima di Ulf.

 Attalo sospirò. - Sai? Mi sta venendo il dubbio che quella misteriosa Dea di cui vaneggia Ulf in continuazione, esista veramente, e si stia allegramente prendendo gioco di noi. – 

- Cosa intendi dire? – chiese Efestione

- E’ strano come le tessere del mosaico stiano andando a posto. – Attalo raccontò la storia, partendo dalla famigerata battaglia in cui aveva visto Ulf per la prima volta. Raccontò della sua ricerca, di quando l’aveva alla fine trovato, e di quegli ultimi, strani mesi. – Io non so cosa mi sia capitato. Hai perfettamente ragione, non è da me. Io non ho mai amato nessuno, tantomeno un'altra persona del mio sesso. Tu sai benissimo quale è sempre stata la mia opinione in merito. L’unico che ha contato qualcosa per me, sei stato tu. Ma mi sono sempre frenato. Era come se i miei sentimenti verso di te fossero ovattati. In questi ultimi mesi molte cose dentro di me sono cambiate, e questo grazie a Ulf. Le mie emozioni sono esplose, mi sono ritrovato come impazzito. Per la prima volta in vita mia mi sono sentito libero di ridere, di gridare, di piangere, e anche di soffrire. Io che ho sempre trovato ripugnante l’idea di toccare un uomo, ero invece pronto a fare qualsiasi pazzia pur di avere Ulf. E invece mi sono trovato costretto a ingoiare il mio desiderio, giorno dopo giorno, come hai fatto tu. Proprio ieri stavo cercando di decidere cosa fare, e improvvisamente tu ritorni e mi racconti la mia stessa storia, e mi dai la tua soluzione. Tu te ne sei andato, mettendo spazio fra noi due, per non vedermi, per smettere di soffrire. -

- No, ti sbagli, ho sofferto ogni giorno di questi quattro lunghi anni, ho sentito terribilmente la tua mancanza in ogni momento, ma ho sofferto sempre meno di quando tu mi eri così vicino… -

- E’ quello che dovrei fare anche io, non è vero? Dovrei lasciarlo andare…- I due uomini si fissarono. Nessuno dei due parlò.

La mattina dopo Efestione, passeggiando per il campo, arrivò alle stalle. Ulf era seduto su una panca e guardava alcuni soldati che addestravano i cavalli. Efestione gli si sedette accanto. Per un po’ nessuno dei due parlò, mentre si studiavano a vicenda. Efestione fece passare il suo rivale da capo a piedi. Capiva perfettamente perché Attalo era così attratto da lui, e questo gli faceva ancora più rabbia. Ulf, da parte sua, percepiva questa rabbia e si stava preparando ad affrontarlo. Sapeva del suo arrivo, la Dea lo aveva avvisato.

Fu Efestione a rompere il silenzio. 

- Io ti odio. – disse a bruciapelo. Ulf si limitò a guardarlo. – Si, ti odio perché io ho passato tredici anni della mia vita a cercare di conquistare il suo cuore, e altri quattro anni a cercare di dimenticarlo, invece tu, in pochi minuti, lo hai reso tuo schiavo. Io non so come hai fatto, e, dopotutto, credo che neanche tu lo sappia, e forse non era nemmeno tua intenzione, ma lo hai fatto e per questo io ti odio. Se non fosse che, ammazzandoti lo allontanerei per sempre da me, puoi giurare che non esiterei un attimo. –

Ulf aveva ascoltato quello sfogo senza battere ciglio. Improvvisamente sorrise.

- Io ti capisco, e non ce l’ho con te per questo. Ma non devi preoccuparti, vedrai che presto tutto andrà come deve. – Efestione rimase sbalordito. Quel ragazzino era strano. – Cosa intendi dire?-

- Non capisci? Eppure è tutto così semplice! Ognuno di noi nasce con una via già segnata, e si può essere felici solo seguendola. Io non l’ho fatto, mi sono allontanato dalla mia strada e mi sono perso. E quando ti perdi, bada bene, non è facile tornare indietro. Le strade che ho seguito mi hanno portato sempre più lontano dalla felicità, verso il dolore e la sofferenza. Fino a poco tempo fa pensavo che la Dea mi stava punendo per dei peccati commessi prima della guerra, invece non era così. La Dea è buona, non punisce e non si vendica mai. Lei non era contraria al mio amore per Arne, però quell’amore non era la mia via. -

- E questo cosa ha a che fare con me e Attalo? -

- E’ la stessa cosa. Anche voi vi siete persi. La vostra via, cioè il vostro destino, è di stare insieme. Attalo ha sempre rifiutato questa via, ma non si è mai perso perché tu lo tenevi con te. Sei stato tu a perderti, andandotene. Così anche lui, senza la tua guida, si è perso. La Dea sta utilizzando me per aiutare voi due a ritrovare la vostra strada, come ha utilizzato Attalo per aiutare me a ritrovare la mia.

- Mi spiego meglio: quando Arne è morto io ho perso la voglia di vivere e il mio dono si è indebolito tanto da diventare quasi inesistente. Quando stai soffrendo pensi di voler morire, ma quando stai davvero per morire, allora incominci a lottare per vivere. La Dea mi ha obbligato a questo, a lottare. Ma non era ancora sufficiente, dovevo recuperare fiducia in me stesso e negli altri. Così mi ha fatto conoscere Attalo, e lui mi ha fatto capire che non ci sono solo persone cattive in questo mondo. Ora voglio tornare a casa, voglio ricominciare tutto da capo, voglio diventare Sciamano e aiutare la mia gente, e tutto questo lo devo ad Attalo. Attalo invece aveva bisogno di me per capire che in fondo, innamorarsi di un uomo non è poi tutta quella tragedia che credeva. Lui è sempre stato attratto da te, ma non lo avrebbe mai ammesso, o forse eravate troppo amici perché lui se ne rendesse realmente conto. Io l’ho aiutato a liberare i suoi veri sentimenti. Lui ha creduto di amare me, ma da quando tu sei tornato non si ricorda neanche più che esisto. E tu, saresti mai tornato se io non fossi stato qui? E’ stata la gelosia a costringerti a tornare. Non potevi sopportare di saperlo perso per un altro, dopo che tu gli sei stato vicino per così tanto tempo. Vedi? Le cose alla fine quadrano perfettamente. Ora il più è fatto. Adesso sta a voi. Anzi, sta a te.-

-  A me? E cosa devo fare? Come posso averlo adesso se non ci sono riuscito nemmeno quando era disperatamente solo? E come posso farcela ora, in pochi giorni, quando non ce l’ho fatta in tredici anni? E’ impossibile…- disse Efestione, sconsolato. Però nemmeno per un istante aveva dubitato di una sola parola di quello strano ragazzo. Anche se la sua mente si ribellava, il suo cuore sentiva che era tutto vero, tutto perfettamente logico. Nemmeno per un istante si era domandato come faceva quel ragazzo a sapere, a parlare come se conoscesse tutti i particolari della sua vita e di quella di Attalo.

