Due cose, prima di cominciare:
1)
Questo racconto è ambientato all’epoca di Alessandro il Grande,
in Macedonia. Però, durante la stesura si sono infilati, non so come,
elementi che appartengono più all’Impero Romano che a quello Macedone
(tipo le matrone e i senatori). Inoltre i Macedoni non hanno mai
sottomesso i popoli dell’Europa Centrale, come invece accade qui. Però
il racconto mi suonava bene così. Dopo tutto è un Fantasy, quindi può
succedere di tutto, no?
2)
I personaggi sono miei, e durante la stesura del racconto mi sono
davvero molto affezionata a loro, tanto da soffrire e gioire con loro. Non
vi chiedo tanto, ma spero che, conoscendoli, possiate volere loro un po’
di bene.
Buona lettura!
Il Lupo
Bianco
di Schwarze
Fee
Prologo
La
prima volta che Ulf vide la Dea aveva cinque anni.
Ulf
apparteneva alla tribù del Lupo Grigio. Tutti dicevano che era un bambino alto
e forte per la sua età, in effetti era quasi alto come Arne, che aveva due anni
più di lui. Arne era il suo fratello adottivo, anche se lui gli voleva bene
come a un fratello vero. Dato che Arne era stato adottato prima che lui
nascesse, se lo vedeva girare in torno da sempre. Cos'era un vero fratello se
non questo? Del resto si assomigliavano molto.
Quel
giorno si trovavano nella Radura, nel Bosco delle Querce.
Lui
e Arne ci andavano spesso a giocare, era il loro rifugio, il loro
"posto". Di solito non ci andava mai nessuno perchè in realtà quello
era un luogo sacro, usato solo durante le cerimonie. Certo era vietato andarci
per una cosa stupida come giocare, ma Ulf era convinto che non ci fosse nulla di
male. Lui "sentiva" certe cose, era come se percepisse attraverso la
pelle l'energia che emanava dalla terra, sentiva le piante e gli animali. Non
sapeva spiegarlo ma quel luogo lo faceva sentire bene. Era un posto
"buono". Sapeva per certo che, anche se gli adulti li avrebbero puniti
trovandoli lì, la Dea non lo avrebbe fatto, anzi, ne sarebbe stata felice.
La
Dea si trovava in fondo, dove la Radura si chiudeva. Al di là non ci erano mai
andati perchè il bosco si faceva fitto. Se ne stava in piedi e li guardava.
Aveva l'aspetto di una cerva, una bella cerva rossa, con una macchia bianca
sulla fronte. Ulf la riconobbe subito, non sapeva spiegarsi come, ma sapeva che
era Lei, non poteva essere altro. Rimase come incantato a guardarla. Sarebbe
rimasto così per sempre. Da Lei emanava un'energia buona, come un calore di...
di mamma. La sua mente di bambino non sapeva trovare un paragone più adatto.
Stranamente
anche Arne la riconobbe, e ne fu terrorizzato. Sapeva del dono di Ulf, ma lui
non aveva mai provato niente del genere. Per lui le piante erano piante, davano
ombra d'estate e legna d'inverno, e gli animali erano buoni da mangiare. Lui era
un guerriero e non aveva tempo per simili stupidaggini. Però adesso la
riconosceva, sentiva un po' di quel calore che sentiva Ulf e, anche se era
piacevole, non gli piaceva affatto. Non lo capiva e non sapeva come combatterlo
e questo lo faceva sentire impotente. E poi alla sua età già conosceva alcuni
degli insegnamenti dello Sciamano. Sapeva che chi vede la Dea e la riconosce è
destinato a diventare un potente Sciamano, oppure è presagio di morte.
Arne
aveva solo sette anni ma sapeva per certo che non sarebbe diventato
Sciamano.
Capitolo
1
La preda
Fu
dopo due giorni che Ulf catturò la sua prima preda. Già da dieci giorni
tenevano d'occhio la tana di un coniglio. Se lo erano lasciato sfuggire per due
volte, ma Ulf era sicuro che sarebbero riusciti a prenderlo. Ulf era appostato
immobile dietro la tana già da parecchio tempo e l'unica cosa che gli impediva
di addormentarsi era la sensazione che da un momento all'altro sarebbero
iniziati i crampi causati dalla prolungata immobilità. Improvvisamente se lo
trovò davanti. Fu un attimo. Agì d'istinto. Senza sapere come, si trovò una
zampa del coniglio fra le mani. L'animaletto si divincolava e scalciava con le
tre zampe libere, graffiandogli le mani. Non era molto grosso, ma la
disperazione gli dava un'incredibile forza. Faceva un male tremendo, ma Ulf non
lo avrebbe lasciato nemmeno se si fosse ridotto a tenerlo con dei moncherini.
Sentiva la paura del coniglio, per un attimo fu sul punto di lasciarlo andare.
Allora ricordò gli insegnamenti di suo padre: quando i cacciatori partono per
la caccia, donano la loro vita al cinghiale. Durante una cerimonia pregano la
Dea, sotto forma di Scrofa, di dare loro una buona caccia, però in cambio
mettono la loro vita a Sua disposizione. Il cinghiale si sacrificherà per il
benessere della tribù, però può anche capitare che deve essere il cacciatore
a sacrificarsi.
Così
Ulf prese una decisione: in cambio della vita del coniglio offrì alla Dea il
suo sangue e il dolore che il coniglio gli stava provocando. Pensò che non era
molto, ma lui aveva solo cinque anni e forse la Dea si sarebbe accontentata. Fu
allora che Arne intervenne. Prese il coniglio per la pelle della schiena e lo
sbatté contro un albero.
Poi,
colmo di gioia, sollevò il fratellino da terra e lo fece girare, gridando di
felicità. Con reverenza guardò le mani di Ulf, andò a prendere il sacchetto
di pelle di cervo in cui tenevano dell'acqua, e gliele lavò. Per tutto il tempo
non fece altro che rivolgere a Ulf un sorriso pieno di affetto e orgoglio. Ulf
si sentiva scaldare da quel sorriso, aveva gli occhi che brillavano e le guance
rosse per l'imbarazzo. Sentiva che Arne era fiero di lui e per questo si sentiva
soffocare dalla gioia. Pensò che voleva bene ad Arne e che gliene avrebbe
sempre voluto.
Improvvisamente
ebbe una sensazione terribile, come se un pezzo di ghiaccio si fosse formato
dentro di lui. Durò solo un attimo, tanto che poi pensò di esserselo solo
immaginato, ma in quel momento si spaventò a morte. Arne lo vide impallidire e
vacillare.
-
Cos'hai? Non ti senti bene?- - No... niente... niente - Tentò di sorridere. Arne era
tanto felice che dimenticò subito l'episodio, dando la colpa alla stanchezza e
all'emozione. Ma Ulf ripensò a lungo a quella sensazione; non sapeva cos'era,
ma era certo che, in qualche modo, riguardava Arne.
Per
la loro gente, popolo di cacciatori, quando un bambino catturava da solo la
prima preda, anche se si trattava solo di un coniglio, era motivo di grande
gioia e festeggiamenti. E più il bambino era piccolo più veniva festeggiato.
Con
il coniglio in una mano e una mano di Ulf nell'altra, Arne fece ritorno al
villaggio, gonfio d'orgoglio
-
La prima preda! - gridava, - Ulf ha catturato la sua prima preda! - Lo portò
dritto alla capanna di suo padre. - Guarda Olaf, tuo figlio ha catturato questo
coniglio, è la sua prima preda! - e mostrava fiero le mani di Ulf graffiate e
sanguinanti, a prova del suo coraggio. Olaf prese il figlio fra le braccia e lo
sollevò in aria ridendo, mente Gudrun, la madre del piccolo, lo guardava
sorridendo piena d'orgoglio. Era felice per Ulf, ma anche per Arne che,
nonostante non fosse il vero fratello di Ulf, si comportava come se lo fosse. La
madre di Arne era morta dandolo alla luce, così il padre, il capo del
villaggio, lo aveva affidato a Olaf, il suo migliore amico e grande cacciatore.
Due anni dopo anche lui era morto. Olaf aveva preso la guida del villaggio.
L'anno
seguente era nato Ulf. Tra i due bambini si era creato un legame molto forte.
Nessuno
allora immaginava quanto forte sarebbe diventato.
Quella
sera si fece festa, si mangiò anche il coniglio e la porzione più grande fu
data a Ulf.
Capitolo
2
Il presagio
La
seconda volta che videro la Dea fu esattamente dieci anni dopo, esattamente
nello stesso posto. Anche quella volta la riconobbero immediatamente.
Dieci
anni prima erano seduti sotto la Grande Quercia e stavano costruendo un arco con
dei ramoscelli. Ora stavano sotto lo stesso albero, ma non erano più dei
bambini.
Arne
era diventato alto e imponente. A diciassette anni superava in statura la
maggior parte degli uomini adulti del villaggio e pochi di loro potevano
sfidarlo ad un incontro di lotta e sperare di poterlo battere. Come aveva sempre
desiderato, era diventato un abile cacciatore. Durante la sua prima caccia, a
quindici anni, aveva ucciso da solo ben tre cinghiali. Come tutti i cacciatori
portava una tunica di pelle di cervo; i capelli erano sciolti sulla schiena,
solo la parte anteriore era divisa in due e raccolta in due trecce che
scendevano ad incorniciare il viso abbronzato. La sua pelle era più scura di
quella della maggior parte degli Ariani perchè sua madre veniva da un paese
molto lontano, verso sud-ovest, il naso era lungo e sottile e le labbra carnose
come quelle della madre, i capelli, biondissimi da bambino, crescendo si erano
un po' scuriti assumendo una tonalità color miele, mentre gli occhi erano
azzurri e ridenti, come quelli del padre, e avevano un'espressione furba e
spavalda. Ancora non portava la barba perchè quella era solo per gli uomini
ammogliati.
Ulf
invece aveva ancora l'aspetto del ragazzino, era più alto della maggior parte
dei suoi coetanei, ma aveva mantenuto un fisico esile. Nessuno avrebbe detto che
era in realtà molto forte. La pelle era bianchissima, e anche i capelli erano
rimasti chiari come quando era bambino. Li teneva ancora raccolti in una treccia
perchè non aveva fatto la sua prima caccia, perciò non era ancora un vero
cacciatore. Per lo stesso motivo non indossava la tunica ma il corto gonnellino
destinato ai ragazzini. Il naso era piccolo e un po' a "patata",
mentre la bocca era piccola e ben fatta, con il labbro inferiore leggermente più
carnoso di quello superiore, cosa che gli dava un'aria perennemente imbronciata.
Gli occhi erano invece grandi e pensosi, di una tonalità di azzurro
chiarissima. Le ciglia e le sopracciglia erano talmente chiare da essere quasi
invisibili e questo gli dava un'espressione un po' indefinita. Chi lo vedeva per
la prima volta non riusciva mai a capire subito com'era la sua faccia, doveva
riguardarlo una seconda volta. Ma una volta guardatolo bene, si rendeva conto
che il ragazzo possedeva una bellezza incredibile, un po' eterea, come se invece
di una persona in carne e ossa fosse stato uno spirito, uno di quelli che
popolavano le leggende di quel popolo. Arne era l'unico che lo paragonava alla
cosa più simile a lui di cui parlavano le leggende: una fata. Si, Ulf aveva il
viso di una fata.
In
tutti quegli anni aveva coltivato il suo Dono, lo Sciamano Lupo Grigio lo aveva
preso sotto la sua ala e lo aveva iniziato alle sue Arti. Quel ragazzo, pensava
lo Sciamano, era un dono della Dea, sarebbe diventato un grande Sacerdote.
Quel
giorno Ulf e Arne non pensavano alla caccia, ne' al Dono, ne' a null'altro. Ulf
se ne stava sdraiato su una stuoia di erba che loro stessi avevano intrecciato,
con gli occhi chiusi e le mani dietro la testa. Sul suo viso aleggiava un
sorriso soddisfatto. Allungò una mano e strappò un filo d'erba, mettendoselo
poi in bocca. Arne stava coricato al suo fianco e lo guardava. Con una mano si
reggeva pigramente la testa, mentre con l'altra accarezzava Ulf lungo il corpo.
Ogni tanto gli posava un bacio sul collo o sulle labbra. Avevano appena finito
di fare l'amore e ora erano perfettamente rilassati e dimentichi di tutto.
Nessuno
dei due avrebbe saputo dire come tutto era cominciato. All'inizio era stato
soltanto un gioco. Fin da quando era molto piccolo, capitava che nel cuore della
notte Ulf si svegliasse sulla sua stuoia e sentisse il bisogno di qualcuno che
lo coccolasse. Certo non poteva andare dalla madre, che lo avrebbe cacciato.
Cercare coccole non si addiceva ad un futuro cacciatore. Così si intrufolava
nel letto di Arne. Arne non lo avrebbe mai confessato, ma a volte non riusciva a
prendere sonno e restava sveglio con la speranza che Ulf si accoccolasse vicino
a lui. Era bellissimo sentirlo vicino, sentire il suo corpicino caldo che si
stringeva al suo. Aveva imparato ad accarezzarlo lungo la schiena, poi lungo il
ventre. Faceva scorrere le sue mani sulle spalle e sulle braccia. A quel
contatto Ulf mugugnava di beatitudine e si stringeva ancora di più a lui. Gli
anni erano passati, ma quell'abitudine era rimasta. Ulf aveva ormai quattordici
anni, e quando si intrufolava nel letto del fratello stava bene attento a non
farsi sentire dai suoi genitori. Non sapeva bene il perchè, dopo tutto non
faceva niente di male, ma sentiva che comunque a loro non sarebbe piaciuto.
Inoltre non era bene che un ragazzo alle soglie della sua prima caccia cercasse
ancora le coccole.
Un
giorno erano sotto la loro quercia, sdraiati uno accanto all'altro, quando Ulf
si era accoccolato accanto ad Arne. Arne era stato preso alla sprovvista. Fare
quel gioco sotto le coperte, al buio, era una cosa, farlo così, alla luce del
sole, era tutta un'altra cosa. Arne si sentiva imbarazzatissimo, ma Ulf si
stringeva a lui con tanta innocenza che non seppe dire di no. Mentre lo
accarezzava lo guardava: Ulf era bellissimo, si strusciava contro di lui come un
gatto e cambiava posizione per permettergli di accarezzarlo sempre in nuovi
posti. Arne sentiva una sensazione strana, una particolare eccitazione. Sentiva
il suo corpo reagire a quel contatto come non gli era mai capitato. Sentiva che
anche per Ulf era la stessa cosa. Anche Ulf lo stava guardando, teneva gli occhi
e le labbra socchiusi, era rosso come il sole al tramonto, ma continuava a
cercare le sue carezze. Arne ebbe improvvisamente il dubbio che ciò che stava
accadendo non era del tutto normale, ma non riusciva a smettere. Si faceva
sempre più intraprendente e lo accarezzava anche in zone dove non avrebbe mai
pensato di toccare un altro ragazzo. E Ulf sembrava gradire, il suo respiro era
accelerato e ogni tanto gli sfuggiva un gemito. Ma le sorprese non erano finite.
Ulf cominciò a ricambiare le sue carezze. Lo faceva timidamente, come se non
sapesse bene dove toccare e come, ma sembrava smanioso di ricambiare il piacere
che provava. Arne era sconvolto. Si sentiva come se dentro di lui ci fosse un
incendio. Sentiva tutti i suoi muscoli tendersi e il sangue scorrere più
velocemente. La sua pelle era diventata incredibilmente sensibile e reagiva a
qualsiasi sollecitazione, anche la più debole. Senza sapere bene cosa stesse
facendo, fece sdraiare Ulf e si sdraiò sopra di lui. Sentiva i loro corpi
aderire come se fossero stati fatti per quel momento. Con infinita sorpresa sentì
che il corpo di Ulf stava reagendo proprio come il suo. Sentì prepotente il
bisogno di vederlo. Si alzò e, sempre fissando Ulf, gli tolse il gonnellino,
poi si tolse la tunica. Rimasero nudi. Erano entrambi rossi come il fuoco, più
per l'imbarazzo che altro. Arne, in piedi sopra Ulf, fece scorrere il suo
sguardo su quel corpo che aveva visto infinite volte da quando erano bambini, ma
non aveva mai notato che fosse così bello, e mai come allora gli aveva fatto
quello strano effetto.
Non
si era ingannato, Ulf era veramente eccitato. Arne si riadagiò su di lui. Piano
cominciarono a strusciarsi uno contro l'altro. Ulf lo fissava mentre una selva
di sensazioni contrastanti passavano sul suo viso. Desiderio ma anche paura.
Cosa stava succedendo? Perchè si stavano comportando a quel modo? Anche Arne
era spaventato, forse la cosa migliore era smettere e dimenticare. Ma Ulf era
così bello e così dolce... no, era impossibile smettere. L'unica cosa da fare
era aspettare e vedere.
Improvvisamente
Ulf aprì la bocca in un grido muto e spalancò gli occhi, poi ebbe un fremito,
come una scossa. Infine emise un respiro come di un uomo che sta per annegare e
riesce alla fine a raggiungere la superficie dell'acqua. Arne si accorse di uno
strano calore all'altezza dell'inguine. Sapeva cos'era, a lui era successo di
notte. Spesso si era svegliato bagnato e appiccicaticcio. E adesso era successo
anche a Ulf. E gli era successo strusciandosi contro di LUI. Non se lo spiegava
ma si sentì come quando Ulf aveva preso il coniglio, felice ed eccitato.
Istintivamente, abbassò la testa e premette le sue labbra contro quelle di Ulf.
Accarezzò le sue labbra con la lingua e poi la intrufolò nella bocca,
esplorando quella cavità che sapeva di buono. Ulf lo lasciava fare, anzi,
ricambiava il bacio, lasciando che le lingue si accarezzassero. Senza rendersene
conto aveva ricominciato a strusciarsi. Alla fine, con un gemito nascosto nella
bocca di Ulf, esplose. Era successo anche a lui! Ed era stato molto più bello
di quando gli succedeva di notte. Staccò le labbra dal suo amico e ansimando lo
guardò: Ulf stava sorridendo, anche lui ansimava ed era ancora rosso come il
fuoco. Non lo guardava direttamente negli occhi, ma lo sbirciava ogni tanto,
come un bambino sorpreso mentre faceva una marachella. Dea, come era bello! Più
bello di una fanciulla. Bello come ... una fata. Senza dire una parola si
alzarono e, tenendosi per mano, andarono al ruscello a lavarsi. Mai nella loro
vita erano stati più felici.
Del
sesso sapevano poco. Il vecchio Sciamano insegnava che serviva per procreare, e
comunque lo facevano gli uomini con le donne. Non avevano mai sentito di due
uomini che si baciavano tra loro. Si sentivano strani, e anche un po'
spaventati. Non erano sicuri se ciò che facevano fosse bene o male, ma era
maledettamente ... eccitante. Così andarono avanti, senza porsi troppe domande,
ma godendo di quelle nuove sensazioni e sentendosi sempre più uniti.
Questo
fino a quando Arne non ebbe una specie di fulminazione. Come sempre accadeva, si
stava strofinando contro l'inguine di Ulf. Intanto lo guardava, spiava le sue
smorfie di piacere, lasciava correre il suo sguardo sul suo corpo glabro e
bianco, come una giovane betulla. Lo vedeva muoversi lentamente, udiva i suoi
gemiti e il suo cuore si inondava di amore e di desiderio. Improvvisamente sentì
il bisogno di farlo suo, completamente. Ultimamente aveva come la sensazione che
mancasse qualcosa. Non sapeva spiegarselo ma quello strusciarsi uno contro
l'altro, anche se molto piacevole, non gli bastava più. Uno strano istinto si
impadronì di lui. Come se qualcuno gli avesse spiegato cosa fare, in un attimo
alzò le cosce di Ulf e lo penetrò con tutta la sua forza. Ulf gridò, ma Arne
era troppo sconvolto da quello che provava, la sensazione che quello fosse il
modo giusto. La pressione del retto intorno al suo pene congestionato, il suo
calore, tutto era come doveva essere. Si mosse tre, quattro volte, poi esplose.
Mai nella sua vita aveva provato un piacere così forte e intenso. Solo quando
il pulsare si spense, e il cuore recuperò il ritmo normale, Arne vide davanti a
sé un viso terrorizzato e inondato di lacrime. Si rese conto di quello che
aveva fatto: aveva violentato l'amico sotto la loro quercia.
