DISCLAIMERS : è mio, tutto miooooo, muahahahahah
ahahahahahahahaahah….
Tranne Topo Gigio, Star Trek, Spock e altre cose che ora mi sfuggono… insomma, date a Tes ciò che è di Tes°_°''''…
NOTA1: scritta a tempo di record O_O… ancora non ci credo… l'idea è nata mesi fa, dopo aver letto L'OMBRA DELLO SCORPIONE e un Dylan
Dog… lo stress degli esami ha fatto il resto*_*'''…
NOTA2: il linguaggio è forte perché è così che la storia si è voluta far scrivere…
DEDICHE: le parole non rendono, ed io non credo neanche di essere in grado di riuscire a esprimere l'affetto e il rispetto che provo per una persona straordinaria.
Non ci siamo mai visti, non ho mai sentito la sua voce…ma l'ho conosciuto in questi mesi, e ringrazio la vita di avermelo fatto incontrare (e lui di avermi scritto :)), perché è un tesoro.
È un amico.
È… Ca-chan.
Non riesco ad esprimermi a parole, e allora mi esprimo con i miei
silenzi. Tu lo so, capirai.
Ti voglio bene, Ca-chan.
Ti voglio bene.
Auguri di cuore di buon compleanno,
Tes


-_- spero che la storia possa piacerti almeno un po', Ca-chan
-_-…
se non altro apprezza il fatto che ho usato due nomi in piene fitte
di repulsione°_°''''...


 


L'ULTIMO UOMO SULLA TERRA

di Tesla


C’era stato un inizio.

C’è sempre stato un inizio, per tutte le cose, il momento in cui tutto deflagra da un unico punto senza tempo né spazio.

L’inizio.

L’anno zero.

L’Allora.

 

C’era stato un inizio.

C’è sempre stato un inizio, ma è raro capirne il motivo. Il perché tu compia un’azione. Il perché anche il solo pensiero ti sfiori la mente.

Il motivo…

… così come nell’Allora, così come nell’Adesso, motivo non c’è.

Non c’è mente umana che possa concepire.

Non c’è destino a cui opporsi.

 

C’era stato un inizio, una volta.

E ancora, di nuovo, anno 2070.

Poco tempo fa.

Solo un anno.

 

Lui è alla ricerca di vita, lui, che non sa nulla ma che ancora respira.

Lui, solo, tra migliaia di città deserte come oasi di fumo liquido.

Lui, che ancora avanza, e cerca.

Un’altra vita.

Un altro uomo.

 

Dopo mesi, lui cerca. Ancora.

Per non soccombere alla paura, il terrore di essere…

… quest ultimo uomo sulla Terra.

 

***

 

L’ultima volta che aveva visto un essere umano era stato qualche istante prima, di questo ne è certo. Stava girando il caffè che la cameriera gli aveva appena portato con un sorriso distratto, cercando di sciogliere quel poco di zucchero che la dieta gli consentiva.

 

(Cosa cosa, amico Sebby? Sei a dieta? E che cazzo ti sei messo in testa, Caciottone, di rimorchiare le ragazze?)

 

Intorno tutte chiacchiere, brusii, gridolini di cameriere, e ragazze, e coppiette intorno a lui.

Poi, silenzio.

Quando aveva rialzato gli occhi, di scatto, non c’era più nessuno.

Più nessuno.

 

Ora osserva, si guarda in giro, non capisce. Strizza gli occhi sotto la luce della saletta, all’improvviso troppo forte, e troppo bianca. Era così anche prima? Forse. Forse non ci sono più ombre di carne, e scorre più tranquilla.

Strizza gli occhi.

Nessuna ombra.

Strizza gli occhi.

Non c’è più nessuno.

È solo.

Si guarda intorno, non realizza bene.

 

(Ehi, amico  Sebby, che cazzo ti prende?)

 

C’è tanto bianco, e tanto vuoto. Tanto silenzio.

Il fumo del caffè risale caldo dalla tazza e si trasforma sinuoso in corpi di nebbia davanti al suo tavolino. L’illusione dura pochi istanti. Il fumo sale e scappa via, sale e non torna più.

La saletta, ancora vuota.

Lui, ancora solo.

“Devo essermi addormentato” pensa stordito, ma subito scaccia l’idea. La gente del locale se ne sarebbe accorta, avrebbe riso, e qualcuno di più misericordioso lo avrebbe scosso per una spalla per svegliarlo.

Invece lui ora è qui, è lucido, sveglio.

Può sentire la consistenza del metallo freddo del cucchiaino sotto i polpastrelli del pollice e indice, il duro del tavolino sotto l’altro avambraccio, la sedia di legno su cui è seduto…solo che per la prima volta in ventidue anni di vita non c’è nessun adolescente in via di spiritosaggine pronto a sfilargliela da sotto il culo.

 

( Che cazzo sta succedendo qui?)

 

(Ma come, non lo capisci, Sebby? Ti stanno pigliando per il culo, amico, per quel tuo grosso, flaccido sederone. La gente non scompare così. Smettila di pensare a certe vaccate, o mi farai pentire di aver sprecato troppo tempo a farti seguire Quark mentre ti sparavi seghe. Pensa, rifletti. Usa quel tuo cazzo di cervello, se Dio te l’ha dato)

 

Pensa.

Riflette.

Forse ci arriva.

Deve essere uno scherzo, certo.

Ridacchia nel vuoto della sala. Sembra il nitrito di un cavallo rauco, ma non importa, è un rumore, e per quanto repellente, cazzo!,  fa piacere sentirlo

Sì, ne è certo. Deve essere uno scherzo, un bellissimo trucco di pareti mobili o qualche altra stronzata del genere per “Scherzi a parte” o roba simile. “Candid camera”, magari; tra poco uscirà una troupe televisiva e chiarirà tutto.

Ne è certo.

Ne è certo anche quando la risata rimbalza nell’aria secca della stanza, e ancora, e ancora.

Ma, insomma… è semplicemente impossibile, no?

 

(Amico Sebby, la gente non diventa intangibile, non precipita nel pavimento… Non scompare… così. Vaffanculo, no, non è questo il modo in cui vanno le cose! Per niente!)

 

Ora che sa la verità, può calmarsi; il cuore batte sempre rapido sotto il petto foderato di lardo, ma il suo filtro ottico perde l’effetto onirico, vede le cose con più lucidità, nei dettagli.

Fa un bel respiro profondo.

Un altro.

Va meglio ora, sì.

È solo uno stupido programma televisivo. Tranquillo.

Porta alle labbra la tazza di caffè ormai tiepido e la riabbassa immediatamente l’attimo dopo. Se è uno scherzo, chissà che razza di porcherie ci avranno infilato dentro per fare audience. Nel caso migliore, lassativi. Nel peggiore, ci avranno pisciato dentro.

Posa la tazza sul suo piattino.

Gli è passata la sete.

Si alza piano, i gommini alla base della sedia stridono in maniera viscida contro il pavimento lucido. Sebastiano non se ne cura. Guarda in alto, negli angoli, sui muri, sotto i tavoli, tra le bottiglie. Cerca riflessi di telecamere nascoste. Ora ne è sicuro, saranno almeno una decina.

 

(Fanno le cose in grande, eh, Sebby, per una mezza tacca come te!)

 

Cammina tra i tavoli, continua a cercare. Non trova nulla. Immagina che dai monitor gli operatori se la staranno facendo nei pantaloni dalle risate.

Fa qualche altro passo. Poi si ferma. Adesso che lo shock è passato, il suo orecchio percepisce chiaramente un ronzio non troppo nascosto.

 

( Che coglioni, si sono traditi! Vai, Sebby, spaccagli il culo!)