-  Manca ancora così poco. Io ho superato le mie prove, e solo la Dea sa quante sono state, e quanto terribili. Attalo ha superato le sue e ti assicuro che nemmeno le sue sono state semplici. Anche tu hai superato molte prove, ma ne manca ancora una, la peggiore di tutte. Ma sarà l’ultima, e sarà anche la vostra ultima possibilità. Starà a te non tirarti indietro. –

-  Quale prova? Di cosa si tratta? Io sono disposto a superare qualsiasi cosa, qualsiasi…- Ulf sorrise. – Si, lo so. Lo so. –

 

Capitolo 14

Violenza

Attalo entrò come una furia nella tenda di Efestione. Era pallido e sconvolto, con i capelli arruffati e l’uniforme in disordine, come se tornasse in quel momento da una battaglia. In un certo senso era così, la battaglia la stava combattendo contro se’ stesso e contro la disperazione che improvvisamente lo aveva colto. Puntò il dito contro Efestione, barcollando. Era completamente ubriaco.

Tu! Proprio te stavo cercando! Maledetto bastardo! E’ tutta colpa tua! – Efestione fu colto di sorpresa. Non aveva mai visto l’amico in quelle condizioni. Cercò di avvicinarsi, per calmarlo e parlargli, ma Attalo estrasse il pugnale e lo puntò contro di lui.

E’ tutta colpa tua… Lui se ne va, domani. Mi ha detto che deve andarsene, tornare dal suo popolo, e che l’unico modo per fermarlo è ucciderlo! – Efestione tentò di ribattere

Perché dici che è colpa mia, cosa c’entro io? Questa è una sua decisione… -

No! Non è una sua decisione! Io so che tu gli hai parlato, ti hanno visto con lui ieri mattina. Cosa gli hai detto? Eh? Cosa gli hai detto per convincerlo? Lo hai minacciato? Parla, maledetto! – Il pugnale si agitava nell’aria ad una distanza preoccupante dal viso di Efestione. – Si, devi averlo minacciato. Lui non se andrebbe mai di sua volontà! Io lo so, ne sono sicuro! –

Prima che Efestione potesse fermarlo, Attalo si mise a lanciare in giro tazze, piatti, armi, facendo a pezzi tutto quello che gli capitava sottomano, gridando come un ossesso, buttandosi contro le pareti e dando pugni alle travi. Efestione lo guardava impotente, gli si spezzava il cuore nel vedere l’amico in preda alla disperazione. Quella era la sua prova, o perlomeno ne era l’inizio. Richiamando tutte le sue forze, si preparò ad affrontarla, di qualsiasi cosa si fosse trattato. Improvvisamente sentì un forte dolore alla testa. Un oggetto piuttosto pesante si era abbattuto sulla sua fronte, non lo aveva nemmeno visto arrivare. Subito un fiotto di sangue ne uscì. Attalo fu come scosso da quella vista e si fermò immediatamente. Il suo sguardo allucinato fu attraversato da un breve lampo di consapevolezza. Fece un passo verso l’amico ferito, ma poi gli voltò le spalle, tremando. Efestione si toccò la ferita e poi si guardò le dita sporche di sangue. Si avvicinò ad Attalo, lentamente, chiedendosi cosa sarebbe ancora accaduto. Attalo se ne stava immobile, fissando la parete davanti a sé. Efestione lo abbracciò da dietro, con dolcezza. Per un attimo rimasero così, fermi. Ma proprio mentre Efestione si stava illudendo che tutto fosse finito, Attalo si voltò di scatto, bloccandogli i polsi in una morsa dolorosa. Il viso era deformato dalla rabbia, gli occhi mandavano lampi, Efestione, spaventato, cercò di allontanarsi, ma Attalo glielo impediva, continuava a tenerlo stretto, attirandolo a se’. Poi con una mano gli lasciò il polso e gli artigliò i capelli, dietro la nuca, con forza. Ad Efestione sfuggì un gemito. Poi, sempre stringendogli i capelli, lo baciò, un bacio pieno di violenza e di rabbia, con i denti che gli mordevano la bocca, e la lingua che lo obbligava ad aprire le labbra e poi frugava velocemente, togliendogli il fiato. Quando si staccò, la sua espressione non era cambiata, sempre odio, odio e ancora odio. 

- E’ questo che vuoi? Ti piace? Me l’hai detto tu, che mi desideri, mi hai detto che mi vuoi da quando avevi quindici anni! Bene, adesso avrai quello che vuoi! Anzi, di più! –

Gli diede una spinta, tanto forte che per poco Efestione non perse l’equilibrio. 

- Avanti, spogliati! – Efestione lo guardava a bocca aperta, completamente istupidito. No, pensava, no, ti prego, non così, ti prego. - Spogliati! – gridò Attalo.

“E’ la tua ultima occasione, sta a te non tirarti indietro”. La voce di Ulf gli risuonò nelle orecchie, ma era sicuro che si riferiva proprio a questo? Lentamente Efestione si spogliò, un pezzo per volta, fino a rimanere completamente nudo. Attalo lo guardava, sempre con quell’aria da folle. Deglutì. Si, era ancora come lo ricordava, come lo aveva visto tante volte. Il torace ampio, i muscoli ben scolpiti, ricordava benissimo ogni cicatrice, ogni segno su quella pelle che tante volte aveva spiato di nascosto, distogliendo poi subito lo sguardo, negando la sensazione che subito gli scaldava l’inguine. Invece in quel momento lo guardava, ne beveva avidamente ogni particolare e lasciava che quel calore crescesse, anzi, lo alimentava con la sua rabbia, con il suo dolore e la sua disperazione, con il desiderio represso che lo tormentava da mesi. 

