PAIRING: Beh! La classica Frodo/Sam, o meglio Sam/Frodo ^_= è troppo scontata! E poi, secondo me, è stato detto nell’ultimo capitolo della saga tutto ciò che vi era da dire. Quindi il pairing è un altro.

DISCLAIMERS: Naturalmente l’ambientazione e i personaggi sono di papà Tolkien (prostrarsi e dire “grazie, papà!”) La storia è la conseguenza dell’effetto che un romanzo meraviglioso, un film bellissimo e dei personaggi straordinari hanno su una mente malata ^_^.

RATING: PG, niente di particolare. Dopo tanto dolore e sangue (LDD e BIN) sentivo il bisogno di qualcosa di dolce. Ma non vi abituate! La perfida Fata Nera tornerà a turbare le vostre notti!!! Hi hi hi hiiii….



 


 

L'ultima notte

di Fatina

 

Legolas non avrebbe saputo dire da quanto tempo stava camminando nel buio. Le fiaccole che solo pochi giorni prima illuminavano a giorno tutte le vie di Minas Tirith, erano ridotte a pochi pezzi di legno unti d’olio che bruciavano emanando un fumo acre, disposti soltanto nei punti più pericolosi, dove le mura erano franate e le strade si aprivano improvvisamente in larghi crepacci, il cui fondo scompariva alla vista, nascosto da nubi di polvere e nebbia.

L’alba era ancora lontana e il buio era completo, denso e glaciale. Soltanto i suoi occhi d’elfo gli permettevano di camminare, incurante degli ostacoli, balzando con agilità tutta elfica sopra i massi che ostruivano il cammino e aggirando abilmente tronchi bruciati e pozze nere di sangue ormai rappreso e seccato. Solo raramente si trovava costretto a tornare sui suoi passi per imboccare una nuova via.

Minas Tirith era stata quasi completamente distrutta. I suoi occhi color lavanda vagarono tutt’intorno, ricordando come la città si presentava quando lui vi era giunto, poco più di un mese prima, in compagnia di Aragorn e Gimli. Abbarbicata sopra uno sperone di pietra, la roccaforte avvolgeva la roccia, penetrandola in modo tale da non poter distinguere il punto esatto in cui il muro edificato dagli uomini si fondeva con quello costruito dalla natura. La città emanava già a prima vista, a giorni di cavallo in lontananza, il potere e la forza, la grandezza e la fierezza del popolo che l’aveva edificata. Una volta giuntivi, alla prima impressione se ne aggiungeva una nuova. L’impressione di una città e di un popolo non solo orgoglioso e guerriero, ma anche gioioso e pieno di vita, un popolo antico e consapevole della propria nobiltà.

Una volta superato l’enorme portone in legno massiccio e spesso più di un metro, ci si inoltrava per una strada incavata tra due mura di cui si faticava a vedere la sommità, e questa strada proseguiva salendo a chiocciola, su per innumerevoli giri, e si aveva l’impressione che non finisse mai, che il cavallo continuasse a trottare per un tempo interminabile. E la via sembrava tutta uguale, mura e mura, e mura. Porte e finestre si aprivano sulla strada, interrotta a volte da piazzole con pozzi e vasi di fiori, e si rimaneva stupiti di fronte ad alberelli e pareti coperte d’edera, piacevoli e inaspettati in mezzo a tutta quella pietra. E poi archi che foravano le mura e portavano su altre strade, altri acciottolati.

