LUCI FREDDE
PARTE: 9/24
AUTORE: Dhely
SERIE: XMen
RATING: R. Angst.
NOTE: i pg non sono miei, appartengono ai loro autori e ai loro editori. Questo non ha scopo di lucro, ma è solamente un esercizio di divertimento. E’ il seguito *diretto* di ‘Neve e ghiaccio’, anche se credo si possa capire anche senza aver letto le due parti precedenti.. comunque se vi interessa, le trovate sia sul sito dell’ysal www.ysal.it , sia sul mio.
NOTE2: sì, Kojiro Hyuga è Mark Lenders, quello di ‘Holly e Benji’ per intenderci –quello figo!- Lo so che non centra assolutamente niente, ma è una cosa che non sono riuscita ad evitarmi, perdonatemi! Ah, e, ovviamente, neppure lui, ahimè, mi appartiene ma lo uso solo perché sono una bambina cattiva cattiva che si diverte a mischiare gli universi e le serie!
___
L’alba era pallida, proprio come Jean Paul presumeva dovesse essere. Si passò una mano sugli occhi, cercando di cancellare, in quel modo, o di attenuare almeno in parte, il senso di fastidio solito che lo prendeva al risveglio. Al suo fianco Pietro sorrise.
“E’ ora di alzarsi.- sussurrò tendendosi verso di lui, a toccarlo, a metà una carezza a metà la semplice ricerca, infantile quasi, di un contatto che rassicurasse sulla sua presenza, lì. Un mostrarsi, e un sentirsi, fragile, che non era da lui. Indeciso, quasi lievemente dubbioso, silenziosamente addolorato per un motivo noto solo a lui. – Cosa vuoi per colazione?”
Niente. Jean Paul non prendeva mai nulla per colazione, lo sapeva: un caffè, più per abitudine, per rito sociale che per altro, e, di sicuro, se Pietro gli avesse chiesto di poltrire sotto le coperte fino a due secondi prima di dover davvero andare non si sarebbe rifiutato.
Non ebbe finito di formulare, nebulosamente, quel pensiero, e Pietro era già in piedi, vestito con un paio di jeans e una maglietta, su cui aveva infilato una felpa. Conosceva quella felpa.
Jean Paul strinse un po’ gli occhi, alzandosi a sua volta, sforzandosi di ricordare cosa mai poteva fargli tornare alla mente quel banalissimo capo di vestiario, bianco, con le maniche nere, e il cappuccio, e uno stemma ricamato sul petto, mentre, in cucina, Pietro già armeggiava col frigorifero, il latte, il cioccolato in polvere, e poi il trillo del forno a microonde.
“Sicuro che non ne vuoi?”
Una cioccolata calda. Era una cosa così.. Jean Paul si sentì stringere il cuore, perduto nella contemplazione. Pietro non era uno che potesse campare a te non zuccherato e caffè lungo, il suo metabolismo necessitava, per sopravvivere, di qualcosa di più sostanzioso. Ma nessuno poteva anche solo lontanamente immaginare che buon sapore avessero le sue labbra, alla mattina, quando ancora faceva freddo, e lui profumava di cioccolato e latte, dolce e tranquillizzante, in un qualche modo più goloso del solito.
Negò col capo, nascondendo uno sbadiglio, ma si sedette al tavolo della cucina con lui: perfetto e impassibile come sempre Pietro si limitava a prendere piccoli sorsi della bevanda bollente che teneva fra le mani mentre, come una sua abitudine ormai radicata, passava il tempo ad inseguire i suoi propri pensieri con lo sguardo perso fuori dalla finestra.
Controllo, pensò Jean Paul. Quello era controllo. Controllo su un potere di così difficile gestione. Controllo su un corpo che, probabilmente urlava, in ogni sua fibra, di muoversi, muoversi, muoversi, senza preoccuparsi minimamente del fine. Il ‘fine’, in fondo, apparteneva solo alla mente, non ai muscoli, che non lo cercavano, non ne sentivano la necessità.
Sbatté le palpebre, l’attenzione ritornò alla felpa.
“Ma tu.. avevi anche una maglietta simile, o mi sbaglio?”
