LUCI FREDDE
PARTE: 12/24
AUTORE: Dhely
SERIE: XMen
RATING: Angst
NOTE: i pg non sono miei, appartengono ai loro autori e ai loro editori. Questo non ha scopo di lucro, ma è solamente un esercizio di divertimento. E’ il seguito *diretto* di ‘Neve e ghiaccio’, anche se credo si possa capire anche senza aver letto le due parti precedenti.. comunque se vi interessa, le trovate sia sul sito dell’ysal www.ysal.it , sia sul mio.
NOTA FON-DA-MEN-TA-LE: il nome di questa gente non è di mia invenzione. Non sono colpevole se si chiamano come degli idioti! Già esistevano, io li sfrutto biecamente ai fini della mia fic e null’altro.. ovviamente, essendo nomi così brutti non voglio che me ne si attribuisca la paternità ^_=!
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Silenzio. Un lungo corridoio in penombra. Immobile. Vuoto.
Una porta che si apriva, uno sguardo titubante.
“Il generale la sta aspettando.”
Nessuna risposta. Lo superò lentamente, dirigendosi dove sapeva. L’uomo ingessato nella sua stupida divisa scintillante, piena di mostrine, lo guardò con sufficienza, come risposta ebbe una scrollata di spalle.
“Il mio prezzo è aumentato.”
Un sibilo seccato, mentre si sedeva di fronte a lui. Non conosceva una sola persona che, in quella posizione, non gli avrebbe concesso tutto quello che avrebbe domandato.
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Il jet era atterrato secondo le indicazioni.
Tutto era perfettamente uguale a quello che si erano aspettato.
Troppo uguale.
Jean Paul si guardò intorno, assolutamente non convinto.
Per prima cosa: Logan non era venuto. E, ora, quello: la perfezione, lo sapeva bene, non era di questa terra e imbattersi in essa durante una missione simile, per quello che era la sua esperienza, non era mai una cosa davvero positiva.
“Northstar? Ci serve copertura dall’alto.”
Guardò Scott e annuì in silenzio, mentre lentamente si staccava dal suolo. Un sorriso faticoso, gli occhi foschi e la voce che gli uscì dalle labbra in un fiato sottile, un sussurro acre.
“Sento puzza di trappola lontano tre chilometri.”
Robert chiuse gli occhi: dopo un istante il suo corpo aveva perduto consistenza e colore e calore, per tramutarsi in ghiaccio. Una bellissima statua di ghiaccio mobile e trasparente che fissava il cielo, poi si voltò verso il loro capo.
“Ciclope, ci saranno problemi, c’è pochissima umidità nell’aria. Non so cosa potrò fare.”
Come risposta un movimento secco con la mano.
“Polaris, con Northstar a controllare i paraggi. Gambit con me. Iceman? Con Angelo, di là. Gli altri tengano le posizioni decise. – un sibilo, annuendo piano a Jean Paul – Controlla con attenzione prima che ci muoviamo: neppure a me questa cosa piace.”
Niente.
Niente che non andasse. Niente che non fosse previsto. Niente di non atteso. Dunque: niente che andava come avrebbe dovuto.
Di solito, in quelle missioni, non si partiva mai perfettamente preparati, non si sapeva mai tutto, e questo era una fortuna, l’ignoto era ciò che differenziava, spesso, una missione fruttuosa da un disastro.
Erano tutti perfettamente allenati, avevano anni di esperienza, e sapevano bene cosa aspettarsi: quello era troppo bello per essere vero, dunque, probabilmente, non era vero.
Jean Paul aggrottò la fronte. In effetti non si era aspettato che Logan non ci fosse. Non bastava, quello, per tranquillizzarlo un poco? Si morse un labbro.
No.
Se Hank aveva ragione – e lui non conosceva nessun motivo per cui non avrebbe dovuto avercela – i loro nemici erano armati con un nuovo ritrovato tecnologico, in grado di tramutarli in una manciata di uomini imbelli, se davvero fossero riuscito ad annullare i loro poteri. Per farlo, però, dovevano avere il loro DNA, e quella non era una cosa che si poteva ottenere con una puntatina in eBay. Come X-Men avevano abbastanza nemici perché questa labile sicurezza non fosse troppo considerata, ma possedere quell’informazione di tutti loro avrebbe potuto significare solo che il ‘traditore’ era all’interno del loro gruppo. Cosa che, semplicemente, non poteva essere.