Ulf
si spaventò da morire, perse sangue e provò molto dolore. Vedeva Arne sopra di
lui, improvvisamente diverso dall'amico che lo accarezzava dolcemente, sembrava
un animale, si muoveva con forza, grugnendo come un cinghiale, con gli occhi
rovesciati e i denti scoperti, insensibile alle sue grida di dolore e paura. Per
qualche giorno lo odiò, non capendo perchè gli avesse fatto una cosa del
genere.
Dopo
quell'episodio si tennero alla larga per un po' uno dall'altro. Ci volle molta
pazienza e molta dolcezza da parte di Arne per recuperare la fiducia di Ulf.
Mille volte chiese scusa, arrivando a piangere davanti all'amico perchè lo
perdonasse. Passò decine di notti insonni, in preda ai sensi di colpa. Ma
dentro di sé non riusciva a liberarsi della sensazione che quello fosse il modo
giusto. Pensò alla differenza di età che lo separava da Ulf, a quell'età due
anni erano tanti! Lui aveva fatto quella scoperta a quasi diciassette anni.
Prima o poi ci sarebbe arrivato anche Ulf. Così si dispose ad aspettare.
Avrebbe aspettato per tutta la vita. Nel frattempo fu particolarmente dolce con
il suo Ulf.
Ma
non dovette aspettare molto. Soltanto pochi mesi dopo quell'istinto si risvegliò
anche in Ulf. Improvvisamente capì cosa aveva fatto Arne quel giorno, e
comprese che è così che si amano due uomini. La volta dopo fu lui stesso a
guidare Arne dentro di sé. Anche quella volta fu doloroso, ma come aveva ormai
imparato a fare, offrì il suo dolore alla Dea. E la Dea, in cambio gli regalò
il piacere più intenso della sua vita. Alla fine si abbandonò fra le braccia
di Arne e, incapace di sopportare tutte le emozioni che si accavallavano dentro
di lui, come un mare in tempesta, scoppiò in lacrime. Arne lo strinse a sé,
anche lui tremando, commosso da quello sfogo. Era stato sconvolgente per tutti e
due.
Baciandogli
i capelli sussurrò: "Mia fata..."
Quando
la Dea apparve dinanzi a loro, le loro reazioni furono inverse a quelle della
prima volta.
Arne
si sentiva tranquillo. Il presagio di morte si era dissolto dalla sua mente,
visto che erano passati ormai dieci anni. Certo non sarebbe diventato Sciamano,
ma non sarebbe nemmeno morto tanto presto.
Ulf
invece si spaventò a morte. Improvvisamente si rese conto di una cosa a cui non
aveva mai pensato, o forse a cui non aveva mai voluto pensare.
Come
insegnava lo Sciamano, la Dea non permetteva che il suo dono più prezioso, il
seme, che serviva a creare una nuova vita nel grembo della donna, venisse in
alcun modo sprecato; e qual'era il modo peggiore di sprecarlo, se non gettarlo
nel corpo sterile di un altro uomo? Ulf aveva sempre disobbedito a questi
insegnamenti, permettendo inoltre ad Arne di disobbedirvi. Si sentiva colpevole
per entrambi. Però un giorno non lontano Arne avrebbe avuto dei figli e la Dea
lo avrebbe sicuramente perdonato. Ulf invece sapeva che non avrebbe mai potuto
giacere con una donna, ne' lo desiderava, e per questo era condannato.
Questo,
ne era sicuro, era il motivo della seconda apparizione.
Cercò
di alzarsi in piedi ma le gambe non lo ressero. La Dea scomparve nel folto della
foresta.
Però
entrambi si sbagliavano. L'uomo non può comprendere cosa si nasconde nel cuore
della Dea. Può conoscere i Suoi progetti solo quando questi si sono compiuti.
Qualche
giorno dopo arrivarono gli Stranieri, e cominciò la guerra.
Capitolo
3
Attalo
Per
la prima volta in vita sua, Attalo era stanco della guerra. Da due anni ormai
non tornava a casa, ad Altea, in Macedonia. A trent'anni era uno dei più
valorosi generali dell'esercito di re Alessandro, soprannominato il Grande dagli
amici, e ormai anche dai nemici.
Mentre
Alessandro proseguiva la sua vittoriosa marcia verso Sud, Attalo e alcuni altri
generali avevano il compito di tenere sotto controllo i territori del Nord.
Purtroppo quei barbari Ariani erano molto più testardi e forti del previsto.
L'esercito macedone, non molto numeroso, dal momento che la maggior parte degli
uomini disponibili erano al seguito del Re, ma fornito di cavalli, carri e
macchine da guerra, guidato da ufficiali esperti in tattiche di battaglia, era
stato decimato da quell'orda, senza mezzi che non fossero le loro gambe, armati
solo di corte spade e archi, senza capi e senza piani. Quei barbari coperti di
pelli, dai capelli lunghi e biondicci, trattenuti in code e trecce, e dalle
facce rosse coperte da una folta barba, combattevano con coraggio, guidati dalla
voglia di scacciare i macedoni e di tornare in possesso delle loro terre.
I
generali macedoni non avevano altra scelta, per il momento, che ritirarsi,
cercando però di lasciare dietro di sé la più totale distruzione. Mentre
indietreggiavano mettevano tutti i villaggi che incontravano a ferro e fuoco,
uccidendo anche animali e vecchi, donne e bambini, e incendiando tutto ciò che
potevano. Se ne andavano, ma volevano lasciare un brutto ricordo a chi rimaneva
in vita.
Attalo
riposava sotto un albero quando tornò la pattuglia mandata in perlustrazione. A
poca distanza sorgeva un villaggio. Da quanto si poteva vedere c'erano solamente
donne, bambini, vecchi e qualche ragazzino. Probabilmente gli uomini adulti
erano a caccia oppure morti in qualche battaglia. Una facile preda, insomma.
Gli
ultimi superstiti dell'esercito macedone si misero in formazione e partirono
all'attacco.
La
battaglia fu più dura di quanto immaginato. I pochi ragazzini rimasti a guardia
del villaggio erano ben armati e sapevano combattere. Erano molto forti per la
loro età e più alti dei soldati macedoni. Ma erano comunque pochi e con poca
esperienza. Ben presto furono massacrati quasi tutti. Mentre una parte dei
macedoni combatteva, un altro gruppo si occupava di scovare chi si nascondeva e
fare una strage.
Attalo
si trovò a combattere contro un ragazzo molto giovane, ma sorprendentemente
forte. Indietreggiando inciampò e cadde a terra. Il ragazzo fu subito sopra di
lui e stava per infilzarlo con la sua spada, quando un soldato macedone lo colpì
con una lancia in pieno petto. Il ragazzo cadde a terra, morto.
Improvvisamente
un altro ragazzo, abbattuto l'uomo contro cui stava combattendo, con un grido
straziante si lanciò sopra il corpo ormai senza vita del compagno. Gridava
qualcosa, forse il nome dell'amico morto. Gli strappò la lancia dal petto e,
piangendo, lo prese per le braccia, cercando di farlo alzare, come se,
mettendolo seduto, il ragazzo avesse potuto riprendere i sensi. Sembrava non
accorgersi che intorno a lui c'erano solo soldati macedoni che avrebbero potuto
ucciderlo come un topo in trappola. Era letteralmente impazzito dal dolore. La
scena era così straziante che nessuno osò avvicinarsi.
Attalo
era impietrito. Chi erano quei due ragazzi? Perchè il più giovane era tanto
sconvolto? Cos'era per lui il ragazzo ucciso? Un amico? No, forse un fratello.
Non era giustificato tanto dolore per un semplice amico.
Il
tempo sembrava essersi fermato. Nel villaggio erano rimaste vive poco più di
una decina di persone. Il fuoco stava divorando gli ultimi resti delle capanne
di legno e paglia. I gemiti dei moribondi si stavano spegnendo.
Il
ragazzo alzò lo sguardo e incrociò quello di Attalo. Non piangeva più.
Sembrava sopraffatto da un dolore più grande di lui. Aveva i capelli biondi
incrostati di sangue e fango, e appiccicati al viso dal sudore e dalle lacrime.
Gli occhi, sicuramente azzurri, in quel momento erano grigi come un cielo in
tempesta. Traboccavano di odio e mostravano un'infinita stanchezza, come di chi
ha vissuto ormai cent'anni e sogna la pace della morte, ma c'era anche
qualcos'altro: era disperato ma non sconfitto. Non lo sarebbe mai stato.
Attalo
vide tutto questo e il suo cuore prese fuoco. Non si spense più.
Radunò
gli uomini rimasti e ordinò la ritirata.
Capitolo
4
La malattia
Pochi
giorni dopo essere tornato ad Altea, Attalo si sentì male. Il suo medico
personale, Eteocle, gli diagnosticò la malaria. L'anno che seguì fu terribile,
fatto di giorni in cui non mangiava quasi nulla e beveva i disgustosi decotti di
Eteocle, e notti in cui giaceva nel suo letto che, per quanto morbido fosse, al
suo corpo sembrava sempre un tavolato di legno pieno di chiodi roventi. In
quelle notti restava sveglio ansimando, bruciato dalla sete e divorato dalla
febbre, con le labbra secche e gli occhi spalancati verso il soffitto, mentre
davanti ai suoi occhi allucinati passavano scene di guerra, uomini che
crollavano al suolo in una pozza di sangue, con la testa e gli arti mozzati; ma
c'era un'immagine che più di tutte lo torturava ogni volta che chiudeva gli
occhi: il viso di quel ragazzo, l'espressione dei suoi occhi; lo guardava con
odio, un odio tanto grande che, sotto quello sguardo Attalo si sentiva
letteralmente andare a fuoco, e allora cominciava a gridare, fino a quando
Eteocle accorreva a rinfrescarlo con pezze di stoffa imbevute di acqua e gli
dava da bere qualche sorso di quelle sue orrende tisane che Attalo trangugiava
come se fossero state puro nettare.
Ma
c'erano anche momenti, come è tipico della malaria, in cui si sentiva meglio,
la febbre calava e le sue ossa gli davano un po' di tregua. In quei momenti
aveva un solo pensiero: trovare il ragazzo, sapere cosa ne era stato di lui.
Aveva mandato sul confine alcuni dei suoi uomini con il compito di tenerlo
sempre informato su ciò che stava succedendo nei villaggi Ariani. Quello che
gli era dato sapere era che i superstiti si erano riuniti in nuovi villaggi e,
piano piano, stavano ricostruendo le case. Si erano formate nuove comunità,
nuove famiglie ed erano stati eletti nuovi capi. Il villaggio del ragazzo non
esisteva più; i pochissimi abitanti sopravvissuti si erano trasferiti in un
villaggio vicino. Naturalmente nessuno poteva sapere se anche quel ragazzo fosse
sopravvissuto, ma Attalo faceva tenere d'occhio quel nuovo villaggio con grande
interesse.
In
primavera fu annunciata una nuova spedizione. Re Alessandro aveva fatto
reclutare nuove forze, voleva assolutamente consolidare i suoi confini
settentrionali. Attalo accolse con gioia la prospettiva di una nuova guerra. Lui
naturalmente si sarebbe riservato di attaccare per primo quel villaggio. Avrebbe
trovato il ragazzo, lo avrebbe fatto prigioniero e mandato ad Altea. Una volta
finita la guerra sarebbe tornato e allora...
E
allora cosa? Fu in un momento di lucidità che si rese conto di quanto fosse
assurda tutta quella storia. Da quasi un anno non faceva altro che pensare a un
ragazzino ariano che aveva visto una sola volta durante un combattimento, un
nemico che, se avesse potuto, lo avrebbe ucciso senza pensarci un attimo. Perchè?
Forse si sentiva responsabile per la morte dell'amico? Certo era responsabile
della morte di un sacco di gente, ma non se ne era mai fatto un problema. La
guerra, dopo tutto, è guerra e serve apposta per uccidere i nemici; e allora
cos'era quell'ossessione?
In
realtà una risposta l'aveva, ma era una cosa che rifiutava di prendere in
considerazione. Attalo non aveva una compagna, e non aveva mai pensato
seriamente al matrimonio. Fin dalla più tenera età aveva pensato solo alla sua
carriera nell'esercito. Aveva frequentato l’accademia più prestigiosa e si
era sempre addestrato duramente. Suo padre era stato un grande generale e il suo
più grande sogno era di prenderne un giorno il posto. Per questo, anche quando
i suoi compagni lasciavano l'accampamento per andare in città, a bere e
divertirsi con qualche etéra del bordello più rinomato, lui se ne stava ancora
lunghe ora ad allenarsi con la spada e con la lancia, oppure nella sua camera a
studiare; i suoi unici amanti erano la sua armatura, la sua spada luccicante, la
sua lancia, il suo scudo che strofinava per ore fino a farlo risplendere come se
fosse stato di puro argento. Per tutta la sua vita aveva avuto un solo amico, un
ragazzo della sua età di nome Efestione, avevano passato insieme gli anni della
scuola e anche tutti gli altri fino a tre anni prima, quando era partito per
l’Egitto al seguito dell’Imperatore. Ma la loro era stata una vera amicizia
fra uomini, non certo una di quelle storie di cui sentiva parlare. No, non erano
cose che facevano per lui! Anche lui aveva avuto delle etére. E sapeva di
alcuni ufficiali che preferivano etéri maschi. Ma a lui mai sarebbe venuta in
mente una cosa simile. Le poche volte in cui sentiva il desiderio di un altro
corpo vicino al suo, cosa c'era di meglio della calda morbidezza di un corpo
femminile?
Ma
ora c'era qualcosa di diverso. La risposta alla sua domanda era tutta in un
sogno che a volte accompagnava l'incubo. Quando dormiva e la febbre era bassa,
iniziava sempre nello stesso modo: morti, sangue e orrore, poi vedeva il ragazzo
che lo fissava con odio. Questa volta però il fuoco non lo sentiva sulla pelle
ma dentro di sé, e non faceva male. Era un calore che partiva dallo stomaco e
si espandeva. Saliva fino a fargli divampare le guance e contemporaneamente
scendeva fino all'inguine. Era una sensazione strana e terribilmente piacevole.
Allora si avvicinava al ragazzo e fissandolo in quegli occhi grigi pieni di
dolore, gli diceva: - Non odiarmi. Non ho ucciso io il tuo amico - Allora il
ragazzo lasciava il corpo ormai morto dell'amico e si gettava fra le sue
braccia, piangendo come un bambino, sfogando così il suo dolore. Poi alzava il
viso verso di lui, un viso sereno e bello come quello di una fanciulla,
illuminato da due occhi adesso azzurri come il cielo. Attalo continuava a
stringerlo, il corpo era caldo contro di lui. Non era morbido e delicato come
quello di una ragazza, era forte e sodo, poteva sentire uno per uno i muscoli
guizzare e tendersi. E allora lo stringeva, lo stringeva sempre più forte. Lo
prendeva per i fianchi e lo schiacciava contro di sé. Sentiva il calore
crescere, e crescere. Alla fine si svegliava e si rendeva conto con vergogna di
avere le cosce bagnate e appiccicose. Ma la cosa peggiore in quel momento era
che sentiva la mancanza di quel ragazzo, una mancanza fisica e dolorosa, come se
il suo corpo fosse stato frustato durante il sonno, come se il risveglio gli
avesse strappato, insieme al ragazzo, anche tutta la pelle che aderiva contro di
lui. Ecco la risposta. Anche se non voleva ammetterlo, tutto quello che voleva
era quello. Avrebbe dato la vita per vivere quel momento nella realtà anche
solo per una volta.
Come
spesso accade, anche questa volta la Dea aveva disposto diversamente. Quando
l'esercito macedone ripartì verso nord, Attalo stava ancora male. Aveva tentato
lo stesso di partire, contro il parere di tutti, ma dopo pochi metri a cavallo,
aveva perso i sensi, colto da un violentissimo attacco di febbre. Per più di un
mese aveva giaciuto fra la vita e la morte. Poi, come era venuta, la malaria era
passata. Eteocle diceva che era un miracolo. Eteocle non sapeva però che a
volte la mente può vincere sul corpo. Attalo era guarito perchè VOLEVA
guarire, non avrebbe permesso al male di ucciderlo, almeno fino a quando non
avesse rivisto "lui". Piano piano aveva ricominciato a stare bene, ma
ormai era tardi per partire. Questa volta la guerra era stata vinta. I confini
erano stati consolidati, gli Ariani quasi completamente sterminati. Ma Attalo
non si diede per vinto. Si rifiutava di perdere la speranza. Diede ai suoi
uomini un nuovo incarico: controllare tutti i posti dove venivano portati i
prigionieri ariani. Ne era certo: anche se le speranze erano contro di lui, era
sicuro che prima o poi lo avrebbe trovato.
Capitolo
5
Il
prigioniero
Ulf
era stato fatto prigioniero. Giaceva per terra, al centro di un accampamento
macedone, insieme ad altri prigionieri. Erano stanchi, sporchi e affamati, erano
costretti a camminare tutto il giorno, con poca acqua e ancora meno cibo; erano
tutti incatenati uno all'altro e le catene causavano piaghe. Molti erano già
morti e molti altri sarebbero morti prima di arrivare. Ulf non sapeva dove lo
avrebbero portato, sapeva solo che camminava ormai da giorni, il paesaggio
intorno a lui cambiava continuamente e sentiva con disperazione la sua terra
allontanarsi sempre di più.
Ulf
"sentiva " la terra, al suo paese poteva riconoscere qualsiasi pianta
o roccia dall'energia che emanava, percepiva la presenza di un animale, poteva
comunicare con lui. Fin da bambino aveva questo dono, essere tutt'uno con ciò
che lo circondava. Lo stesso dono che gli aveva permesso di vedere la Dea.
Ma
ora sentiva che anche la Dea lo aveva abbandonato. Sentiva che ciò che lo
circondava era estraneo e ostile. Non si era mai sentito così solo.
Dopo tutto, i suoi timori si erano avverati. La Dea alla fine lo aveva
punito. Arne era veramente morto.
Da
quel momento la sua vita si era trascinata, tra mille orrori, nel vuoto e nella
disperazione. Il villaggio era stato completamente distrutto, degli abitanti non
erano rimasti che pochi vecchi e qualche donna. Ulf aveva perso tutto, i
genitori, gli amici, quasi tutti coloro che conosceva e amava. Gli era rimasto
solo Lupo Grigio. Il vecchio sciamano era sopravvissuto e si era preso cura di
Ulf, cercando di scuoterlo dal torpore nel quale viveva dalla morte
dell’amico. All’apparenza il ragazzo era ancora quello di prima, aveva
lavorato duramente per ricostruire il villaggio con gli altri superstiti. Andava
a caccia, anche se non era un cacciatore, ma in quei tempi non si badava a certe
sottigliezze. C’era bisogno di cibo e tutti coloro che potevano dare una mano
a procurarlo erano bene accetti.
Continuava
anche il suo apprendistato con Lupo Grigio, ma quest’ultimo si era accorto del
cambiamento interiore di Ulf. La sua energia, tanto potente prima della guerra,
si era quasi del tutto spenta, soffocata dal dolore che provava.
Poi
gli stranieri erano tornati a completare l’opera. E anche Ulf era stato
catturato.
Passò
un anno. Un anno infernale. Per Ulf fu una discesa negli inferi.
Per
Attalo fu un anno di dubbi, incertezze, un continuo guardarsi dentro per capire
cosa era cambiato in lui da quel giorno in cui tutta la sua vita era stata
scossa dalle fondamenta. Per capire cos’era questa ossessione. Un anno di
incubi.
Finalmente
la Dea decise che erano stati messi sufficientemente alla prova. E la prova era
stata durissima. Entrambi la avevano completamente soddisfatta. Ce ne sarebbero
state altre, di prove, ma ormai erano pronti.
Era
arrivato il momento di farli incontrare.
Capitolo 6
Un racconto
al mercato degli schiavi
Una
mattina Attalo ricevette un messaggio dall’Imperatore in persona. Aveva
avuto notizia della sua guarigione e, considerandolo uno dei migliori
ufficiali del suo esercito, gli chiedeva di raggiungerlo al più presto in
Egitto.
Attalo
ne fu inizialmente annientato. Andare in Egitto significava abbandonare la sua
ricerca.
Fu
preso dal panico. Forse non avrebbe mai trovato il ragazzo, ma la sola speranza
lo aiutava a vivere.
