Luglio di
Levy 0.1 Bane e Hikaru presero il treno
alle tre e quarantacinque del venerdì pomeriggio, con l'intenzione innocua di
un weekend nella capitale. Il viaggio cominciò a farsi
insidioso quando, nell'afore insopportabile del vagone che dondolava sotto il
sole alla volta di Tokyo, Harukaze si trovò, stanco, presumibilmente
disidratato, ma nient’affatto confuso, ad imporsi di non farsi rapire dalla
prospettiva allettante di un pisolino per poter controllare meglio la
situazione mentre Hikaru dormiva, e, nello stesso momento, a realizzare, con
innegabile piacere che la posizione, il momento, il luogo e l’assenza di
qualunque osservatore, fatta eccezione per se stesso, l’afa estiva e qualche
viaggiatore distratto, gli permetteva di soffermarsi a guardare, esaminare
addirittura, con un’attenzione coltivata in lunghi anni di occhiate distratte
e sommarie, ogni singolo dettaglio del volto, le mani, le braccia, la figura
intera del suo compagno, senza che nessuno,
lui per primo, ponesse limiti di alcun genere all’indiscreta profondità del suo sguardo avido. Fu allora che Hikaru aprì gli
occhi. 0.2 Bane-chan si era innamorato
del suo kohai un passo alla volta. All’inizio non ci aveva fatto
molto caso. Consapevole di non poter
reggere lo sguardo, seppure insonnolito e familiarmente poco brillante del
suo compagno, si alzò in piedi per ricavare dal finestrino spalancato e
cigolante un po’di refrigerio e una vista alternativa sul morbido inseguirsi
delle spighe di grano biondo, sulle sinuosità disegnate dal vento e dal treno
che correva veloce, in mezzo alle spighe, inarcandone le schiene sottili. Era un altro mare, di un altro
colore, ma si muoveva con lo stesso passo. Quando non doveva andare a
scuola, d’estate, oppure la domenica, Harukaze aiutava suo padre a
ridipingere le barche, ma il mare preferiva guardarlo dalla spiaggia
piuttosto che da un pezzo barcollante di legno, sintomatico dettaglio di
quanto Harukaze Kurobane fosse meno temerario di quanto non si ostinasse così
veementemente a dimostrare. Quando Hikaru non dormiva,
passava gli occhi sul suo viso in un gesto rapido e distratto, e lo
faceva il minor numero di volte
possibile, per il minor tempo possibile.
0.3 - [il tempo non fa il suo
dovere, e a volte peggiora le cose] Harukaze aveva ventuno anni,
ma le cose erano forse più difficili di quando un ragazzino con le spalle
troppo larghe per la sua età aveva promesso ai suoi compagni che avrebbe
cercato con ogni mezzo di raddrizzare i vizi molto poco sopportabili del suo
kohai e compagno di doubles, vizi che la crescita, contro ogni moderatamente
ottimistica aspettativa, non aveva in alcun modo mitigato, restituendo al
presente un Hikaru Amane di qualche anno più vecchio ma identico, in tutto e
per tutto, a quel ragazzino sbruffone dotato di un pietoso ma inarginabile
senso dell’umorismo, che Bane-chan aveva preso sotto la sua ala di educatore
improvvisato e tacito protettore. Harukaze aveva ventuno anni, e
i problemi erano cresciuti con lui. Il tempo aveva fatto il suo dovere. 0.4 (segue..) I problemi avevano una forma
precisissima, tridimensionale, colorata, quasi statuaria, ma quest’ultimo
aggettivo si addiceva molto di più alla dialettica di Hikaru che alla sua. Quando erano da soli, la
soglia di tolleranza alle idiozie che fuoriuscivano dal disegno perfetto
delle labbra di David si innalzava al punto che finiva per ridacchiare quasi
sempre, e prenderlo a calci quasi mai. Hikaru se ne accorgeva. Ma questo non gli impediva di
mantenere invariato il flusso delle sue battute di cattivo gusto. Quando erano da soli, a volte,
senza accorgersene, Bane cominciava a grattargli la testa, come si fa con gli
animali, o con i bambini molto piccoli. Hikaru simulava puntualmente una
pigrizia invincibile che gli impediva di scrollarsi di dosso quella mano
fastidiosa, rimaneva disteso a godersi la risacca delle sue dita che gli
accarezzavano la testa, ritmiche, regolari, presenti, palpabili. C’erano giorni in cui la carne
di Hikaru sembrava appartenergli. Non come qualcosa di morbosamente desiderato,
ma come qualcosa di condiviso, familiare, e paritariamente suo. 0.5 “Sai… sto pensando di non tornare a casa” Le mani di Harukaze si
arrestarono un attimo sulla testa del suo kohai, gli occhi di Hikaru si
schiusero, abbandonarono la loro simulata sonnolenza. La sua testa si inclinò
leggermente cercando un contatto ulteriore con la mano del suo compagno,
abbandonata tra i suoi capelli. Stesi nel caldo del pomeriggio sulle stuoie
verdastre della casa dei Kisarazu e rispettivi compagni, si sentivano un po’
naufraghi su una spiaggia. Dalla serranda abbassata spuntavano le ciabatte
arancioni e le gambe pallide di Atsushi, e la sagoma kaki dei pantaloncini e
della T-shirt proseguiva attraverso le fessure della plastica grigia fino ai
gesti maldestri delle braccia del ragazzo che stendeva i panni sul balcone di
casa, asciugandosi continuamente la fronte col dorso della mano. Bane-chan pensò davvero in
quel rapido istante che l’aria afosa, impregnata di petrolio della capitale