- Adesso girati. Voltati, ho detto! – la sua voce era bassa, quasi un ringhio - Di cosa hai paura? Tanto ci sei abituato, no? Già, lo ricordo benissimo, quando mi lasciavi solo al campo, e te ne andavi in città, con tutti gli altri allievi, per andare in qualche bordello. Mentre io restavo al campo ad allenarmi, tu andavi a farti scopare! Cosa credi, che ero contento? No, non ero contento affatto, mi faceva una rabbia… -

- E allora cosa avrei dovuto fare? – rispose Efestione con un filo di voce – Sai benissimo che non sarei andato da nessuna parte se solo tu… ero un uomo, maledizione, non un maledetto asceta! – 

- Benissimo! Anche io sono un uomo, e adesso te lo dimostro! –

- No, ti prego! – sussurrò Efestione. 

- No? E perché? Non è quello che vuoi? Ah! Ma forse non è questo che vuoi! Ora capisco! Allora è questo che vuoi! – sbraitò, con la voce impastata da ubriaco, battendosi la mano contro le natiche. Poi abbassò di nuovo la voce. – Oh, no, caro, se davvero mi vuoi, ora mi avrai, ma solo in questo modo, a modo mio. E adesso girati. E’ la tua ultima occasione. – “E’ la tua ultima occasione”. Efestione si girò, stoicamente, davanti a lui c’era la rastrelliera delle spade, vi si aggrappò con entrambe le mani. Sentì Attalo che gli allargava le gambe con un piede. Dio, non si degnava nemmeno toccarlo. Non si era neppure spogliato, probabilmente aveva liberato solo lo stretto indispensabile, voleva davvero umiliarlo fino in fondo.

Non ci furono altre parole, ne’ altri gesti. Sentì Attalo afferrargli i fianchi, poi appoggiare la punta del pene contro la sua apertura. Poi con un unico colpo di reni, entrò. Subito un dolore fortissimo si irradiò come se qualcuno lo avesse colpito con un’ascia proprio fra le cosce. Strinse i denti e gli occhi, mentre le lacrime lottavano per uscire. Non avrebbe gridato, no, non avrebbe emesso un solo gemito. Radunò le sue forze per tenersi saldo sulle gambe che stavano per piegarsi. Fortunatamente non durò molto, poco dopo Attalo, con un verso rauco, si abbatté sulla sua schiena, rimase immobile per qualche secondo, ansimando. Poi si alzò, e senza parlare, se ne andò. Efestione rimase immobile ancora per qualche secondo, poi finalmente si accasciò al suolo. Solo dopo parecchi minuti riuscì a rialzarsi. Una piccola pozza di sangue si era allargata sotto di lui. Prese un lenzuolo e cercò di pulire alla bene e meglio, poi chiamò uno schiavo che, senza fare domande, preparò un bagno per il padrone e ripulì il pavimento. Immerso nella vasca di acqua calda, Efestione scoppiò finalmente in un pianto liberatore. Cosa sarebbe successo adesso? Era stata quella la sua prova? E se era stata quella, l’aveva superata? Per il momento si sentiva soltanto umiliato e sconfitto. Solo una cosa gli permetteva di mantenere un briciolo di orgoglio: era stato abbastanza forte da non fargli capire in nessun modo che, al contrario di quello che pensava Attalo, quella era stata, drammaticamente, la sua prima volta.

 

Capitolo 15

Rimorso

 Attalo aveva lasciato la tenda di Efestione completamente stordito. Si era diretto verso il fiume, correndo, inciampando e cadendo di tanto in tanto. Aveva la sensazione di non avere più il comando del suo corpo, le sue gambe e le sue braccia si muovevano scompostamente, persino la testa gli ciondolava sulle spalle. Mentre correva si spogliava, lanciando l’armatura e la tunica dove capitava. Arrivato al fiume, si buttò dentro, gridando. Più e più volte si tuffò e risalì, bevve l’acqua e sputò. Intanto tirava pugni e calci sul pelo dell’acqua. Il fiume lo osservava paziente. Alla fine, sfinito, risalì sulla riva e cadde carponi, sbucciandosi le ginocchia e i palmi delle mani. Ignorando il dolore, rimase così, e poi cominciò a vomitare.

 Tornando al campo, raccolse i vestiti, e se li rimise. Ora la sua testa stava tornando a posto, era molto più lucido, ma non per questo si sentiva meglio. Lentamente, tutta la portata del suo gesto stava salendo alla sua coscienza. Cosa aveva fatto? Disperatamente, sperò che si fosse trattato solo di un incubo dovuto all’alcool, ma sapeva benissimo che non era così. Il suo pene, gonfio e dolorante, ne era la prova. “ Un elefante nella cruna di un ago” pensò, e una risatina isterica gli uscì dalle labbra.

Efestione. Come aveva potuto fare una cosa del genere? Sentì orrore verso sé stesso e un rimorso tanto grande da impedirgli di respirare gli si stava gonfiando nel petto. Lo aveva accusato di avere spinto Ulf a decidere di andare via, quando sapeva benissimo che Ulf desiderava già da tempo tornare a casa. Ma per lui era troppo dura da accettare, non voleva neanche prendere in considerazione l’idea che Ulf non lo avrebbe mai ricambiato. Ulf non lo amava e non lo avrebbe mai fatto. Attalo aveva buttato via due anni della sua vita inseguendo un sogno impossibile.

Improvvisamente si rese conto che Efestione, invece, ne aveva buttati via diciassette. Fu come una bastonata, si sentì un verme. Lui si disperava come un bambino capriccioso, voleva il giocattolo che non poteva avere, mentre Efestione gli era stato vicino per tredici lunghissimi anni, senza mai lamentarsi, senza mai fargli capire quanto soffriva, e alla fine aveva avuto il coraggio di prendere la decisione più dolorosa di tutte: allontanarsi da lui. 

Gli aveva lanciato qualcosa contro e lo aveva colpito, si, ne era certo, lo aveva visto sanguinare, ma non lo aveva aiutato. E poi quel gesto, assurdo, crudele, di baciarlo in quel modo. Cosa voleva fargli pagare? In che cosa aveva sbagliato, Efestione, per meritare quel “bacio”? 

E poi? No, più in là non voleva andare, non voleva ricordare.

Lo aveva insultato. Gli aveva detto cose atroci, che non aveva mai pensato. C’era una sola cosa vera: lui soffriva davvero quando Efestione andava in città. Adesso riusciva ad ammetterlo. Non poteva fare a meno di immaginarselo, avvinto fra le braccia di un giovane sconosciuto, e si sentiva male, soffriva come un cane, arrivava persino al punto di ferirsi le mani e le gambe con il pugnale, per scacciare quell’immagine. 

Efestione si era spogliato, senza lamentarsi, senza ribellarsi. Avrebbe potuto saltargli addosso e picchiarlo tanto da fargli perdere i sensi, era più alto e più forte di lui. E poi lui era ubriaco, quindi ancora più debole. Invece si era semplicemente spogliato e si era girato. Aveva solo sussurrato quel “no, ti prego”. Solo tre parole, che però adesso gli bruciavano dentro come fuoco. 