Jean Paul si sentiva sicuro di quello.
Non avrebbe potuto non esserlo. Quel gruppo di americani era pieno di sognatori idealisti, e tra di loro, nonostante tutto, accoglievano soprattutto quelli che a loro somigliavano.
E allora perché il suo istinto non era quietato? Perché le cose avevano iniziato ad andare male quando aveva visto Logan entrare nella War Room con quell’espressione sul viso?
Logan era sempre deciso, sicuro, non era uno di quelli che si fosse fatto cogliere molte volte impreparato dalla vita, dunque quell’espressione sì, gli era solita. Però l’aveva guardato, l’aveva riconosciuta, e aveva percepito pericolo.
Perché?
Non era da lui allarmarsi per nulla.
Non era da lui preoccuparsi solo perché avvertiva tensione, a circondarlo.
Non era da lui mettersi in pensiero di fronte al primo problema, alla prima incertezza, anzi.
Anni di allenamento, di prove, di missioni, di battaglie l’avevano reso sicuro di sé, e abile nel riconoscere i pericoli prima di affogarci dentro. Almeno sul lavoro si era sempre dimostrato un professionista.
Sempre.
E da professionista aveva imparato a fidarsi del suo istinto, anche quando non aveva alcuna prova che fosse affidabile.
E poi, non era il solo.
Guardò giù, il gruppo.
Aveva visto come lavoravano, come si muovevano, anche su di un territorio che non conoscevano e, di solito, non si muovevano così, come ora. Tesi, nervosi.
Cosa stava succedendo?
Jean Paul sentì un brivido percorrergli al spina dorsale. Si voltò un poco, a guardare Lorna al suo fianco. Il volto teso, concentrato, solcato da una sottile ruga di concentrazione. O era preoccupazione?
“Polaris?”
Lei scosse appena il capo.
“Lo senti anche tu?”
“Cosa?”
“Niente. – una pausa – Non è possibile non sentire niente.”
Forse c’era altro da dire. Forse gli era pure stato detto, altro.
Forse.
Comunque non lo sentì.
Una cappa nera, densa, come pece rovente che precipitasse giù dal cielo, l’avvolse.
E poi: cadere. L’aria che non lo sosteneva più, il suo corpo a scivolare verso il basso, il rovinare a terra, il dolore strano, ovattato nella sua testa, dei muscoli che impattarono contro il suolo.
Non era possibile.
Hank doveva essersi sbagliato, quell’arma non poteva funzionare come aveva supposto lui. Jean Paul era un X-Men relativamente da poco, come potevano possedere la sequenza di..
Sentì il cuore stringersi in petto.
O Hank si era sbagliato, oppure c’era davvero un traditore.
No: Hank si era sbagliato.
Fu l’ultimo pensiero razionale che ebbe.
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Hank si voltò, agitato.
“Li abbiamo persi!”
Charles prese un profondo sospiro intrecciando le mani in grembo. A volte ci si stupiva proprio perché le cose andavano esattamente come si era sospettato.. finse di non aver udito il borbottio soffocato di Logan, in attesa poco più in là.
“Sei sicuro che non sia un semplice problema riguardante l’invio o la ricezione del segnale?”
Il dottore lo guardò decisamente perplesso.
“Non abbiamo avuto problemi di copertura neppure quando siamo andati sulla luna, non credo si possa correre questo rischio ad appena centocinquanta chilometri da qui. – un gesto secco con la mano – Dovremmo radunare un’altra squadra, e cercare di..”
Charles lo fissò, duro, negli occhi.
“Già. Dovremmo.”
Per poco Logan non sorrise. Si limitò ad aspirare una densa boccata di fumo del suo sigaro, prima di voltarsi sui tacchi ed andarsene senza neppure più voltare lo sguardo indietro.
Un segnale di richiesta di stabilire un contatto, una connessione.