 

Ridacchia ancora, un raschiare di echi striduli tra le mura; segue il suono, forse un amplificatore, un registratore. È Cesare quello esperto in quella roba, non lui. Cesare saprebbe dirgli anche di che marca è quel cazzo di ronzio.

 

( E le cose che ti ho insegnato non te le ricordi più?  Lo abbiamo già sentito insieme ‘sto rumore, Caciottone, sforzati. Ti do un suggerimento: non è un registratore con cui ti salvi tutti i tuoi filmini porno alle due del mattino. Sforzati, avanti. )

 

Si sforza.

Niente, non ricorda.

Si asciuga la fronte sudata con la manica della felpa. Deve solo seguire il suono.

Si dirige verso l’uscita della saletta, camminando a zigzag tra i tavolini apparecchiati

 

(e vedi i cucchiaini sporchi di cioccolata calda su un tavolo, e tazze fumanti piene a metà, e come è possibile, allora, come è possibile…)

 

e le immagini si confondono con quelle percepite prima, vede visi traslucidi e quasi solidi sovrapporsi sull’arredamento, come disegnati su fogli di acetato.

Gente che c’era, e ora non più.

Spariti, tutti quanti.

 

( Come fossero precipitati, nella terra)

 

Bello scherzo, sì, sì, è un … trucco… ottimo, chissà

 

(Ma è davvero uno scherzo? È questo che credi?)

 

come avranno fatto,

 

(Oh, che illusione, che illusione)

 

magari qualche parete mobile

 

(Ma qual è la vera illusione?)

 

come nei film di James Bond,

 

(Credere a ciò che vedi…)

 

o uno di quei reality show,

 

(o credere a ciò che hai sempre saputo?)

 

e vogliono solo confonderti

 

(La sua scarpa calpesta qualcosa di piccolo, duro )

 

per capire fin dove riesci a porre il limite

 

(Lo sente scricchiolare sotto il peso, alza la suola)

 

tra reale

 

(è un fermacapelli di Hello Kitty, rosa acceso contro il bianco del pavimento, un’ombra)

 

e illusione.

 

(Aveva visto due studentesse  delle medie che ridacchiavano e guardavano quel cosino. Poco prima.)

 

Perché di questo si tratta, solo illusione.

 

(Le aveva viste toglierlo dalla sua bustina, e fissarlo adoranti. Poco prima.)

 

Non può essere altro.

 

(E avevano lanciato uno sguardo all’orologio, afferrato gli zaini, in ritardo. Poco prima.)

 

La gente  non sparisce così.

 

(E si erano alzate, e incamminate, e poi una di loro era tornata indietro, al tavolino)

 

Non nel mondo vero.

 

(Che sciocca, aveva dimenticato il fermacapelli nuovo!)

 

In tv sì, quante volte?

 

(E lo aveva afferrato, il viso di Hello Kitty stretto contro il palmo della mano)

 

Ma non nel mondo reale,

 

(ed era in mezzo alla stanza quando lui aveva abbassato)

 

qui in questo bar,

 

(lo sguardo sul suo caffè, e si era messo a girarlo per )

 

qui in questa città,

 

( sciogliere bene lo zucchero, così poco! E allora)

 

qui in questa terra,

 

(lo aveva sentito cadere, un attimo)

 

qui in questo mondo…

 

(Nel silenzio, il rumore)

 

… Qui, accanto a lui.

 

(Il rumore)

 

Tra tutti, solo lui.

 

(Rumore)

 

Lui.

 

(RUMORE)

 

 

 

Eccolo, aumenta. Il rumore. Segue la scia, l’eco, avanza nella saletta accanto, altri tavoli, altre sedie, altre tazze e bicchieri in solitudine. Non troppe, a quell’ora di sera, ma sempre così stranamente spoglie sotto tutta quella luce e quel bianco.

Poche ombre.

Un piccolo brivido, non può farne a meno.

Il ronzio continua. Nessuno si deve essere accorto di quel suono… o forse sì, hanno capito che li ha scoperti

 

(Ah ah, Caciottone, fine dei giochi)

 

e sono tutti nascosti in cucina – è da lì che viene il rumore – per urlare “BUH!”  appena aprirà la porta.

 

(Che merda di programma se fanno così, amico Sebby! Detto di cuore!)

 

Ma  Sebastiano non balzerà in aria spaventato, non griderà. Lui ha già capito tutto

 

(Tu non hai capito ancora nulla, Sebastiano… non vuoi capire ancora nulla),

 

ma l’avranno sicuramente visto attraverso i monitor, forse lo trasmetteranno così, forse farà una bella figura, forse per una volta Cesare non lo chiamerà “Caciottone” davanti a mezza Facoltà… e magari gli sorriderà in quel modo che  gli piace tanto.

Si asciuga i palmi sudati contro la stoffa della felpa che copre il pancione. Il cuore c’è, e batte rapido rapido. Si asciuga meglio le mani, stropiccia la felpa. Se la sente grigia e umida sotto le ascelle.

Manca poco ormai, presto saprà. Soprattutto vuole chiedere una spiegazione su quell’incredibile trucco della sparizione. Ci saranno state una dozzina di persone nella sala, come avranno fatto a

 

(Precipitate, nella terra)

 

eliminarle tutte così, all’improvviso?

 

(Risucchiate, nell’aria)

 

Supera il bancone del bar davanti all’ingresso, ora è di fronte alla porta della cucina. Sì, riesce chiaramente a sentire un ronzio sordo al di là del legno. Chissà da che arnese viene, il bar non gli sembra ricco abbastanza da potersi permettere un robot o un sistema meccanizzato. Non sa che dire. Cesare non è lì con lui a dirglielo, può solo immaginare, tirare a indovinare.

Chissà se la gente là dentro gli dirà: “Bravo, non ti sei lasciato prendere dal panico!”

Chissà se Cesare glielo dirà. Anche solo con lo sguardo.

È una cosa di cui è molto fiero anche lui. Lo ricopriranno di complimenti.

Pensa.

Spera.

Forse no.

Afferra la maniglia e apre la porta. Sbatte un paio di volte le ciglia, preso alla sprovvista.

“Che lo scherzo continui?” pensa confuso.

Nella stanza non c’è nessuno.

Vede un grembiule accucciato a terra ai piedi di un fornello, lo sportello del frigo aperto.

 

(Risucchiati, in un vortice di aria ferma)

 

Sente il cuore fargli male nel petto, fitte dolorose che gli fanno lacrimare gli occhi.

Un brutto presentimento.

Il ronzio è forte nella stanza ora che non ci sono più i muri a dividere; ne segue la scia, ne cerca la fonte.

Ronzio basso, irregolare. Ma non è né un registratore né un amplificatore.

È solo un macinacaffè.

Qualcuno deve essersi scordato di spegnerlo nella fuga. Forse lui si è accorto troppo presto del rumore e non hanno fatto in tempo a premere il tasto prima di nascondersi dietro il muro girevole.

Nascosti, tutti nascosti, certo, è così, è così…

 

(Oddio, Sebby, illuditi, illuditi)

 

O forse no.

Forse, più semplicemente, sono tutti scomparsi.

 

(Carne. La terra ne è sazia)

 

 

***

 

 

E ora?” pensa.

 

(O cazzo che situazione, Sebby, o cazzo o cazzo o cazzo)

 

Cosa deve fare? Sinceramente questo gioco inizia a stancarlo. È stato bravo, ha capito tutto… perché non la piantano ed escono fuori?

 

(Perché non possono, cazzo, Sebby, Dio mio, non possono)

 

Si avvicina lento al macinacaffè, tasta la parete laterale finché non trova il tasto di accensione.  Spegne la macchinetta.

Se ne pente subito.

Silenzio.

Così tanto  silenzio, aromatizzato a chicchi di caffè appena macinati.