Pietro lo degnò di uno sguardo che sembrò, per una frazione di secondo, venata di rimprovero.
“Già. – un sospiro falsamente drammatico – La maglietta che mi hai fatto a brandelli sul treno per Monaco di Baviera, ricordi?”
Sorrise, annuendo al ricordo della loro gita: “Quella per la quale mi hai tenuto il muso per giorni!”
Pietro si passò una mano fra i capelli, scuotendo il capo, sconsolato.
“Sei un caso senza speranza, Jean Paul! Quella era la maglietta di Kojiro Hyuga! La mia maglietta preferita. E tu me l’hai distrutta senza il minimo rimorso!”
La maglietta di chi? Ci mise un attimo. Ah, sì, il calciatore. Meglio: il calciatore professionista preferito da Pietro. Era convinto che, se il suo compagno non fosse stato così tendenzialmente snob, sarebbe arrivato a infrangere tutte le leggi sulla proprietà privata per un autografo di quel tizio. Per non parlare di una foto.
Uno stupido calciatore!
Sbuffò.
“Il buon gusto di una persona si vede anche dagli idoli che si sceglie, lo sai?”
Rise. Per una frazione di secondo parve splendere, nudo e splendido, senza schermi, senza maschere, senza una sola paura al mondo.
“La mia scorta di buon gusto l’ho esaurita tutta per scegliere te, Jean.”
Ci fu come un’incrinatura, un rumore e uno slittamento di cui solo Jean Paul fu spettatore. Perché era avvenuto tutto dentro di lui.
Quando Pietro lo chiamava solamente Jean, lo faceva utilizzando un tono così morbido e delicato che gli faceva tremare il cuore, tutte le volte. E in quel preciso istante, il canadese iniziò a ricordarsi distintamente di doversi sentire terribilmente in colpa.
Chiuse gli occhi, ma percepì chiaramente il sospiro sincero di Pietro, e il suo sguardo che ritornava vagante, lontano, perduto, e l’aria tra di loro che si riempiva solo del ticchettio della grande pendola che aveva fatto mettere nell’ingresso. Tutto il mondo parve mutarsi in qualcosa di serio e doloroso, denso quasi.
Avrebbe dovuto dire, spiegargli. Ma cosa? Davvero Jean Paul non sapeva se..
“Jean Paul, sai? Ieri sera sono stato da Luna. – se gli avessero sparato a bruciapelo diritto nel costato non avrebbe potuto fare più male. Se fosse stato un uomo dotato di un minor senso della dignità avrebbe per lo meno strabuzzato gli occhi, per poi mettersi a piangere dalla vergogna. Non fece nulla del genere, rimase immobile, in silenzio, come un condannato in attesa che venga comminata una pena che già si sa terribile. Quando sentì che la voce di Pietro s’era addolcita d’un altro tono rimase davvero spiazzato, e stupefatto. – Abbiamo parlato – sorrise – di tante cose. Anche di te.”
Pietro non spostò lo sguardo per vedere la sua reazione, non mosse un solo muscolo. Indifferente alla reazione, forse, o forse altro. Jean Paul non sapeva dire il motivo ma iniziò a sentirsi fortemente a disagio. Il senso di colpa? O il tono della sua voce?
Solo allora Jean Paul si accorse che Pietro non aveva preso fiato fra una frase e l’altra, e neppure ora pareva intenzionato a guardarlo dritto negli occhi, come se quello che gli aveva chiesto fosse una cosa così preziosa e importante, da averne quasi paura, anche se non aveva letto esitazione nelle sue frasi.
“Perché non mi hai detto che andavi da Luna!”
Jean Paul si pentì immediatamente di quella richiesta, ma a Pietro non parve strana, visto che rispose subito, con attenzione, calibrando attentamente ogni sillaba pronunciata.
“Non sapevo se ci sarei riuscito. – quella pelle chiara come l’opale arrossì appena – Crystal non è sempre facile da aggirare. E se te l’avessi detto e poi non fossi riuscito nel mio intento? Mi sarei vergognato.”