Poi
ci pensò più freddamente. Forse era un'occasione per mettersi alla prova. Se
l’ossessione continuava a perseguitarlo anche laggiù, sarebbe semplicemente
tornato. Ma forse avrebbe anche potuto dimenticarlo ed essere finalmente libero.
Non sapeva se lo spaventava di più la prima ipotesi o la seconda. Comunque lo
prese come un segno degli Dèi e decise di partire.
Il
giorno dopo fece la sua ultima visita al mercato degli schiavi, con il solo
proposito (mentì a sé stesso) di salutare tutti coloro che in quell’anno lo
avevano aiutato e sopportato e di comunicare loro la sua partenza.
L’ultima
persona che visitò fu un vecchio mercante che ormai considerava un amico.
L’uomo sembrava attenderlo. Durante la notte si era improvvisamente ricordato
di una storia che aveva sentito in giro e non vedeva l’ora di raccontarla al
generale. Quindi, non appena lo vide, gli corse incontro e gli strinse la
mano.
-
Ho una cosa importantissima da dirti, generale – cominciò – e non so per
quale motivo questa storia mi è venuta in mente solo ora. Conosco questa storia
da molto tempo e proprio una settimana fa la stavo raccontando a mio cognato.
Molte volte mi sono ripromesso di raccontartela, perché sicuramente ti
interessa molto, ma stranamente, quando ti vedevo, non riuscivo proprio a
ricordarmene. -
Attalo
spalancò gli occhi. Immediatamente si tese, una fievole speranza si impadronì
di lui.
-
Avanti, amico, racconta…-
Il
mercante cominciò: - L’ho sentita raccontare da un ufficiale che, con le sue
truppe, scortava i prigionieri dal nord, ma si tratta di una storia che risale
ormai a qualche mese fa. Sembra che un ragazzo quasi albino, giovanissimo, sui
sedici, diciassette anni, abbia ucciso una guardia in un modo atroce.
L’ufficiale mi ha raccontato che quella notte si trovava di guardia, ed era
seduto davanti al falò con altri quattro uomini. I soldati erano quasi
ubriachi, parlavano tra loro gridando e ridendo forte, facendo commenti volgari
sulle prigioniere, ognuno di loro vantandosi di quante ne avevano violentate ed
esibendosi in particolari rivoltanti. Dopo un po’ la conversazione cadde su
una prigioniera particolarmente bella, tutti e quattro gli uomini concordavano
sul fatto che era la più bella che avessero mai visto. Parlavano dei suoi
capelli biondissimi, e del suo sguardo altero. Solo dopo un po’ l’ufficiale
si rese conto che stavano parlando di un ragazzo. Ne rimase sbalordito perché
non aveva mai sentito nessuno dei suoi uomini fare apprezzamenti sui maschi.
Pensò che stessero scherzando, prendendo in giro un ragazzo particolarmente
effemminato, invece si rese presto conto dal tono della loro voce che erano
serissimi. Con orrore li ascoltò mentre descrivevano nei dettagli ciò che
avrebbero voluto fare al ragazzo. Uno di loro era particolarmente serio, da un
po’ non parlava, anzi, sembrava pallido e sudato. Improvvisamente, senza dire
nulla si alzò e se ne andò. L’ufficiale pensò che forse non si sentiva
troppo bene. Comunque i racconti di quei tre maiali avevano stomacato anche lui,
quindi tornò nella sua tenda e si addormentò. Dopo poco un urlo straziante lo
strappò al sonno. Scattò in piedi e corse fuori. Appena fuori dal recinto dei
prigionieri una scena raccapricciante lo attendeva. Il soldato che aveva
lasciato il falò giaceva a terra, con le mani premute contro la bocca. Urlava e
si dimenava tanto che in tre non riuscivano a tenerlo fermo. L’ufficiale si
chinò su di lui ordinando di fare luce con una torcia. Quando la luce illuminò
il volto del soldato, l’ufficiale cacciò un grido di spavento. La faccia era
una maschera di sangue, l’uomo non aveva più ne’ occhi ne’ naso, la bocca
rigurgitava sangue. L’ufficiale gliela aprì con la forza: la lingua non
c’era più. Ordinò ai suoi uomini di portare il soldato nella tenda dei
medici. Era sconvolto. Alzò la testa e quello che vide per poco non lo fece
svenire dall’orrore: davanti a lui, in ginocchio, c’era un ragazzo dai
capelli biondi. Lo fissava con assoluta tranquillità. Quello sguardo tranquillo
strideva spaventosamente con il resto della faccia, completamente imbrattata di
sangue. Dalla bocca semiaperta colava una bava vermiglia, mentre all’interno
si potevano scorgere denti stranamente aguzzi, sporchi anch’essi di sangue.
Gli occhi mandarono un bagliore giallognolo. L’ufficiale pensò che quel
ragazzo assomigliava a un lupo. –
Il
mercante si fermò e guardò il generale, il quale lo fissava a bocca
spalancata. Attalo era sconvolto. Non sapeva come, ma era certo che quello era
il “suo” ragazzo. Con un balzo afferrò le spalle dell’uomo.
–
E poi, cosa è successo, cosa ne è stato di quel ragazzo? E’ stato
ucciso?
–
No, no – rispose il mercante, sorpreso da tanta veemenza, - no, è
arrivato qui in città in catene, ed è stato portato al bagno degli schiavi.
–
Al bagno degli schiavi? E perché?
–
Perché era stato scelto per il bordello del palazzo reale. Sai benissimo
che i prigionieri più belli vengono segnati con un unguento rosso, e da quel
momento appartengono all’Imperatore. Solo lui può decidere della loro vita.
Per questo non è stato ucciso. Comunque se vuoi la mia opinione, a quest’ora
sarà già morto. Tu sai che fine fanno quasi tutti gli schiavi che finiscono
nel bordello imperiale. La maggior parte delle volte vengono acquistati da
importanti personaggi, generali, senatori, o anche semplici contabili di corte,
che spesso hanno vizi strani, se va bene, o orrende perversioni, se va male, e
ne abusano fino alla morte. Altri sono più fortunati. Vengono acquistati da
brave persone che li tengono come favoriti o come amanti, arrivando perfino ad
adottarli. L’unica cosa che puoi fare a questo punto è sperare che sia stato
fortunato e…
Ma
il commerciante non poté finire la frase. Attalo era già corso via.
Capitolo
7
Il
Bagno degli Schiavi
Naturalmente
dopo pochi minuti il generale era già arrivato a quelle grotte, appena fuori
dalla città, che venivano chiamate Bagno degli Schiavi.
Si
trattava di grotte naturali, utilizzate per lo più come prigione per gli
schiavi che si erano macchiati di qualche delitto. In quelle caverne buie, umide
e maleodoranti, nelle quali erano state ricavate celle chiuse da pesanti sbarre
di metallo, i prigionieri venivano lasciati per giorni, senza cibo e acqua, o
venivano torturati, mentre attendevano di essere giustiziati.
Ma
c’era una parte della caverna che era completamente diversa e poteva sembrare
un angolo di paradiso. Si trattava di una splendida grotta, vasta e illuminata
da un foro nella volta, con diverse sorgenti di acqua calda. Qui venivano
condotti alcuni prigionieri, scelti con cura da personaggi specializzati, per
essere rimessi in sesto e resi presentabili, per speciali aste, dove venivano
venduti come schiavi addetti a particolari mansioni. A queste aste partecipavano
soprattutto matrone tenutarie di bordelli in cerca di fanciulle appena sbocciate
o bellezze esotiche, procuratori di schiavi particolarmente avvenenti da far
partecipare come attrazione a feste aristocratiche, o anche semplici privati che
avevano voglia di avere un po’ di carne fresca con cui trastullarsi nelle
giornate di noia.
Alcuni
prigionieri però non partecipavano alle aste. Avevano già una destinazione
particolarmente prestigiosa: il Lupanare Imperiale.
Questi
arrivavano al bagno già marchiati con una croce rossa fra le scapole e venivano
trattati con particolare riguardo. Venivano subito lavati e le loro ferite e
piaghe venivano curate. Erano nutriti con alimenti sostanziosi per recuperare i
chili persi durante i giorni di viaggio durante i quali avevano mangiato poco e
male. Alla fine venivano pettinati e vestiti con abiti che mettevano in risalto
i loro particolari pregi. Insomma erano addobbati come cavalli ad una fiera.
Attalo
entrò come una furia, accompagnato da venti delle sue fedeli guardie. Subito
gli uomini si sparsero per il bagno e andarono a guardare dappertutto. Sotto gli
occhi stupefatti e impotenti del personale, Attalo pretese di vedere tutti i
prigionieri, dal primo all’ultimo. Naturalmente cominciò da quelli che si
trovavano ai bagni. Alcuni erano immersi nelle vasche di acqua calda, con
espressione perplessa. Altri erano coccolati da fanciulle esperte che li
spalmavano di oli e unguenti, li massaggiavano o medicavano le loro ferite.
Alcuni venivano rasati a zero, per eliminare eventuali parassiti che si
annidavano nei capelli, mentre altri, soprattutto le fanciulle, venivano
accuratamente spazzolati ed acconciati. Tutti questi poveri ragazzi si
guardavano in giro sperduti, e si guardavano l’un l’altro, con aria
interrogativa. Attalo pensò che probabilmente si stavano domandando
il motivo di tante cure, dopo che per giorni erano stati trattati come
animali. Certo la cosa li spaventava, nessuno di loro sembrava felice di tale
trattamento. Si sentivano un po’ come il vitello che viene strigliato,
profumato ed addobbato con nastri colorati prima di venire abbattuto
sull’altare sacrificale.
Dopo
più di un’ora Attalo cominciava a sentirsi scoraggiato. Si chiedeva come
avrebbe fatto a riconoscerlo. In un anno quel ragazzo avrebbe potuto essere
cambiato molto, e dopo tutto lo aveva visto solo per pochi minuti. Era sporco e
sconvolto, in realtà non lo aveva visto nemmeno molto bene. Inoltre il suo
ricordo potrebbe essersi modificato. Pensandoci bene, era quasi impossibile
riconoscerlo. Avrebbe anche potuto averlo davanti e non accorgersene, oppure
prendere qualcun altro per lui. C’erano molti ragazzi biondissimi e tutti
avevano quello sguardo perso e spaventato…
Scosse
la testa e scacciò quei pensieri. “No, non mi darò per vinto. Non dopo tutto
questo tempo. Proprio mentre stavo per abbandonare tutto, gli Dei mi hanno
mandato un segno. Sono certo che quando sarà il momento lo saprò. Si, quando
lo vedrò non potrò sbagliare. Lo riconoscerò!”
Mosso
da questa nuova fiducia, richiamò i suoi uomini e si diresse verso le prigioni.
Non avrebbe lasciato quel luogo senza aver guardato in faccia ogni singolo
prigioniero.
All’entrata
delle grotte, gli si fece incontro un ufficiale. Sembrava agguerrito.
-
Qui non si può entrare. Vi ho lasciato fare i vostri comodi mentre
eravate ai bagni perché ho visto che eravate un alto ufficiale dell’Esercito
Imperiale, e qui non c’è nessuno di grado pari al Vostro, ma ho degli ordini
molto precisi: in questa zona non può entrare nessuno! –
Attalo
gli si parò davanti a gambe larghe. I suoi occhi erano due tizzoni ardenti.
L’ufficiale, involontariamente, fece un passo indietro. Attalo lo superò
senza dire una parola
-
Portatemi delle torce. Non si vede niente qui dentro! –
L’ufficiale
lo seguì.
-
Forse non mi sono spiegato. Ci vuole un permesso speciale
dell’Imperatore per entrare qui senza motivo. Io non posso permettere…-
Attalo
si girò di scatto e sguainò la spada, facendola sibilare nell’aria e
bloccandola ad un soffio dalla gola dell’ufficiale. La voce era tanto bassa
che si sentiva a malapena.
-
Questo è il mio permesso. E in questo momento, per quello che ti
riguarda, IO sono l’Imperatore. - L’ufficiale deglutì, la sua fronte si era
coperta di sudore. Per un attimo non avrebbe dato un soldo per la sua vita.
Attalo rinfoderò la spada, sempre fissando negli occhi l’ufficiale, che
ancora non osava muoversi. Poi gli volse le spalle.
-
Inoltre non sono qui senza motivo. Sto cercando una persona e se la
trovo, prega i tuoi Dei che sia viva. - Prese una torcia e incominciò la
ricerca.
Dopo
alcune celle la situazione gli era drammaticamente chiara. Le persone chiuse lì
dentro erano in condizioni pietose. Giacevano su paglia sporca e bagnata,
coperta di escrementi e attraversata di tanto in tanto da topi lunghi quasi come
un avambraccio. La maggior parte erano nudi e coperti di piaghe. Pochi avevano
ancora voce per lamentarsi. Attalo, nonostante fosse abituato agli orrori dei
campi di battaglia, non riusciva a guardare quella povera gente, tra cui
c’erano anche donne e vecchi, senza che qualcosa di viscido si agitasse nel
suo stomaco. L’odore di morte era insopportabile. Sentì la testa girare e le
gambe diventare improvvisamente deboli. Si fermò e si appoggiò un momento
contro una parete, fredda e scivolosa. No, non era certo di volerlo ancora
trovare, non lì e non in quel modo. Soltanto l’orgoglio gli impedì di
voltarsi e fuggire via, lasciando quello stupido soldato a ridere di lui.
Proseguì cercando di guardare nelle celle il meno possibile.
Fu
quasi alla fine, in fondo a uno dei corridoi più bui e maleodoranti, che il suo
sguardo fu attratto da una cosa strana. In una cella c’era solo una persona,
mentre tutte le altre che aveva visto contenevano molte persone, spesso
ammassate le une contro le altre.
Si
volse verso l’ufficiale che non lo aveva mollato un solo istante. L’uomo capì
subito cosa Attalo voleva sapere perché rispose prontamente.
-
E’ pericoloso. Da quando è qui ad Altea ha già ucciso tre persone, e
ne ha mutilate altre. Attacca con le unghie e con i denti e ti strappa pezzi di
carne dalla faccia. Se riesce, ti cava gli occhi con le dita. E’ una specie di
belva! –
Si
avvicinò ad Attalo parlando sottovoce, con aria di cospirazione, come se
tentasse di rendersi gradito confidando un importante segreto. - Dicono che sia
un lupo mannaro! - Attalo lo guardò con aria feroce e l’ufficiale si
ritrasse, ma annuì più volte con forza. - E’ qui da una decina di giorni, e
ogni giorno ha ricevuto la sua dose di punizione. Domani finalmente verrà
decapitato e poi bruciato. Già, la morte riservata ai lupi mannari. - Annuì
ancora come se la cosa fosse giusta e ben fatta.
-
Apri al cella! - Il tono non ammetteva repliche, e l’ufficiale, anche se non
nascose di essere contrario a quella nuova pazzia, aprì la cella. Aveva
imparato che ad Attalo non si poteva negare quello che chiedeva. Però non lo
seguì quando entrò nella cella, ma rimase fuori dietro le sbarre, aspettando
che il lupo mannaro saltasse al collo di quello sconsiderato e lo facesse a
pezzi come meritava.
Il
“lupo mannaro” giaceva in un angolo della cella, completamente nudo,
rannicchiato su se stesso. Teneva la faccia fra le ginocchia e non si muoveva,
quasi non respirava. Attalo si avvicinò facendo luce con la torcia. Ancora una
volta si appoggiò al muro. Nessuno vide il suo viso, ma quando parlò la sua
voce era strozzata e tremante. - Portate una barella, mettetelo su e portatelo
all’accampamento. Fategli preparare un giaciglio nella mia tenda e chiamate
Eteocle. - Poi si girò e si diresse verso l’ufficiale, la faccia trasformata
in una maschera di pietra. Si avvicinò tanto che i due nasi si sfioravano.
L’ufficiale tratteneva il fiato.
-
Chi è stato? Chi lo ha ridotto così? –
-
Ma… lui ha… è stato punito per quello che…-
-
CHI E’ STATO? - Il grido echeggiò per qualche secondo nelle grotte.
-
Io… mi occupo personalmente di casi così… delicati - La voce
dell’ufficiale era incrinata come se stesse per mettersi a piangere. La
voce di Attalo era ora un sussurro.
-
Se muore, tu sei morto! -
Poi
si diresse con passo marziale verso l’uscita e sparì.
Capitolo 8
Finalmente
insieme
Finalmente
l’aveva trovato. Alla fine era lì davanti a lui. Dopo mesi di ricerche,
mesi in cui era stato più volte sul punto di perdere la speranza, mesi in
cui aveva pensato di avere perso la ragione. Ora era lì e nessuno avrebbe
potuto portarglielo via.
Gli
ultimi tre giorni erano stati un incubo. Il ragazzo era stato portato alla
sua tenda dove Eteocle lo aveva visitato. Le sue condizioni erano peggiori
di quanto sembrava a prima vista. Quello che aveva detto l’ufficiale delle
prigioni era vero: quel povero ragazzo era stato torturato per giorni e
giorni. Aveva il corpo coperto da tagli, abrasioni, piaghe, ustioni; le
unghie dei piedi non c’erano più. Era quasi completamente disidratato.
Fortunatamente non aveva ossa rotte, solo qualche costola era incrinata. Il
viso non era stato quasi toccato. Quel viso… Eteocle aveva fatto preparare
una vasca di acqua tiepida in cui aveva fatto sciogliere del sale e vi aveva
immerso il ragazzo, pulendolo dallo sporco e dal sangue incrostato che lo
ricopriva. Poi aveva spalmato le ferite con unguenti e pomate, bendandolo
dove serviva con pezze di lino. Il ragazzo non aveva aperto gli occhi per
tutto il tempo, aveva emesso solo qualche debole lamento mentre veniva
lavato. Poi aveva bevuto qualche sorso di uno dei disgustosi decotti di
Eteocle. Aveva passato tre giorni e tre notti bruciato dalla febbre e in
preda agli incubi. Attalo gli era stato accanto tutto il tempo, tenendogli
pezze fresche sulla fronte e dandogli da bere di tanto in tanto. Poi la
febbre era finalmente passata. Ora dormiva tranquillo, respirando piano.
Attalo
lo guardava. No, non avrebbe potuto ingannarsi. Era esattamente come lo
ricordava, come era nei suoi sogni. E questo era un sogno divenuto realtà.
Mentre dormiva aveva il viso serio e dolce di un bambino. Improvvisamente la
tensione di tutto quell’anno infernale cadde. Attalo si lasciò finalmente
scivolare sul pavimento, appoggiò la testa alle mani e permise alle lacrime di
uscire.
Quando
Ulf aprì gli occhi non capì dove si trovava. Il primo pensiero fu che era
finalmente morto e si trovava in uno di quei paradisi dove andavano i guerrieri
quando morivano. Poi pensò che lui non era un guerriero. Comunque in quel posto
c’erano armi appese a rastrelliere, non erano armi come quelle del suo popolo,
sembravano piuttosto armi … macedoni. Era sempre più confuso. Così smise di
fare ipotesi e si dispose a raccogliere più informazioni che poteva per farsi
poi un quadro della situazione. Per prima cosa osservò se’ stesso. L’ultima
cosa che ricordava chiaramente era che stava scappando in un bosco e si era
arrampicato su un albero. Poi era stato abbattuto da una sassata alla spalla.
Era stato aggredito ancora una volta e ancora una volta lui si era difeso. Poi
era stato portato in quel posto buio e puzzolente e da quel momento non
ricordava altro che dolore, dolore e ancora dolore, intervallato da pochi e
brevi momenti di oblio.
Ora
era pulito, e a quanto sembrava, era stato medicato. Tentò di alzarsi in piedi
ma subito ricadde. Era ancora troppo debole. Improvvisamente fu preso dal
panico. Già un’altra volta era stato medicato e ripulito, e poi la sua vita
era diventata un incubo ancora peggiore di quello che era già.
In
quel momento notò una cosa a cui non aveva ancora fatto caso. Un uomo giaceva
ai piedi del suo giaciglio. Era certamente un macedone. Indossava una tunica
rossa e pezzi di armatura erano sparsi attorno a lui, come se li avesse tolti da
quella posizione e li avesse gettati qua e là a caso. A quanto pareva stava
dormendo su quello che sembrava il suo mantello. Chi era e cosa ci faceva lì?
Se era una guardia, non era molto in gamba, dal momento che si era addormentato.