Gli gira la testa. Strizza gli occhi. Si asciuga la fronte.

C’è ancora bianco, c’è ancora luce, c’è troppo silenzio.

No, non più.

Il ronzio riprende, all’improvviso; Sebastiano sussulta e sente una bolla di gioia gonfiarsi nel petto. Non può essersi rimesso a funzionare da solo. Ecco le prove! Le prove! È tutto uno scherzo, sei su una candid camera, le prove…

 

(Abbassa lo sguardo, Sebby)

 

… le prove…

 

(Guarda dove sono quelle tue cazzo di dita, SEBBY!)

 

Il suo sguardo si rimette a fuoco, segue la linea del gomito, avambraccio, polso. Fino alle dita. Non le ha spostate dal tasto di accensione.

 

(Lo hai premuto tu, Sebby)

 

-         No, non può essere- pensa, e il secondo dopo si accorge di aver parlato a voce alta.

Deglutisce, ma ha la gola contratta; c’è solo quell’aroma di caffè macinato che impolvera l’aria della stanza. Le dita tremano accompagnando le oscillazioni del macinacaffè acceso. Le ritrae al petto. Tremano ancora.

Ha le dita ancora umidicce, il sudore si insinua nelle pieghe di grasso sui palmi delle mani, la linea della vita, e fortuna, e amore, come minuscoli fiumi che alimentano la sua esistenza.

Si è stufato di questo scherzo. Vuole tornare a casa.

Si dirige verso l’uscita su gambe ancora intorpidite; in sottofondo dei suoi passi c’è il ronzio laconico di tanti piccoli chicchi di caffè che vanno al massacro.

Il suo corpo è scosso da un brivido. Fa freddo, ma almeno ha smesso di piovere e non deve più stare lì al riparo. Non aveva con sé l’ombrello quando era uscito di casa per andare da Cesare, il cielo era limpido, non poteva immaginare…

Infila le mani nelle tasche strette e cerca di farsi piccolo piccolo, mentre cammina; per strada non c’è nessuno, anche se non è così strano data l’ora.

 

(Ehi, Sebby, ma tu credi di sapere a  che ora di solito si ritira la gente? Non adesso, amico, non adesso )

 

C’è una macchina in seconda fila davanti al negozio di robotica e computer, un paio di chiavi brillano a terra sotto i riflessi dei neon e ologrammi delle insegne. Mille luci sull’asfalto della strada, sui marciapiedi, sui cartelli, sulle vetrine, ogni luce diversa per ogni goccia caduta dal cielo. Rigagnoli torbidi scorrono lungo le crepe della via e si ingrossano davanti ai canali di scolo e ai tombini.

Acqua fetida, puzza di marcio.

Sembra voglia portarsi via tutte le lordure del mondo, tanto cerca di sparire rapida nelle fogne.

Via ogni vergogna.

Via ogni sbaglio.

Via ogni sfottuto errore commesso.

 

(Torna a casa, Sebby, sei stanco)

 

Sì, è tanto, tanto stanco. Gli fa male il cuore, gli fa male la testa; gli occhi bruciano forte.

 

(Un po’ di collirio e passa tutto. Hai un aspetto di merda, amico, vatti a fare qualche giornata di sonno)

 

Sebastiano continua a camminare. Risale la strada su per il corso principale, e vede le vetrine di negozi già chiusi e le luci alogene dentro “Biancaneve”

 

(Cazzo, Sebby, sto gelato è da orgasmo! Ora capisco perché ti ritrovi quel tuo culo flaccido)

 

e il negozio di cineseria un po’ più in là; vede le ombre che i cartelli stradali e le auto gettano sul mondo sotto la luce dei lampioni curvi dalla stanchezza; vede luci alle finestre di parecchie case e parole urlate da un televisore messo a volume un po’ troppo alto.

 

(Forse non è il televisore, ma sono famiglie che chiacchierano, non credi? Qualcuno che non vuole partecipare al programma )

 

Vede una luna crescente che si rispecchia grigia in cielo.  Ha un aspetto quasi triste, non sa spiegarselo. Sembra quasi … dispiaciuta.

 

(Sono vaccate queste, Sebby, muovi il culo)

 

Le suole delle scarpe calpestano sicure strade fatte mille volte, dal corso arrivano  nella piazza principale; alla fermata dell’autobus davanti al bar “Stella” non c’è nessuno. Dal parco, alla sua sinistra, solo silenzio. Osserva le strisce pedonali che segano la rotatoria della piazza e come mai assumono l’aspetto di linee bianche su una lavagna per conteggiare vittime perse, in attesa di essere sbarrate per poter riposare in pace.

La strada è deserta; non si vedono auto in arrivo, ma per sicurezza attraversa dalle strisce. Una piccola pausa a metà sull’isola pedonale. Ancora nessuno in vista. Riprende a camminare. Svolta per la strada che costeggia il parco, gira ancora, supera il ponticello sopra i binari della ferrovia, arriva al suo quartiere, il suo appartamento è nella palazzina dietro l’angolo.

Passa la scheda di identificazione davanti al lettore elettronico all’ingresso; solo un attimo, poi la lucina sulla scatolina diventa verde, c’è un piccolo “tlack” e la porta si apre.  Se la richiude alle spalle, allunga la mano e accende la luce delle scale. Rimane qualche istante stordito nello scoprire di essere arrivato sin lì senza pensare, senza neanche accorgersene. Come il  teletrasporto nella serie di “Star Trek”. L’unica cosa che si ricorda di quel telefilm sono le orecchie a punta di Spock. Nient’altro. A  fanculo “Star Trek”, gli fa male la testa.

Sale le scale fino al terzo piano, una piccola sosta tra una rampa e l’altra per recuperare il fiato. Ripassa la scheda magnetica davanti al lettore del suo appartamento ed entra con un sospiro di sollievo.

Qualunque cosa stia succedendo fuori, lì è al sicuro.

Respira e si riempie i polmoni dell’odore del suo sudore che impregna la casa. Sarà una cazzata, uno di quei suoi tic mentali per cui Cesare lo sfotte spesso, ma è come ricevere una dose di coca in endovena dritta dritta verso il cuore.  Non ha più il fiatone, non ha più il dubbio. È nel suo appartamento, nel suo mondo, niente può succedergli.

Accende la luce in cucina e si muove in automatico, il suo rito quotidiano: apre il frigo, pesca un paio di yogurt al cioccolato, si siede in poltrona davanti alla tv nel salottino e li mangia senza pensare, cercando di ignorare i sensi di colpa. Segue distrattamente “ Dracula” dal suo lettore dvd, cala giù il cibo infilandoselo in bocca alla cieca; quando il cucchiaino scivola sulla plastica del fondo marroncino del secondo vasetto, va a prendersi un pacco di biscotti e riprende a seguire il film.

La fame non passa mia, perché non c’è mai veramente. Serve solo a tenere le mani occupare, e a cercare di ignorare il bruciore all’inguine davanti alle immagini di Keanu Reeves e Winona Ryder terrorizzati. Cerca di sistemarsi meglio i cuscini dietro la schiena. Lancia alla tv occhiate nervose.

Jonathan Harker.

Gli ricorda un po’ Cesare quando sorride, e chissà cosa diavolo glielo riporta alla mente dato che non si assomigliano neanche di striscio.

Sa solo che il cuore gli fa male.

 

***

 

( - PORCA TROIA, SEBBY, CHE CAZZO TI CREDEVI DI FARE?!?)

( - No, io… scusa, io…)

( - VAI A FARTI FOTTERE, LEVATI DALLE PALLE!!!)

(-  Ce’, io non volevo…)

(-  VATTENE, VAFFANCULO, NON FARTI PIÙ VEDERE!)

 

***

 

Si infila in bocca biscotti  a manciate mentre Dracula passeggia per le strade di Londra.