Di più: ti avrei fatto vergognare di me. Lo pensò, non lo disse. Strinse appena le mani sulla tazza che si stava intiepidendo, e chiuse gli occhi, attendendo una reazione mentre si redarguiva da solo per essere stato così stupido e melenso. Come se alla fine mostrarsi fragile e spaventato fosse stato, in quel momento, il più grave dei peccati, o peggio, perché avrebbe potuto sfalsare la risposta, avrebbe potuto farlo sentire davvero in colpa per quell’unico pensiero che gli scavava la mente da .. da troppo tempo, almeno per i suoi gusti.
Una risposta: in quell’istante essa aveva una importanza estrema, assurda, come se intorno a lei ruotasse il mondo.
Qualcosa, qualsiasi cosa sarebbe bastata, anche di banale, stupido, qualcosa di già sentito, di preconfezionato, anche una di quelle frasi stereotipate che non si possono evitare in certi frangenti, tanto per essere sicuro che non era vero quello che sentiva, quello che provava, tanto per individuare quel qualcosa che, ora, era troppo nebuloso e opaco perché riuscisse ad intuirlo, ma che c’era. Era lì. E dentro di lui era già una certezza, e ad ogni istante assumeva sempre più contorni definiti e pesanti.. però, forse, per una volta, avrebbe potuto essersi sbagliato, avrebbe voluto essersi immaginato una sciocchezza senza senso, tanto per riderci sopra quando le cose fossero state chiarite, ammettendo che quella, sì, era una specie di prova, era una sfida, contro se stesso, e contro quello che erano loro, ma che non era importante, perché alla fine, sapeva che non poteva andare diversamente, che, tanto, Jean Paul non poteva rispondere altro, anche se non era vero. Anche se era una menzogna: ma Pietro avrebbe creduto più che volentieri a quella menzogna, per una volta.
Jean Paul tacque.
Uno, due, tre secondi.
Eterni.
Infiniti.
Jean Paul si sentiva un idiota, peggio, una persona di cui non conosceva l’epiteto. Lo guardava, vedeva Pietro, lì, sentiva la sua voce, le sue parole, e non riusciva a pensare oltre a quello che stava per succedere, al disastro che stava per capitare e solo perché aveva frainteso tutto. Solo perché non aveva capito, e forse, alla fine, non aveva mai capito niente di lui, fin dall’inizio.
Il silenzio divenne così lungo e pesante che non fu più possibile sopportarlo. Pietro si limitò a sospirare, voltando il capo. Sul viso aveva dipinta una espressione strana, sembrava seccata e insieme acre di un divertimento doloroso conosciuto solo a lui, in cui si univano un’infinità di sentimenti, dall’inadeguatezza a un velato timore, in una tavolozza come Jean Paul non aveva mai visto uguale.
Quella era un’ottima scusa, dopo tutto. Proprio perfetta. Avrebbe dovuto ringraziarlo per avergli reso le cose così stupidamente semplici.
“Mi dispiace, Jean Paul. Ho preteso troppo. – un sorriso tentennante e irrisorio a piegargli le labbra, in quell’istante gli parve terribile, e insostenibile – Sono stato leggero ed avventato a fare supposizioni su un argomento così delicato.”
In risposta, di nuovo, il nulla: come se Jean Paul avesse essiccato la fonte da cui attingeva la sua loquacità solo perché troppi pensieri, troppe cose gli turbinavano nella testa, nessuna delle quali era lusinghiera. Non sapeva cosa rispondere perché non c’era nulla da dire, e non riusciva a comprendere cosa Pietro si stava aspettando da lui. Si morse un labbro, colpevole e udì di nuovo la voce gentile, e pacata di Pietro scivolargli sulla pelle, venata di un’indifferenza che non era solito sentire.
“E’ tardi, alla Scuola ti staranno aspettando.”
E come il rumore di una porta che si chiudesse di schianto.
___
Bobby rise, fino alle soglia delle lacrime, aggrappato alle spalle ampie del suo miglior amico, Hank.