Se avesse voluto, Ulf avrebbe potuto saltargli al collo e strangolarlo, mentre
era inerme, ma Ulf non voleva. Sentiva che quell’uomo non era una minaccia. Lo
guardò meglio. Sembrava piuttosto giovane, sulla trentina forse, e aveva
lineamenti decisamente belli, il naso e la bocca erano ben disegnati. I capelli
erano neri e lisci, tagliati piuttosto corti. Mentre Ulf lo fissava cercando di
decidere cosa fare, l’uomo si svegliò. La prima cosa che fece fu di volgere
lo sguardo verso Ulf. Sembrò sorpreso di vederlo sveglio. Ulf pensò che anche
i suoi occhi erano belli, neri come la notte, la loro espressione era severa ma
avevano anche qualcosa di dolce, e di triste, si, terribilmente triste. L’uomo
si mise a sedere senza togliergli gli occhi di dosso e poi fece una cosa che Ulf
non vedeva più da tanto tempo: gli sorrise.
Capitolo 9
Uno strano
ragazzo
Attalo
si svegliò indolenzito. Si era addormentato per terra, sopra il mantello. Si
era addormentato piangendo e ora sentiva gli occhi gonfi e la pelle del viso
tirata. Quando aprì gli occhi guardò subito verso il giaciglio del ragazzo ed
ebbe un tuffo al cuore quando se lo trovò davanti seduto.
Subito
si alzò con le mani davanti a sé, per far capire al ragazzo che non voleva
fargli del male. Ma il ragazzo non sembrava spaventato, piuttosto
incuriosito.
-
Tu mi capisci? So che sono molti mesi che sei qui ad Altea. Capisci la
mia lingua? Io mi chiamo Attalo. Sono un ufficiale dell’esercito Macedone. Lo
so, sono un tuo nemico, ma tu non devi temere niente da me. Non ho intenzione di
farti del male. No, voglio aiutarti. –
Si
avvicinò e si sedette davanti al ragazzo, che continuava a fissarlo per niente
preoccupato. Attalo era confuso. Se avesse passato quello che aveva passato quel
ragazzo, sarebbe stato terrorizzato alla sola idea di un macedone che si
avvicinava. Per la prima volta, la prima di moltissime altre, si trovò a
pensare che quello era uno strano ragazzo. Alzò una mano per toccargli il viso.
Gli accarezzò una guancia. Il ragazzo non si ritrasse. “Dio, eri quasi
morto…” Il ragazzo sorrise. Attalo fu sul punto di piangere.
-
Ulf - Attalo spalancò gli occhi davanti a quello che era sembrato il
latrato di un cane.
-
Cosa? -
-
Ulf, il mio nome. -
-
Cosa? Cosa? Tu mi capisci! Parli la mia lingua! Ma è fantastico! -
-
Si, è molto che sono qui. Mesi. - I suoi occhi si fecero tristi.
-
Ma tu… non hai paura di me?
-
No, tu non vuoi farmi male. Tu mi sei amico. Io lo so -
-
Allora tu mi credi? -
-
Io lo so -
Per
la seconda volta Attalo pensò che quello era uno strano ragazzo.
Da
quel momento cominciò quella strana convivenza. Ulf guarì velocemente (a detta
di tanti troppo velocemente) e passò i primi giorni ad esplorare il suo nuovo
territorio. Poi, come un giovane animale, ne prese possesso. Attalo passava le
giornate come sulle nuvole. Si era già reso ridicolo di fronte a tutto
l'accampamento. Dopo pochi giorni era già la leggenda di tutti i soldati, che
seguivano con divertimento le acrobazie del loro generale. Implacabile e
spietato come sempre durante l’addestramento dei suoi uomini, si trasformava
in un cagnolino scodinzolante non appena appariva la chioma bionda di Ulf.
Comunque
Ulf si era emancipato velocemente. Aveva scoperto con stupore che c’erano dei
cavalli nell’accampamento. Certo, c’erano anche al suo paese, ma erano
selvaggi e nessuno se ne serviva. Era nata così in lui una vera e propria
passione per quegli animali. Passava le sue giornate nelle stalle, li
strigliava, li nutriva e cambiava la paglia sporca con quella pulita, teneva in
ordine le finiture. Non senza difficoltà, perché all’inizio era un po’
spaventato da quelle bestie enormi, aveva imparato a cavalcare, così poteva
portare i cavalli a fare lunghe galoppate. Inoltre aiutava i soldati a cucinare,
a pulire le armi e a fare tutti quei lavori di manutenzione che continuamente
occorrevano in un accampamento. Partecipava addirittura agli addestramenti.
Quando poteva, andava a caccia nel bosco e portava sempre qualche capo di
selvaggina che cuoceva allegramente sul fuoco. Si era fatto una tunica di pelle
di cervo, come quella dei cacciatori del suo popolo. Lui non era un cacciatore,
non ancora, ma aveva optato per quell’abbigliamento quando aveva notato che il
vederlo girare con il gonnellino aveva uno strano effetto su una parte dei
soldati di Attalo, e soprattutto su Attalo stesso. Aveva trasferito il suo
giaciglio nelle stalle, per lo stesso motivo. Attalo era turbato da lui, questo
Ulf lo sentiva e se ne dispiaceva perché avrebbe voluto essergli amico. Solo
amico.
Inoltre
i soldati parlavano. Trovavano strano che lui, uno schiavo, facesse la stessa
vita di un soldato, anzi, molto meglio perché ne godeva tutti i benefici senza
averne i doveri e gli obblighi. Però nessuno si lamentava, anzi, tutti
trovavano la cosa molto divertente. Presto tutti presero a voler bene a quel
ragazzino che non stava mai fermo, era sempre allegro ed era sempre disposto a
dare una mano. Portava una ventata di allegria ogni volta che passava.
Da
parte sua Attalo era felice, non si curava dei pettegolezzi dei suoi uomini e
trovava stupendo che Ulf si fosse ambientato tanto in fretta. Sembrava anche lui
felice di quella vita e questa era la cosa più importante. Ulf si era rivelato
ancora meglio di quello che si era aspettato. Era un ragazzo incredibilmente
intelligente, imparava in fretta ed era pieno di entusiasmo. La sua padronanza
della lingua migliorava di giorno in giorno. Attalo fu sorpreso dal fatto che
Ulf non era un piccolo selvaggio come immaginava, ma era una persona con una sua
cultura, conosceva la storia del suo popolo, i canti e le leggende, aveva una
sua religione e conosceva i poteri delle erbe, con le quali preparava decotti,
pomate e medicamenti di ogni genere, tanto che Eteocle stava già pensando di
prenderlo come aiutante. Sembrava che al suo paese fosse destinato a diventare
una specie di stregone. Era forte e abile con le armi, sapeva lottare e
cacciare. “Se non lo amassi così tanto” pensava Attalo sorridendo, “penso
proprio che non potrei sopportarlo, quel piccolo saputello…”
Ma
c’era una cosa che lo lasciava sgomento: Ulf non sembrava minimamente
interessato a lui, non come voleva. La situazione aveva preso una piega che
Attalo non aveva previsto. Aveva immaginato di tenerlo con se’ come servitore
o qualcosa del genere, lo avrebbe sempre tenuto vicino e, giorno dopo giorno,
gli avrebbe dimostrato affetto e tenerezza, fino a conquistarlo e farne
finalmente il suo amante. Invece non stavano insieme per niente. Ulf si era
creato una sua vita, Attalo lo vedeva ogni tanto agli addestramenti, ma poi
spariva per tutto il giorno e lo vedeva solo di sfuggita.
Solo
alla sera gli dedicava un po’ di tempo. Di solito compariva dopo il tramonto
con qualche pezzo di lepre o qualche pesce cotto sulle pietre, e delle erbe
bollite e frutta. Entrava nella tenda di Attalo e si sedeva su un tappeto, a
gambe incrociate. Attalo si sedeva davanti a lui e insieme mangiavano. Poi
bevevano qualche bevanda calda preparata dai servitori del generale. Infine
Attalo si sedeva su una panca di legno dietro la tenda, verso il bosco, e Ulf si
sdraiava accanto a lui, posandogli la testa in grembo. E qui passavano un paio
d’ore parlando, mentre Attalo gli accarezzava dolcemente i capelli. Quello era
l’unico contatto che Ulf gli permetteva, ma soltanto perché sembrava una cosa
di cui aveva bisogno. Sembrava affamato di carezze, se ne stava immobile con gli
occhi chiusi, come se non volesse perdersi neppure una briciola delle sensazioni
che provava. Ma se Attalo tentava qualcosa di più, se cercava solo di parlargli
di quello che provava per lui, subito Ulf si ritraeva, cambiava argomento o
semplicemente trovava una scusa qualsiasi e se ne andava.
Così
passavano il tempo insieme parlando. Ora Attalo sapeva quasi tutto sulla vita di
Ulf, cosa faceva prima della guerra, come viveva, cosa gli piaceva e cosa no, ma
nonostante questo Ulf era ancora un mistero per lui. Ancora non sapeva niente di
quel ragazzo morto durante la battaglia in cui lo aveva visto per la prima
volta, e non sapeva cosa era successo da quando era arrivato ad Altea fino a
quando lo aveva trovato in quella cella. Avrebbe voluto fargli mille domande ma
capiva che Ulf evitava di proposito quei due particolari argomenti. Forse gli
causavano troppo dolore per parlarne.
Capitolo 10
La storia
di Ulf
Fu
Ulf a rompere il silenzio, quando si sentì pronto a farlo. Era una notte
bellissima, il cielo era limpido e pieno di stelle. La luna era piena. Ulf era
stato nel bosco fino a tardi. Per lui la luna piena aveva un significato
speciale. In quelle notti la Dea si manifestava in tutto il suo potere, così
Ulf restava in una radura nel bosco dove aveva eretto un piccolo altare, pregava
e le dedicava sacrifici. Quella sera non aveva mangiato carne, ma solo qualche
radice, e ora, rilassato e tranquillo, si godeva beato le carezze di
Attalo.
-
Non posso credere che sia tutto finito. – Attalo lo guardò – Finito
cosa? –
-
Oh, tutto. La guerra, il dolore… E’ davvero finita? Tu… insomma, tu
sei mio nemico. Tu eri là, hai ucciso, hai sterminato il mio popolo. Ma mi sei
amico, da quando sono qui tu mi hai sempre trattato bene. Perché?
-
Davvero non lo sai? Tu sai tutto, leggi nel cuore delle persone come in
un libro. Davvero non sai leggere nel mio?
Ulf
tacque per un po’. Certo che lo sapeva. Non c’era bisogno di leggere nel
cuore di Attalo per sapere. Gli si leggeva in faccia, lo si capiva da come lo
guardava, da come gli girava sempre intorno. Ne parlava tutto l’accampamento.
Anche ora Ulf poteva sentire il desiderio di Attalo che si sprigionava dalle sue
mani mentre lo toccava.
-
Tu sei buono con me. So cosa provi e questo è un altro motivo per cui ti
rispetto. – Attalo ebbe un tuffo al cuore. Allora sapeva… Era la prima volta
che accennava a quell’argomento di sua volontà. Il cuore di Attalo batté più
velocemente. Ulf continuò:
-
Un altro, al tuo posto, mi avrebbe già… - per un attimo strinse gli
occhi e la voce tremò – Oh, Dea! Da quando sono qui è successo tante
volte…
-
Cosa? Cosa è successo? – Attalo si riempì di orrore. Gli prese il
volto fra le mani – Cosa?
Ulf
si mise a sedere.
Per
qualche secondo non parlò. Se ne stava lì, guardandosi le mani appoggiate
sulle ginocchia. Improvvisamente Attalo si rese conto che era tutto finto,
l’allegria che ostentava con tutti, la sua spensieratezza, era solo una
maschera, che tutto quell’affaccendarsi, quel trovare sempre mille cose da
fare, quel saltare di qua e di la’ per il campo, era soltanto un modo per non
pensare, per non ricordare.
Quando
alla fine la chiusa saltò, un fiume in piena lo travolse.
-
Al mio paese, prima della guerra, avevo un fratello. Non era un vero
fratello, ma eravamo cresciuti insieme ed eravamo molto legati. Si chiamava Arne.
Era più grande di me di due anni. Oh, dovevi vederlo! Era il ragazzo più bello
che avessi mai visto. Era anche forte, e dolce a volte. – gli occhi di Ulf
luccicavano mentre ricordava
-
Io gli avevo dato tutto – alzò gli occhi e guardò Attalo per un
istante, come per assicurarsi che avesse capito cosa intendeva. Attalo aveva
capito perfettamente e una spina di gelosia gli si era infilata nel cuore.
Comunque annuì e Ulf continuò.
-
Tu non sai come lo amavo. Sarei morto per lui. E invece… - una lacrima
gli rigò una guancia.
-
Io non potevo. Lo sapevo, ma lo facevo lo stesso. La Dea non voleva. Lei
mi aveva scelto per se’ e io avrei dovuto serbarmi per Lei. Un giorno Le sarei
stato consacrato e il mio corpo e la mia anima avrebbero dovuto essere solo
Suoi. Invece io avevo donato tutto ad Arne, corpo e anima. Lei non avrebbe mai
avuto niente che fosse solo per Lei. Io lo sapevo fin dall’inizio, e sapevo
che prima o poi la punizione sarebbe arrivata e sarebbe stata implacabile. Ma
credevo che avrebbe punito solo me… Ero stato io a cominciare. Arne era
innocente, lui non sapeva niente di queste cose. Lui mi voleva bene e basta…
Invece ho sbagliato. Quando la punizione è arrivata è stata la peggiore di
tutte. Mi ha tolto tutto, la casa, la famiglia, e mi ha tolto Arne. Ha punito
anche lui. E tutto per colpa mia. –Ora Ulf piangeva come un bambino. Tutto il
dolore di quegli ultimi due anni stava uscendo da lui come un fiume in piena.
Attalo era paralizzato. Molte delle sue domande stavano trovando risposta.
-
Ora io non posso… forse adesso capisci. Io ti sono grato per tutto, tu
mi hai salvato la vita. Forse avrei preferito di no, sarei morto e tutto sarebbe
finito. Ma io credo che la Dea ti abbia mandato a salvarmi. Non so perché,
forse la mia punizione non è ancora finita, o forse vuole solo darmi un’altra
possibilità. Io non posso… Non so neanche se lo vorrei… Mi sento ancora
troppo legato ad Arne. Tu sei buono con me e io ho imparato a volerti bene, se
fosse solo per farti felice non esiterei un istante. Ma non posso, sento che Lei
non vuole. – tacque per un istante, una certezza improvvisa balenò nella sua
mente - Lei mi lascerà qui fino a quando la mia mente e il mio cuore saranno
ancora puri, e poi troverà il modo di riportarmi a casa.
Attalo
lo guardava. Senza rendersene conto aveva preso le mani di Ulf tra le sue e ora
le stava stringendo. Ulf si riscosse, come se una specie di torpore si fosse
impadronito di lui. Tolse le mani da quelle di Attalo e si alzò, entrò nella
tenda e uscì con due tazze fumanti. Bevvero in silenzio.
-
La prima volta è successo durante il viaggio. Era un inferno, eravamo
tutti incatenati, camminavamo tutto il giorno e avevamo i piedi scorticati fino
all’osso. Ci davano da mangiare quello che bastava per tenerci vivi. Vedevo
continuamente gente che moriva, alcuni si accasciavano a terra, sfiniti, e
imploravano di potersi fermare, anche solo per pochi minuti, e loro li
picchiavano. C’erano donne che vedevano i loro bambini morirgli fra le
braccia.
Una notte, mentre dormivo, un sonno che sembrava più una perdita di
conoscenza, ho sentito qualcosa che mi toccava. Era un uomo, un soldato, che mi
stava toccando dappertutto. – Ulf rabbrividì - Io ero incatenato e non potevo
difendermi. Era come un incubo, sentivo il suo odore, il suo alito pestilenziale
sulla mia faccia, e le sue mani… - ancora una volta strinse gli occhi – che
mi frugavano dappertutto… Oh! Dea…
Poi improvvisamente ho sentito dentro di me un’energia che non avevo
mai provato. Per giorni mi ero sentito abbandonato dalla mia Dea. In quel
momento invece la sentii vicino a me più che mai. Non provavo più ne’ fame,
ne’ sete, ne’ dolore… Riuscivo a muovermi con facilità, con…
leggerezza. Non ricordo bene cosa successe, ma ricordo che quell’uomo si
divincolava fra le mie mani e non riusciva a liberarsi. Le mie unghie
penetravano nella sua carne. Affondai i denti e sentii il sapore del suo
sangue… E’ stato allora che ho pensato per la prima volta che forse la Dea
mi stava dando un’altra possibilità. Quando siamo arrivati ad Altea mi hanno
portato in uno strano posto, dove mi hanno pulito e medicato. E lì è successo
un’altra volta. Un altro uomo ha tentato di toccarmi. Il mattino dopo sono
stato portato in una cella. Tutti mi guardavano in modo strano, come se avessero
paura di me. Io non capivo cosa dicevano, ma sentivo che non erano cose buone.
Adesso ti faccio una domanda… Perché? Perché io faccio questo effetto sulle
persone? Perchè tutti quelli che mi vedono provano una strana attrazione per
me, al punto che alcuni sono pronti anche a farmi del male? – Attalo rimase
perplesso. Davvero non lo sapeva? Aveva fatto quella domanda con tanta
innocenza… Davvero non si rendeva conto del potere che aveva sulle persone?
-
Non è facile rispondere…- disse Attalo – tu possiedi una bellezza
molto particolare. Fai pensare ad una ragazza, ma non sei effemminato, anzi. Fai
nascere negli uomini, anche quelli che solitamente non sono attratti dai
ragazzi, un forte desiderio di proteggerti, di… stringerti fra le braccia. Non
ti so spiegare il perché, ma è così. E’ quello che provo anche io… Però
ci sono uomini abituati ad avere tutto con la forza, e questi non possono fare a
meno di tentare di avere anche te in quel modo. – Attalo abbassò gli occhi e
la voce – Anche io ho avuto quella tentazione, più di una volta. L’unica
cosa che mi ha trattenuto è stata la certezza che questo significherebbe
perderti per sempre. Così preferisco tenerti vicino in questo modo e accettare
quello che tu vuoi darmi. Io non sono solo attratto da te. Forse all’inizio
era così, ma ora che ti conosco bene, so che quello che provo per te è molto
di più. – Attalo guardò Ulf. Questo lo stava fissando a bocca aperta. Certo
non si aspettava una confessione in piena regola. Per la prima volta il ragazzo
si rese conto della vera portata del sacrificio che Attalo stava sopportando per
lui. Preso dal panico, cercò qualcosa da dire ma Attalo lo prevenne:
-
Avanti, se te la senti, puoi continuare il racconto. Io sono pronto ad
ascoltarti. Se per te non è troppo doloroso…
-
No, no, - Ulf lo ringraziò dentro di sé per averlo tolto dal quel
momento di terribile imbarazzo – dopo qualche giorno è venuta una donna, mi
ha guardato da capo a piedi, ha voluto vedere anche le mie parti intime, e i
denti, e ha guardato anche fra i capelli. E’ stato terribile, così umiliante.
Nulla, comunque, a confronto di quello che sarebbe venuto dopo. Poi se ne è
andata. Due uomini mi hanno preso in consegna e mi hanno portato in un altro
posto. Anche questo era un posto così strano. C’erano ragazze e ragazzi, con
strani vestiti, e avevano tutti odori molto forti, pungenti, come di fiori
appassiti e frutti troppo maturi. Tutti ridevano, ma nessuno era felice. Allora
non capivo niente, ero stordito da tutto quel rumore, quella confusione, e
quella puzza mi nauseava. Mi hanno portato in una stanza e mi hanno chiuso
dentro. Poi sono entrate due donne che mi hanno lavato e mi hanno spalmato sul
corpo un olio che aveva quella puzza terribile! Alla fine mi hanno lasciato
solo. In quella stanza non c’erano finestre, perciò non so quanto tempo sia
passato. Non c’erano sgabelli, ne’ letti, così mi sono accucciato in un
angolo e mi sono addormentato. Poco dopo il mio risveglio è entrato un uomo. Le
sue intenzioni mi sono state subito chiare. Mi ha bloccato contro il muro ed ha
tentato di baciarmi. In un attimo ho capovolto la situazione, l’ho preso per
le spalle ed ho picchiato lui contro il muro. Solo che devo averlo fatto con
troppa forza, perché subito è crollato a terra, con una pozza di sangue che si
allargava dietro la sua nuca. Allora ho tentato di scappare ma la porta era
bloccata da fuori. Sono accorsi degli uomini e mi hanno subito fermato. E’
strano, ma quella forza spaventosa si risvegliava in me solo quando stavo per
essere aggredito sessualmente, mentre quando venivo picchiato la Dea mi lasciava
inerme come un bambino. Non è ridicolo? No. Non lo è per niente. Faceva tutto
parte della mia punizione. E questo è quello che è successo: mi hanno
picchiato e frustato e ancora picchiato. Poi mi hanno incatenato i polsi, con la
faccia rivolta al muro, e le caviglie al pavimento.