Non vuole pensare, oddio, non vuole pensare a quello che ha fatto…

 

(Il senso di colpa che corrode e gli si conficca sempre più giù nel petto, nella sua consapevolezza)

 

… a come il viso di Cesare fosse così vicino al suo mentre gli spiegava l’ultima lezione di letteratura inglese che aveva saltato…

 

(Il terrore nel rivivere ciò che ha fatto, di nuovo, e di nuovo)

 

… a come si era ritrovato a fissare il viso del suo amico e non più il foglio…

 

(Il terrore di quello sguardo e quelle parole non lo abbandoneranno mai)

 

… a come si era ritrovato a rimanere lì seduto incantato, con un languore allo stomaco, un buco solido che cresceva e spingeva gli organi per farsi spazio come un feto sovrannaturale…

 

(e quel tono, e quell’odio )

 

… a come aveva ceduto, e si era chinato, e lo aveva baciato…

 

(non lo abbandoneranno mai)

 

… a come il suo cuore aveva fatto male, e non sapeva neanche lui il perché di così tanto dolore…

 

(mai)

 

… quando si era ritratto di scatto, spinto via da mani rabbiose…

 

(MAI)

 

… a come era scappato via di corsa, con i polmoni in fiamme, non per lo sforzo, ma nel capire che ciò che aveva appena fatto, un’incredulità così totale….

 

(Sempre con te, il tuo souvenir dall’inferno)

 

… da farlo vagare senza meta, da solo, fino a che alla minaccia di pioggia si era rintanato nel bar.

 

 

Ripensa al bar. Ripensa alle strade. Ripensa alla cucina vuota con quel ronzio sonnolento come una marcia funebre.

Tutti spariti, nel giro di un istante.

Tutti…

NO, BASTA, deve smettere di pensare ad un’idiozia simile. È irreale tutto questo, è solo uno scherzo, è solo un sogno. È tutto posticcio, e prima o poi il teatrino crollerà, e la gente tornerà a farsi vedere.

Non è questo il problema.

Non è questa la realtà.

Poggia i biscotti sul pavimento accanto alla sedia e corre in cucina a bere lunghi sorsi di Coca-Cola.

Fanculo la dieta, la inizierà un altro giorno.

 

(Non c’è più nessuno Sebby. Soltanto tu)

 

***

 

È di nuovo seduto in poltrona. La tv è spenta, tutta la sua attenzione è sul cellulare che sonnecchia con lo schermo scuro sul bracciolo imbottito. Sebastiano si mordicchia le pellicine intorno all’unghia del pollice e lo fissa in trance.

Forse dovrebbe chiamare Cesare, spiegarsi. Afferra il cellulare. Il cuore aumenta di scatto i battiti e gli mozza il fiato. Lo rigetta sul bracciolo con le mani così gelide e tremanti che il cellulare scivola oltre, cade giù, si spacca in due sul pavimento e la scheda schizza tre metri più in là.

Sebastiano li osserva… e basta, non regge più. Cazzo, ha una gran voglia di piangere, di farsi quelle urlate spaccatimpani come quando era solo un moccioso. Gli occhi si inumidiscono, si copre il viso con le mani. Ma le lacrime non arrivano. Due singhiozzi un po’ forzati e nient’altro.

Non gli è concesso neanche quello, pensa afflitto, neanche di sfogarsi.

Si alza con gambe incerte, guarda i resti del cellulare, e dopo un minuto di riflessione decide di rimontarlo. Seleziona un tono di suoneria alto e si assicura di posizionare il telefonino dove c’è campo.

Non si sa mai.

 

(Oh, Sebby, non posso)

 

Può darsi che qualcuno

 

(LUI)

 

(non posso)

 

chiami.

Può darsi.

Forse.

Non lo sa.

Ma spera.

 

(perché ormai sei solo)

 

Non si sa mai. Spera.

 

***

 

Questo non è un incubo, non è un gioco.

Ora lo sa.

È seduto di nuovo sulla sua poltrona, ma le mani sono vuote.

Niente cibo.

Niente cellulare.

Cesare, ora, non ha le mani per poterlo chiamare.

Cesare, ora, non c’è più.

 

Fissa senza vederlo un punto davanti a sé.

Sono solo mobili.

È solo pavimento.

Nessuna persona lì con lui… e allora che diavolo importa?

Sono le sei di sera, è sul tardi, quasi buio. Stamattina è uscito di casa per andare in giro, a cercare. Non potevano essere tutti scomparsi, non poteva crederci…

…. Ma il sogno non è mai esistito, il gioco non è mai iniziato.

È solo. Solo lui.

Solo.

Lui.

È nella poltrona, fissa il vuoto. Dalle finestre strisciano ombre scure dentro la stanza via via che le ultime luci si estinguono. Non se ne accorge. Non ha importanza.

Fissa il vuoto. E non sa cosa fare.

 

La schiena è indolenzita, il corpo è diventato gelido sotto il vento che entra da fuori.  Odore di erba bagnata, odore di asfalto umido. Non c’è odore di uomini, ogni cosa è colata giù nelle fogne, giù nell’inferno.

Non c’è nessuno, e lui è solo. Tra tutti, solo lui.

 

È intorpidito dal freddo, ma non si muove. È tutto buio intorno, il sole è tramontato da parecchio, ma Sebastiano non si è mai mosso dalla sua poltrona. Rimane lì. Non sa che fare. Ha la bocca riarsa dalla sete. Non importa.

Solo.

 

Cesare non c’è più. Non realizza il concetto. Cesare è esistito fino a poche ore prima… e ora non c’è più. Non sa come è andato via. Non sa come è entrato nella sua non-vita.  Sapeva che prima o poi tocca a tutti. ” Se devo crepare, creperò, amico Sebby; ma cazzo, ho intenzione di divertirmi prima!”, così diceva sempre. Parlava di vita e della morte che avanza, Cesare, intorno alla settima Bjorn, ma non avrebbe mai potuto immaginarsi di sparire così.

Non c’è nessun corpo, nemmeno in fondo al mare. Non ci sono più le molecole di Cesare nello spazio a vagare, non esiste più la legge: “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto cambia.”

Non è vero.

Non è più vero.

Cesare è stato creato.

Cesare è stato distrutto.

Il suo corpo non può neanche più servire da cibo per vermi, ha avuto meno diritti nella morte di un chicco di caffè polverizzato dentro una caffettiera.

Niente più Cesare.

Cesare ha fatto ‘puff’ nell’aria grigia dal sapore di pioggia.

Chissà cosa stava facendo, un attimo prima di essere annullato. Chissà a cosa pensava. O a chi. Chissà se ha ancora un’anima o è stato semplicemente cancellato da una mano grande in grado di portar tempeste.

Cesare non c’è più.

Non sentirà più la sua voce. Non ci sarà più nessuno con cui cazzeggiare in attesa dell’inizio di una lezione. Più nessuno con cui scusarsi.

 

(Niente più giochi di coppia, Sebby, da ora solo lunghi solitari senza fine)

 

Fissa il vuoto con il culo affondato nella poltrona. Per quanto si sforzi, le lacrime non escono; e allora rimane lì, in attesa di non sa neanche lui cosa. Chi aspetterà, se non c’è più nessuno con carne umana per scuotergli il braccio o stringergli la mano?

Non c’è più nessuno.

 

(Ma se invece ci fosse, Sebby? Cazzo, se invece ci fosse? )

 

È solo.

 

(Lo sei ora, se rimani lì, grandissimo sacco di merda. Muovi quel culo, CERCA, se non qui , per strada, e in un’altra città, e in un’altra ancora, e ancora, cazzo, e ancora! Se ci fosse altra gente, Sebby? Vuoi crepare lì in quella poltrona, nel dubbio?)