Quando gli si era appoggiato contro, non voleva più farlo. Voleva solo andare via. Anzi, no. Voleva farlo voltare e poi baciarlo, baciarlo davvero, con dolcezza, e poi toccarlo e farsi toccare da lui… Ma ormai era andato troppo avanti. Il suo orgoglio distorto aveva avuto la meglio e così lo aveva fatto. Fu una sensazione terribile e fantastica, sentì dolore, come se fosse entrato in qualcosa di troppo piccolo, si sentì graffiare la pelle troppo sensibile, ma subito il piacere salì, in un attimo, fino a diventare insopportabile. Era venuto subito, ed era stato grato alla Dea per quello. Ormai il danno era stato fatto, e lui voleva solo scappare.

 Tornato al campo, trovò alcuni suoi uomini seduti intorno al fuoco. Non aveva voglia di andare a dormire, era certo che il rimorso lo avrebbe tormentato per tutta la notte, e il giorno sarebbe arrivato troppo presto. E con il mattino avrebbe dovuto affrontare Efestione. No, non voleva pensarci. Così si sedette con i soldati. Stavano parlando proprio di Efestione. Attalo trovò buffa quella circostanza. Ricordava il racconto di un ufficiale che aveva sentito i suoi uomini parlare intorno ad un fuoco. Quel racconto era stato l’inizio di tutto, era stato quel racconto a fargli trovare Ulf. Stranamente pensò che forse questa volta avrebbe trovato Efestione.

- Certo che il generale Efestione è proprio cambiato. Non lo avrei mai riconosciuto. Dicono che la vita in Egitto sia molto dura. Il caldo, la siccità, e poi le malattie non si contano. Inoltre bisogna sempre stare con gli occhi bene aperti. Dopo tutto noi siamo invasori, laggiù, e non tutti gli indigeni sono d’accordo nel farsi dominare da stranieri. –

- Già, ma non è solo questo. Il generale sembra, come dire… sofferente. Ha un’espressione così seria e malinconica. Io me lo ricordo bene, ho partecipato a tante battaglie sotto il suo comando. Era fiero e determinato ma non perdeva occasione per ridere o scherzare. Era un uomo allegro e aperto. No, non sembra più lui –

- Efestione, dite? Ma non è quello che dicono sia l’amante del nostro Imperatore? –

- No, no, cosa dici? Non è lui! L’Efestione che dici tu a quest’ora sarà beatamente accucciato fra le imperiali cosce! – Uno scroscio di risate riempì l’aria, strappando anche ad Attalo un triste sorriso.

- Hanno soltanto lo stesso nome. Questo Efestione non è certo uno di quelli! Nella mia vita non ho mai conosciuto un uomo tanto virile. Questo, con le donne, è un toro scatenato, ascoltate la mia opinione! –

- E invece ti sbagli, mio caro! – ribatté un altro – Il nostro caro generale preferisce la compagnia maschile. E io lo so per certo. No, non fatevi strane idee, non lo so certo per esperienza personale - rise – ma conosco qualcuno che lo sa molto bene. Dopo tutto non è un mistero, lui non ha mai fatto niente per nasconderlo. Mi stupisco che tu non lo sappia, vecchio mio. Però non hai tutti i torti. A modo suo è davvero un toro, come dici tu. Dicono che non abbia mai permesso a nessuno di metterlo sotto, è lui che guida il gioco e nessun altro. Si racconta che abbia ucciso degli uomini solo perché avevano tentato di… be’, avete capito, no? – 

I commenti continuarono ancora, ma ormai Attalo non sentiva più niente. Aveva i sensi ovattati come se si trovasse dentro un cuscino di piume. Tornando alla sua tenda, si ritrovò a invocare la morte.

 

Capitolo 16

La partenza

Alle prime luci dell’alba Efestione, dopo essersi assicurato che Attalo non fosse ancora in giro, andò alle stalle. Ulf stava preparando il suo cavallo, sistemandogli sulla groppa le bisacce con le provviste. Il viaggio sarebbe stato lungo e pieno di difficoltà, soprattutto per un ragazzo evidentemente ariano come lui. Aveva preparato un mantello con un cappuccio, per nascondere almeno un po’ i suoi capelli esageratamente biondi, ma prima o poi avrebbe dovuto toglierlo, e la gente si sarebbe domandata come mai girava solo, in un’epoca in cui gli ariani in Macedonia non potevano essere altro che schiavi. 

Comunque era pronto, ed era immensamente felice ed eccitato. Finalmente tornava a casa!

Quando Efestione arrivò, Ulf lo accolse con un sorriso. – Sono felice di vederti. Volevo salutarti, ma non solo. Volevo domandarti come stanno andando le cose fra te e Attalo. Perdona la mia curiosità, ti assicuro che non è da me, ma in un certo senso mi sento un po’ responsabile per voi due. –

- Ho saputo che parti. Ne sono felice per te. Alla fine realizzerai il tuo sogno. Purtroppo non è lo stesso per me. Le cose non stanno andando per niente bene – gli occhi di Efestione si riempirono di lacrime.

- No, non devi temere. Il peggio è passato, ormai. D’ora in avanti le cose andranno bene, credimi –

- Davvero? Perdonami, ma non ne sono affatto sicuro. –

- Cosa è successo? –

- Davvero vuoi saperlo? Tutto quello che di peggio poteva succedere. Lui è stato così… non ha avuto nessuna compassione, mi ha fatto più male che ha potuto, in tutti i sensi. E non sto parlando solo del dolore fisico, no, quello posso sopportarlo benissimo, ma è stato tutto il resto. Ha fatto tutto quello che ha potuto per umiliarmi, per togliermi ogni briciola di dignità. Lui mi conosce bene, meglio di chiunque altro, conosce ogni mia debolezza, ogni mio punto debole, ed ha utilizzato quest’arma contro di me. Credo che questa sia la cosa peggiore che si possa fare ad un amico. – Efestione era distrutto. Ulf gli si avvicinò e gli prese entrambe le mani.

- Lo so, so come può essere terribile, a volte. Ma ora è tutto finito. Vedrai! – Aveva gli occhi brillanti e incredibilmente dolci. Efestione sentì uno strano calore che irradiava dalle sue mani. Si, quel ragazzo era davvero speciale, una volta di più capì Attalo, e capì ancora meglio la sua disperazione. Per lui doveva essere davvero una tragedia perderlo.