– Ulf si interruppe per bere un sorso della tisana che ormai era
fredda. Attalo lo ascoltava, agghiacciato. - Non immagini cosa è successo dopo?
Nemmeno la Dea ha potuto difendermi. Entravano e facevano quello che volevano. A
volte anche tre, quattro in un giorno. Alcuni, prima, si divertivano a farmi del
male. Smettevano solo quando mi accasciavo a terra, senza forze. Poi entravano
quelle donne, mi lavavano, mi davano da mangiare e se ne andavano. E il giorno
dopo tutto ricominciava. – A questo punto Attalo lo fermò.
-
Basta, ti prego! Fermati un attimo, non ce la faccio più ad ascoltare.
– Si era appoggiato con le mani al tronco di un albero. Sembrava incapace di
reggersi in piedi da solo. Ulf lo prese per una spalla, e con uno strattone, lo
costrinse a girarsi. I suoi occhi fiammeggiavano
-
Be’! Cosa ti prende? Non volevi sapere? Non volevi conoscere il destino
di tutte quelle persone che avete strappato alla loro terra, alle loro case? –
Attalo si ritrovò davanti il ragazzo che aveva visto quel giorno, durante la
battaglia, con gli occhi così pieni di odio che Attalo si sentì travolgere e
barcollò. – Non volevi sapere? Eccoti accontentato: ora lo sai! – Ma poco
dopo la rabbia aveva già lasciato il viso e la voce di Ulf, che ora esprimevano
solo un’infinita tristezza. -
Forse la Dea ha avuto pietà di me, o forse ha temuto che morissi troppo
presto. Comunque ha mandato qualcuno a salvarmi da quell’inferno: un vecchio,
ormai prossimo alla morte. Oh, non un vecchio qualsiasi, un senatore, niente
meno, più vicino agli ottanta anni che ai settanta. Non so come ha saputo di
me, e non so perché lo abbia fatto, comunque mi ha portato via da
quell’inferno e mi ha accolto in casa sua. Per la prima volta da quando sono
arrivato ad Altea, sono stato sereno. Non felice, ma almeno sereno. Per i pochi
mesi che ho vissuto a casa di quell’uomo, non ho avuto paura. Mi trattava
bene, mi nutriva e mi vestiva. In cambio voleva solo che stessi sempre accanto a
lui, e questo non mi pesava molto. Quando andava a passeggio, nel grande parco
intorno alla sua immensa villa, si appoggiava al mio braccio. Poi non ha più
potuto camminare, così se ne stava seduto fuori, all’ombra di un grande
albero, e mi faceva sedere ai suoi piedi e mi teneva una mano sulla testa.
Intanto parlava, parlava per ore. E io lo ascoltavo. Da lui ho imparato la
vostra lingua e tutto quello che so sul vostro mondo. Alla fine non si è più
alzato dal letto. Gli sono stato vicino fino alla fine. E’ morto con la sua
mano fra le mie. Allora ho pianto. Per me è stato un po’ come Lupo Grigio.
Era vecchio e saggio, e ho provato un dolore molto forte quando è morto. –
Ulf si concesse un momento di silenzio, per ricordare quell’unico amico –
E’ stato l’unico che mi ha trattato come un essere umano. -
-
Penso che a quel punto la Dea ha deciso che avevo riposato a sufficienza.
Insieme alla casa e a tutte le proprietà del vecchio, schiavi compresi, sono
stato ereditato dal figlio. Non si era mai fatto vedere, mentre il padre stava
morendo, ma è stato velocissimo ad arrivare quando si è trattato di prendere
possesso della casa. Oh, era molto diverso dal vecchio, era un bastardo, un
sadico. Si divertiva a torturare gli schiavi, inventava ogni volta punizioni
diverse e sempre nuove. Per me, poi, aveva una predilezione particolare. Ormai
conoscevo abbastanza bene la lingua da capire i suoi insulti. Mi accusava di
avere traviato suo padre, di averlo indotto a pratiche contro natura, di avere
approfittato di un povero vecchio per la mia schifosa lussuria. Un giorno gli
risposi che doveva amare molto suo padre per difendere a quel modo la sua
memoria. Però non capivo perché, se lo amava così tanto, non si era mai fatto
vedere per tutto quel tempo, nemmeno per vedere come stava. Inutile dire che da
quel momento sono stato segnato. Mi faceva fare tutti i lavori più faticosi,
dall’alba al tramonto, e non perdeva occasione per punirmi, per qualsiasi
cosa, per qualsiasi motivo, anche inventato. Alla fine non ce l’ho fatta più,
ed ho tentato di scappare. E’ stata l’ultima goccia. Naturalmente mi ha
fatto inseguire dai suoi uomini e dai suoi cani. Sono stato subito raggiunto dai
cani e ho dovuto rifugiarmi su un albero. Qui mi hanno raggiunto gli uomini e
uno di loro mi ha lanciato un grosso sasso e mi ha colpito. Ci crederai? Anche
lui ci ha provato. Ha ordinato ai due compagni di tenermi e si è spogliato.
Dopo poco della sua faccia rimaneva solo un grumo di carne sanguinolenta.
Da allora ricordo poco. Sono stato riportato alle prigioni e sono stato
condannato a morte. Avevo ucciso quattro persone dalla mia cattura fino a quel
momento. E qui finisce il mio racconto. Poi sei arrivato tu, e il resto lo sai.
-
A
quel punto Attalo, completamente annientato, si era abbattuto sulla panca e non
aveva più nemmeno la forza di tenere la tazza fra le mani. Voleva sapere, ed
era stato accontentato. Ora si sentiva colpevole, come se lui stesso avesse
causato a Ulf tutte quelle sofferenze, e in un certo senso era proprio così.
Dopotutto lui era un condottiero dell'esercito macedone, aveva guidato i suoi
uomini nella guerra contro gli Ariani, aveva ordinato, proprio lui, di uccidere
e fare prigionieri da portare ad Altea come schiavi. Ora si sentiva in colpa e
contemporaneamente si sentiva un dannato ipocrita. Ricordava perfettamente come
era felice quando poteva andare in guerra, come amava sentire l’energia che
scorreva in lui durante i combattimenti. Sapeva benissimo come venivano trattati
gli schiavi, lui stesso ne aveva, sapeva anche dei bordelli dove ragazze e
ragazzi venivano venduti come oggetti. Ma fino a quel momento era stato tutto
lontano da lui, tutto era stato considerato normale e giusto. Era il naturale
corso della vita, c’era chi comandava e chi era schiavo, chi vinceva e chi
perdeva. Persino ora non riusciva a dispiacersi per tutti gli altri che avevano
avuto la stessa sorte di Ulf, erano persone che non conosceva, di cui non gli
importava, e che comunque continuavano a fare parte delle cose normali e giuste,
come erano sempre state. Lui soffriva solo per Ulf, solo di lui gli importava.
Si sentiva colpevole perché non aveva potuto fare niente per impedire tutto
quel dolore, e lo avrebbe fatto a costo della sua vita.
Ulf
era sempre in piedi davanti a lui. Voleva gettarsi ai suoi piedi, abbracciargli
le ginocchia e implorare il suo perdono. Ma il suo orgoglio glielo impedì.
Nella sua vita non aveva mai chiesto scusa a nessuno. Ulf se ne andò.
Capitolo 11
Un nuovo
presagio
Ulf
non tornò subito alle stalle, anche lui si sentiva distrutto. Non riusciva
a capire perché aveva raccontato ad Attalo tutta la sua storia, non era mai
stata sua intenzione. Era una parte della sua vita che si era sforzato di
dimenticare, e quel racconto lo aveva obbligato a rivedere ogni scena, a
riprovare ogni sensazione. Era stato come rivivere quei momenti. Decise di
passare per il bosco, l’aria e l’oscurità lo avrebbero aiutato a
rimettere ordine dentro di sé. Dopo tutto non era stato doloroso come
immaginava, forse il tempo stava realmente guarendo le sue ferite, e
parlarne lo aveva alleggerito di un peso che si portava dentro da troppo
tempo. Era come se le parole, uscendo da lui, avessero trascinato con sé
anche il significato, lasciandolo sorprendentemente libero. Gli era
dispiaciuto vedere come Attalo aveva reagito al suo racconto, il suo dolore
era sincero e l’ultima cosa che Ulf voleva era vedere Attalo soffrire, ma
nello stesso tempo, la sua parte ariana e nemica, ne aveva goduto: una
piccola vendetta contro chi, dopo tutto, aveva avuto una parte, anche se
indiretta, in tutto quello che gli era capitato.
La
notte era ormai quasi al suo termine, da lontano si vedeva una debole luce
rosata che annunciava l’alba. Ulf si diresse verso le stalle, anche se ormai
non avrebbe più potuto dormire molto. Un movimento attrasse il suo sguardo, fra
gli alberi.
Lei
era la’, come quel giorno di tanto tempo prima, e come allora lo fissava. La
cerva rossa si avvicinò. Ulf allungò la mano e per la prima volta la toccò.
– Madre – disse in un sussurro. Finalmente il tempo era giunto, ora avrebbe
potuto tornare a casa.
Capitolo 12
Un ritorno
inaspettato
Il
giorno dopo si rividero alle esercitazioni e si comportarono come se niente
fosse accaduto. Attalo fu severo come al solito e non perse occasione di
insultare i suoi uomini e di trattarli come bambini deficienti. Ulf si impegnò
e si divertì come sempre. Nessuno dei due aveva dormito, quella notte.
Ad
un certo punto Attalo lasciò liberi gli uomini e, senza una parola, se ne andò.
Ulf e un soldato, un ragazzo più o meno della sua età con cui aveva stretto
amicizia, si sedettero su una panca per bere e rinfrescarsi dopo
l’addestramento. Il soldato aveva uno strano sorriso sul volto.
-
Dimmi la verità, cosa è successo questa notte? Il comandante aveva una
faccia che sembrava il culo di un gatto e non ti ha tolto gli occhi di dosso per
un solo minuto. Non è che non gliel’hai dato? – Ulf rise. Il soldato
continuò.
-
Dai, raccontami. Il comandante lo conosciamo bene tutti, da un bel po’
di tempo, ma com’è quando siete soli? E’ autoritario come con noi oppure,
fra le tue braccia, si trasforma in un tenero cucciolone? – Ulf continuava a
sorridere ma non rispondeva. – Insomma, Ulf, ti decidi a parlare? Va bene, te
lo chiedo chiaro e tondo: com’è il nostro generale a letto? – Ulf lo guardò
– E perché dovrei saperlo? – Avanti, non scherzare. Lo sa tutto il campo
che il comandante ha perso la testa per te. Si racconta che ha passato due anni
della sua vita a cercarti, e adesso ti tratta con tutti i riguardi. Non posso
credere che non voglia niente in cambio. –
-
Tu non ci crederai, come non ci crederà mai nessuno. Ma è così. Noi
non siamo mai stati a letto insieme. – Il sorriso di Ulf si appannò – Sai,
a volte le cose non sono semplici come sembrano. – Poi guardò il soldato e di
nuovo sorrise – Ma perché ti interessa tanto sapere com’è a letto? – Il
soldato avvampò e un’aria imbarazzata gli si dipinse sul viso – No, niente,
così… Bè, insomma, lui è così… bello! E poi, è come si muove, come
cammina, e come combatte… - Il soldato abbassò gli occhi e poi li rialzò per
incontrare quelli di Ulf – Insomma, se lo chiedesse a me, non me lo farei
ripetere due volte. Invece tu vuoi farmi credere che… - Ulf era intenerito
dalla confessione del compagno. Lo fissò negli occhi – E’ così, te l’ho
detto. Spesso le cose sono molto più complicate di quello che sembrano.-
Attalo
si sentiva terribilmente stanco e non aveva testa per l’addestramento, quel
giorno. Aveva fatto tutto il possibile ma alla fine non ce l’aveva fatta più.
Così aveva deciso di interrompere tutto, con immensa gioia dei suoi uomini.
Dentro di lui una moltitudine di pensieri e sentimenti diversi si accavallavano,
si spingevano, emergevano e poi venivano di nuovo schiacciati da altri, tanto
che ormai era completamente confuso. Non sapeva più cosa provava realmente,
cosa voleva e cosa aveva intenzione di fare. Ulf, in fondo, non era felice. La
cosa migliore era rimandarlo dal suo popolo, dove forse avrebbe ritrovato uno
scopo per cui vivere. Ma il pensiero stesso di separarsi da lui gli risultava
intollerabile. Però, anche continuare a vivere così, con quel costante
desiderio dentro di lui, con l’oggetto di tutti i suoi sogni che gli ballava
continuamente davanti, senza che lui potesse MAI sfogare finalmente la sua
brama, no, non poteva nemmeno continuare a quel modo. Non era molto lontano
dall’impazzire completamente. E allora? Cosa fare? Una decisione andava presa,
e al più presto.
Entrò
nella tenda, meccanicamente tolse i pezzi dell’armatura, si avvicinò alla
tinozza e si versò dell’acqua sul viso e sulla testa. Solo allora si accorse
di una presenza nella sua tenda. Immediatamente estrasse la spada, voltandosi di
scatto e dandosi mentalmente dell’idiota. Questa era un’altra prova della
sua degradazione mentale, prima di tutta quella storia non si sarebbe mai fatto
cogliere di sorpresa, invece adesso era completamente distratto e perso nei suoi
pensieri. Se quell’uomo fosse stato un nemico avrebbe potuto ucciderlo dieci
volte.
Ci
mise un po’ per metterlo a fuoco. Era una figura alta, in uniforme macedone.
Mentre Attalo lo scrutava per capire chi fosse, l’uomo avanzò e si portò in
piena luce. Attalo lasciò cadere la spada, fece un passo verso l’uomo, poi un
altro, poi altri tre passi, sempre più veloci. Ora era a pochi centimetri
dall’uomo. Lo guardò per un minuto, il cuore che batteva all’impazzata, gli
occhi che si stavano riempiendo di lacrime. Un altro piccolo passo, poi le sue
braccia si chiusero intorno all’ampio torace dell’uomo, e la sua guancia si
posò sul suo petto. Una serie di singhiozzi si spensero sulla tunica rossa. Poi
un sospiro, un sussurro, e una sensazione di pace allagò il petto di Attalo –
Sei tornato! –
Efestione
era tornato. Attalo non lo vedeva da quattro anni, da quando Efestione aveva
deciso di seguire l’Imperatore in Egitto, mentre Attalo era rimasto in
Macedonia. Non aveva mai capito come mai l’amico avesse preso quella decisione
improvvisamente, senza nemmeno consultarlo, e comunicandoglielo solo poche ore
prima di partire. Sembrava che lo avesse fatto di proposito per impedirgli di
seguirlo. Perché lo avrebbe fatto, certo che lo avrebbe seguito. Da quando si
erano conosciuti, a quattordici anni, non si erano mai separati, se non per
pochi giorni. Avevano frequentato
la stessa accademia, e poi avevano sempre fatto di tutto per essere assegnati
agli stessi battaglioni o comunque per non allontanarsi mai molto uno
dall’altro. Avevano combattuto sempre insieme, uno al fianco dell’altro, e
le loro carriere nell’esercito erano proseguite quasi parallelamente. Attalo
non contava le volte in cui si erano salvati la vita l’un l’altro. Poi,
quattro anni prima, quell’assurda decisione li aveva separati.
Ora
Efestione era tornato, ed era ancora lì davanti a lui. Era molto cambiato
dall’ultima volta. Il suo viso era invecchiato, la pelle era più scura e
c’erano nuove rughe e nuove cicatrici. I capelli erano tagliati cortissimi,
mentre una volta erano lunghi fino alle spalle e sempre trattenuti da un
laccetto di cuoio. Anche l’espressione era diversa, più dura, persino feroce,
la bocca aveva preso una piega amara, mentre gli occhi azzurri erano gelidi,
sottolineati da due righe nere. Aveva un’aria stanca. Attalo pensò che
dimostrava più dei suoi trentadue anni.
Efestione
era un macedone atipico, suo padre era un nobile molto amico di Filippo, il
padre dell’Imperatore Alessandro, mentre la madre era una schiava ariana,
morta quando Efestione era piccolissimo.
Efestione
non ricordava sua madre, e non amava suo padre, però gli era grato. Avrebbe
potuto benissimo liberarsi di lui, vendendolo e facendolo vivere per sempre come
uno schiavo. Invece, anche se non lo aveva mai riconosciuto come figlio, lo
aveva tenuto con sé e si era occupato della sua educazione. A quattordici anni
lo aveva mandato in accademia. Certo non avrebbe mai ereditato il nome e le
sostanze del padre, ma il vecchio gli aveva lasciato i mezzi per mantenersi da
solo e guadagnarsi una posizione.
Attalo
non stava più nella pelle. Mentre bevevano una tisana calda, tempestava
Efestione con decine di domande. Voleva sapere tutto di quei quattro anni, dove
era stato, cosa aveva fatto. Efestione rispondeva a tutto, sorridendo. Ma il suo
atteggiamento era strano. Anche se sembrava felice di rivederlo, non dimostrava
l’entusiasmo che provava Attalo e che questi si sarebbe aspettato da lui. Se
ne stava seduto impassibile sorseggiando la tisana e guardandolo con quel suo
sorrisetto più finto che sincero, e teneva le distanze. Quando Attalo lo aveva
abbracciato non aveva mosso un muscolo, mentre ai tempi della loro amicizia
bastava che stessero lontani per due giorni per abbracciarsi e ridere e ballare
per ore come se non si fossero visti per mesi. Cos’era successo? Aveva forse a
che fare con il motivo dell’improvvisa partenza, quattro anni prima? La
domanda era lì, che aleggiava fra loro due. Ma Attalo non osava esprimerla ed
Efestione non affrontava l’argomento. A notte tarda si separarono. Attalo fece
approntare una tenda per Efestione, e poi si ripromise di risolvere la questione
il giorno dopo, a mente fresca. Solo prima di addormentarsi si rese conto che,
per qualche ora, non aveva pensato a Ulf, per la prima volta da almeno due anni.
Il
giorno dopo Attalo si ritagliò un paio d’ore fra i suoi numerosi impegni, da
passare con Efestione. Aveva molte, troppe domande da fargli. Mentre
passeggiavano lungo l’argine del fiume, Attalo decise di non girare troppo
intorno all’argomento, ma di affrontare subito quello che gli stava a cuore.
-
Perché te ne sei andato? – domandò improvvisamente, a bruciapelo.
Efestione fu colto di sorpresa, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare
l’argomento, ma non credeva così presto. Non era ancora pronto, così
contrattaccò. Anche lui aveva una domanda.
-
E tu? Cosa stai combinando? – si fermarono e Efestione si piazzò
davanti all’amico, gambe larghe e braccia incrociate. – Ci sono strane voci,
su di te, voci che arrivano fino ad Alessandria. Già dall’anno scorso si
sentiva parlare di una strana storia, di un generale macedone che si era
pazzamente innamorato di una ragazzina ariana e la stava cercando in lungo e in
largo. Si racconta che questo generale abbia trovato l’oggetto delle sue
ricerche e che ora vivano insieme felici e contenti. La cantano i cantori nelle
piazze e nelle feste patrizie le dame se la raccontano l’un l’altra
sospirando. E’ la storia che più va di moda di questi tempi.
– Attalo era impallidito, ma cercò di non darlo a vedere – Da quando
in qua provi interesse per queste storielle per dame annoiate? Non ti facevo così
romantico! –
-
Non ho mai provato interesse per questo genere di cose, ma ho cominciato
ad averne quando nella storia ha fatto capolino un nome: il generale Attalo. Si,
hai capito bene. Si fa il tuo nome. Non capisci? Tutti ti conoscono, e ora tutti
parlano di te. - Attalo cominciava a capire il perché del ritorno del suo
migliore amico, e, a quanto pare, non aveva niente a che fare con l’amicizia.