 

E ora non rimaneva quasi più nulla. Ciò che restava della città era buio e fetido, l’aria impregnata di fumo, ovunque odore di sangue, polvere, carne bruciata. Odore di morte. Ora le strade erano deserte, ma solo poche ore prima centinaia di persone, superstiti alla battaglia, si erano affaccendate tutt’intorno, incuranti della stanchezza, delle ferite, della fame e della sete, per togliere dalle strade centinaia, migliaia di cadaveri. I carri erano saliti e scesi innumerevoli volte per quelle strade, trasportando mucchi di persone e orchi. All’inizio si era cercato di tenerli separati, ma più le ore passavano, più la stanchezza e la nausea per quel continuo, orrendo spettacolo, aveva spinto la gente a tentare di eliminare i cadaveri il più velocemente possibile. Così, alla fine, già ben dopo il tramonto, si vedevano passare carri dove esseri umani e creature delle tenebre giacevano ammassati gli uni sopra gli altri, diversi eppure simili nelle espressioni, gli occhi strabuzzati, le lingue pendenti e gonfie, i denti scoperti, la pelle bluastra, le mani ad artiglio. Simili eppure diversi, finalmente uniti nella morte.

 

Legolas continuò il suo cammino. Il cortile del Palazzo gli si aprì davanti all’improvviso. Qui sembrava quasi che la guerra non ci fosse mai stata. Il buio stendeva il suo pietoso velo a nascondere i danni compiuti dai Nazgul. Il silenzio era perfetto e totale. L’aria era fredda ma limpida e il cielo sereno. Persino l’odore nauseabondo della città qui non arrivava, spazzato via dal vento dall’ampio cortile aperto. L’elfo attraversò lentamente lo spiazzo, respirando a pieni polmoni. Si fermò solo per ammirare il Bianco Albero. Pareva morto, ma Legolas sapeva bene che non era così. Non appena il legittimo Sovrano fosse stato di nuovo sul trono, l’albero sarebbe rifiorito. E questo sarebbe accaduto l’indomani. Finalmente Aragorn sarebbe stato incoronato e Gondor avrebbe avuto nuovamente un Re. Legolas sospirò.

 

Una luce illuminava una delle finestre più alte del Palazzo. Qualcuno, oltre a lui, non dormiva ancora a quell’ora di notte. Legolas attraversò l’ultima porzione di spiazzo ed entrò dall’enorme portone, per trovarsi nell’immensa sala del trono. Le poche torce che bruciavano attaccate alle colonne non sembravano emanare alcun calore, anzi, rendevano il salone ancora più spettrale. Le mura di pietra grigia si innalzavano verso l’oscurità, come in una strana, spaventosa cattedrale abitata da fantasmi. Legolas si diresse verso una porta che si apriva sulla sinistra, facendo attenzione a che i suoi passi non si udissero, cosa peraltro naturale per un elfo, ma fu percorso da un brivido nel rendersi conto che lo faceva per un particolare motivo. Si sentiva a disagio e sospettava che qualsiasi rumore avrebbe avuto l’effetto di farlo sentire ancora più inquieto. Iniziò a salire la lunga scala a chiocciola che portava alla stanza dove la luce era accesa. La porta era aperta e Legolas si affacciò, silenziosamente.

 

Sul letto, Frodo sedeva appoggiato a numerosi cuscini. Il suo colorito non era ancora migliorato. Ci sarebbero voluti giorni, forse mesi, prima che il tono azzurrognolo della sua pelle lasciasse il posto al colore rosa e rubicondo, tipico degli Hobbit. Il suo sorriso era appena percettibile, le labbra pallide e secche, gli occhi tondi e spalancati nel viso smagrito. La mano era fasciata, là dove Gollum aveva staccato l’indice con i denti, nell’ultimo, disperato tentativo di impossessarsi del suo “Tesoro”. Quel gesto aveva privato Frodo di un dito, è vero, ma gli aveva salvato la vita. E ora il piccolo Hobbit, dopo giorni di digiuno, mesi di faticose marce, nei posti più oscuri e pericolosi della Terra di Mezzo, dopo avere affrontato e superato prove che avrebbero sconfitto i più fieri fra i Cavalieri umani ed elfici, dopo avere sopportato il fardello più pesante che cuore possa immaginare, dopo avere camminato nelle Ombre, finalmente l’Hobbit  poteva riposare tranquillo e, fra qualche giorno ancora, tornare nella sua amata Contea, con i suoi amici, e riprendere la vita allegra e semplice che aveva sempre conosciuto. Prima dell’Anello, naturalmente.