 

Con la morte tutto scompare, dicono, ma non è vero, perché rimane il tuo corpo, qui ancorato a terra, gli atomi che compongono la tua fisicità.

Gli altri sono spariti, ma lui no.

Lui è ancora lì, con il suo simulacro di carne e lardo.

Deve esserci un motivo.

DEVE esserci.

Non sa perché, ma sa che è così.

Crede.

Forse.

Spera.

Non può rimanere lì in quella poltrona per sempre.

Non può crepare senza aver almeno provato.

Non vuole morire. Forse questo più di ogni altra cosa. Forse è solo, forse no, ma lui c’è, ed è certo di essere reale.

Vive.

Niente “forse”, questo lo sa.

Vive.

Forse l’unico su tutta la Terra, ma VIVE.

 

***

 

È mattina presto, e Sebastiano è di nuovo nella piazza principale. A sinistra c’è il parco; a destra il bar “Stella” con la sua fermata dell’autobus. Ogni cosa è spoglia, ogni cosa è ferma, tranne lembi di stoffa e rami scossi dal vento; a folate forti se ne susseguono altre, e mentre si stringe bene il giaccone addosso vede mulinelli di foglie secche volteggiare e poi cadere, avanzano piano sulla strada come sottili automobili naturali.

Non c’è nessuno in giro. Non c’è più nessuno, in questa città.  C’è solo lui, con le scarpe da ginnastica ai piedi e lo zaino in spalla. È quasi vuoto, ha tolto i libri dell’università e vi ha lasciato solo portafoglio, cellulare e una bottiglia grande di Coca-Cola; non aveva più cibo a casa, si comprerà qualcosa per strada.

Ormai ha deciso, non può più rimanere lì a disperarsi.  Andrà a Roma. Se qualcuno è sopravvissuto, sicuramente è lì che si dirigerà per prima cosa. Così pensa Sebastiano, e si attacca a quella speranza con tutte le sue forze. La speranza non muore mai. La speranza è ancora lì con lui, a tenergli compagnia.

Si incammina lungo la strada davanti a sé per andare alla stazione dei treni, a passo rapido, non può perdere altro tempo.

Avanza lungo l’asfalto, segue la striscia gialla dipinta sulla strada come linea guida per arrivare alla fermata del treno appena fuori Tretorri; nessuna macchina in giro, nessun autobus o tir che passa tranquillo sulle pozzanghere schizzandolo in maniera umiliante. Sulla superficie torbida e sporca si riflettono solo chiazze di cielo puro, azzurro senza confini.

Sorpassa muri di case, cancellate, concessionarie, benzinai; oltrepassa un cavalcavia infestato da erbacce e papiri altissimi e secchi, e svolta in un’altra stradina dopo un alimentari con le saracinesche abbassate; e ancora viuzze, circondate da case e giardini.

Lungo la salita per arrivare alla stazione deve fermarsi più volte piegato in due a riprendere fiato. I muscoli dei polpacci bruciano. Che inizio di avventura di merda.

Percorre strisciando i piedi gli ultimi venti metri che mancano, si butta su una panchina, si sfila lo zaino dalle spalle e se lo accuccia tra le gambe; lancia un’occhiata all’orologio: è cinque minuti in anticipo, bene, il treno dovrebbe passare tra poco. Tira fuori la bottiglia nell’attesa e ne beve lunghi sorsi. Rutta. Si asciuga la fronte sudata con la manica del giaccone, e ringrazia di averlo indossato, coprirà pietoso gli aloni umidi e scuri che ha sotto le ascelle.

Attende.

E attende.

E attende.

Lancia un’occhiata al suo orologio: mezz’ora di ritardo.

“Ma che cazzo sta facendo quell’idiota?” pensa seccato;  sbuffa, si alza in piedi, sbuffa, si risiede..

Dopo un po’ ricontrolla l’ora: cinquanta minuti di ritardo.

E ora arriva una voce amara come non mai. La voce di una persona che lui conosce bene.

 

(Cosa cazzo stai facendo, Sebby?)

 

Io? Nulla?

 

(Chi staresti aspettando?)

 

Il treno! Sto aspettando questo schifosissimo treno che non passa!

 

(Non passerà mai. Sebby. Non partirà mai. Cazzo, apri gli occhi! Hai lasciato quella poltrona a casa tua per venire a morire aspettando qui? È questo che stai facendo)

 

No, io…

 

(Oh, VAFFANCULO, pianta con i tuoi “no, io…” di merda! Sai benissimo che quel treno non passerà, lo sai perché sei a conoscenza che non esiste più nessuno per guidarlo!)

 

 

(Avanti, coraggio, cammina, cazzo, cammina! Segui i binari, arriverai a Roma Termini entro qualche ora)

 

Sebastiano scaccia la voce e si perde di nuovo a fissare il vuoto. Lo sguardo è sfocato, ma sente ogni rumore, il fruscio e scricchiolio di rami e foglie che si piegano sotto il vento; e il vento che sfrega sui ciottoli e i ciuffi d’erba, e li arrotola su di sé…

…e poi, un’altro rumore.

Rametti spezzati, passi goffi di corsa verso di lui.

 

(Spera sempre, amico Sebby. Non mollarla mai, questa sfottuta speranza)

 

Finalmente lo sente. Oh, sì, lo sente. E lo vede.

C’è un cagnolino oltre la rete davanti a lui; deve essere poco più che un cucciolo, con grandi orecchie e pelo scompigliato e un po’ sporco. Agita la coda sferzando l’aria e zampetta contro la rete nel tentativo di abbatterla e raggiungerlo. Uggiola disperato.

Sebastiano ha una bolla di felicità lì, dritta in mezzo alle costole; è grande e si gonfia sempre di più, come un palloncino ripieno di elio…. Elio che lo tira su, e su, e su, portandolo oltre le nuvole. La vista di un altro essere vivente, in quella terra abbandonata, è più di una overdose nel cuore, è l’intensità di tutti gli orgasmi dell’umanità sprigionati da un unico corpo, partiti da un unico istante.

Come il Big Bang, così la felicità dentro di lui.

Ora, in lui.

Dio che gioia esserci ancora, essere vivi.

Risale di corsa lungo tutta la stradina che costeggia la rete, corre al cancello aperto,  si intrufola nel cortile; quando il cucciolo sente che arriva, gli corre incontro goffamente, felice quanto il ragazzo. Sebastiano lo afferra al volo, in braccio, lo stringe a sé e affonda il viso nel suo pelo; è sporco, e puzza, ma c’è un CUORE CHE BATTE, CAZZO, È VIVO, È VIVO!!!

Il cagnolino gli lecca frenetico la guancia con la lingua ruvida dimenandosi, poi attacca ad abbaiare forte. Sebastiano scoppia a ridere, rovescia indietro la testa stringendosi l’animale al petto e urla:

-         CAZZO, SÌÌÌ! WOF! WOF! AUUUUUUUUUUUU!

E nel silenzio della campagna, nel silenzio di un mondo quasi morto, i loro ululati raschiano via ogni torpore dal cielo, e dal cuore, e dalla terra.

Non importa ora cosa succederà.

Non è più solo.

Con il cagnolino in braccio, torna alla panchina a riprendere il suo zaino, se lo infila in spalla e col suo nuovo compagno di incubi si incammina lungo i binari.

 

(Speranza, Sebby. Speranza)

 

***

 

Li vede, prima di sentire l’odore acre del fumo che si spande. Due treni, completamente deragliati, schiacciati contro uno dei piloni dell’elettricità… come se i capitreno di entrambi i convogli fossero spariti così, nel nulla, lasciando un treno ormai vuoto senza guida.