In quel momento arrivarono quattro soldati a cavallo. Attalo li seguiva a piedi. I quattro soldati sembravano equipaggiati per affrontare un lungo viaggio. Non appena vide Attalo, Efestione si allontanò, ma rimase ad una distanza sufficiente per seguire la scena.

Attalo si avvicinò a Ulf, e per un po’ rimasero a fissarsi senza dire niente. Nessuno dei due sapeva cosa dire. Fu Ulf il primo a parlare.

- Io non so come ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me. Davvero, non so cosa dire. Ti penserò sempre e pregherò la Dea perché tu sia felice – esitò un attimo, poi si gettò fra le braccia di Attalo, scoppiando a piangere. Efestione, che lo guardava da poco lontano, si sentì commuovere, nonostante il suo aspetto da giovane dio, con la sua aria seria e imbronciata da druido, Ulf era soltanto poco più che un bambino. Attalo lo stringeva a sé, anche le sue guance erano solcate dalle lacrime. Ma, stranamente, ad Efestione dava più l’idea di un padre che abbracciava suo figlio. Cosa era successo? Dove era finita tutta la passione che infiammava il cuore di quell’uomo? Ora si tenevano per le mani, ed era Attalo a parlare.

- Ascolta, ho pensato che forse è meglio se questi uomini ti accompagnano. Saranno una specie di guardia del corpo. Hanno l’ordine di stare con te fino al confine. Ti prego di accettare la mia offerta, mi sentirei davvero più tranquillo. –

- Tu… davvero non ce l’hai con me? Io non credevo che mi avresti lasciato andare. Sono così sorpreso, e adesso anche la guardia del corpo… Non riesco quasi a crederci! –

- Nemmeno io! – Attalo rise. – Devo essere impazzito. Mi mancherai così tanto! Ma è giusto così, non avrei risolto niente tenendoti qui contro la tua volontà. Tu saresti stato infelice, e lo sarei stato anch’io.  E poi… - gettò un rapido sguardo verso Efestione. Ulf capì e sorrise. Forse le cose non erano poi così tragiche.

- Sai, in realtà non sapevo se fosse giusto andarmene e lasciarti dopo quello che hai fatto per me. Ma ora sono certo che sia la cosa migliore da fare. La Dea sa cosa è bene e provvede sempre a mettere le cose come devono essere. Io ora me ne vado ma so di lasciarti in buone mani. – Anche lui si girò verso Efestione che a questo punto incominciò ad agitarsi. Si sentiva un po’ troppo osservato, per i suoi gusti.

Ci fu un ultimo abbraccio, poi Ulf salì a cavallo e partì seguito dai quattro soldati. Si voltò a salutare un paio di volte, prima di sparire dietro agli alberi. 

Attalo lo seguì con lo sguardo, e rimase a guardare in quella direzione per un po’. Sentiva dentro di sé uno spazio vuoto, e sapeva che quello spazio non sarebbe mai stato colmato completamente. Ulf era stato davvero molto importante per lui, per due anni era stato tutta la sua vita, e una cosa simile non è facile da cancellare. Ma ora sapeva che la sua vita sarebbe continuata. Si, ora doveva fare una cosa, non era una cosa facile, ma andava fatta. Per un’ultima volta il suo cuore salutò Ulf, poi si voltò. Poco lontano Efestione lo guardava, appoggiato ad un albero. 


Capitolo 17

La resa dei conti

Attalo salì a cavallo e si fermò a qualche metro da Efestione. Quest’ultimo ci mise un po’ a capire che Attalo lo stava aspettando. Così anche lui prese un cavallo e lo seguì. Galopparono per un po’, attraverso i boschi e i prati, infine arrivarono alle rovine di quello che era stato un antico villaggio. Qui Attalo scese da cavallo e cominciò a girovagare fra le mura, guardandosi intorno e appoggiando di tanto in tanto le mani sulle pietre corrose dal tempo e ricoperte dal muschio. Quel posto gli piaceva. Ci andava spesso quando voleva restare solo e riflettere. Efestione lo seguiva, imbarazzato. 

- E’ sorprendente che qui, proprio qui dove siamo adesso noi, su questi selciati, fra queste mura, una volta viveva della gente, persone che avevano una vita, e amici e parenti, e ora sono morte, da chissà quante centinaia di anni... Da così tanto tempo... - Attalo si fermò – Tempo… - sussurrò. – Diciassette anni… - si voltò verso Efestione. Per lui non era affatto facile. Era un uomo tremendamente orgoglioso, poteva sopportare tutto, la fame, la sete, il dolore, era sopravvissuto a decine di battaglie, era guarito da ferite che sembravano senza speranza. Ma chiedere scusa, no, non ricordava di averlo mai fatto.

- Io… ti prego di perdonarmi – ecco, l’aveva detto ed era ancora vivo – per tutto, per quella notte di diciassette anni fa, per quell’altra volta, per ieri sera, per tutta la tua dannatissima vita, per averti obbligato ad andare in Egitto, per tutto quello che ti ho fatto e anche per tutto quello che non so di averti fatto, per tutto. – Efestione fece per parlare ma Attalo, con un gesto rabbioso lo zittì – e non fiatare! Non è da me chiedere scusa, non l’ho mai fatto e ti assicuro che questa è l’ultima volta, quindi ti conviene tacere e accettare. –

 Efestione si sentiva girare la testa. Era al colmo dello stupore e una gioia folle incominciava a salirgli nel petto. Si avvicinò all’amico, voleva abbracciarlo, ma anche stavolta Attalo lo fermò. Poi cominciò a spogliarsi, così, all’improvviso. Quando ebbe finito si voltò verso un muro e vi si appoggiò contro. – Avanti! – disse deciso. Efestione si sentì ripiombare nell’incubo. E adesso cosa si stava inventando quella testa matta?

- Avanti, ho detto, fallo! - - Fare cosa? – chiese Efestione.

- Non hai capito? Devi fare quello che io ho fatto a te. E’ semplice, no? Occhio per occhio, dente per dente. Solo così saremo pari, il mio debito sarà saldato e potremo cominciare tutto da capo. –

- Ma cosa stai dicendo? Io non ho nessuna intenzione di fare niente del genere. Tu sei impazzito! – e fece per andarsene. Attalo lo chiamò – Efestione! – La sua voce aveva un tono di supplica. 