potesse essere la cura ideale per quel piccolo problema di comunicazione tra
lui e la sua mano ancora così tenacemente posata tra i riccioli rossi del suo
kohai. Mettere un cospicuo numero di chilometri di asfalto e rotaie tra la
sua mano e la testa di Hikaru poteva essere un metodo poco diplomatico ma
senz’altro sufficiente ad impedirsi di indugiare in quella carezza tanto
fastidiosamente dolce e sconvenientemente gradita. 0.6 Non sapeva da quale atavica
radice aveva tratto una così radicata convinzione che il suo kohai non lo avrebbe mai ricambiato con qualcosa di
meno gratuito di un gesto, appena accennato per quanto affettuoso, della
testa. Forse non aveva neanche mai preso in considerazione la possibilità. In
quest’ottica, la fuga appariva davvero come l’unica soluzione possibile. “ sto pensando davvero di non
tornare…o perlomeno, di trasferirmi qui.” L’aria si era fatta pesante
nei polmoni di Harukaze, mentre, in silenzio, Hikaru continuava a cercare il
contatto con la sua mano sempre più ferma, sempre più abbandonata tra i suoi
capelli. Aveva aperto gli occhi, e fissava distrattamente concentrato lo
spiraglio di balcone che biancheggiava nel riverbero del sole da sotto la
tapparella. Il pavimento aveva smesso di assomigliare ad una spiaggia, era tornato sintetico, artificiale,
ostile. Bane si alzò in piedi con tutto il peso di quell’aria dura nei
polmoni e disse con uno sbuffo “vado a pisciare” Hikaru non si mosse e non
rispose. 0.7 Quella vaga ipotesi,
quell’intenzione appena accennata di non tornare a Chiba con lui fu
sufficiente a mantenere i capelli, la testa, le mani, le parole e le orrende
battute di Hikaru lontane dalla sfera di azione di Bane-chan per tutto il
resto del pomeriggio; finché Ryoh, rientrato stanco e accaldato con un
corposo trasporto di borse della spesa, decise che l’unica contromisura
attuabile contro quella calura insopportabile era una guerra senza quartiere tra
gli abitanti della casa a colpi di bacinelle, tazze e bottiglie, se non
addirittura secchi colmi d’acqua. Immersi in quella laguna
improvvisata di palloncini scoppiati, tazze rovesciate, bottiglie contorte
dall’utilizzo bellico, ciotole abbandonate, vestiti bagnati e stuoie
sdrucciolevoli, Bane e Hikaru ricominciarono a respirare lo stesso ritmo, a
muoversi con lo stesso passo, a sentirsi di nuovo compresi in quel duetto così
familiare di botta e risposta, di pelle e muscoli addestrati alla sincronia,
alla confidenza. Quando si arresero esausti alla verve bellicosa di Ryoh e
Shinya, sdraiati come relitti sul pavimento allagato, la mano di Bane scese
quasi automaticamente a cercare i riccioli umidi di Hikaru, che rispose
cercandolo con la stessa docile, silenziosa carezza della testa di sempre. 0.8 Hikaru teneva gli occhi
chiusi. Harukaze si guardò intorno ed ebbe l’impressione di aver vissuto solo sul pavimento di quella casa per un
tempo lunghissimo. Adesso Hikaru era sdraiato di sbieco sui futon che la
ragazza di Ryoh aveva tirato fuori per loro, gli occhi chiusi, il contorno
perfetto delle labbra appena piegato in una smorfia di fastidio, dovuto forse
alle voci e alle risate degli altri che arrivavano dalla cucina. Bane si inginocchiò
vicino a lui, e la piega dura delle sue sopracciglia scure si sciolse in un
moto di tenerezza. [ Oppure è un impudente enfatica demenza nel farti le carezze girata
dall'altra parte ] C’erano giorni in cui la carne
di Hikaru sembrava appartenergli. Non come qualcosa di privato, personale,
non come qualcosa di voluto, ma come qualcosa che di fatto, poteva chiamare
con disinvoltura “mio”. Perché al di là dell’ostinazione del suo pessimismo, Harukaze
sapeva che Hikaru, in qualche modo, era suo. Con le mani grandi, ruvide di
mare, di legno di barche e di racchette, di vernici e di sabbia, cominciò ad
accarezzargli la testa, i capelli disordinati, l’ovale del viso, quelle
labbra, quegli zigomi quelle narici, quella pelle tanto sua… lentamente, il
desiderio di poter osservare più da vicino la materia di cui era costituito l’oggetto del suo
amore divenne più forte di ogni pessimismo, di ogni remora, di ogni simulata
temerarietà, ed Harukaze si trovò con le mani impigliate nei capelli di
Hikaru, a respirare direttamente l’aria che usciva dalle sue narici, dalla
cornice perfetta delle sue labbra. Fu allora che Hikaru parlò. Senza rompere quel disegno
perfetto, muovendo solo impercettibilmente la testa per incontrare meglio il palmo della sua mano, senza
rompere il continuum del loro respiro, ormai vicinissimo, sovrapposto, senza
dare il tempo al tremito che scuoteva le mani e le braccia del suo compagno
di far crollare quel contatto, disse,
e lo fece, tenendo serrate le palpebre per tutto il tempo in cui le labbra di
Harukaze rimasero posate sulle sue, disse.. “guarda che non li apro, gli
occhi…” (segue..) [Max Gazzè – Cara Valentina, Vento d’ estate,
L’amore pensato ] [ The White Stripes
- We are gonna be friends, Hotel Yorba, Fell in love with a girl];
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