Sebastiano si copre naso e bocca con una manica della felpa e avanza più cautamente, il cane che trotterella al suo fianco. Uno dei treni si è avvolto nell’impatto contro una delle banchine di attesa, sembra una enorme “L” fatta con scotch tridimensionale.

Tanto caldo, una puzza terribile che satura le narici. Sebastiano tossisce un paio di volte e sputa a terra un grosso bolo di saliva grigia di fumo. Non sembra esserci un incendio sparso, solo fiammelle in punti isolati, dentro le vetture, in un paio di punti sui binari. Taglia per le rotaie  in un gesto che avrebbe fatto urlare dal disdegno sua nonna e si allontana dai due treni morti. Oltre il tetto della stazione, mentre risale lungo il marciapiede verso la galleria gommata all’interno dell’edificio, vede altro fumo nero levarsi, forse proviene dalla piazza antistante.

Oltrepassa i negozi di accessori, le edicole, il McDonald’s, i suoi passi emettono piccoli tonfi sordi sul pavimento. C’è tanta luce che entra dalle vetrate in alto, il cielo è limpido, anche se va sullo scurirsi; il suo sguardo scivola appena  sotto, sul cartellone degli arrivi. Le lettere sono ferme a segnalare un treno in arrivo da Napoli sul binario 8 che non tornerà mai a casa.

Le luci del McDonald’s sono accese, è uno dei pochi negozi ormai quasi del tutto meccanizzato. C’è odore di fritto ormai raffreddato, ma è un odore familiare. Il cagnolino uggiola piano, poi abbaia;  Sebastiano si volta a guardarlo, il cane si limita a scodinzolare e ad osservarlo. Torna a camminare verso il fast food.

Non c’è nessuno, non si aspettava diversamente. Passa dietro il bancone e si ritrova con l’acquolina in bocca a guardare patatine fritte nel loro cestello, alcune già pronte nella loro confezione; panini pronti suddivisi in file quasi militari, un plotone di hamburger-soldato, cheesburger–caporale, Big Mac generale. Un paio di confezioni di McNuggets li occhieggiano  a debita distanza, come ragazze di paese che accolgono lo sbarco degli alleati.

 

(Ma che cazzo ti viene in testa, Sebby? Prendi quello che vuoi ed esci. Guarda il lato positivo di quello che è accaduto: puoi mangiare quello che ti pare, non devi pagare e tua madre non sfotterà più, quella volta l’anno che chiama, domandando se i tuoi jeans affogano nel lardo come sempre)

 

Sebastiano prende due grosse buste da sotto il bancone e le riempie con tutti i Big Mac e confezioni di patatine che trova; sono freddi, ma dovrebbero essere ancora commestibili.

Pensa.

Crede.

Che importa? Ha mangiato di peggio nella sua vita, e ora ha veramente tantissima fame. Infila le due buste nello zaino, poi estrae due grossi hamburger dal loro pane e si volta per darli al suo compagno di viaggio.

Cerca, ma il cane non c’è più.

Il suo cuore salta una raffica di battiti.

 

( È  sparito anche lui? Cazzo, Sebby, no… no…)

 

E poi in lontananza lo sente, l’abbaiare di un cucciolo. A giudicare dalla direzione, sembra provenga dalla piazza. Lascia cadere la carne, si infila lo zaino in spalla e attacca a correre quanto più veloce può, e sente la pancia ballonzolare sopra la cintura, le guance molli che vibrano quasi in un rumore di risciacquo, le patatine saltare e spargersi per tutto il sacchetto come in una gara di rodeo.

Oltrepassa le pareti vetrate della libreria della stazione ed esce fuori, nella piazza cosparsa di autobus, e biciclette, e taxi, un grande labirinto di lamine e circuiti; sente ancora abbaiare in lontananza, per cui riprende a correre col petto in fiamme, i respiri che sono sempre più brevi e rasposi, gli ghiacciano il tronco.

Corre oltre le macchine ferme in mezzo alla strada o schiantate contro gli alberi, circondate da quelle colonne di fumo nero che aveva scorto alla stazione e che coprono alla vista le cime dei palazzi; corre oltre le bancarelle di libri usati sotto le file di alberi di cui non ricorda il nome; corre, e sente il rumore dell’acqua che scroscia nella fontana delle Naiadi in piazza della Repubblica. Un pullman è finito contro la vasca circolare della fontana tranciando due ninfe a metà; è dentro a mollo con entrambe le ruote anteriori, il muso schiacciato e il parabrezza in frantumi.

Del cucciolo, nessuna traccia. Nessun rumore.

È sparito, come tutti gli altri.

Vuota, è la piazza.

Vuoto, è come si sente lui.

Si siede sulla scalinata davanti al Warner Cinema, dall’interno occhieggiano come ombre pallide le sagome di locandine; si sfila lo zaino, si stringe le gambe al petto. E inizia a piangere. Come vuole lui, come ne aveva bisogno, un pianto  da sgolarsi, che brucia gli occhi, che lascia senza forze. Non c’è più nessuno che lo può giudicare una mammoletta se lo fa, e cazzo!, lui ne ha davvero tanto bisogno. Come la pioggia che è caduta fuori per le strade intasando le fogne di uomo, così ora le sue lacrime si trascinano via tutta la disperazione in eccesso… e portano in lui la rassegnazione.

 

(Sei solo, Sebby, o cazzo, cazzo, sei solo)

 

 

 

Passa il tempo, e le lacrime alla fine si fermano da sole, lui non sarebbe stato i grado di avanzare alcuna autorità. Apre lo zaino, si passa la manica del giaccone sugli occhi per tamponare l’umidore delle lacrime, prende i due sacchetti del McDonald’s e inizia a mangiare; mastica, ingoia, non sente neanche il sapore, non sente neanche se è carne andata a male o no. Cala giù in automatico. Fissa il vuoto. Sa cosa deve fare, continuare a cercare, ma non ne trova le forze.

Il pomeriggio va sull’imbrunirsi. Il vento spira forte e porta con sé il fumo nero di auto senza nome.

Tira su col naso, ma continua a sentirselo colare, se lo strofina con la manica per asciugarselo temporaneamente, poi si infila l’ultimo boccone di Big Mac in bocca, si strofina le mani contro i jeans per togliere l’unto e apre la tasca superiore dello zaino in cerca di un fazzoletto. Trova un pacchetto di Tempo, ma trova anche qualcos’altro, e lo osserva pensoso mentre finisce di masticare, e inghiotte.

Lì c’è il suo registratore digitale della Sony, lo porta sempre con sé per registrare le lezioni la sera, quando è troppo stanco per prendere appunti. Quattro tacche di batteria, il massimo. Il display segnala un’ora di registrazione nella cartella A. Afferra un altro panino e inizia a mangiarlo.

Preme il tasto PLAY.

Un “bip” lungo, e l’attimo dopo sente chiara la voce monotona del suo professore di Sociologia che discute sulle immagini subliminali e i messaggi nascosti che la tv diffonde.

Un lungo sibilo nel suo respiro, incredulità… una voce… una  voce, finalmente…non avrebbe mai immaginato di poter sentire fitte di felicità al cuore ascoltando quel gran figlio di puttana di Sbordoni..

 

Ehi, Sebby?”

Un pugno nello stomaco. Quella voce registrata in un bisbiglio…

Amico Sebby, con tutte ‘ste stronzate mi sta venendo un dubbio”.

Quale?”. È la sua voce, brutta e nasale attraverso il registratore.

Quella di Cesare è più bassa, un po’ più orecchiabile.

Secondo te i baffi di Topo Gigio possono essere intesi come metafora sessuale?”

CHE???” risponde lui in tono stridulo.

I baffi, i baffi, non hai visto come se li liscia, quel gran porcone di un topo?”