Davanti a lui Sam sedeva, tenendogli una mano scarna fra le sue. Lo guardava con il sorriso più dolce che si potesse immaginare. Quel sorriso conteneva tutto, amore, dedizione, amicizia, orgoglio. Era il sorriso di un amico fedele che aveva rischiato mille volte la vita per il suo padrone, e che l’avrebbe rischiata mille volte ancora, senza alcuna esitazione. Era il sorriso fiero di un uomo che si rendeva perfettamente conto di cosa il suo compagno aveva passato e sofferto, perché lo aveva provato sulla sua pelle, lo aveva sentito nella sua anima. Proprio come se lui e Frodo fossero una sola persona. Sam parlava sottovoce e Frodo lo ascoltava. A volte quest’ultimo sospirava e si lasciava andare contro i cuscini, pervaso da una stanchezza mortale, e rabbrividiva, percorso da un freddo innaturale. Allora Sam si piegava su di lui e portava un bicchiere alle sue labbra, e gli accarezzava la fronte e il viso pallido.

Legolas avrebbe voluto entrare e salutare i due amici, e magari parlare un po’ con loro, per scacciare almeno un po’ quella sensazione opprimente che gli artigliava il cuore da quando la battaglia era finita. Ma non ne ebbe il coraggio. Sam e Frodo non andavano disturbati, non in quel momento.

 

Riprese la scala, questa volta in discesa. Entrare nel palazzo non era stata una buona idea. Ora si sentiva quasi soffocare, rinchiuso fra quelle mura. Tornò nella piazza, e la attraversò quasi correndo. Nel buio andò a sbattere contro qualcosa. Stranamente i suoi occhi d’elfo non lo avevano avvisato. Una voce che assomigliava al rotolare di sassi lungo il pendio di una collina lo riscosse dai suoi pensieri.

 

-          Legolas, amico mio. Cosa ci fai in giro a quest’ora? E dove vai tanto di fretta?

 

-          Gandalf! Perdonami. Non ti avevo visto.

 

Il Mago lo guardò, facendo scintillare i suoi occhi nel buio.

 

-          Questa mi è nuova. Un Elfo che non vede di notte. E che non vede me, per giunta.

 

Una risata si propagò nell’aria, con un suono simile alle foglie secche mosse dalla brezza, o al mormorio di un ruscello montano. Legolas sorrise suo malgrado. Gandalf emanava una serenità che non apparteneva a questa terra. L’Elfo non sapeva quanti anni avesse il Mago, ma si mormorava che lui e quelli come lui vivessero nella Terra di Mezzo da prima che vi giungessero gli Elfi. Legolas riprese a camminare, accompagnato da Gandalf. Ora lo vedeva bene. Il suo manto bianco, e persino la sua barba e i suoi capelli emanavano una fioca luce candida.

 

-          Dimmi, mio giovane Elfo. Cosa può mai turbare un cuore tanto puro?

 

Legolas non rispose, ma guardò l’orizzonte.

 

-          Il vento mi sta chiamando – disse – Ci sono novità. Ma sento che non sono buone notizie – poi tacque, sapendo di mentire. – Non per me, almeno – sussurrò.

 

Gandalf si fermò, e si voltò verso Legolas, fissandolo negli occhi. Poi gli mise una mano sulla spalla.

 

-          Ciò che deve essere sarà, che tu ne sia a conoscenza oppure no. Se temi qualcosa, non scomparirà solo perché tu gli volti le spalle e chiudi gli occhi, non credi?-

 

Legolas sollevò lo sguardo sul vecchio Mago e questo ebbe l’impressione di scorgere qualcosa luccicare negli occhi viola. Poi l’Elfo annuì.