“Professore, c’è un messaggio priorità alfa dalla base dello SHIELD.”
Charles annuì.
“Fury?”
La squadra speciale meglio addestrata dell’esercito, gioiello della Difesa, orgoglio di svariati politici che si consideravano padrini della sua fondazione. Nick Fury era il loro capitano, un uomo fidato che spesso aveva chiesto la collaborazione degli X-Men per le missioni più complesse che avessero come obiettivo dei mutanti. Charles lo conosceva da una vita, e si fidava di lui ciecamente.
“Xavier, buongiorno. Mi spiace di disturbarla così, senza preavviso, ma devo riportarle una notizia abbastanza preoccupante.”
“Circa la nuova arma che è stata assemblata tramite progetti segreti trafugati da basi del Ministero? Lo so.”
Un sorriso, in risposta.
“Ammetto che a volte è decisamente faticoso cercare di prendere alla sprovvista un telepate. Però non è solo quello.”
“No?”
“No.”
Charles sospirò. Di solito se le cose potevano andare male, sarebbero andate peggio. In fondo loro erano gli X-Men. Erano abituati a quello.
Già, era tutto, esattamente, come al solito.
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Come al solito: essere agli antipodi del pianeta nel giro di una manciata di minuti, per lui, era uno scherzo.
Forse uno scherzo un po’ faticoso, ma di certo non impegnativo.
Pietro si voltò lentamente, a guardarsi intorno: la catena dell’Himalaia che, di fronte a lui, era come un’enorme abbraccio teso a tagliargli la visuale verso l’orizzonte, e gl’infiniti corrugamenti titanici della terra che si spiegavano alle sue spalle. Un panorama incantevole e annichilente.
Mai, di fronte alla natura, si era sentito tanto conscio della sua limitatezza, della esiguità della sua misera vita in confronto al mondo, al cosmo, all’universo. Era insita nell’essenza umana l’essere – il sentirsi- tronchi, non appagati, non completi, ciò nonostante era palese che vi fossero luoghi ove questa certezza spuntava alla coscienza con ben più vigore.
Pietro era sinceramente felice che sua figlia crescesse in un posto simile: sapeva bene quanto potesse essere didattica la natura, e formativa. I genitori di sua moglie non avrebbero mai compreso di quanto fossero stati fortunati, decenni prima, ad atterrare sulla terra proprio in quel preciso luogo.
Scosse appena il capo, sospirando. Non ci si poteva poi aspettare troppo da quella gente.
Mosse un passo, poi un altro, e iniziò a domandarsi quanto tempo avrebbero fatto trascorrere prima di far scattare gli allarmi: il grado di protezione era davvero una spina nel fianco.. in effetti, una delle tante. Dovevano ritenersi fortunati pure perché non era lui a dare gli ordini, lì dentro, altrimenti li avrebbe già fatti fucilare tutti per essere degli inetti spaventosi. Cordiali, cortesi, ma inetti.
Vide appena un po’ di movimento, poco più oltre, un deciso vociare, improvvisamente, gli giunse alle orecchie. Infine la silhouette di Crystal gli venne incontro, camminando a grandi falcate – quasi correndo – verso di lui.
Sua moglie.
I pregi dell’aver perduto una vita famigliare e, ancor di più, di non sapere quasi cosa fosse avere un cuore era guardarla e riuscire a non provare assolutamente nulla. Neppure una punta di rimorso.
“Cosa ci fai qui?!”
Pietro si fermò, con la chiara espressione, in viso, di chi non si sarebbe lasciato dissuadere dal proprio obiettivo per così poco.
“Ti devo parlare. Riguardo Luna. – non la lasciò intromettersi – E’ un discorso sufficientemente serio e decisamente importante perché non possa essere fatto qui. Posso entrare o la porto via senza avvisarti di quale sia la nostra meta?”
Lei gli rivolse un ghigno terribile, furioso, che, come al solito, non piegò Pietro di una virgola: non lo toccò né lo impensierì.
“D’accordo. Ma se è uno scherzo, ti giuro..”
“Non lo è. Andiamo?”