– E così tu sei tornato qui per controllare, per vedere cosa c’è di vero
in quella stupida storiaccia da bordello! E io che pensavo che avessi soltanto
voglia di vedermi! – Attalo riprese a camminare con passo sostenuto ed
Efestione fu costretto a rincorrerlo. – Ma non è tutto, l’ultima versione
della storia è quella più interessante di tutte. La vuoi sentire? – Attalo
si girò e fissò l’amico con aria di sfida. – Avanti!-
- Si narra che la ragazzina sia in realtà un ragazzo. Quando l’ho
sentita sono quasi svenuto dalle risate! Il generale Attalo, innamorato di un
ragazzo? Ha! Proprio lo stesso uomo che non si sarebbe fatto toccare da un altro
uomo nemmeno sotto minaccia di morte! Ridicolo, davvero ridicolo! E’ vero,
sono tornato per vedere con i miei occhi per poi tornare e ricacciare loro in
gola tutte quelle calunnie. E invece… Prima di venire da te ho chiesto un
po’ in giro, ma ancora non ci potevo credere. Poi ho visto. E’ lui, vero?
E’ quel ragazzino biondo. –
Attalo
non sapeva più dove guardare. Non sapeva cosa dire. Si sentiva piccolo
e sporco, sotto lo sguardo tagliente di Efestione. – E’ vero.-
furono le sole parole che fu in grado di dire. Efestione tornò al campo,
Attalo, mesto, lo seguiva.
Capitolo 13
La
confessione
Tornarono
nella tenda. Ora Efestione si sentiva pronto.
-
Perché me ne sono andato? E’ strano che tu me lo chieda quando
dovresti sapere la risposta. Davvero hai passato questi quattro anni chiedendoti
perché? Non capisco se sei ingenuo oppure soltanto stupido! – Attalo era
sconvolto. Aveva sperato di passare un po’ di tempo con Efestione, per parlare
del loro passato, per ritrovare almeno un po’ dell’antica felicità, invece
Efestione non faceva altro che accusarlo. Perché? Perché era tornato in realtà?
Cosa voleva da lui?
-
Non lo sai? Allora non ricordi! Se è così ora ti rinfrescherò la
memoria! Quindici, anzi no, diciassette. Sono passati già diciassette anni…
Tu forse davvero non lo ricordi, per te è stato solo un episodio senza
importanza, ma nella mia memoria quella notte è impressa a fuoco. Era il
secondo anno all’accademia, noi due eravamo già molto amici. Tu eri un
ragazzino solitario, non avevi amici, tutto quello che ti interessava era
diventare bravo con le armi. Ma con me eri diverso, mi hai permesso di entrare
nel tuo mondo e mi hai dimostrato affetto. Tanto che io ho pensato di vedere in
quell’affetto qualcosa che non c’era. Capisci cosa intendo? – No, Attalo
non capiva. Fissava Efestione socchiudendo gli occhi. Cosa stava cercando di
dire? Efestione continuò – Ora ti dirò una cosa che ti stupirà. Io ti
guardavo mentre ti allenavi. Passavo ore ad osservarti. Avevi un modo di
muoverti mentre combattevi, forza e grazie insieme, eri diverso da tutti gli
altri. E avevi uno sguardo… era come se in quei momenti la tua vita fosse
tutta lì, racchiusa nella tua spada. Eri nato per combattere. E io ero
incantato da te. – Attalo spalancò gli occhi. Efestione stava proprio dicendo
che… - Il fatto che tu avessi permesso a me, solo a me fra tanti, di esserti
amico, be’, mi dava modo di sperare. Così quella notte ti ho baciato. Davvero
non ricordi? Eri sdraiato nel tuo letto e io sedevo al tuo fianco. Parlavamo un
po’ prima di dormire. La luna entrava dalla finestra ed accarezzava il tuo
viso. Eri così bello… Non ho più potuto trattenermi ed ho appoggiato le mie
labbra sulle tue. Tu non hai fatto un movimento. Con calma mi hai allontanato
con le mani. Io sono andato a letto e non ho chiuso occhio per tutta la notte.
Ero terrorizzato, avevo paura di avere distrutto per sempre la nostra amicizia.
Invece il giorno dopo ti sei comportato come al solito, come se niente fosse.
Solo nel pomeriggio mi hai tirato da parte e mi hai detto, con molta serietà,
che eri lusingato dal mio gesto e che anche tu mi volevi bene, che io ero molto
importante per te, ma fra di noi c’era solo una bella amicizia e ci sarebbe
stata solo quella. -
Attalo
era sconvolto. Aveva davvero dimenticato quella notte! Come aveva potuto farlo?
Ora invece ricordava benissimo, tutto stava tornando come se fosse successo il
giorno prima. Ricordava la luna, il silenzio della camerata, e il calore del
corpo di Efestione mentre si avvicinava. Ricordò con un brivido le labbra
dell’amico sulle sue e il senso di calore che aveva provato alla bocca dello
stomaco. Si era spaventato, aveva avuto paura di quella sensazione e lo aveva
respinto. Poi aveva cercato di non pensarci più. E ci era riuscito
maledettamente bene.
-
Allora non ricordi nemmeno dell’altra volta? – Attalo si sentiva
male. Si, c’era stata anche un’altra volta.
-
Allora non eravamo più ragazzini. Ci stavamo allenando alla lotta, io
contro te. Erano momenti che odiavo e temevo come la morte, e allo stesso tempo
non desideravo altro. Erano gli unici istanti in cui potevo toccarti e bloccare
il tuo corpo contro il mio. Potevo fare quello che volevo, toccare le tue
braccia, le tue gambe, stringere il tuo petto, avvicinare il tuo viso al mio
fino a sfiorarlo. Ma avevo paura, ormai ero un uomo, e sapevo che prima o poi
avrei perso il controllo. – Efestione tacque per un attimo, e osservò Attalo
diventare sempre più pallido. Ora ricordava. - E quella volta accadde. Eri
sotto di me, completamente immobilizzato, inerme. Io sono sempre stato più
forte di te. Eri più abile con la spada ma nella lotta non sei mai riuscito a
battermi. Le nostre labbra erano così vicine… Così ti ho baciato di nuovo, e
anche quella volta tu hai cercato di allontanarmi, ma io non te l’ho permesso.
Tu ti dibattevi e mi insultavi, ma io non avevo nessuna intenzione di smettere.
– Attalo ricordò. Aveva avuto paura quella volta. Era stato certo che
Efestione non si sarebbe fermato.
-
Ho tentato in tutti i modi – disse – ma non riuscivo a liberarmi. Poi
però mi hai lasciato andare. -
-
Si, sapevo di essere molto vicino ad averti. Ma non volevo che fosse così,
non in quel modo. Non appena sei stato libero, ti sei ribellato e me le hai date
di santa ragione – Efestione rise, ma i suoi occhi erano tristi.
-
Capisci ora perché me ne sono andato? Io non potevo più continuare in
quel modo. Certo potevo avere tutti i ragazzi che volevo, ero il re dei bordelli
all’epoca, e molte reclute sono cadute sotto il mio fascino. Ma io volevo te.
E tu non c’eri mai per me. Così alla prima occasione sono andato in Egitto ed
ho fatto di tutto per impedirti di seguirmi. Ne avevo abbastanza di
quell’inferno. -
Era
incredibile come due momenti del genere fossero completamente scomparsi dalla
mente di Attalo. Probabilmente era accaduto perché lui aveva voluto
dimenticare. Fin da ragazzo era sempre stato convinto che un vero uomo, un vero
soldato, non avrebbe mai potuto provare attrazione per un altro uomo. Era come
se la virilità ne fosse in qualche modo compromessa, e Attalo avrebbe difeso la
sua a costo della vita. Era una cosa che disprezzava negli altri. Come si
infuriava quando sentiva qualcuno dire che anche il suo amato Imperatore
Alessandro aveva quella “tendenza”. Era pronto ad uccidere pur di mettere a
tacere quelle calunnie. Non poteva concepire che un uomo potesse essere un
grande condottiero, un soldato coraggioso e contemporaneamente un omosessuale.
Ecco perché aveva rimosso quei ricordi. Per lui Efestione era sempre stato il
suo ideale di soldato, fiero e forte. Per questo aveva sempre evitato come la
peste di riconoscere che Efestione era attratto dai ragazzi. Che era attratto da
lui. Ammetterlo e accettarlo avrebbe significato spazzare via una buona metà
delle sue convinzioni e dei suoi principi. E soprattutto aveva sempre evitato di
riconoscere certe sensazioni dentro di sé. Tutte e due le volte che Efestione
lo aveva baciato, lui ne era stato sconvolto. Tutte e due le volte avrebbe
voluto permettere all’amico di continuare. Ma poi il suo orgoglio era stato più
forte di tutto, e ora si rendeva conto che era stato il suo orgoglio a rovinare
la loro amicizia.
Tutto
questo prima di Ulf.
Attalo
sospirò. - Sai? Mi sta venendo il dubbio che quella misteriosa Dea di cui
vaneggia Ulf in continuazione, esista veramente, e si stia allegramente
prendendo gioco di noi. –
-
Cosa intendi dire? – chiese Efestione
-
E’ strano come le tessere del mosaico stiano andando a posto. –
Attalo raccontò la storia, partendo dalla famigerata battaglia in cui aveva
visto Ulf per la prima volta. Raccontò della sua ricerca, di quando l’aveva
alla fine trovato, e di quegli ultimi, strani mesi. – Io non so cosa mi sia
capitato. Hai perfettamente ragione, non è da me. Io non ho mai amato nessuno,
tantomeno un'altra persona del mio sesso. Tu sai benissimo quale è sempre stata
la mia opinione in merito. L’unico che ha contato qualcosa per me, sei stato
tu. Ma mi sono sempre frenato. Era come se i miei sentimenti verso di te fossero
ovattati. In questi ultimi mesi molte cose dentro di me sono cambiate, e questo
grazie a Ulf. Le mie emozioni sono esplose, mi sono ritrovato come impazzito.
Per la prima volta in vita mia mi sono sentito libero di ridere, di gridare, di
piangere, e anche di soffrire. Io che ho sempre trovato ripugnante l’idea di
toccare un uomo, ero invece pronto a fare qualsiasi pazzia pur di avere Ulf. E
invece mi sono trovato costretto a ingoiare il mio desiderio, giorno dopo
giorno, come hai fatto tu. Proprio ieri stavo cercando di decidere cosa fare, e
improvvisamente tu ritorni e mi racconti la mia stessa storia, e mi dai la tua
soluzione. Tu te ne sei andato, mettendo spazio fra noi due, per non vedermi,
per smettere di soffrire. -
-
No, ti sbagli, ho sofferto ogni giorno di questi quattro lunghi anni, ho
sentito terribilmente la tua mancanza in ogni momento, ma ho sofferto sempre
meno di quando tu mi eri così vicino… -
-
E’ quello che dovrei fare anche io, non è vero? Dovrei lasciarlo
andare…- I due uomini si fissarono. Nessuno dei due parlò.
La
mattina dopo Efestione, passeggiando per il campo, arrivò alle stalle. Ulf era
seduto su una panca e guardava alcuni soldati che addestravano i cavalli.
Efestione gli si sedette accanto. Per un po’ nessuno dei due parlò, mentre si
studiavano a vicenda. Efestione fece passare il suo rivale da capo a piedi.
Capiva perfettamente perché Attalo era così attratto da lui, e questo gli
faceva ancora più rabbia. Ulf, da parte sua, percepiva questa rabbia e si stava
preparando ad affrontarlo. Sapeva del suo arrivo, la Dea lo aveva avvisato.
Fu
Efestione a rompere il silenzio.
-
Io ti odio. – disse a bruciapelo. Ulf si limitò a guardarlo. – Si,
ti odio perché io ho passato tredici anni della mia vita a cercare di
conquistare il suo cuore, e altri quattro anni a cercare di dimenticarlo, invece
tu, in pochi minuti, lo hai reso tuo schiavo. Io non so come hai fatto, e,
dopotutto, credo che neanche tu lo sappia, e forse non era nemmeno tua
intenzione, ma lo hai fatto e per questo io ti odio. Se non fosse che,
ammazzandoti lo allontanerei per sempre da me, puoi giurare che non esiterei un
attimo. –
Ulf
aveva ascoltato quello sfogo senza battere ciglio. Improvvisamente sorrise.
-
Io ti capisco, e non ce l’ho con te per questo. Ma non devi
preoccuparti, vedrai che presto tutto andrà come deve. – Efestione rimase
sbalordito. Quel ragazzino era strano. – Cosa intendi dire?-
-
Non capisci? Eppure è tutto così semplice! Ognuno di noi nasce con una
via già segnata, e si può essere felici solo seguendola. Io non l’ho fatto,
mi sono allontanato dalla mia strada e mi sono perso. E quando ti perdi, bada
bene, non è facile tornare indietro. Le strade che ho seguito mi hanno portato
sempre più lontano dalla felicità, verso il dolore e la sofferenza. Fino a
poco tempo fa pensavo che la Dea mi stava punendo per dei peccati commessi prima
della guerra, invece non era così. La Dea è buona, non punisce e non si
vendica mai. Lei non era contraria al mio amore per Arne, però quell’amore
non era la mia via. -
-
E questo cosa ha a che fare con me e Attalo? -
-
E’ la stessa cosa. Anche voi vi siete persi. La vostra via, cioè il
vostro destino, è di stare insieme. Attalo ha sempre rifiutato questa via, ma
non si è mai perso perché tu lo tenevi con te. Sei stato tu a perderti,
andandotene. Così anche lui, senza la tua guida, si è perso. La Dea sta
utilizzando me per aiutare voi due a ritrovare la vostra strada, come ha
utilizzato Attalo per aiutare me a ritrovare la mia.
-
Mi spiego meglio: quando Arne è morto io ho perso la voglia di vivere e
il mio dono si è indebolito tanto da diventare quasi inesistente. Quando stai
soffrendo pensi di voler morire, ma quando stai davvero per morire, allora
incominci a lottare per vivere. La Dea mi ha obbligato a questo, a lottare. Ma
non era ancora sufficiente, dovevo recuperare fiducia in me stesso e negli
altri. Così mi ha fatto conoscere Attalo, e lui mi ha fatto capire che non ci
sono solo persone cattive in questo mondo. Ora voglio tornare a casa, voglio
ricominciare tutto da capo, voglio diventare Sciamano e aiutare la mia gente, e
tutto questo lo devo ad Attalo.
Attalo invece aveva bisogno di me per capire che in fondo, innamorarsi di
un uomo non è poi tutta quella tragedia che credeva. Lui è sempre stato
attratto da te, ma non lo avrebbe mai ammesso, o forse eravate troppo amici
perché lui se ne rendesse realmente conto. Io l’ho aiutato a liberare i suoi
veri sentimenti. Lui ha creduto di amare me, ma da quando tu sei tornato non si
ricorda neanche più che esisto.
E tu, saresti mai tornato se io non fossi stato qui? E’ stata la
gelosia a costringerti a tornare. Non potevi sopportare di saperlo perso per un
altro, dopo che tu gli sei stato vicino per così tanto tempo. Vedi? Le cose
alla fine quadrano perfettamente. Ora il più è fatto. Adesso sta a voi. Anzi,
sta a te.-
-
A me? E cosa devo fare? Come posso averlo adesso se non ci sono riuscito
nemmeno quando era disperatamente solo? E come posso farcela ora, in pochi
giorni, quando non ce l’ho fatta in tredici anni? E’ impossibile…- disse
Efestione, sconsolato. Però nemmeno per un istante aveva dubitato di una sola
parola di quello strano ragazzo. Anche se la sua mente si ribellava, il suo
cuore sentiva che era tutto vero, tutto perfettamente logico. Nemmeno per un
istante si era domandato come faceva quel ragazzo a sapere, a parlare come se
conoscesse tutti i particolari della sua vita e di quella di Attalo.
-
Manca ancora così poco. Io ho superato le mie prove, e solo la Dea sa
quante sono state, e quanto terribili. Attalo ha superato le sue e ti assicuro
che nemmeno le sue sono state semplici. Anche tu hai superato molte prove, ma ne
manca ancora una, la peggiore di tutte. Ma sarà l’ultima, e sarà anche la
vostra ultima possibilità. Starà a te non tirarti indietro. –
-
Quale prova? Di cosa si tratta? Io sono disposto a superare qualsiasi
cosa, qualsiasi…- Ulf sorrise. – Si, lo so. Lo so. –
Capitolo 14
Violenza
Attalo
entrò come una furia nella tenda di Efestione. Era pallido e sconvolto, con i
capelli arruffati e l’uniforme in disordine, come se tornasse in quel momento
da una battaglia. In un certo senso era così, la battaglia la stava combattendo
contro se’ stesso e contro la disperazione che improvvisamente lo aveva colto.
Puntò il dito contro Efestione, barcollando. Era completamente ubriaco.
–
Tu! Proprio te stavo cercando! Maledetto bastardo! E’ tutta colpa tua!
– Efestione fu colto di sorpresa. Non aveva mai visto l’amico in quelle
condizioni. Cercò di avvicinarsi, per calmarlo e parlargli, ma Attalo estrasse
il pugnale e lo puntò contro di lui.
–
E’ tutta colpa tua… Lui se ne va, domani. Mi ha detto che deve
andarsene, tornare dal suo popolo, e che l’unico modo per fermarlo è
ucciderlo! – Efestione tentò di ribattere
–
Perché dici che è colpa mia, cosa c’entro io? Questa è una sua
decisione… -
–
No! Non è una sua decisione! Io so che tu gli hai parlato, ti hanno
visto con lui ieri mattina. Cosa gli hai detto? Eh? Cosa gli hai detto per
convincerlo? Lo hai minacciato? Parla, maledetto! – Il pugnale si agitava
nell’aria ad una distanza preoccupante dal viso di Efestione. – Si, devi
averlo minacciato. Lui non se andrebbe mai di sua volontà! Io lo so, ne sono
sicuro! –
Prima
che Efestione potesse fermarlo, Attalo si mise a lanciare in giro tazze, piatti,
armi, facendo a pezzi tutto quello che gli capitava sottomano, gridando come un
ossesso, buttandosi contro le pareti e dando pugni alle travi. Efestione lo
guardava impotente, gli si spezzava il cuore nel vedere l’amico in preda alla
disperazione. Quella era la sua prova, o perlomeno ne era l’inizio.
Richiamando tutte le sue forze, si preparò ad affrontarla, di qualsiasi cosa si
fosse trattato. Improvvisamente sentì un forte dolore alla testa. Un oggetto
piuttosto pesante si era abbattuto sulla sua fronte, non lo aveva nemmeno visto
arrivare. Subito un fiotto di sangue ne uscì. Attalo fu come scosso da quella
vista e si fermò immediatamente. Il suo sguardo allucinato fu attraversato da
un breve lampo di consapevolezza. Fece un passo verso l’amico ferito, ma poi
gli voltò le spalle, tremando. Efestione si toccò la ferita e poi si guardò
le dita sporche di sangue. Si avvicinò ad Attalo, lentamente, chiedendosi cosa
sarebbe ancora accaduto. Attalo se ne stava immobile, fissando la parete davanti
a sé. Efestione lo abbracciò da dietro, con dolcezza. Per un attimo rimasero
così, fermi. Ma proprio mentre Efestione si stava illudendo che tutto fosse
finito, Attalo si voltò di scatto, bloccandogli i polsi in una morsa dolorosa.
Il viso era deformato dalla rabbia, gli occhi mandavano lampi, Efestione,
spaventato, cercò di allontanarsi, ma Attalo glielo impediva, continuava a
tenerlo stretto, attirandolo a se’. Poi con una mano gli lasciò il polso e
gli artigliò i capelli, dietro la nuca, con forza. Ad Efestione sfuggì un
gemito. Poi, sempre stringendogli i capelli, lo baciò, un bacio pieno di
violenza e di rabbia, con i denti che gli mordevano la bocca, e la lingua che lo
obbligava ad aprire le labbra e poi frugava velocemente, togliendogli il fiato.
Quando si staccò, la sua espressione non era cambiata, sempre odio, odio e
ancora odio.
-
E’ questo che vuoi? Ti piace? Me l’hai detto tu, che mi desideri, mi
hai detto che mi vuoi da quando avevi quindici anni! Bene, adesso avrai quello
che vuoi! Anzi, di più! –
Gli
diede una spinta, tanto forte che per poco Efestione non perse
l’equilibrio.
-
Avanti, spogliati! – Efestione lo guardava a bocca aperta,
completamente istupidito. No, pensava, no, ti prego, non così, ti prego. -
Spogliati! – gridò Attalo.