Ce’, ma che cazzo stai a di’?” bisbiglia, ma si scovano tracce di ilarità nella sua voce. Sentire un principio di risata nella propria voce, ricordarsi com’è ridere… che sensazione stupenda.

Non importa se non c’è più il cane.

 Il cane era un segno.

Ora c’è Cesare con lui.

Ma sì, non ti ricordi che ha detto quella a letteratura inglese? Su Venette, che diceva che gli uomini pelosi sono assai erotici? Cazzo, dai! Ma ti spari le seghe quando quella parla?

Ce’, Topo Gigio è un topo…”

Sì, cazzo, ma parla, PARLA!!! Tu hai mai sentito di un altro topo parlante? Hai mai visto un topo grasso quanto lui, con tutta quella pelliccia pelosa? Credimi, amico Sebby, quello scopa più di me e te messi insieme

Ma è un pupazzo, è finto…”

Amico, non era la stessa cosa che diceva tua madre mentre se la trombava ieri sera” risponde soffocando le risatine Cesare.

Oh, MAVAFFANCULO, STRONZO!” sibila lui ridendo a sua volta.

Me la immagino, in vestaglia leopardata che striscia ai piedi di Topo Gigio e grida: ‘prendimi, Gigione, sono tuaaaaa!!!!’”

Sebastiano si sente ridere fino alle lacrime.

Topo Gigio come Rocco Siffredi, che si liscia i baffoni e tutte cadono ai suoi piedi già bagnate…”

Bagnate?

Bagnate tra le gambe, Caciottone! Cazzo, ma da tutti quei filmini porno non impari nulla? Ma a che cazzo pensi quando li guardi?”

Sebastiano aveva riso, ma si ricorda ancora ciò che aveva pensato.

 

(Penso ai tuoi commenti se fossi con me a guardarli)

 

(A te, penso, cazzo. A te.)

 

Stoppa il registratore. Rimane pensoso a fissarlo. Si strofina la fossetta sotto il labbro inferiore con il lato dell’indice avanti e indietro. Non sa se stare bene o male per aver sentito quella voce, una persona che c’era e ora non più.

La voce di Cesare Rocca, che forse poteva considerare il suo migliore amico.

Posa il registratore digitale sulla coscia e beve un lungo sorso di Coca. Dovrà procurarsene altra, questa è quasi finita.. ma che importanza può avere, quando si hanno le razioni di un intero mondo solo per sé?

Fa un lungo sospiro e rimette tutti gli avanzi nello zaino, getta i rifiuti nel cestino. Strizza gli occhi, ma più per abitudine che per altro. Il sole è quasi tramontato, farà meglio a trovarsi un posto dove dormire. Forse gli ostelli con centralino cibernetico funzionano ancora.

“Devo provare” pensa, e sa che non c’è altro da fare, cercare, andare avanti, con o senza Cesare al suo fianco. Anche da solo. Fino ai confini delle Terra.

Si issa lo zaino in spalla e riprende il viaggio.

 

E continua a viaggiare…

…e a viaggiare…

… a camminare senza meta.

Così, per un anno.

 

 

***

 

Si china a metà e vomita tra i cespugli. Lo stomaco è in preda ai crampi, la testa gli pulsa. Ha le gambe troppo deboli. Crolla a terra nell’erba di quella campagna incolta; rimane così, cerca di respirare.

Gli fa male tutto.

Tutto il corpo.

Cazzo, cazzo, perché sta così male, perché proprio a lui?

 

(E chi altro è rimasto, Sebby, da far soffrire?)

 

La voce di Cesare. È da tanto che non la sentiva nella testa.

Si gira su un fianco e rigetta quel poco che gli è rimasto nello stomaco, fili di bile collosa  che gli spacca il corpo dal dolore. Singhiozza piano.

Non vuole stare male, Dio, non vuole stare male…

Si strofina le labbra con le maniche del maglione che ha preso nell’ultima città che ha passato.

 

(Cos’era, francese? Era Parigi? Cos’era?)

 

Non ricorda, ha la mente così intorpidita …

Fino a un paio di giorni prima ricordava tutto. Poi era iniziato il dolore. Alle gambe, allo stomaco, alla testa.

Ovunque.

Che male…

Si sfila goffamente il maglione e lo getta via; estrae dallo zaino la sua vecchia felpa e se la infila. Anche se ormai gli va larga, rassicura. Sa di casa.

Ha sete.

Allunga di nuovo la mano e prende la borraccia, beve.

Sputa tutto l’attimo dopo.

Che merda di sapore che ha, sa di polvere e sapone, ma non c’è altro in giro, e lui ha sete.

Sete, lì nella gola, che lo scuote.

Si stringe nelle spalle esausto, si tappa il naso e inghiotte l’acqua con una smorfia da medicina cattiva.

 

(Sebby, hai controllato che fosse pulita?)

 

No, io…

 

(Se l’acqua di quella fontanella fosse stata inquinata, Sebby? )

 

Shhhhhhh, stai zitto, Ce’.

Zittisce la voce.

Poi si gira di fianco e vomita schizzi decorativi di bava rossastra e schiumosa sul maglione.

Non importa. Non importa. Passerà.

Estrae il registratore con la voce di Cesare, se lo ripassa tra le mani sudate e gelide, lo porta al naso, lo annusa, come se non fosse altro che il corpo dell’amico. Ha il puzzo delle due dita.

Preme PLAY e rimane qualche minuto ad ascoltare i cazzeggiamenti di un ragazzo che non esiste più su un presunto topo superdotato. Ripete inconsciamente le proprie battute, ed è come se Cesare gli rispondesse.

Prima sapeva che Cesare non era più con lui.

Da un paio di giorni, ora, spesso lo scorda.

Cesare c’è.

Cesare non c’è.

Cesare va e viene, come la luna.

Cesare…

…Cesare…

 

(Sono qui, amico Sebby, sono qui con te)

 

Spegne il registratore e lo infila al riparo nello zaino; sputa un’ultima boccata di bava rossa e si rilassa a terra, in cerca di riposo.

In lontananza, sente rumori. Forse passi.

Ma forse è solo il gioco del vento.

È stanco, lasciatelo dormire.

 

***

 

Apre gli occhi e non sa se sia sogno o realtà… se sia un’allucinazione della febbre o sia reale, la vecchia seduta accanto a lui con un neonato in braccio.

Gli bruciano gli occhi da morire; li strizza forte e sente liquido lacrimale solcargli in due scie le tempie e affondare nei capelli sudati.

È in un letto, in una stanza.

C’è una vecchia accanto a lui, con un neonato in braccio; sono illuminati da una candela sul comodino.

Forse è solo un sogno.

 

(Dormi, Sebby. Dormi)

 

 

Si risveglia, è mattino: la luce entra dalla finestra.

La vecchia non c’è.

Il bimbo non c’è.

Gli bruciano gli occhi, gli fa male il corpo. Si sporge oltre il letto e vomita un fiotto schiumoso e di un rosso acceso. Rosso di sangue. Il suo.

“Sto morendo”.

 

(Shhhhh, tranquillo, amico Sebby, dormi)

 

Non vuole addormentarsi. Ha paura di non risvegliarsi, di svanire anche lui, come gli altri.

Fa male la testa, gira forte. Riaffonda la guancia nel cuscino e chiude gli occhi.

Dorme.

 

 

Dorme, e mentre lo fa vede se stesso sul letto, delira.

È un sogno.

Chiama un nome.

Chiama “Cesare”.

Farfuglia qualcosa su Topo Gigio, e un treno, e un cane.

C’era un cucciolo, un volta.

Non ricorda bene quando.

Cesare…”

Chi è Cesare? Non lo sa più come una volta, non sa più niente. Sente caldo, fuoco su di lui, nel suo corpo. E basta.