Che poi, il suddetto ‘miglior amico’ fosse pure il medico nonché genio ufficiale del gruppo prima e della Scuola dopo, non aveva alcuna influenza sul modo in cui Robert lo trattava. Per non parlare del fatto che era blu e peloso, e assomigliava a .. a una tigre che camminasse su due zampe. Ma, dopo tutto, non s’era fatto problemi la prima volta che l’aveva visto, a neanche sedici anni, adesso, dopo dieci anni di convivenza, tutto quello era un fatto normale.
Normale: solo i mutanti potevano dire di trovare normale un tipo fatto così e con gli occhi da gatto, gialli come dei limoni che vederli al buio facevano davvero paura! Bobby prese un respiro cercando di riprendere almeno in parte il controllo su se stesso.
“Bobby, sarebbe consono al mio ruolo, e al tuo, se ti staccassi. – la voce seria e divertita insieme. Poteva scrollarselo da dosso come e quando voleva, esattamente come risolvere un integrale complicatissimo ancor prima di aver finito di scriverlo. – Tanto lo sai che non dimentico che hai perduto la scommessa e che tocca a te lavare l’X-jet, questa settimana.”
“Noooo! – urlò in risposta –tipregotipregotiprego! Odio lavare quel coso! Non voglio una macchina per non doverla tenere a posto, non è giusto che adesso mi rifiliate un jet!”
Remy, seduto poco più in là sogghignava appena, senza distogliere troppo lo sguardo dalla tv. Non che non gli importasse di Robert, ma quelle scene, con soggetti differenti di volta in volta, avvenivano con cadenza regolare e frequenza impressionante. Quando uno aveva vissuto tra quel gruppo di matti per più che una settimana si abituava a certe cose: Bobby ed Hank erano un classico.
Negli anni quei due avevano continuato a litigare, punzecchiarsi, farsi i dispetti, confidarsi, essere l’uno il tormento dell’altro.. geloso? Remy non poteva neppure pensarlo, bastava guardarli. Erano troppo amici. E facevano sempre troppo gli stupidi, si divertivano sempre in maniera totale quando erano insieme per poter anche solo sospettare qualcosa di serio.
Remy sorrise, istintivamente e seducente, ancor prima di aver davvero capito chi fosse entrato nella stanza, come un riflesso condizionato e innato, un interruttore che gli scattava dentro senza alcun collegamento con il resto di sé.
Anche perché, sinceramente, non esisteva proprio nessuno degno di un simile interessamento.
Quando alzò gli occhi per poco sobbalzò. Bastò sentirla per trattenersi dal mostrare una qualsiasi espressione che non fosse silenziosa sopportazione.
“Andiamo, Drake! Pensavo che in tutto questo tempo avessi trovato il modo di crescere!”
Lorna.
Remy si sentì, strano, dentro, al vedere il viso di Robert riempirsi di.. no, non riempirsi, ma coprirsi, velarsi da una patina di sensazioni dolorose, difficili da gestire, che sapevano la strada dritta per andare ad conficcarsi giù, dentro il cuore. Le sue mani si mossero, si ammorbidirono, lasciarono la presa scivolando giù dalle spalle di Hank con una grazia inconsapevole e, insieme, sfacciata.
Ma, nonostante tutte le supposizioni e le paure, nonostante l’ansia, i pensieri, nonostante la rabbia e i piani di vendetta meditati, pochi giorni prima, mentre attendeva che Robert si decidesse ad uscire da quell’esilio in cui si era rinchiuso di sua spontanea iniziativa, mentre aveva deciso che sì, la odiava, e che non le avrebbe mai più permesso di.. di.. nonostante tutto questo, e il suo essere nervoso, e teso e pronto a mettersi in piedi, a dire, a difendere, Remy non riuscì a fare niente di fronte a quella vista.
Bobby non arrossì.
Arretrò di un passo, allontanandosi appena da Hank, ma non fuggì. Non chinò il capo. Strinse le labbra in una linea dura e decisa e prese un respiro. Profondo, a riempire completamente i polmoni, come un atleta che si stia preparando alla gara. Ma non ci furono atteggiamenti aggressivi, o battaglieri, non ci furono gesti scortesi o sguardi al vetriolo.