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Un black out. Improvvisamente, come tutto si è spento, cancellato, annientato, tutto ritorna, allo stesso modo.
Proprio allo stesso modo.
Jean Paul si trovò con gli occhi spalancati, ancora il respiro mozzato in gola per la caduta, ma niente voce per articolare il proprio pensiero in suoni comprensibili. Si mise a sedere di scatto, guardandosi intorno. La luce era .. strana.
Non era certo quella normale, che si trova all’aperto, piuttosto il chiarore candido, e terribile, di un laboratorio. Qualcosa gli si serrò all’altezza del cuore, ma lo ignorò di forza. L’allenamento e l’abitudine presero il sopravvento su tutto.
Osservare, analizzare l’ambiente, era il primo passo per ottenere qualunque cosa: informazioni, speranze, conferme..
Una gabbia.
Jean Paul fissò per un lungo istante, sgomento, le sbarre di energia rossa che sfrigolavano appena a pochi metri da lui. E sì, respirare era dannatamente faticoso, ora. Sentì una specie di mugolio, al suo fianco: Robert si stava mettendo seduto, puntellandosi contro un Remy altrettanto spaesato. Dall’altra parte, oltre le sbarre, vide la parte rimanente del gruppo, e Scott che era già in piedi, ad analizzare il luogo dov’erano, da capitano consumato qual’era.
Scivolò, leggermente dolorante, verso il confine solidissimo e, insieme, impalpabile, che erano quelle sbarre, per guardare fuori.
Le gabbie erano una serie di quattro cubi dalle pareti di energia invisibile, uno accanto all’altro. Fatte per umiliare e non solo per tenere in prigione: senza un minimo di privacy, senza.. Scosse il capo, obbligandosi a concentrarsi su altro. Quattro, e una poco più in là, più piccola, ma con le sbarre che scintillavano con più forza, pareva studiata apposta per contenere qualcuno di molto potente.
Le gabbie erano sopraelevate. Non di molto: un gradino o due li dividevano dal livello del suolo. Disposte sul bordo di una grande stanza asettica, dove facevano bella mostra di sé un enorme schermo, alcuni macchinari che sembravano pericolosamente collegati a cose tipo esperimenti e un grande tavolo centrale, attorno al quale delle sedie sembravano voler dimostrare che fosse molto utilizzato.
Una sala delle riunioni in un laboratorio? Era assurdo!
Jean Paul aggrottò la fronte, sollevando il capo su Scott che, come lui, si limitava a guardare, e stava tetramente in silenzio.
Poi sospirò, voltandosi verso di loro.
“Non temete. Lo sapranno già: gli altri saranno qui in..”
Un rumore. Non una voce, no: proprio un rumore. Un suono impossibile da riprodurre, impossibile da sopportare. Un qualcosa che strisciava sulla pelle, accapponandola, lasciando ferite profonde, dentro. Jean Paul sobbalzò, ma fu ancor più colpito dalla reazione improvvisa di Scott, che impallidì terribilmente. Probabilmente se sua moglie non fosse, quasi magicamente, comparsa al suo fianco per sostenerlo, passandogli una mano dietro al schiena, probabilmente sarebbe davvero caduto.
Sentì Robert sibilare fra i denti una maledizione pesante. E Remy trattenere il fiato.
“Sinistro.”
Jean Paul aguzzò lo sguardo. E rimase senza parole.
Aveva sentito parlare di quel tizio, e di lui conosceva tutte cose orribili. Ora che ce l’aveva di fronte scopriva che le spiegazioni erano sempre state misere al confronto di.. era un mutante anche lui, e, in effetti, di mutanti con bruttissime parvenze ne aveva veduti parecchi, ma quello era peggio.
Perché non era ‘bruttissimo’, era spaventoso. Un uomo così imponente, così alto, impressionante nella forza che doveva possedere, mischiato a un pallore di cera, che faceva sembrare il suo viso non fatto di carne ma, magari di.. di avorio, sì, accentuato dagli occhi nerissimi, e le ciglia scure, che erano l’unico segno di colore che aveva addosso. Un fantasma, ecco. Meglio: una specie di vampiro. Solo che non era una strana, antica creatura di morte e fantasia, oscena nel terrore che sapeva suscitare, parto di chissà quale incubo dell’umanità tutta. Non era una finzione, ciò che aveva di fronte, né un sogno, ma era concreto e reale quanto ognuno di loro.