 

-          E’ vero. Ciò che deve essere sarà – sospirò. – Ho combattuto gli orchi, ho ucciso un mumakil da solo. Non ho mai avuto paura di fronte alla morte. Eppure ora ho paura. Ci sono cose che neppure io posso affrontare, Gandalf. –

 

Il Mago annuì, pensieroso.

 

-          Si. Immagino che sia così. – Poi sollevò il viso, come ascoltando qualcosa nell’aria. – Il vento ti sta chiamando ancora. Se non lo ascolterai potrebbe seccarsi e non rivolgerti mai più la parola – disse sorridendo e sollevando le sopracciglia. Battè la mano sulla spalla dell’Elfo, poi si voltò e si incamminò verso il Palazzo.

 

Legolas inalò l’aria fredda. Poi raggiunse il muricciolo che circondava la piazza e vi appoggiò sopra le mani, alzando il viso verso il vento e chiudendo gli occhi. Ascoltò.

 

-          E’ finita – sussurrò, aggrottando la fronte. La sua voce tremava. – E’ tutto finito. Questa è l’ultima notte. –

 

***

 

Non sapeva dove andare. L’ultima parte della notte si spiegava davanti a lui, lenta, interminabile. Non aveva più voglia di tornare fra le mura della città, e l’idea di entrare di nuovo nel Palazzo gli dava una sensazione di claustrofobia. Eppure si sentiva stanco e il suo corpo desiderava ardentemente il riposo. Si guardò intorno e, nel buio, soltanto l’Albero prometteva un riparo gradito. Si sedette contro la corteccia argentea, sentendola tiepida e vibrante di vita. “L’albero si sta risvegliando” pensò, con un sorriso. Dentro di lui si agitarono per un attimo gioia e tristezza. Si avvolse nel manto, e attirò le ginocchia contro il petto. Poi appoggiò il viso alle ginocchia e chiuse gli occhi. Sapeva che non avrebbe dormito.

 

Una mano sulla spalla lo fece sobbalzare. Ancora una volta un altro essere si era avvicinato a lui senza che se ne accorgesse. Legolas si sentiva seccato. Possibile che i pensieri che lo turbavano fossero tanto potenti da rendergli il mondo circostante invisibile? Trasalì ancora quando sentì la voce e nel buio scorse la sagoma alta e regale di Aragorn.

 

-          Sire… - esclamò.

 

-          Legolas. Fino a poche ore fa per te non ero altro che Aragorn, tuo amico e compagno d’arme. Cosa è capitato nel frattempo? –

 

Legolas sentì un’onda di calore crescere in lui e infiammargli le guance. Non seppe cosa rispondere, ma in un attimo fu in piedi. Senza quasi rendersene conto si stava ancora tenendo stretto nel mantello.

 

-          Cosa ci fai qui fuori, al buio e al freddo? Il Palazzo è pieno di stanze vuote e tu puoi sceglierne una qualsiasi, a tuo piacimento. Mille volte la tua casa è stata la mia, e ora il minimo che io possa fare è mettere a tua disposizione tutto ciò che possiedo. –

 

Legolas si sentì tremare a quelle parole. Con uno sforzo sovrumano represse un pensiero, poi ricordò che Aragorn era soltanto un essere umano e non avrebbe saputo leggere nella sua mente, ma solo sul suo viso. Allora forzò i suoi lineamenti in un’espressione neutra e lasciò libero il pensiero. “Tutto ciò che possiedi, Aragorn? Soltanto una cosa io desidero. Ed è l’unica cosa che tu non sei disposto a darmi.”

 

-          Non ho freddo e il buio non mi spaventa. Sono un elfo e tu sai bene che noi preferiamo un tetto di stelle, pareti di corteccia e un letto d’erba alla fredda pietra. E nulla può essere meglio dell’Antico Albero, sacro agli uomini e agli elfi, per riposare. –

 

Aragorn sorrise e gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle. Legolas le sentì pesanti come macigni.