Ci fu quello che sembrò l’ombra di un sorriso. Timido, piccolo, pulito.
Meraviglioso.
A Remy sembrò che qualcuno gli avesse sparato al cuore.
“Lorna. – un cenno di riconoscimento, e saluto. Bobby piegò appena la testa di lato, muovendo piano una mano nell’aria di fronte, verso la ragazza – A volte è bello rimanere giovani. Ma questa è una cosa che non hai mai capito. – uno sguardo strano, che per un attimo parve sottile, e aspro. – E che non mi hai mai perdonato, vedo.”
Lorna si faceva passare per la figlia di Magneto per un paio di motivi, principalmente per i poteri, e per il carattere. Nessuna delle due cose dava la certezza assoluta di una discendenza di sangue, ma era certo che, da quando s’era prefissa di mostrare con più forza questo legame, si era anche messa d’impegno a peggiorare. E, anche se sembrava impossibile..
Nella sala comune scoppiò un putiferio.
Un vero e proprio inferno, come quelle pareti non ne vedevano da anni, almeno. Dall’ultima volta in cui Cain s’era ricordato di avere un fratellastro da angariare e si era messo a spaccare tutto quello che gli capitava a tiro, almeno da quanto potesse ricordare Hank, così su due zampe. Beninteso: non che Lorna volesse spaccare qualcosa al di fuori della testa di Robert, per essere stato troppo arrogante, a suo dire, ma Bobby era, appunto, Bobby e in quella scuola c’erano almeno una ventina di persone che si sarebbero fatte uccidere prima che capitasse qualcosa di brutto alla loro palla di neve ufficiale.
Ma non servivano venti persone, né cinquanta, ora, lì, in quella stanza.
Lorna era furiosa, o forse di più, e quando si arrabbiava una con i poteri come i suoi era sempre, semplicemente, un disastro.
Ma Robert continuò a non muovere un passo, a non mutare espressione, a non cambiare cadenza con cui pronunciava le parole che aveva da dire.
Parole, solo parole.
Parole che lo avevano stupito, parole che si era sentito schiudere dentro, come un fiore che finalmente avesse deciso che era il tempo di germogliare.
Decisioni che aveva analizzato e accettato, facendole sue, senza neanche rendersi conto di averci pensato.
Hank lo guardava, e lo leggeva.
Sapeva farlo, da sempre. Lo conosceva da anni. Per anni era stato ‘il suo miglior amico’ e non aveva fatto altro, spesso, che ascoltarlo raccontarsi nel raccontare, e l’aveva veduto crescere, e l’aveva ammirato per quello che era riuscito a diventare nonostante tutto. Nonostante tutto quello che ognuno di loro aveva passato.. eppure anche lui, come tutti, aveva sempre pensato che Robert non fosse meno di qualcun altro, ma solo più giovane, più ingenuo. E quindi, chissà perché, si era fatto l’idea che fosse più fragile di loro, fosse quello che abbisognasse di più protezione: come se alle ferite del cuore ci fosse davvero qualcuno più insensibile di un altro, come se una pugnalata dritta nell’anima per farla a brandelli potesse essere più letale per qualcuno, e ad altri non avrebbe fatto nulla.
La differenza stava solo nello stile con cui si incassavano i colpi. Il modo preferito con cui ci si leccava le ferite.
La differenza fra un uomo e un altro stava tutta lì.
Semplicemente.
Robert non era più un ragazzino. E forse non era mai stato uno stupido bimbetto indifeso, come molti lo consideravano. No: stupido mai. Magari leggero, sì, magari ingenuo. Magari. Ma mai stupido. Sensibile, quello parecchio, e anche .. dolce. Gentile. Sorridente. Felice. Una persona pulita, speciale. Una persona incredibile.
Ma non stupido.
Mai.
Ricordarselo lì, in quell’istante, fu come avere di fronte una risposta ad una domanda che neppure lui aveva saputo di porsi. Probabilmente come le parole di Robert, che neppure lui avrebbe saputo dire da dove le stava tirando fuori.