“E’
la tua ultima occasione, sta a te non tirarti indietro”. La voce di Ulf gli
risuonò nelle orecchie, ma era sicuro che si riferiva proprio a questo?
Lentamente Efestione si spogliò, un pezzo per volta, fino a rimanere
completamente nudo. Attalo lo guardava, sempre con quell’aria da folle. Deglutì.
Si, era ancora come lo ricordava, come lo aveva visto tante volte. Il torace
ampio, i muscoli ben scolpiti, ricordava benissimo ogni cicatrice, ogni segno su
quella pelle che tante volte aveva spiato di nascosto, distogliendo poi subito
lo sguardo, negando la sensazione che subito gli scaldava l’inguine. Invece in
quel momento lo guardava, ne beveva avidamente ogni particolare e lasciava che
quel calore crescesse, anzi, lo alimentava con la sua rabbia, con il suo dolore
e la sua disperazione, con il desiderio represso che lo tormentava da
mesi.
-
Adesso girati. Voltati, ho detto! – la sua voce era bassa, quasi un
ringhio - Di cosa hai paura? Tanto ci sei abituato, no? Già, lo ricordo
benissimo, quando mi lasciavi solo al campo, e te ne andavi in città, con tutti
gli altri allievi, per andare in qualche bordello. Mentre io restavo al campo ad
allenarmi, tu andavi a farti scopare! Cosa credi, che ero contento? No, non ero
contento affatto, mi faceva una rabbia… -
-
E allora cosa avrei dovuto fare? – rispose Efestione con un filo di
voce – Sai benissimo che non sarei andato da nessuna parte se solo tu… ero
un uomo, maledizione, non un maledetto asceta! –
-
Benissimo! Anche io sono un uomo, e adesso te lo dimostro! –
-
No, ti prego! – sussurrò Efestione.
-
No? E perché? Non è quello che vuoi? Ah! Ma forse non è questo che
vuoi! Ora capisco! Allora è questo che vuoi! – sbraitò, con la voce
impastata da ubriaco, battendosi la mano contro le natiche. Poi abbassò di
nuovo la voce. – Oh, no, caro, se davvero mi vuoi, ora mi avrai, ma solo in
questo modo, a modo mio. E adesso girati. E’ la tua ultima occasione. –
“E’ la tua ultima occasione”. Efestione si girò, stoicamente, davanti a
lui c’era la rastrelliera delle spade, vi si aggrappò con entrambe le mani.
Sentì Attalo che gli allargava le gambe con un piede. Dio, non si degnava
nemmeno toccarlo. Non si era neppure spogliato, probabilmente aveva liberato
solo lo stretto indispensabile, voleva davvero umiliarlo fino in fondo.
Non
ci furono altre parole, ne’ altri gesti. Sentì Attalo afferrargli i fianchi,
poi appoggiare la punta del pene contro la sua apertura. Poi con un unico colpo
di reni, entrò. Subito un dolore fortissimo si irradiò come se qualcuno lo
avesse colpito con un’ascia proprio fra le cosce. Strinse i denti e gli occhi,
mentre le lacrime lottavano per uscire. Non avrebbe gridato, no, non avrebbe
emesso un solo gemito. Radunò le sue forze per tenersi saldo sulle gambe che
stavano per piegarsi. Fortunatamente non durò molto, poco dopo Attalo, con un
verso rauco, si abbatté sulla sua schiena, rimase immobile per qualche secondo,
ansimando. Poi si alzò, e senza parlare, se ne andò. Efestione rimase immobile
ancora per qualche secondo, poi finalmente si accasciò al suolo. Solo dopo
parecchi minuti riuscì a rialzarsi. Una piccola pozza di sangue si era
allargata sotto di lui. Prese un lenzuolo e cercò di pulire alla bene e meglio,
poi chiamò uno schiavo che, senza fare domande, preparò un bagno per il
padrone e ripulì il pavimento. Immerso nella vasca di acqua calda, Efestione
scoppiò finalmente in un pianto liberatore. Cosa sarebbe successo adesso? Era
stata quella la sua prova? E se era stata quella, l’aveva superata? Per il
momento si sentiva soltanto umiliato e sconfitto. Solo una cosa gli permetteva
di mantenere un briciolo di orgoglio: era stato abbastanza forte da non fargli
capire in nessun modo che, al contrario di quello che pensava Attalo, quella era
stata, drammaticamente, la sua prima volta.
Capitolo 15
Rimorso
Attalo
aveva lasciato la tenda di Efestione completamente stordito. Si era diretto
verso il fiume, correndo, inciampando e cadendo di tanto in tanto. Aveva la
sensazione di non avere più il comando del suo corpo, le sue gambe e le sue
braccia si muovevano scompostamente, persino la testa gli ciondolava sulle
spalle. Mentre correva si spogliava, lanciando l’armatura e la tunica dove
capitava. Arrivato al fiume, si buttò dentro, gridando. Più e più volte
si tuffò e risalì, bevve l’acqua e sputò. Intanto tirava pugni e calci
sul pelo dell’acqua. Il fiume lo osservava paziente. Alla fine, sfinito,
risalì sulla riva e cadde carponi, sbucciandosi le ginocchia e i palmi
delle mani. Ignorando il dolore, rimase così, e poi cominciò a vomitare.
Tornando
al campo, raccolse i vestiti, e se li rimise. Ora la sua testa stava tornando a
posto, era molto più lucido, ma non per questo si sentiva meglio. Lentamente,
tutta la portata del suo gesto stava salendo alla sua coscienza. Cosa aveva
fatto? Disperatamente, sperò che si fosse trattato solo di un incubo dovuto
all’alcool, ma sapeva benissimo che non era così. Il suo pene, gonfio e
dolorante, ne era la prova. “ Un elefante nella cruna di un ago” pensò, e
una risatina isterica gli uscì dalle labbra.
Efestione.
Come aveva potuto fare una cosa del genere? Sentì orrore verso sé stesso e un
rimorso tanto grande da impedirgli di respirare gli si stava gonfiando nel
petto. Lo aveva accusato di avere spinto Ulf a decidere di andare via, quando
sapeva benissimo che Ulf desiderava già da tempo tornare a casa. Ma per lui era
troppo dura da accettare, non voleva neanche prendere in considerazione l’idea
che Ulf non lo avrebbe mai ricambiato. Ulf non lo amava e non lo avrebbe mai
fatto. Attalo aveva buttato via due anni della sua vita inseguendo un sogno
impossibile.
Improvvisamente
si rese conto che Efestione, invece, ne aveva buttati via diciassette. Fu come
una bastonata, si sentì un verme. Lui si disperava come un bambino capriccioso,
voleva il giocattolo che non poteva avere, mentre Efestione gli era stato vicino
per tredici lunghissimi anni, senza mai lamentarsi, senza mai fargli capire
quanto soffriva, e alla fine aveva avuto il coraggio di prendere la decisione più
dolorosa di tutte: allontanarsi da lui.
Gli
aveva lanciato qualcosa contro e lo aveva colpito, si, ne era certo, lo aveva
visto sanguinare, ma non lo aveva aiutato. E poi quel gesto, assurdo, crudele,
di baciarlo in quel modo. Cosa voleva fargli pagare? In che cosa aveva
sbagliato, Efestione, per meritare quel “bacio”?
E
poi? No, più in là non voleva andare, non voleva ricordare.
Lo
aveva insultato. Gli aveva detto cose atroci, che non aveva mai pensato. C’era
una sola cosa vera: lui soffriva davvero quando Efestione andava in città.
Adesso riusciva ad ammetterlo. Non poteva fare a meno di immaginarselo, avvinto
fra le braccia di un giovane sconosciuto, e si sentiva male, soffriva come un
cane, arrivava persino al punto di ferirsi le mani e le gambe con il pugnale,
per scacciare quell’immagine.
Efestione
si era spogliato, senza lamentarsi, senza ribellarsi. Avrebbe potuto saltargli
addosso e picchiarlo tanto da fargli perdere i sensi, era più alto e più forte
di lui. E poi lui era ubriaco, quindi ancora più debole. Invece si era
semplicemente spogliato e si era girato. Aveva solo sussurrato quel “no, ti
prego”. Solo tre parole, che però adesso gli bruciavano dentro come
fuoco.
Quando
gli si era appoggiato contro, non voleva più farlo. Voleva solo andare via.
Anzi, no. Voleva farlo voltare e poi baciarlo, baciarlo davvero, con dolcezza, e
poi toccarlo e farsi toccare da lui… Ma ormai era andato troppo avanti. Il suo
orgoglio distorto aveva avuto la meglio e così lo aveva fatto. Fu una
sensazione terribile e fantastica, sentì dolore, come se fosse entrato in
qualcosa di troppo piccolo, si sentì graffiare la pelle troppo sensibile, ma
subito il piacere salì, in un attimo, fino a diventare insopportabile. Era
venuto subito, ed era stato grato alla Dea per quello. Ormai il danno era stato
fatto, e lui voleva solo scappare.
Tornato
al campo, trovò alcuni suoi uomini seduti intorno al fuoco. Non aveva voglia di
andare a dormire, era certo che il rimorso lo avrebbe tormentato per tutta la
notte, e il giorno sarebbe arrivato troppo presto. E con il mattino avrebbe
dovuto affrontare Efestione. No, non voleva pensarci. Così si sedette con i
soldati. Stavano parlando proprio di Efestione. Attalo trovò buffa quella
circostanza. Ricordava il racconto di un ufficiale che aveva sentito i suoi
uomini parlare intorno ad un fuoco. Quel racconto era stato l’inizio di tutto,
era stato quel racconto a fargli trovare Ulf. Stranamente pensò che forse
questa volta avrebbe trovato Efestione.
-
Certo che il generale Efestione è proprio cambiato. Non lo avrei mai
riconosciuto. Dicono che la vita in Egitto sia molto dura. Il caldo, la siccità,
e poi le malattie non si contano. Inoltre bisogna sempre stare con gli occhi
bene aperti. Dopo tutto noi siamo invasori, laggiù, e non tutti gli indigeni
sono d’accordo nel farsi dominare da stranieri. –
-
Già, ma non è solo questo. Il generale sembra, come dire… sofferente.
Ha un’espressione così seria e malinconica. Io me lo ricordo bene, ho
partecipato a tante battaglie sotto il suo comando. Era fiero e determinato ma
non perdeva occasione per ridere o scherzare. Era un uomo allegro e aperto. No,
non sembra più lui –
-
Efestione, dite? Ma non è quello che dicono sia l’amante del nostro
Imperatore? –
-
No, no, cosa dici? Non è lui! L’Efestione che dici tu a quest’ora
sarà beatamente accucciato fra le imperiali cosce! – Uno scroscio di risate
riempì l’aria, strappando anche ad Attalo un triste sorriso.
-
Hanno soltanto lo stesso nome. Questo Efestione non è certo uno di
quelli! Nella mia vita non ho mai conosciuto un uomo tanto virile. Questo, con
le donne, è un toro scatenato, ascoltate la mia opinione! –
-
E invece ti sbagli, mio caro! – ribatté un altro – Il nostro caro
generale preferisce la compagnia maschile. E io lo so per certo. No, non fatevi
strane idee, non lo so certo per esperienza personale - rise – ma conosco
qualcuno che lo sa molto bene. Dopo tutto non è un mistero, lui non ha mai
fatto niente per nasconderlo. Mi stupisco che tu non lo sappia, vecchio mio. Però
non hai tutti i torti. A modo suo è davvero un toro, come dici tu. Dicono che
non abbia mai permesso a nessuno di metterlo sotto, è lui che guida il gioco e
nessun altro. Si racconta che abbia ucciso degli uomini solo perché avevano
tentato di… be’, avete capito, no? –
I
commenti continuarono ancora, ma ormai Attalo non sentiva più niente. Aveva i
sensi ovattati come se si trovasse dentro un cuscino di piume. Tornando alla sua
tenda, si ritrovò a invocare la morte.
Capitolo 16
La partenza
Alle
prime luci dell’alba Efestione, dopo essersi assicurato che Attalo non fosse
ancora in giro, andò alle stalle. Ulf stava preparando il suo cavallo,
sistemandogli sulla groppa le bisacce con le provviste. Il viaggio sarebbe stato
lungo e pieno di difficoltà, soprattutto per un ragazzo evidentemente ariano
come lui. Aveva preparato un mantello con un cappuccio, per nascondere almeno un
po’ i suoi capelli esageratamente biondi, ma prima o poi avrebbe dovuto
toglierlo, e la gente si sarebbe domandata come mai girava solo, in un’epoca
in cui gli ariani in Macedonia non potevano essere altro che schiavi.
Comunque
era pronto, ed era immensamente felice ed eccitato. Finalmente tornava a casa!
Quando
Efestione arrivò, Ulf lo accolse con un sorriso. – Sono felice di vederti.
Volevo salutarti, ma non solo. Volevo domandarti come stanno andando le cose fra
te e Attalo. Perdona la mia curiosità, ti assicuro che non è da me, ma in un
certo senso mi sento un po’ responsabile per voi due. –
-
Ho saputo che parti. Ne sono felice per te. Alla fine realizzerai il tuo
sogno. Purtroppo non è lo stesso per me. Le cose non stanno andando per niente
bene – gli occhi di Efestione si riempirono di lacrime.
-
No, non devi temere. Il peggio è passato, ormai. D’ora in avanti le
cose andranno bene, credimi –
-
Davvero? Perdonami, ma non ne sono affatto sicuro. –
-
Cosa è successo? –
-
Davvero vuoi saperlo? Tutto quello che di peggio poteva succedere. Lui è
stato così… non ha avuto nessuna compassione, mi ha fatto più male che ha
potuto, in tutti i sensi. E non sto parlando solo del dolore fisico, no, quello
posso sopportarlo benissimo, ma è stato tutto il resto. Ha fatto tutto quello
che ha potuto per umiliarmi, per togliermi ogni briciola di dignità. Lui mi
conosce bene, meglio di chiunque altro, conosce ogni mia debolezza, ogni mio
punto debole, ed ha utilizzato quest’arma contro di me. Credo che questa sia
la cosa peggiore che si possa fare ad un amico. – Efestione era distrutto. Ulf
gli si avvicinò e gli prese entrambe le mani.
-
Lo so, so come può essere terribile, a volte. Ma ora è tutto finito.
Vedrai! – Aveva gli occhi brillanti e incredibilmente dolci. Efestione sentì
uno strano calore che irradiava dalle sue mani. Si, quel ragazzo era davvero
speciale, una volta di più capì Attalo, e capì ancora meglio la sua
disperazione. Per lui doveva essere davvero una tragedia perderlo.
In
quel momento arrivarono quattro soldati a cavallo. Attalo li seguiva a piedi. I
quattro soldati sembravano equipaggiati per affrontare un lungo viaggio. Non
appena vide Attalo, Efestione si allontanò, ma rimase ad una distanza
sufficiente per seguire la scena.
Attalo
si avvicinò a Ulf, e per un po’ rimasero a fissarsi senza dire niente.
Nessuno dei due sapeva cosa dire. Fu Ulf il primo a parlare.
-
Io non so come ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me.
Davvero, non so cosa dire. Ti penserò sempre e pregherò la Dea perché tu sia
felice – esitò un attimo, poi si gettò fra le braccia di Attalo, scoppiando
a piangere. Efestione, che lo guardava da poco lontano, si sentì commuovere,
nonostante il suo aspetto da giovane dio, con la sua aria seria e imbronciata da
druido, Ulf era soltanto poco più che un bambino. Attalo lo stringeva a sé,
anche le sue guance erano solcate dalle lacrime. Ma, stranamente, ad Efestione
dava più l’idea di un padre che abbracciava suo figlio. Cosa era successo?
Dove era finita tutta la passione che infiammava il cuore di quell’uomo? Ora
si tenevano per le mani, ed era Attalo a parlare.
-
Ascolta, ho pensato che forse è meglio se questi uomini ti accompagnano.
Saranno una specie di guardia del corpo. Hanno l’ordine di stare con te fino
al confine. Ti prego di accettare la mia offerta, mi sentirei davvero più
tranquillo. –
-
Tu… davvero non ce l’hai con me? Io non credevo che mi avresti
lasciato andare. Sono così sorpreso, e adesso anche la guardia del corpo… Non
riesco quasi a crederci! –
-
Nemmeno io! – Attalo rise. – Devo essere impazzito. Mi mancherai così
tanto! Ma è giusto così, non avrei risolto niente tenendoti qui contro la tua
volontà. Tu saresti stato infelice, e lo sarei stato anch’io.
E poi… - gettò un rapido sguardo verso Efestione. Ulf capì e sorrise.
Forse le cose non erano poi così tragiche.
-
Sai, in realtà non sapevo se fosse giusto andarmene e lasciarti dopo
quello che hai fatto per me. Ma ora sono certo che sia la cosa migliore da fare.
La Dea sa cosa è bene e provvede sempre a mettere le cose come devono essere.
Io ora me ne vado ma so di lasciarti in buone mani. – Anche lui si girò verso
Efestione che a questo punto incominciò ad agitarsi. Si sentiva un po’ troppo
osservato, per i suoi gusti.
Ci
fu un ultimo abbraccio, poi Ulf salì a cavallo e partì seguito dai quattro
soldati. Si voltò a salutare un paio di volte, prima di sparire dietro agli
alberi.
Attalo
lo seguì con lo sguardo, e rimase a guardare in quella direzione per un po’.
Sentiva dentro di sé uno spazio vuoto, e sapeva che quello spazio non sarebbe
mai stato colmato completamente. Ulf era stato davvero molto importante per lui,
per due anni era stato tutta la sua vita, e una cosa simile non è facile da
cancellare. Ma ora sapeva che la sua vita sarebbe continuata. Si, ora doveva
fare una cosa, non era una cosa facile, ma andava fatta. Per un’ultima volta
il suo cuore salutò Ulf, poi si voltò. Poco lontano Efestione lo guardava,
appoggiato ad un albero.
Capitolo 17
La
resa dei conti
Attalo
salì a cavallo e si fermò a qualche metro da Efestione. Quest’ultimo ci
mise un po’ a capire che Attalo lo stava aspettando. Così anche lui prese
un cavallo e lo seguì. Galopparono per un po’, attraverso i boschi e i
prati, infine arrivarono alle rovine di quello che era stato un antico
villaggio. Qui Attalo scese da cavallo e cominciò a girovagare fra le mura,
guardandosi intorno e appoggiando di tanto in tanto le mani sulle pietre
corrose dal tempo e ricoperte dal muschio. Quel posto gli piaceva. Ci andava
spesso quando voleva restare solo e riflettere. Efestione lo seguiva,
imbarazzato.
-
E’ sorprendente che qui, proprio qui dove siamo adesso noi, su questi
selciati, fra queste mura, una volta viveva della gente, persone che avevano una
vita, e amici e parenti, e ora sono morte, da chissà quante centinaia di
anni... Da così tanto tempo... - Attalo si fermò – Tempo… - sussurrò. –
Diciassette anni… - si voltò verso Efestione. Per lui non era affatto facile.
Era un uomo tremendamente orgoglioso, poteva sopportare tutto, la fame, la sete,
il dolore, era sopravvissuto a decine di battaglie, era guarito da ferite che
sembravano senza speranza. Ma chiedere scusa, no, non ricordava di averlo mai
fatto.
-
Io… ti prego di perdonarmi – ecco, l’aveva detto ed era ancora vivo
– per tutto, per quella notte di diciassette anni fa, per quell’altra volta,
per ieri sera, per tutta la tua dannatissima vita, per averti obbligato ad
andare in Egitto, per tutto quello che ti ho fatto e anche per tutto quello che
non so di averti fatto, per tutto. – Efestione fece per parlare ma Attalo, con
un gesto rabbioso lo zittì – e non fiatare! Non è da me chiedere scusa, non
l’ho mai fatto e ti assicuro che questa è l’ultima volta, quindi ti
conviene tacere e accettare. –
Efestione
si sentiva girare la testa. Era al colmo dello stupore e una gioia folle
incominciava a salirgli nel petto. Si avvicinò all’amico, voleva
abbracciarlo, ma anche stavolta Attalo lo fermò. Poi cominciò a spogliarsi,
così, all’improvviso. Quando ebbe finito si voltò verso un muro e vi si
appoggiò contro. – Avanti! – disse deciso. Efestione si sentì ripiombare
nell’incubo. E adesso cosa si stava inventando quella testa matta?
-
Avanti, ho detto, fallo! - - Fare cosa? – chiese Efestione.