 

-          Hai ragione, mio caro amico e compagno.-

 

Dopo un tempo interminabile in cui Legolas ebbe la devastante sensazione che gli occhi di Aragorn indugiassero troppo a lungo nei suoi, il Re si incamminò lentamente. L’elfo raccolse tutte le sue forze per seguirlo, mentre le sue gambe desideravano solo potersi piegare e consegnare il peso del suo corpo al suolo. Insieme, in silenzio, raggiunsero il parapetto dove poco prima Legolas aveva ascoltato il vento. Si chiese se anche Aragorn lo avrebbe compreso. Ma no, non lo avrebbe fatto. Per l’elfo era facile dimenticare che gli esseri umani trovavano impossibili cose che per gli elfi erano del tutto naturali. Il Re appoggiò i gomiti al muretto e sospirò, guardando in lontananza il panorama brullo, distrutto e fumante come la città. Qua e là le fiamme bruciavano ancora.

 

-          E’ finita… - sospirò.

 

Legolas rabbrividì. Quelle parole erano un eco delle sue. La fine. L’ultima notte. L’elfo continuò a fissare l’orizzonte anche se ora sentiva lo sguardo del compagno sul suo viso.

 

-          Cosa farai? – chiese la voce calda di Aragorn. – Cosa farai domani?-

 

-          Tornerò a casa, suppongo. E poi partirò con la mia gente, me ne andrò al di la del Mare. –

 

Era ciò che era tenuto a dire. Non ciò che desiderava fare. Si volse verso il compagno e rimase sconvolto da ciò che vide. Aragorn non era bello, o almeno non possedeva quella che era considerata bellezza da un elfo, un incontro perfetto fra armonia, dolcezza e nobiltà, una particolare virtù che agli uomini risultava quasi intollerabile. Eppure il suo viso attraeva Legolas come un magnete, i suoi occhi azzurri, acuti, cupi e intelligenti, lo imprigionavano, le sue guance scavate e ricoperte da un sottile velo di barba, creavano in lui il desiderio di alzare le mani e graffiare quella pelle con le unghie. Le labbra sottili e il sorriso dolente facevano battere più veloce il suo cuore, tanto da sentire dolore e da costringerlo a serrare la mascella per non gemere. Il viso di Aragorn emanava, anche in quel momento, anche se stanco e sofferente, una fierezza, una nobiltà e una forza tali da essere percepiti anche fisicamente dal sensibile elfo. Legolas abbassò lo sguardo, desiderando allontanarsi da tanta sofferenza. E i suoi occhi si posarono sulle mani di Aragorn. Scure, ancora sporche nonostante il bagno caldo appena terminato, le unghie ancora incrostate di terra e sangue. E il dolore dentro di lui crebbe ancora, perché il suo corpo desiderò all’improvviso quelle mani su di sé, sul suo corpo freddo. Le immaginò calde e piacevolmente ruvide. Sentì il bisogno di ripiegarsi su sé stesso e stringersi lo stomaco con le mani, e tese tutti i muscoli per mantenersi ritto. Il bisogno di gemere era sempre più forte.

 

Poi accadde. Senza che nulla lo facesse presagire, Aragorn incorniciò con le mani il viso di Legolas. Si, erano calde e ruvide. L’elfo spalancò gli occhi e, come in una visione, vide le iridi azzurre del Re avvicinarsi sempre più. Poi le labbra, quelle labbra dal sorriso triste, si posarono sulle sue. Il gelo della notte scomparve all’improvviso. Il buio stemperò delicatamente in un soffio d’alba rosa e azzurra all’orizzonte. Il bacio durò una brevissima eternità. Poi Legolas sentì le ginocchia cedere e si aggrappò al corpo forte davanti a lui. Un singhiozzo gli sfuggì dalle labbra. Aragorn lo strinse fra le braccia, e gli nascose il viso fra il collo e la spalla, posando le labbra sulla pelle candida per disseminarla di caldi, umidi baci. Le mani del Re si erano fatte strada sotto il mantello e sotto la tunica, e ora si muovevano lente, dalla schiena ai fianchi, dallo sterno all’addome. Calme, calde, sicure. Una continuò il suo viaggio, scendendo fino a racchiudere la soda rotondità di una natica. Legolas si sentì quasi svenire. Dentro di lui qualcosa lottava per riprendere il controllo, per restaurare l’elfica calma, per allontanare quella tempesta che lo stava travolgendo e spazzando via. Ma qualcos’altro lo stava pregando di lasciarsi andare, di prendere ciò che desiderava da tanto tempo, quel dono così inaspettato e più prezioso di qualsiasi gemma. Ma poi il vento soffiò sulla sua nuca e tornò a parlare.         