E c’era decisione sul fondo di quegli occhi caldi, e dolci. Sicurezza. La certezza assoluta di aver scelto, e di aver scelto bene, di aver scelto l’unica persona a cui avrebbe mai potuto donare il suo cuore.. o forse no.
No, perché il cuore - una volta era stato lo steso Robert a dirglielo – il cuore non si ‘sceglie’ a chi donarlo. E’ il cuore stesso a decidere a chi offrirsi: la causa di tutti i guai del mondo, o almeno della gran parte, stava tutta lì.
Si voltò appena a guardare Remy di sfuggita e quell’occhiata pareva fosse stata una carezza fisica, a quel contatto l’altro lo vide tremare, appena, trattenendo per un attimo il fiato, deponendo nel medesimo istante tutte le velleità aggressive che aveva brandito fino ad un istante prima. Quell’occhiata che fu il disgelarsi, palese e limpido, di un legame che non poteva più essere nascosto, che nessuno dei due aveva mai voluto tenere celato agli occhi del mondo.
Hank sentì come una scossa elettrica, lieve. E poi più nulla, solo come un ronzare tranquillo di sottofondo.
Lo shock infisso sul viso di Lorna era indescrivibilmente presente, e pesante. Sembrava, per assurdo, che fosse il tempo stesso a gelarsi, lì, tra di loro. Fra loro tre che fronteggiavano una ragazza la quale avrebbe potuto spazzarli via senza troppa fatica perché magari non era vero che era la figlia di Magneto, ma i suoi poteri rimanevano devastanti, e terribili, soprattutto se utilizzati accompagnandoli con uno scoppio d’ira.
Rabbia.
Vergogna.
Chissà che altro.
E infinito fastidio, odio, nei confronti di Robert, e il pensiero che ucciderlo sarebbe stato un atto di pietà nei confronti dell’umanità, di tutto il cosmo: fu questo che pensò Lorna, e lo urlò pure.
Ma come, si chiese Hank, come si sarebbe potuti vivere senza Bobby? Col rischio di morire di noia?
Non si sarebbe tirato via da lì, anche se fosse stato inutile, anche se la sua presenza non fosse servita a nulla. Perché forse, e solo ‘forse’, di più veloce del movimento degli elettroni c’era solo il pensiero, e nessuno di loro poteva brandire quello come arma.
Ma non importava.
Lorna non lo sapeva, di Robert e Remy. L’aveva scoperto lì, in quel momento, grazie a quello sguardo, grazie alle parole neutre, mature, profonde, del loro cucciolo. Non doveva essere un colpo semplice da accettare per una persona come lei che si divertiva a sapere di esercitare del potere, un’attrazione, sulle persone che le gravitavano intorno.
Già.
Hank per un attimo si stupì nel vedere che quasi riusciva pure lui a leggerle in testa quello che stava pensando.
Tradimento, frustrazione, rabbia. Impotenza.
E Lorna forse, poverina, si poteva cercare di comprenderla, visto che nessuno avrebbe potuto giustificarla, ma le cose potevano solo peggiorare, e nessuno di loro si aspettava davvero che lei cambiasse idea.
O andasse a farsi sbollire la rabbia in un modo che fosse meno lesionistico.
Che anche lei potesse stupirli tutti, come aveva fatto Robert?
Hank sospirò, disarmato.
Certe fortune capitano una volta nella vita, non di più. Sperare in Lorna, dunque, era già matematicamente puntare sul cavallo sbagliato.
Forse solo il pensiero poteva essere più veloce di una scarica elettrica.
Forse, già.
Ma non avevano proprio nulla da perdere, a provarci.
E poi, dannazione!, sotto quello stesso tetto viveva il più potente telepate della terra! Anzi, per essere precisi, anche il tetto era del suddetto telepate, dunque, una volta che il suo intervento si sarebbe davvero mostrato provvidenziale, perché non si decideva a far sfoggio dei suoi mirabolanti poteri, limitando un po’ i danni?!
Di solito pensare ad insulti pesanti, diretti contro di lui, era un metodo poco elegante ma abbastanza rapido e sicuro per ottenere la sua attenzione: sperò che funzionasse anche quella volta.
___ CONTINUA..