In mezzo alla fronte aveva una macchia rossa, forse un gioiello incastonato, forse chissà cosa, ma del color del sangue raggrumato quando si sta per coagulare, un brillio disgustoso, osceno. Insopportabile.
Come insopportabile era la sua voce: un suono basso, non roco, e stridente, acutamente contrastante con tutto il resto. Come se, al posto dei denti avesse de.. delle lamette di metallo.
Tremò dentro, e ringraziò il suo controllo per essere riuscito a nasconderlo. Era spaventoso.
Non si stupì nel sentire, alle sue spalle, un brusio sottilissimo accendersi per poi crollare in nulla, solo la voce di Robert che si tramutò in una specie di guaito soffocato e spaventato.
“.. non ho più i miei poteri..”
Jean Paul si voltò di scatto: non era possibile. Solo in quell’istante si accorse di non averci creduto, prima. Che, dentro di sé non aveva neppure preso in considerazione un’ipotesi simile: e neppure i suoi colleghi l’avevano fatto, oppure ora non sarebbero stati lì a fissarsi l’un l’altro in quel modo.
Scott si voltò verso il loro carceriere. Furioso.
“Sinistro, come hai potuto!”
Sembrava, anche, sconvolto.
Jean Paul si fissò le mani, impotente. Senza potere, in una gabbia. In un laboratorio. Se avesse avuto meno dignità si sarebbe messo a piangere. Non poteva finire così, non lui.
E, soprattutto, ancora: non così.
Un laboratorio: esami, esperimenti, dolore, umiliazione, vita strappata lentamente, dietro lenti spesse, vetrini, microscopi a scansione, schemi, macchinari. Gli pareva di stare soffocando, di stare morendo, lì, su due piedi, senza neppure una ferita, senza neppure che qualcuno avesse sollevato le mani contro di lui. Strinse i denti, e le mani, a pugno.
Sinistro stava ridendo.
“Come? Dovete ringraziare un vostro caro amico che, chissà perché, non è venuto con voi.– sarcastico, terribile. Ed altissimo. Si avvicinò a loro lentamente, mostrandosi davvero in tutta la sua incredibile statura: avrebbe potuto ucciderli a mani nude, sembrava essere in grado di spezzarli con nessuna fatica. – In effetti aveva avvisato che non sarebbe arrivato ora, e lui di solito è uno molto puntuale, però vi ha fatto arrivare qui in perfetto orario, e tutti. Sono davvero piacevolmente compiaciuto.”
Non era possibile.
Logan non poteva averli traditi in quel modo.
Non poteva aver fatto una cosa simile.
A lui.
Già: a lui. Con il resto della squadra magari, poteva avere avuto tutti i problemi del mondo, ma lui.. erano amici. Amici, sì. E lo sapeva, Logan! Lo sapeva! Come aveva potuto permettere che si ficcasse in un laboratorio?!
Si passò una mano fra i capelli, cercando di convincersi che non era possibile, obbligandosi a crederlo, assolutamente, con rabbia, con un bisogno disperato: se non l’avesse fatto chissà cosa sarebbe accaduto. Non sarebbe stato in grado di rimanere calmo. Di trovare la forza per .. per respirare un fiato dopo l’altro, per obbligarsi ad allontanare quel peso, quell’assoluta disperazione che lo stava ammazzando, senza possibilità di sopravvivere, senza..
Udì l’altra voce.
E fu davvero come morire.
Sentì il sangue defluirgli dal capo, dal viso, dal petto, come se fosse stato fatto a pezzi, come se davvero fosse stato ucciso senza che se ne fosse accorto.
Le ginocchia cedettero, le sentì sbattere contro il pavimento lucido, ma la sua gola contratta non fu in grado di modulare un solo suono. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, premere le mani sulle orecchie, per non vedere, non sentire niente.