 

-          No! – gridò, spingendo via Aragorn e allontanandosi da lui. – No, ti prego… lasciami stare! – ansimò, il petto scosso dai singhiozzi.

 

Aragorn lo fissava, sbalordito, stupito e rattristato da quel comportamento. I suoi occhi riflettevano il dolore di avere causato tanta paura. O almeno ciò che lui interpretò come tale. Si ritrasse e sembrò per un attimo farsi più piccolo.

 

-          Perdonami ,amico mio… - sospirò. – Non credevo di turbarti a questo punto… non dopo quella notte. –

 

Legolas si voltò di scatto verso di lui, lo sguardo improvvisamente scintillante di furore, il desiderio accantonato momentaneamente in un angolo del suo cuore. 

 

-          Cosa vorresti dire con questo? Che perché ti ho offerto il mio conforto quando ne avevi bisogno, in un momento in cui eri fragile e stanco, che per questo mi reputi una tua proprietà? Che credi di potere disporre di me a tuo piacimento? –

 

Aragorn fece un passo indietro. Gli occhi di Legolas mandavano bagliori sinistri e i suoi capelli biondi si muovevano come mossi da un vento intangibile. L’ira di un elfo era tremenda, anche per un Re.

 

-          Così è questo che è stato per te? Mi hai offerto il tuo conforto! Ti sei concesso a me perché ti facevo pena! E’ così? –

 

La voce di Aragorn, partita sommessa, si era alzata progressivamente di tono fino a esplodere in un grido che squarciò il silenzio. Legolas lo affrontò, stringendo i denti.

 

-          E’ così. Cos’altro avrebbe dovuto essere? Dopo giorni e giorni di marcia, anche l’essere umano più forte e resistente, anche il più avvezzo a sforzi e privazioni, sente il bisogno di riposare. E in tali momenti la fatica, la mancanza di sonno, la fame, i muscoli doloranti, possono abbattere un uomo come fosse un vecchio albero. A quel punto la speranza più ardente e la volontà più determinata si trasformano in disperazione. E’ così che ti ho visto quella notte, ed è perciò che mi sono avvicinato a te. –

 

Aragorn spinse il mantello dietro le spalle e incrociò le braccia sul petto, osservando l’elfo dall’alto.

 

-          Per riposare mi sarebbero bastate poche ore di sonno, e avrei trovato da solo, dentro il mio cuore, la forza per combattere la disperazione. Non dovevi temere per me. –

 

-          Non temevo per te. Ho fatto solo ciò che mi hai chiesto, non ricordi? Mi hai stretto a te, e mi hai supplicato di non lasciarti… - Legolas sospirò. – Me lo hai chiesto tu…- sussurrò, infine.

 

-          Non eri obbligato a farlo. Credevo che anche tu lo volessi…- sussurrò Aragorn a sua volta.

 

Legolas gli voltò le spalle.

 

-          E’ così. Lo volevo, infatti. –

 

Aragorn lo afferrò per le spalle, con forza, stringendoselo contro il petto. Legolas sentì il corpo forte del Re contro la schiena e ricominciò a rabbrividire, mentre dentro di lui il bisogno di gemere ricominciava a farsi strada.