-
Non hai capito? Devi fare quello che io ho fatto a te. E’ semplice, no?
Occhio per occhio, dente per dente. Solo così saremo pari, il mio debito sarà
saldato e potremo cominciare tutto da capo. –
-
Ma cosa stai dicendo? Io non ho nessuna intenzione di fare niente del
genere. Tu sei impazzito! – e fece per andarsene. Attalo lo chiamò –
Efestione! – La sua voce aveva un tono di supplica.
-
No, - rispose Efestione, fermandosi e tornando verso l’amico - ti
prego, non chiedermi questo. Io non posso farlo. Non così. –
Si
avvicinò all’amico e si gettò ai suoi piedi, abbracciandogli le ginocchia.
– Tu eri ubriaco, e sconvolto e arrabbiato. Io non sono niente di tutto
questo, io… ti amo. Si, ti amo, e tutto quello che voglio è renderti felice.
Io non posso farti del male, non voglio e tu non puoi chiedermelo. –
Attalo
rimase paralizzato. Efestione gli aveva detto “Ti amo”. Non “ti voglio”,
o “ti desidero”, no. “Ti amo”. Lo prese per il viso e lo fece alzare. I
loro occhi si incontrarono, umidi di lacrime.
-
Io non lo sapevo, te lo giuro, non l’ho fatto apposta. Io credevo che
per te fosse… normale, che ci fossi abituato. Non volevo farti male, davvero!
Volevo umiliarti, questo si, volevo farti pagare per tutte le volte che ti ho
desiderato, per tutte le volte che sono impazzito di gelosia, invece è sempre
stata tutta colpa mia, e adesso mi dispiace così tanto! –
Efestione
fermò quel flusso di parole con la sua bocca. Adesso basta, non voleva più
sentirlo parlare, in quei giorni c’erano state troppe parole e troppo dolore.
Ora era tutto finito.
Attalo
era lì, fra le sue braccia. Così, nudo, sembrava stranamente indifeso.
Efestione si spogliò, lentamente, come aveva fatto quella maledetta notte, ma
ora aveva tutta l’intenzione di cancellare quel terribile ricordo.
Con
delicatezza, fece sdraiare Attalo, e ricominciò a baciarlo. – Dimmi che non
lo farai! – sussurrò – Fare cosa ? – Chiese Attalo, senza fiato – Dimmi
che non mi fermerai, che non mi dirai che siamo solo amici, che non mi
picchierai – Attalo sorrise – No, questa volta non ti fermerò –
Efestione
continuò a baciarlo sul viso, poi scese inumidendogli la gola, poi il torace,
arrivò ai capezzoli, e qui si soffermò a lungo, succhiando e mordendo
dolcemente. I gemiti di Attalo erano sempre più forti, Efestione era inebriato
e pazzo di gioia. Si, adesso gli avrebbe mostrato tutto quello che si era perso
in tutto quel tempo, quello che entrambi avevano perso. Perché con nessuno mai
aveva provato quello che stava provando ora, per lui era sempre stato soltanto
sesso, a volte regalato, più spesso comprato, ma mai, mai donato con amore.
Scese ancora, le mani che percorrevano tutta la pelle, toccavano, tastavano come
per assicurarsi che Attalo fosse veramente lì, che non era uno dei suoi sogni.
Ora era arrivato dove voleva, sentiva Attalo ansimare e poi trattenere il fiato.
Passò la lingua su tutta la lunghezza, poi si soffermò sulla punta,
torturandone la superficie lucida e scura, poi lo inghiottì, spingendoselo in
gola il più possibile. Attalo gridò. Cominciò a pompare, prima piano, poi
sempre più velocemente. Ogni tanto rallentava, non voleva che finisse subito,
ma Attalo smaniava, muoveva i fianchi spingendo nella bocca, lo prendeva per i
capelli e cercava di farlo accelerare. Allora si tolse – No, no ti prego, non
fermarti adesso!– Attalo ansimava, frustrato e disperato. Ma Efestione fu
implacabile. Con una intollerabile dolcezza riprese a baciarlo sul ventre e fra
le cosce, intento sbirciava verso l’alto, lungo la pelle abbronzata e liscia,
coperta di gocce di sudore, piccole e brillanti come rugiada, e più su, lungo
la gola e poi il viso. Si, ora quel viso era come lo aveva sempre sognato,
schiudeva le labbra, stringeva i denti, cambiava come le onde del mare mentre
sempre nuove ondate di piacere lo facevano gemere e ansimare. Si, ora era in suo
potere, era completamente suo.
Alzò
una mano, per un attimo accarezzò quel
viso, poi introdusse due dita nella bocca, Attalo le succhiò, avidamente. Con
lentezza portò le dita, umide, all’interno della fessura, accarezzandone
l’entrata. Attalo si immobilizzò, il suo cuore prese a battere ancora più
velocemente. Efestione lo riprese nella bocca e ricominciò a succhiare, piano,
quindi infilò un dito, massaggiando dolcemente. Non voleva fargli male, no, non
se lo sarebbe perdonato, ma sapeva anche che era inevitabile. Spinse il dito più
su, fino a raggiungere quello che cercava, un punto particolarmente sensibile, e
lo accarezzò. Attalo ricominciò a gemere, allora Efestione infilò un altro
dito. Dopo poco sentì che Attalo si stava muovendo, assecondando i suoi
movimenti. Ora era pronto. E anche lui era ormai al limite, soltanto il vedere
l’amico in quello stato lo stava portando alle soglie dell’orgasmo. Gli alzò
le gambe e si chinò per inumidirlo il più possibile, baciandolo e lasciando
scie di saliva. Poi appoggiò la punta. Guardò Attalo in viso, anche lui lo
stava guardando, era in attesa, ma aveva anche paura. Efestione annuì, come per
rassicurarlo, per fargli capire che sarebbe andato tutto bene, Attalo capì e
sorrise, timidamente. Così, lentamente ma senza fermarsi, entrò. Attalo gettò
la testa all’indietro, stringendo i denti. Ecco, lo sapeva, gli aveva fatto
male. Si morse le labbra, come per punirsi, ma poi sentì Attalo che si muoveva,
su e giù. Allora anche lui cominciò
a muoversi, piano, togliendosi quasi completamente, e poi riaffondando. Attalo
gemeva forte adesso, stringendo i denti, la testa scattava
da una parte e dall’altra, le mani artigliavano l’aria. Efestione si
muoveva sempre più forte, non avrebbe resistito ancora a lungo. Improvvisamente
Attalo si tirò su, lo prese per le spalle e lo attirò a sé,
imprigionandogli la bocca. Poi si staccò, e lo fissò negli occhi con
uno sguardo quasi allucinato. Poi tutto il suo corpo tremò, e Attalo si inarcò
all’indietro, gridando. Un fiotto caldo uscì con violenza, andando a
picchiare sul suo petto e persino sul mento e sulle labbra. Efestione cedette,
con un grido trattenuto esplose. Attalo si sentì inondare da quel liquido
caldo, sentì ogni pulsazione, ogni strappo. Guardò l’amico e lo vide in
preda all’estasi. In quel momento si sentì felice e appagato come non lo era
mai stato, e una sensazione di gioia lo pervase. Ecco, era tutto così semplice
adesso. Tutto dimenticato. Efestione si lasciò andare contro di lui, senza
forze, le gambe e le braccia abbandonate. Attalo allacciò le sue braccia
intorno all’amico, mollemente, uno stupido sorriso gli aleggiava sulla faccia.
Rimasero così, abbracciati, uniti, sereni. Ora erano insieme e lo sarebbero
stati per sempre.
Non
appena ebbero recuperato le forze, si alzarono. Lì vicino c’era un ruscello,
l’acqua era terribilmente fredda, ma i due amici entrarono decisi,
rabbrividendo e ridendo. Si sentivano come due ragazzini, anzi, meglio, perché
in realtà nessuno dei due era mai stato veramente ragazzino, tutti presi
com’erano a diventare uomini. Si tuffavano, si tiravano l’acqua e fingevano
di lottare, buttandosi giù l’un l’altro. E ridevano, non riuscivano a
smettere un istante di ridere.
Poi
si sedettero sulla riva, al sole.
-
E’ gelata! – gridò Attalo, scuotendosi e pestando i piedi.
-
Adesso ti scaldo io! – Efestione lo abbracciò, sempre ridendo, e
ancora si baciarono.
-
Sai una cosa? D’ora in avanti non farò nient’altro, voglio baciarti,
voglio averti, approfitterò di ogni momento libero, in qualsiasi posto saremo
troverò sempre un posticino buio dove trascinarti. Adesso non potrai più
liberarti di me, mai. – Attalo rise. Si sentiva felice.
Efestione
si sdraiò e Attalo gli appoggiò la testa sul petto. - Come è successo? –
chiese Attalo.
-
Successo cosa? –
-
Che ti sei innamorato di me! –
-
Tu non ci crederai, ma è successo subito la prima volta che ti ho visto.
E pensare che eri così ridicolo! Lungo lungo e spaventosamente magro. Eri il
ragazzo più sgraziato che avessi mai visto, le mani ti toccavano quasi le
ginocchia! - Rise – Ma eri anche
il più bello. In quel momento ho capito che le femmine non facevano per me.
Anzi, ho capito che solo tu facevi per me, ed è quello che penso ancora adesso.
–
Efestione
fissava il cielo, perso nei ricordi. Ricordava la prima volta che aveva visto
Attalo, come era rimasto incantato dalla sua pelle quasi olivastra, dai suoi
occhi obliqui, vagamente orientali, dai suoi capelli neri e lisci come seta.
Allora era più alto di lui, era cresciuto troppo velocemente ed era davvero
sproporzionato. Ma il tempo e l’allenamento avevano messo tutto a posto, le
spalle si erano allargate e i muscoli si erano sviluppati. A vent’anni Attalo
aveva un fisico da statua greca. Stranamente per un ragazzo dalla carnagione
scura, aveva pochissimi peli sul corpo, solo qualcuno sulle gambe e sugli
avambracci, e questo faceva impazzire Efestione. Quante notti aveva perso,
sognando quella pelle liscia e vellutata! Mentre in cinque anni Attalo era
cresciuto solo di pochi centimetri, Efestione ne aveva messi su una ventina,
diventando dieci centimetri più alto di Attalo. Il suo fisico aveva una
struttura diversa, più pesante, a vent’anni aveva un aspetto imponente e si
compiaceva di incutere una certa soggezione, un certo timore.
Aveva ereditato la pelle chiara della madre, ma il tempo che passava
all’aperto lo manteneva sempre abbronzato, e questo faceva risaltare i suoi
occhi azzurri, rendendo il suo sguardo gelido e tagliente. Tutto questo era
buona cosa, per un giovane deciso a diventare qualcuno, nell’esercito.
Tutti
lo notavano, e ben presto si era reso conto di provocare strane reazioni in chi
lo circondava. Aveva dovuto subire la corte asfissiante di un paio di ufficiali,
ma lui non aveva mai ceduto. Non voleva andare con persone più vecchie di lui,
il suo orgoglio gli impediva di mettersi in situazioni in cui lui fosse stato in
qualche modo inferiore. Le sue prime esperienze le aveva fatte con i coetanei,
poi aveva sempre preferito ragazzi più giovani. Con loro era più facile
gestire il rapporto, difficilmente pretendevano di prendere l’iniziativa. Se
Attalo era convinto che un vero uomo non sarebbe mai giaciuto con una persona
del suo sesso, Efestione era altrettanto convinto che un vero uomo non si
sarebbe mai fatto mettere sotto. Certamente non lui. Per questo Attalo era
riuscito ad umiliarlo così tanto e a fargli tanto male.
Fu
strappato dai ricordi da Attalo. Gli si era messo a cavalcioni sulla pancia, e
ora lo guardava, passandogli le mani sul corpo, sulle braccia, sul petto, sul
viso. Passava con le dita da una cicatrice all’altra, accarezzandole. Lui le
conosceva bene, tutte quante, di ognuna conosceva la storia, sapeva dove gli
erano state inferte e come, molte
le aveva ricucite lui stesso. Fu invaso dalla tenerezza all’idea che, in fondo
loro due avevano passato una vita insieme. Avevano in comune quasi tutti i
ricordi, conoscevano le stesse persone, avevano gli stessi amici e persino gli
stessi nemici. Proprio come una coppia sposata da lungo tempo.
Incominciò
a baciare quelle cicatrici, una dopo l’altra, passando la lingua sulla pelle,
assaporandone ogni centimetro.
Salì
a baciargli il viso, anche lì c’erano cicatrici, quella sullo zigomo, e
quella che gli spezzava in due il sopracciglio, e una sul labbro. Sulla fronte
trovò il taglio che gli aveva fatto lui solo il giorno prima. Dio, sembrava
passata un’eternità da allora. Passò la lingua anche su quella ferita.
Efestione
non si muoveva, non emetteva un suono, aveva il respiro solo un po’
accelerato. Attalo scese fino a raggiungere i capezzoli, ne strinse uno fra le
labbra, poi lo baciò, lo leccò e lo succhiò. Poi passò all’altro. Ancora
Efestione rimaneva immobile. Attalo cominciò a preoccuparsi, forse non stava
facendo la cosa giusta, dopotutto era la prima volta che stava con un uomo.
L’istinto gli diceva che stava andando bene, ma Efestione non reagiva,
sembrava non sentisse niente.
Così
si rimise a cavalcioni.
-
Cosa c’è? Non va bene? – chiese pieno di apprensione – Se sto
facendo qualcosa di sbagliato, dimmelo. Certo non sono un campione di esperienza
in queste cose, ma voglio imparare. Voglio darti tutto quello che posso, perciò
se c’è qualcosa che vuoi che io faccia, ti prego di dirmelo. –
Efestione
lo guardò. No, non c’era niente di sbagliato in quello che stava facendo,
anzi, lo stava facendo impazzire. Era la prima volta che permetteva a qualcuno
di toccarlo in quel modo. E ora più che mai era convinto che lo avrebbe
permesso solo ad Attalo. Però non riusciva a lasciarsi andare. Sapeva dove
tutto questo avrebbe portato, e con stupore si rese conto di essere
terrorizzato.
-
No, va bene, è solo che io… bè, io non ci sono abituato, ecco tutto.
–
Attalo
cominciò a capire.
-
Ancora quella storia… Si, è vero, me ne ero scordato… Però adesso
tutto deve cambiare – disse Attalo, con convinzione – Adesso stai con me, e
io non sono uno qualunque di quei tuoi ragazzini. No, bello mio, adesso ti
assicuro che la musica cambia. Io non starò soltanto a farmi spupazzare da te,
il generale, il grande condottiero! Oh, no! Io sono generale e condottiero tanto
quanto te, e sono un soldato, e un uomo! Il tuo uomo! E come tale rivendico il
possesso del tuo corpo, tutto quanto, niente escluso. Anche quel buchino è mio,
come tutto il resto, e perciò io ne farò quello che voglio. Ci siamo capiti?
– Mentre parlava gli aveva bloccato le mani sopra la testa. Efestione aveva un
sorriso divertito sulla faccia. Si, quest’uomo era davvero un povero pazzo, e
lui lo amava da morire. Attalo assunse un’espressione ancora più minacciosa
– E adesso cerca di metterci un po’ di impegno e godi, altrimenti mi incazzo!
–
Risero,
la tensione era spezzata ed Efestione sembrava più rilassato, anche se la sua
aria preoccupata non era ancora scomparsa completamente.
Attalo
ricominciò il suo lavoro intorno ai capezzoli, e questa volta fu ricompensato
da timidi gemiti. Agguerrito, scese in basso, ma quando se lo trovò davanti
buona parte della sua sicurezza si infranse. E adesso? Lui era stato con qualche
donna, anche se non molte, perciò non aveva avuto particolari problemi con il
resto del corpo, non era uguale ma abbastanza simile, ma questo? Era una cosa
del tutto diversa.
Allora
cercò di immaginare cosa sarebbe piaciuto a lui, così cominciò. Sulle prime
gli sembrò strano sentirsi in bocca quella cosa ingombrante e vagamente salata,
morbida e dura allo stesso tempo, ma poi divenne tutto terribilmente eccitante.
Efestione si stava sciogliendo, e gemeva più forte. Improvvisamente gli afferrò
la testa e glielo spinse tutto in gola, Attalo si sentì soffocare, annaspò e
afferrò le mani di Efestione cercando si strapparsele dalla testa. Con uno
strappo si liberò. – Cosa diavolo stai facendo? Mi vuoi soffocare! Adesso te
la faccio pagare! – Di scatto gli alzò le gambe, e si piazzò in mezzo.
Cominciò a leccarlo proprio in mezzo alla fessura, dolcemente. Poi introdusse
la lingua, per quanto riuscì, e infine succhiò, con forza. La pelle tenera
dell’interno uscì, morbida e calda. Efestione intercalava i gemiti con dei
singhiozzi, sembrava sul punto di piangere. Allora Attalo si rialzò e si
appoggiò all’entrata, come aveva fatto quella sera.
Maledizione!
Sarebbe mai riuscito a dimenticare? Non voleva ricordare quel gesto crudele,
ogni volta che avesse fatto l’amore con Efestione.
Lo
guardò, vide che stringeva gli occhi. Aveva davvero paura. Però ricordò cosa
aveva provato lui, anche lui aveva avuto paura, ma poi era stato tutto così
bello! Pensò a quello che aveva dovuto superare lui, alle barriere che aveva
dovuto abbattere. In fondo le barriere di Efestione erano più basse. O no?
Si
decise, e più dolcemente che poté si spinse dentro. Efestione si inarcò
singhiozzando.
No,
non era come era successo a lui, Efestione soffriva davvero! Attalo inorridì,
era colpa sua, ancora colpa sua. Si, ora capiva, quella sera gli aveva fatto più
male di quanto aveva pensato. Fece per togliersi, ma Efestione lo fermò – No,
non ti fermare! - - Ma stai
soffrendo! Oh. Mio Dio, c’è sangue, tu stai perdendo sangue! Cosa ho fatto…
- Attalo era disperato, non avrebbe mai smesso di combinare casini?
-
Non importa, davvero, non fermarti. Se non lo faccio ora, so che non ne
avrò mai più il coraggio. Avanti!
–
Attalo
non sapeva cosa fare, allora cercò di rendere la cosa più dolce possibile.
Rimase fermo per un po’, poi prese nella mano il pene di Efestione, che il
dolore aveva ridotto ad uno straccetto, e cominciò a massaggiare, salendo e
scendendo, con dolcezza, accarezzandone la punta. Piano piano lo sentì
riprendere vigore. Allora con le mani salì ad accarezzargli i capezzoli e il
ventre piatto. Si piegò verso di lui e sussurrò – Ti amo – Voleva che
Efestione lo sentisse, voleva fargli capire che lui era lì, e non lo avrebbe
mai lasciato. Nonostante il dolore, Efestione aveva cominciato a muovere i
fianchi, invitando anche Attalo a muoversi dentro di lui. Ad ogni movimento, però,
Efestione emetteva un gemito, per metà di piacere ma per metà anche di dolore.
Quella
notte era stato terribile. Quando Attalo era entrato in lui con violenza, così,
a sangue freddo, lui si era sentito squartare. La pelle delicata dell’interno
si era spaccata. Ora le ferite si erano riaperte e bruciavano come fuoco.
Però
dietro c’era qualcos’altro. Una sensazione prima indefinita e poi più
riconoscibile. Il piacere era partito da qualche parte nel suo interno e si era
presto diffuso in ogni sua fibra, in ogni muscolo, in ogni vena. Ogni parte del
suo corpo ora gridava di piacere, mettendo il dolore in secondo piano.
Fu
Attalo il primo a venire. Non poteva più resistere. Guardava Efestione, bello
come non lo aveva mai visto. E così, abbandonato a lui, senza difese. Ora ne
era certo, in quel modo non lo aveva mai visto nessuno, era un privilegio che
toccava soltanto a lui. A quel pensiero non riuscì più a trattenersi.
Efestione
lo sentì dentro di sé, mentre veniva. Era la sensazione più dolce del mondo.
Immediatamente lo seguì.
Ora
lo sapeva, per tutti quegli anni, nonostante tutto, avevano mantenuto una parte
di loro perfettamente intatta, una parte che ora si erano donati l’un
l’altro.
Soltanto
al tramonto risalirono a cavallo e tornarono all’accampamento.
FINE
Vai all'Archivio Fan Fictions |
Vai all'Archivio Original
Fictions |
|