Non era vero, era un sogno. Ogni tanto li faceva ancora, sogni così. Non era possibile fosse vero.. invece una specie di abitudine istintiva lo obbligò a sollevare il viso. E guardarlo.
Lo vide, e tremò.
Dentro: era morto. Ghiacciato in un’angoscia che non poteva essere detta, né spiegata.
Lo guardò avanzare, ridendo, attraverso l’enorme stanza, e il sangue gli rombava nelle orecchie lasciandogli intuire appena stralci di conversazioni che si allacciavano nell’aria intorno a lui. Il suo mostro personale, il suo incubo.
Victor.
Victor, che affondava le dita nel suo passato, per farlo a pezzi, per annientarlo, spazzandogli l’anima, il cuore, per ucciderlo nel modo più lento e crudele che avesse saputo trovare. Victor che era lì, sempre lì, con lui, dentro di lui, distruggendolo un affondo dopo l’altro, nonostante le sue preghiere, nonostante il suo supplicare, il suo promettere che se gli avesse lasciato fare, gli avrebbe dato molto più piacere che così, che non voleva scappare, che, tanto, non aveva nessun posto dove andare. Che era suo, un suo giocattolo, se voleva, che gli avrebbe fatto di tutto, che gli avrebbe lasciato fare di tutto, ma non così.. e il dolore e l’umiliazione che erano unite, insieme, in un nodo impossibile da sciogliere. E dopo Victor c’era sempre Logan.
Logan che lo teneva fra le braccia e gli parlava, a volte, e lo stringeva, e gli diceva che l’avrebbe protetto. Che doveva stringere i denti, e resistere, perché prima o poi sarebbero stati liberi, e nessuno avrebbe più potuto fargli una cosa simile. E ripeteva che lui l’avrebbe protetto, perché lui lo sapeva. Lo sapeva.
Victor.
Logan lo sapeva! Come poteva aver..
Victor parlava, rideva. Lievemente incurante di loro: la violenza scritta addosso, impressa sul viso, nei suoi gesti, nelle sue parole. Le mani, quelle mani, impossibili da spezzare, impossibili da fermare. Si piantò di fronte alla gabbia di Scott, i pugni sui fianchi, a ridere, sguaiato, nel fissare le loro piccole prede e Jean Paul pregò, per la prima volta dopo anni, di morire. Lì, ora, immediatamente.
Perché non voleva. Non poteva.
Non riusciva neppure a distogliere lo sguardo. Neppure a smettere di tremare. Non esisteva più nulla intorno a lui. Iniziò a pensare che il sogno fosse stato tutto il resto: la libertà, l’essere campione di sci, e poi il gruppo canadese, Walter, e gli X-Men, il professore, i ragazzi, la Scuola, Pietro.. quello era il sogno, non altro. Non aveva mai smesso di vivere lì, in un laboratorio, doveva essere così.
Ora Victor sarebbe entrato nella sua cella e avrebbe fatto quello che faceva sempre. Il dolore divenne assoluto, terribile, pugnali di ghiaccio che gli si conficcarono nel petto, e il presente si cancellò, annullandosi, in un passato che era eterno e non eludibile.
Jean Paul in quell’istante sapeva solo che, da sempre, e nonostante quello che vedeva intorno, c’erano ventitré passi dall’inizio del corridoio all’ingresso della sua cella, e non aveva contato quanti ne avesse già fatto. Quanto era grande la distanza tra il limbo in cui era e l’inferno più cupo?
Victor si voltò verso di lui e lo guardò.
Lui, lì davanti, lo guardò aggrottando la fronte come a cercare, nella mente, un appiglio, qualcosa che gli facesse capire cosa.. poi ricordò.
Jean Paul seppe di essere condannato in quel preciso istante. Che non esisteva alcun dio misericordioso. Che, se fosse esistito, di certo l’aveva già giudicato colpevole di chissà quale enorme mancanza.
Lo guardò, e lo vide.
Sorrise terribile.
“Oh, guarda, c’è anche il mio giocattolo canadese preferito! – un sorriso terribile, contorto, pesante, e dolorosissimo da sopportare – Mi sei mancato, cucciolo.”
___ CONTINUA..