 

-          E allora, che differenza c’è? Anche ora te lo chiedo, voglio che tu rimanga con me, questa notte. E anche tu lo vuoi…- gli sussurrò contro la nuca.

 

Legolas si inarcò all’indietro, travolto dal desiderio di lasciarsi andare, ancora una volta. Ma il vento, quel maledetto vento, continuava a tormentarlo. Doveva parlare, dire ciò che sapeva. E sarebbe stata la fine. Definitivamente.

 

-          Allora era diverso – disse, senza tentare di allontanarsi. – Per me non è stata altro che una dimostrazione di amicizia, uno scambio di conforto, un atto di cameratismo fra due soldati, stanchi, lontani da casa. Un attimo di intimità fra due uomini votati alla morte. Ma ora…-

 

-          Ora cosa? – chiese Aragorn, ricominciando a baciare l’elfo sulla nuca, sotto i capelli chiari e sottili come seta profumata.

 

-          Ora…- sospirò Legolas – Da allora abbiamo vissuto fianco a fianco, abbiamo combattuto, condiviso vittorie e sconfitte. Abbiamo affrontato la morte. Da allora qualcosa ha iniziato a crescere nel mio cuore, mio Sire. –

 

Legolas si voltò fra le braccia del Re, fino a trovarsi viso contro viso. Lo fissò negli occhi.

 

-          Ora provo per te sentimenti inaspettati, impensabili fino a qualche mese fa. Ora non potrei giacere fra le tue braccia, sapendo che per te non sono altro che un sostituto. Perché è questo ciò che sono, non è vero? – chiese, tremando come un bambino.

 

Aragorn continuò a stringerlo, lasciando vagare lo sguardo su quel viso bellissimo, bianco come la luna e in quel momento straziato da sentimenti del tutto inusuali per un elfo. Ma non rispose. E quel silenzio fu la risposta. Legolas si divincolò, e si liberò da quelle braccia dentro le quali avrebbe voluto perdersi in eterno. Con un balzo salì sul muricciolo. Sotto di lui si apriva un baratro senza fondo. Aragorn alle sue spalle si trattenne a stento dal lanciarsi verso l’elfo per afferrarlo, improvvisamente travolto dal terrore che Legolas si buttasse di sotto. Ma l’elfo rimaneva ritto sul muro, con le braccia spalancate e il mantello e i capelli che si sollevavano dietro di lui, agitati dal vento.

 

-          Lei sta arrivando, Sire – gridò. – Non è partita, ha rinunciato a tutto per te, persino all’immortalità. E ora è in viaggio e sta venendo qui. Domani mattina potrai riabbracciarla, mio Signore…-

 

Poi si voltò e guardò il Re sorridendo. Questo lo fissava sconvolto, mentre sul suo viso passavano emozioni violente e contrastanti. Incredulità, speranza e gioia. Legolas volle leggervi anche del rimpianto e un pizzico di tristezza.

 

-          E’ la fine, Sire. E’ l’ultima notte… - sussurrò. –  Ora vai, vai, riposa e preparati. Lei sta arrivando e tu devi andare ad attenderla.-

 

Aragorn rimase immobile per un po’. Poi si strinse nel mantello. Si inchinò leggermente e dopo un’ultima esitazione si voltò e tornò verso il palazzo. Legolas rimase sul muricciolo, respirando l’aria che, lentamente, si riscaldava. L’orizzonte era infuocato dal sole che sorgeva, i monti parevano bruciare, la luce si faceva via via sempre più accecante. Il Monte Fato sembrava un enorme dente cariato. L’elfo spinse lo sguardo più in là, verso la sua terra. Il pensiero volò verso la sua gente che in quel momento si stava preparando a partire. Agilmente si voltò e, con un piccolo balzo, fu a terra. L’ultima notte era ormai terminata e la partenza sempre più vicina.      

         

FINE