C’è di nuovo la vecchia accanto a lui, e quando gli rimbocca le coperte vede quanto effettivamente vecchia sia, il viso pieno di crepe e faglie come il parabrezza del pullman nella fontana della Naiadi.  Le mani tremano senza sosta, i capelli sono bianchi e radi.

Una vecchia.

Una persona.

Forse non è l’unico, qui su questa Terra.

Ha sonno, vuole dormire. La vecchia gli passa un asciugamano fresco sulla fronte, la sua mano liscia gli sfiora la pelle. Sembra vera.

Ma forse è solo un sogno.

Non vuole illudersi.

Delira ancora, chiama Cesare, chiama “l’Agnello”.

 

(Chi è l’”Agnello”? )

 

Il suo corpo è in fiamme.

È stanco.

 

(Sebby, Sebby…dormi…)

 

 

***

 

 

Marco si affaccia alla porta e vede Lotte ancora al capezzale del ragazzo che lui ha trovato. Gli stringe la mano piano, le dita e il palmo oscillano sotto il peso della malattia.

Anche il ragazzo è malato.

Non resisterà ancora a lungo.

Marco avanza di un paio di passi e Lotte finalmente si accorge della sua presenza. Sorride, stanca, poi indica il ragazzo sul letto e scuote la testa.

Non ce la farà, no.

È solo questione di tempo.

Devono solo aspettare.

 

***

 

Lotte attende nella sua sedia, e finalmente il ragazzo apre gli occhi, e la guarda. Sembra lucido abbastanza per parlare nonostante il pallore e le occhiaie nere e gonfie.

Sebastiano tende la mano verso di lei e Lotte gliela stringe.

C’è contatto.

C’è carne contro carne.

Esistono ancora entrambi.

Sebastiano le stringe le dita con forza e inizia a  piangere in silenzio, a lungo; le fa male, sente le articolazioni cedere deboli sotto la presa, ma non dice nulla. Sa quando importante sia questo contatto.

Sorride.

Lentamente le lacrime si fermano, e il ragazzo rimane a fissarla stordito, le guance umide.

-         Sei vera- bisbiglia.

Lotte annuisce e sorride.

-         Sei italiano?- gli chiede; ha un forte accento francese.

Sebastiano annuisce.

-         Conosco un poco italiano. Bien.

Lo guarda.

-         Onche tu sei vero.

Lui fa segno di sì con la testa, gli brucia la gola.

-         Bien, allora siamo, n’est pas? Siamo veri.

Lui annuisce ancora.

-         Noi due.

-         Ah, no, no, mon ami. Siamo in tre… quattro- si corregge subito dopo.

Sebastiano si copre il viso con gli avambracci e riprende a piangere. Sono lacrime buone, di sollievo, Lotte lo sa. Lacrime buone, come pioggia che spazza via tutto lo sporco.

-         Sc’è Marco e sc’è le petit Adam. Nous l'avons trouvé ... trovato, si disce così ?... in Lione, mia scittà. È neonato.

 

(È  l’Agnello)

 

(No, non lo è)

 

(“Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino”) 

 

-         La madre non…

-         No, non sc’era. Era in carrossina, en Place de Terreaux. Era solo. È sopravvissuto, come... noi.

 

(Li hai trovati, Sebby, ce l’hai fatta!)

 

( Hai posato i tuoi occhi su di lui)

 

(“Entrati nella casa, videro il bambino, e prostratisi lo adorarono” )

 

-         Sopravvissuti a cosa?

Lotte lo guarda d’un tratto intensamente, le mani le tremano più forti.

-         Tu vuoi sapere…il motivo? Tu vuoi andare via ainsi, con cette horreur... nel  tuo… cuore ?

Sebastiano la osserva, e la guarda. La donna più vecchia del mondo. È stanca, è grigia, e soffre.

Lei che sa.

Lei che SA.

 

(Tu vuoi andare via ainsi, con cette horreur nel  tuo cuore ?)

 

Basta dolore.

Non ce la fa più, ha dato quanto poteva.

Scuote la testa in segno di diniego. Lotte sorride e gli accarezza la mano.

 

(Sei stanco, amico Sebby, dormi. Sei stato bravo, meriti la tua ricompensa)

 

(Sei stato bravo)

 

 ( Ce l’hai fatta)

 

Sebastiano chiude gli occhi e finalmente si addormenta.

 

 

 

***

 

 

Lotte è nella sua sedia a dondolo, fuori in veranda a contare le stelle alla luce di una candela, coperta dal suo plaid. Lo fa spesso ultimamente. La rilassa.

Marco è a casa a controllare il piccolo Adam. È scoppiato a piangere all’improvviso, non sanno il perché. Spera stia bene il bimbo.

 

(Ma chi è, quel bambino, chi è?)

 

Non vuole altre preoccupazioni, altri pesi nel cuore.

È stanca, vuole dormire.

Dormire.

Sente alle sue spalle la porta cigolare; l’attimo dopo Marco entra nel suo campo visivo e si siede al suo fianco. Scuote la testa.

Lotte sa cosa vuol dire quel gesto.

Il ragazzo non ce l’ha fatta.

Alla fine è morto.

Sospira.

Ormai rimane solo Adam.

Tra tutti, solo lui.

-         Lo protesgerai, vero? Il bambino.

-         Lo farò- risponde Marco.

Lotte alza lo sguardo al cielo, alle stelle, così tante da restare una vita a contarle una per una, senza fine.

Sospira ancora. Le fa male il petto.

Vuole dormire anche lei, è tanto stanca.

-         Raccontagli la notre histoire, mon chér ami . Raccontagli tutto quonto, perchè non sbaglino ancora. Perché non vengano più puniti.

-         Non è rimasto più nessuno da punire, Lotte. Come …sperare?

-         Oh, sc’è qualcun altro ne sono scerta. Oui, lo sonto. E un giorno li incontrerete, mon ami. Aiutalo a sopravvivere fino a quel momento, non  lasciarlo mai solo.

-         Lo farò.

-         Sgiuramelo.

-         Sai che lo farò.

-         Lo so, mon ami, lo so, ma fallo. Di’: “ io lo sgiuro” . È così che disciamo tra esseri umani.

Marco apre la bocca per dire qualcosa, lei lo anticipa.

-         S'il vous plaît. Dimmelo. Fallo per me.

-         Lo giuro.

-         Merci, mon ami. Merci. Ora lasciami dormire qualche minuto, sono vecchia, ho tanto sonno.

Marco le sistema meglio il plaid addosso e si siede sugli scalini all’ingresso, ad osservare il cielo.

Passano i secondi, i minuti, il tempo passa e le tacche della candela si consumano in un lento scorrere invisibile.

Alla fine si alza e si volta. Il petto di Lotte è fermo. Non rileva più segni vitali nel suo corpo rugoso.

Rimane ad osservarla a lungo. Piangerebbe, se solo i robot potessero farlo.

 

Rientra a casa e va da Adam; il bimbo dorme tranquillo nel suo letto.

Solo lui.

Solo questo bimbo.

Ora rimane solo lui.

Lotte era certa dell’esistenza di qualcun altro, altri sopravvissuti a quella sera…

E passeranno estati, e passeranno inverni, e arriverà prima o poi l’ora di cercarli, e riunirli.

Quando tu sarai pronto, Adam.

Fino a che non li avrai incontrati, fino a quel momento…

….sarai tu, mio piccolo Adam, quest ultimo uomo sulla Terra.

 

  FINE

FINE-_-
Non c'è niente da fare-_-, non mi soddisfa -_-….
Spero ti piaccia almeno un poco, Ca-chan-_-. Augurissimi di cuore.
Ti voglio bene,
Tes


 

i commenti dei sopravvissuti impietositi-.- a tesla_vampire@yahoo.it, grazieç_______ç…





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