- No, - rispose Efestione, fermandosi e tornando verso l’amico - ti prego, non chiedermi questo. Io non posso farlo. Non così. –

Si avvicinò all’amico e si gettò ai suoi piedi, abbracciandogli le ginocchia. – Tu eri ubriaco, e sconvolto e arrabbiato. Io non sono niente di tutto questo, io… ti amo. Si, ti amo, e tutto quello che voglio è renderti felice. Io non posso farti del male, non voglio e tu non puoi chiedermelo. – 

Attalo rimase paralizzato. Efestione gli aveva detto “Ti amo”. Non “ti voglio”, o “ti desidero”, no. “Ti amo”. Lo prese per il viso e lo fece alzare. I loro occhi si incontrarono, umidi di lacrime.

- Io non lo sapevo, te lo giuro, non l’ho fatto apposta. Io credevo che per te fosse… normale, che ci fossi abituato. Non volevo farti male, davvero! Volevo umiliarti, questo si, volevo farti pagare per tutte le volte che ti ho desiderato, per tutte le volte che sono impazzito di gelosia, invece è sempre stata tutta colpa mia, e adesso mi dispiace così tanto! –

 Efestione fermò quel flusso di parole con la sua bocca. Adesso basta, non voleva più sentirlo parlare, in quei giorni c’erano state troppe parole e troppo dolore. Ora era tutto finito. 

Attalo era lì, fra le sue braccia. Così, nudo, sembrava stranamente indifeso. Efestione si spogliò, lentamente, come aveva fatto quella maledetta notte, ma ora aveva tutta l’intenzione di cancellare quel terribile ricordo.

Con delicatezza, fece sdraiare Attalo, e ricominciò a baciarlo. – Dimmi che non lo farai! – sussurrò – Fare cosa ? – Chiese Attalo, senza fiato – Dimmi che non mi fermerai, che non mi dirai che siamo solo amici, che non mi picchierai – Attalo sorrise – No, questa volta non ti fermerò –

Efestione continuò a baciarlo sul viso, poi scese inumidendogli la gola, poi il torace, arrivò ai capezzoli, e qui si soffermò a lungo, succhiando e mordendo dolcemente. I gemiti di Attalo erano sempre più forti, Efestione era inebriato e pazzo di gioia. Si, adesso gli avrebbe mostrato tutto quello che si era perso in tutto quel tempo, quello che entrambi avevano perso. Perché con nessuno mai aveva provato quello che stava provando ora, per lui era sempre stato soltanto sesso, a volte regalato, più spesso comprato, ma mai, mai donato con amore. Scese ancora, le mani che percorrevano tutta la pelle, toccavano, tastavano come per assicurarsi che Attalo fosse veramente lì, che non era uno dei suoi sogni. Ora era arrivato dove voleva, sentiva Attalo ansimare e poi trattenere il fiato. Passò la lingua su tutta la lunghezza, poi si soffermò sulla punta, torturandone la superficie lucida e scura, poi lo inghiottì, spingendoselo in gola il più possibile. Attalo gridò. Cominciò a pompare, prima piano, poi sempre più velocemente. Ogni tanto rallentava, non voleva che finisse subito, ma Attalo smaniava, muoveva i fianchi spingendo nella bocca, lo prendeva per i capelli e cercava di farlo accelerare. Allora si tolse – No, no ti prego, non fermarti adesso!– Attalo ansimava, frustrato e disperato. Ma Efestione fu implacabile. Con una intollerabile dolcezza riprese a baciarlo sul ventre e fra le cosce, intento sbirciava verso l’alto, lungo la pelle abbronzata e liscia, coperta di gocce di sudore, piccole e brillanti come rugiada, e più su, lungo la gola e poi il viso. Si, ora quel viso era come lo aveva sempre sognato, schiudeva le labbra, stringeva i denti, cambiava come le onde del mare mentre sempre nuove ondate di piacere lo facevano gemere e ansimare. Si, ora era in suo potere, era completamente suo.

Alzò una mano, per un attimo accarezzò  quel viso, poi introdusse due dita nella bocca, Attalo le succhiò, avidamente. Con lentezza portò le dita, umide, all’interno della fessura, accarezzandone l’entrata. Attalo si immobilizzò, il suo cuore prese a battere ancora più velocemente. Efestione lo riprese nella bocca e ricominciò a succhiare, piano, quindi infilò un dito, massaggiando dolcemente. Non voleva fargli male, no, non se lo sarebbe perdonato, ma sapeva anche che era inevitabile. Spinse il dito più su, fino a raggiungere quello che cercava, un punto particolarmente sensibile, e lo accarezzò. Attalo ricominciò a gemere, allora Efestione infilò un altro dito. Dopo poco sentì che Attalo si stava muovendo, assecondando i suoi movimenti. Ora era pronto. E anche lui era ormai al limite, soltanto il vedere l’amico in quello stato lo stava portando alle soglie dell’orgasmo. Gli alzò le gambe e si chinò per inumidirlo il più possibile, baciandolo e lasciando scie di saliva. Poi appoggiò la punta. Guardò Attalo in viso, anche lui lo stava guardando, era in attesa, ma aveva anche paura. Efestione annuì, come per rassicurarlo, per fargli capire che sarebbe andato tutto bene, Attalo capì e sorrise, timidamente. Così, lentamente ma senza fermarsi, entrò. Attalo gettò la testa all’indietro, stringendo i denti. Ecco, lo sapeva, gli aveva fatto male. Si morse le labbra, come per punirsi, ma poi sentì Attalo che si muoveva, su  e giù. Allora anche lui cominciò a muoversi, piano, togliendosi quasi completamente, e poi riaffondando. Attalo gemeva forte adesso, stringendo i denti, la testa scattava  da una parte e dall’altra, le mani artigliavano l’aria. Efestione si muoveva sempre più forte, non avrebbe resistito ancora a lungo. Improvvisamente Attalo si tirò su, lo prese per le spalle e lo attirò a sé,  imprigionandogli la bocca. Poi si staccò, e lo fissò negli occhi con uno sguardo quasi allucinato. Poi tutto il suo corpo tremò, e Attalo si inarcò all’indietro, gridando. Un fiotto caldo uscì con violenza, andando a picchiare sul suo petto e persino sul mento e sulle labbra. Efestione cedette, con un grido trattenuto esplose. Attalo si sentì inondare da quel liquido caldo, sentì ogni pulsazione, ogni strappo. Guardò l’amico e lo vide in preda all’estasi. In quel momento si sentì felice e appagato come non lo era mai stato, e una sensazione di gioia lo pervase. Ecco, era tutto così semplice adesso. Tutto dimenticato. Efestione si lasciò andare contro di lui, senza forze, le gambe e le braccia abbandonate. Attalo allacciò le sue braccia intorno all’amico, mollemente, uno stupido sorriso gli aleggiava sulla faccia. Rimasero così, abbracciati, uniti, sereni. Ora erano insieme e lo sarebbero stati per sempre.     

 Non appena ebbero recuperato le forze, si alzarono. Lì vicino c’era un ruscello, l’acqua era terribilmente fredda, ma i due amici entrarono decisi, rabbrividendo e ridendo. Si sentivano come due ragazzini, anzi, meglio, perché in realtà nessuno dei due era mai stato veramente ragazzino, tutti presi com’erano a diventare uomini. Si tuffavano, si tiravano l’acqua e fingevano di lottare, buttandosi giù l’un l’altro. E ridevano, non riuscivano a smettere un istante di ridere. 

Poi si sedettero sulla riva, al sole. 

- E’ gelata! – gridò Attalo, scuotendosi e pestando i piedi. 

- Adesso ti scaldo io! – Efestione lo abbracciò, sempre ridendo, e ancora si baciarono.

- Sai una cosa? D’ora in avanti non farò nient’altro, voglio baciarti, voglio averti, approfitterò di ogni momento libero, in qualsiasi posto saremo troverò sempre un posticino buio dove trascinarti. Adesso non potrai più liberarti di me, mai. – Attalo rise. Si sentiva felice.

 Efestione si sdraiò e Attalo gli appoggiò la testa sul petto. - Come è successo? – chiese Attalo.

- Successo cosa? –

- Che ti sei innamorato di me! –

- Tu non ci crederai, ma è successo subito la prima volta che ti ho visto. E pensare che eri così ridicolo! Lungo lungo e spaventosamente magro. Eri il ragazzo più sgraziato che avessi mai visto, le mani ti toccavano quasi le ginocchia! -  Rise – Ma eri anche il più bello. In quel momento ho capito che le femmine non facevano per me. Anzi, ho capito che solo tu facevi per me, ed è quello che penso ancora adesso. –

Efestione fissava il cielo, perso nei ricordi. Ricordava la prima volta che aveva visto Attalo, come era rimasto incantato dalla sua pelle quasi olivastra, dai suoi occhi obliqui, vagamente orientali, dai suoi capelli neri e lisci come seta. Allora era più alto di lui, era cresciuto troppo velocemente ed era davvero sproporzionato. Ma il tempo e l’allenamento avevano messo tutto a posto, le spalle si erano allargate e i muscoli si erano sviluppati. A vent’anni Attalo aveva un fisico da statua greca. Stranamente per un ragazzo dalla carnagione scura, aveva pochissimi peli sul corpo, solo qualcuno sulle gambe e sugli avambracci, e questo faceva impazzire Efestione. Quante notti aveva perso, sognando quella pelle liscia e vellutata! Mentre in cinque anni Attalo era cresciuto solo di pochi centimetri, Efestione ne aveva messi su una ventina, diventando dieci centimetri più alto di Attalo. Il suo fisico aveva una struttura diversa, più pesante, a vent’anni aveva un aspetto imponente e si compiaceva di incutere una certa soggezione, un certo timore.  Aveva ereditato la pelle chiara della madre, ma il tempo che passava all’aperto lo manteneva sempre abbronzato, e questo faceva risaltare i suoi occhi azzurri, rendendo il suo sguardo gelido e tagliente. Tutto questo era buona cosa, per un giovane deciso a diventare qualcuno, nell’esercito.

Tutti lo notavano, e ben presto si era reso conto di provocare strane reazioni in chi lo circondava. Aveva dovuto subire la corte asfissiante di un paio di ufficiali, ma lui non aveva mai ceduto. Non voleva andare con persone più vecchie di lui, il suo orgoglio gli impediva di mettersi in situazioni in cui lui fosse stato in qualche modo inferiore. Le sue prime esperienze le aveva fatte con i coetanei, poi aveva sempre preferito ragazzi più giovani. Con loro era più facile gestire il rapporto, difficilmente pretendevano di prendere l’iniziativa. Se Attalo era convinto che un vero uomo non sarebbe mai giaciuto con una persona del suo sesso, Efestione era altrettanto convinto che un vero uomo non si sarebbe mai fatto mettere sotto. Certamente non lui. Per questo Attalo era riuscito ad umiliarlo così tanto e a fargli tanto male.

Fu strappato dai ricordi da Attalo. Gli si era messo a cavalcioni sulla pancia, e ora lo guardava, passandogli le mani sul corpo, sulle braccia, sul petto, sul viso. Passava con le dita da una cicatrice all’altra, accarezzandole. Lui le conosceva bene, tutte quante, di ognuna conosceva la storia, sapeva dove gli erano state inferte e come,  molte le aveva ricucite lui stesso. Fu invaso dalla tenerezza all’idea che, in fondo loro due avevano passato una vita insieme. Avevano in comune quasi tutti i ricordi, conoscevano le stesse persone, avevano gli stessi amici e persino gli stessi nemici. Proprio come una coppia sposata da lungo tempo. 

Incominciò a baciare quelle cicatrici, una dopo l’altra, passando la lingua sulla pelle, assaporandone ogni centimetro.

Salì a baciargli il viso, anche lì c’erano cicatrici, quella sullo zigomo, e quella che gli spezzava in due il sopracciglio, e una sul labbro. Sulla fronte trovò il taglio che gli aveva fatto lui solo il giorno prima. Dio, sembrava passata un’eternità da allora. Passò la lingua anche su quella ferita.

Efestione non si muoveva, non emetteva un suono, aveva il respiro solo un po’ accelerato. Attalo scese fino a raggiungere i capezzoli, ne strinse uno fra le labbra, poi lo baciò, lo leccò e lo succhiò. Poi passò all’altro. Ancora Efestione rimaneva immobile. Attalo cominciò a preoccuparsi, forse non stava facendo la cosa giusta, dopotutto era la prima volta che stava con un uomo. L’istinto gli diceva che stava andando bene, ma Efestione non reagiva, sembrava non sentisse niente.

Così si rimise a cavalcioni. 

- Cosa c’è? Non va bene? – chiese pieno di apprensione – Se sto facendo qualcosa di sbagliato, dimmelo. Certo non sono un campione di esperienza in queste cose, ma voglio imparare. Voglio darti tutto quello che posso, perciò se c’è qualcosa che vuoi che io faccia, ti prego di dirmelo. – 

Efestione lo guardò. No, non c’era niente di sbagliato in quello che stava facendo, anzi, lo stava facendo impazzire. Era la prima volta che permetteva a qualcuno di toccarlo in quel modo. E ora più che mai era convinto che lo avrebbe permesso solo ad Attalo. Però non riusciva a lasciarsi andare. Sapeva dove tutto questo avrebbe portato, e con stupore si rese conto di essere terrorizzato. 

- No, va bene, è solo che io… bè, io non ci sono abituato, ecco tutto. –

Attalo cominciò a capire.  

- Ancora quella storia… Si, è vero, me ne ero scordato… Però adesso tutto deve cambiare – disse Attalo, con convinzione – Adesso stai con me, e io non sono uno qualunque di quei tuoi ragazzini. No, bello mio, adesso ti assicuro che la musica cambia. Io non starò soltanto a farmi spupazzare da te, il generale, il grande condottiero! Oh, no! Io sono generale e condottiero tanto quanto te, e sono un soldato, e un uomo! Il tuo uomo! E come tale rivendico il possesso del tuo corpo, tutto quanto, niente escluso. Anche quel buchino è mio, come tutto il resto, e perciò io ne farò quello che voglio. Ci siamo capiti? – Mentre parlava gli aveva bloccato le mani sopra la testa. Efestione aveva un sorriso divertito sulla faccia. Si, quest’uomo era davvero un povero pazzo, e lui lo amava da morire. Attalo assunse un’espressione ancora più minacciosa – E adesso cerca di metterci un po’ di impegno e godi, altrimenti mi incazzo! –

Risero, la tensione era spezzata ed Efestione sembrava più rilassato, anche se la sua aria preoccupata non era ancora scomparsa completamente.

Attalo ricominciò il suo lavoro intorno ai capezzoli, e questa volta fu ricompensato da timidi gemiti. Agguerrito, scese in basso, ma quando se lo trovò davanti buona parte della sua sicurezza si infranse. E adesso? Lui era stato con qualche donna, anche se non molte, perciò non aveva avuto particolari problemi con il resto del corpo, non era uguale ma abbastanza simile, ma questo? Era una cosa del tutto diversa.

Allora cercò di immaginare cosa sarebbe piaciuto a lui, così cominciò. Sulle prime gli sembrò strano sentirsi in bocca quella cosa ingombrante e vagamente salata, morbida e dura allo stesso tempo, ma poi divenne tutto terribilmente eccitante. Efestione si stava sciogliendo, e gemeva più forte. Improvvisamente gli afferrò la testa e glielo spinse tutto in gola, Attalo si sentì soffocare, annaspò e afferrò le mani di Efestione cercando si strapparsele dalla testa. Con uno strappo si liberò. – Cosa diavolo stai facendo? Mi vuoi soffocare! Adesso te la faccio pagare! – Di scatto gli alzò le gambe, e si piazzò in mezzo. Cominciò a leccarlo proprio in mezzo alla fessura, dolcemente. Poi introdusse la lingua, per quanto riuscì, e infine succhiò, con forza. La pelle tenera dell’interno uscì, morbida e calda. Efestione intercalava i gemiti con dei singhiozzi, sembrava sul punto di piangere. Allora Attalo si rialzò e si appoggiò all’entrata, come aveva fatto quella sera.

Maledizione! Sarebbe mai riuscito a dimenticare? Non voleva ricordare quel gesto crudele, ogni volta che avesse fatto l’amore con Efestione.

Lo guardò, vide che stringeva gli occhi. Aveva davvero paura. Però ricordò cosa aveva provato lui, anche lui aveva avuto paura, ma poi era stato tutto così bello! Pensò a quello che aveva dovuto superare lui, alle barriere che aveva dovuto abbattere. In fondo le barriere di Efestione erano più basse. O no?

Si decise, e più dolcemente che poté si spinse dentro. Efestione si inarcò singhiozzando.

No, non era come era successo a lui, Efestione soffriva davvero! Attalo inorridì, era colpa sua, ancora colpa sua. Si, ora capiva, quella sera gli aveva fatto più male di quanto aveva pensato. Fece per togliersi, ma Efestione lo fermò – No, non ti fermare! -  - Ma stai soffrendo! Oh. Mio Dio, c’è sangue, tu stai perdendo sangue! Cosa ho fatto… - Attalo era disperato, non avrebbe mai smesso di combinare casini?

- Non importa, davvero, non fermarti. Se non lo faccio ora, so che non ne avrò  mai più il coraggio. Avanti! –

Attalo non sapeva cosa fare, allora cercò di rendere la cosa più dolce possibile. Rimase fermo per un po’, poi prese nella mano il pene di Efestione, che il dolore aveva ridotto ad uno straccetto, e cominciò a massaggiare, salendo e scendendo, con dolcezza, accarezzandone la punta. Piano piano lo sentì riprendere vigore. Allora con le mani salì ad accarezzargli i capezzoli e il ventre piatto. Si piegò verso di lui e sussurrò – Ti amo – Voleva che Efestione lo sentisse, voleva fargli capire che lui era lì, e non lo avrebbe mai lasciato. Nonostante il dolore, Efestione aveva cominciato a muovere i fianchi, invitando anche Attalo a muoversi dentro di lui. Ad ogni movimento, però, Efestione emetteva un gemito, per metà di piacere ma per metà anche di dolore.

Quella notte era stato terribile. Quando Attalo era entrato in lui con violenza, così, a sangue freddo, lui si era sentito squartare. La pelle delicata dell’interno si era spaccata. Ora le ferite si erano riaperte e bruciavano come fuoco.

Però dietro c’era qualcos’altro. Una sensazione prima indefinita e poi più riconoscibile. Il piacere era partito da qualche parte nel suo interno e si era presto diffuso in ogni sua fibra, in ogni muscolo, in ogni vena. Ogni parte del suo corpo ora gridava di piacere, mettendo il dolore in secondo piano.

Fu Attalo il primo a venire. Non poteva più resistere. Guardava Efestione, bello come non lo aveva mai visto. E così, abbandonato a lui, senza difese. Ora ne era certo, in quel modo non lo aveva mai visto nessuno, era un privilegio che toccava soltanto a lui. A quel pensiero non riuscì più a trattenersi.

Efestione lo sentì dentro di sé, mentre veniva. Era la sensazione più dolce del mondo. Immediatamente lo seguì.

 Ora lo sapeva, per tutti quegli anni, nonostante tutto, avevano mantenuto una parte di loro perfettamente intatta, una parte che ora si erano donati l’un l’altro.

 Soltanto al tramonto risalirono a cavallo e tornarono all’accampamento.

 FINE

 

 


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