LUCI FREDDE

 

PARTE: 3/24

 

AUTORE: Dhely

 

SERIE: X-Men

 

PAIRING: Jean Paul X Pietro

 

RATING: Pg-17

 

NOTE: i pg non sono miei, appartengono ai loro autori e ai loro editori. Questo non ha scopo di lucro, ma è solamente un esercizio di divertimento. E’ il seguito *diretto* di ‘Neve e ghiaccio’, anche se credo si possa capire anche senza aver letto le due parti precedenti.. comunque se vi interessa, le trovate sia sul sito dell’ysal www.ysal.it , sia sul mio.

___

 

“Hai avuto un altro incubo?”

 

Come risposta: una scrollata di spalle.

 

Faceva freddo quella notte. Jean Paul si alzò appena dal letto, allungando una mano verso il plaid che aveva sempre appoggiato lì, sulla poltrona accanto, e gliela posò sulle spalle.

 

“Non prendere freddo. Non voglio che ti ammali.”

 

Uno sguardo che, cocciuto, sfuggì il suo.

 

“Per la mia fisiologia, non posso ammalarmi, lo sai. Se succedesse, avrei delle variazioni di metabolismo per centottanta secondi al massimo e poi la mia funzionalità ritornerebbe quella di sempre.

 

Ma non si sciolse dal tepore che la coperta dava, e Jean Paul sorrise. Forse era stupido: forse proprio tutto quello lo era, forse non c’era nulla ad avere senso. Forse era inutile che lui perdesse tempo dietro ad un acido arrogante che scivolava così spesso in una misoginia assoluta, e nella totale sicurezza di non avere nulla da spartire con il resto del mondo. Però..

 

“Grazie, non è necessario.”

 

Ma: grazie.

 

Con Pietro c’erano queste sfumature che rendevano tutto differente, che facevano divenire accettabile ciò che mai sarebbe stato possibile. Uno sguardo e avrebbe affrontato qualunque cosa, perché quelgrazie’, per lui valeva così tanto che non si poteva dire, perché Pietro non ringraziava quasi mai, perché Pietro non lasciava mai che qualcuno si occupasse di lui.

 

Sospirò, coricandosi, osservando la figura che compariva appena nella luce tenue che proveniva dalla finestra, oscurata solo da tende pesanti.

 

“Sai che, se vuoi parlare, puoi farlo.”

 

“Sono solo brutti sogni, cose senza importanza, Jean Paul.

 

“Ma puoi parlare di.. di tutto quel che vuoi, anche di quello che non sogni.”

 

Un sospiro, e Pietro parve farsi più piccolo, stringendosi con forza nel plaid. Poi scosse appena il capo, e scivolò coricato, al suo posto.

 

“Ho solo avuto freddo. – un sorriso così pallido che Jean Paul credette di esserselo sognato. Pietro si tese verso di lui e appoggiò la fronte alla sua. – Adesso sto bene. La coperta e.. e te, mi scaldate.”

 

Chiuse gli occhi: rifiutando altre domande, pregando per l’impossibilità di altri contatti. Jean Paul sospirò e fece come gli aveva chiesto in silenzio. Solo, con una mano, gli sfiorò i capelli di platino e sorrise a quel tocco: bellissimi e morbidi.

 

Ti amo.

 

Lo pensò, non glielo disse.

___

 

 

“Sei sicuro?”

 

Ma sì, sì! Ha detto proprio così! E poi se ne è andato.. ma sai com’è Logan.”

 

Warren si limitò a socchiudere appena le ali mentre lo sguardo era fisso sul campo da baseball, a pochi passi da loro, dove dei ragazzini stavano giocando.

 

Sembrava tutta una grandissima assurdità..

 

Veramente tutta la sua vita poteva definirsi tale, per cui non aveva il diritto di considerarsi davvero stupito di qualcosa, certo era che, di tutto quello che si era aspettato quando aveva preso la decisione di ritornare a militare fra gli X-Men, quella era proprio l’ultima.

 

Erano diventati una scuola! Ma una scuola seria! Con gli insegnanti, la campanella che suonava, gli standard governativi da mantenere e tutto il resto!

 

E Bobby che si occupava dei ragazzi.

 

Roba da non crederci.

 

Ma dov’era finito il buon vecchio gruppo segreto che combatteva il male nascosto dai riflettori e dalla popolarità? E poi, se si era diventati famosi, perché si dovevano portare ancora quelle odiose tutine aderenti e utilizzare degli stupidi nomi in codice? Warren conosceva di persona almeno una decina di stilisti di fama che avrebbero pagato per potersi occupare del guardaroba ufficiale degli X-Men, ora. Inutile dire che quando l’aveva proposto a Xavier, il professore aveva avuto quasi un attacco di cuore. Lui, quell’uomo, non sarebbe mai riuscito a capirlo: teneva in piedi un gruppo del genere senza neppure un ufficio stampa! Era stato, quello, uno dei primi argomenti con cui si era trovato immediatamente in simpatia con Jean Paul che, pure se era un canadese, solitamente usciva vestito come un modello appena spiccicato dalle pagine di Vogue, griffato fin sulla punta dei capelli, che sapeva cosa volesse dire avere a propria disposizione un qualcuno che consigliasse sull’abbigliamento, la pettinatura, l’atteggiamento, gli incontri a cui partecipare, per essere perennemente perfetto, mai una caduta di stile, mai un crollo di tono.. se non quando si dovevano indossare quelle dannate divise, ma non era colpa sua, no?

 

Ritornò al presente, e ad un Robert stranamente silenzioso, lievemente mesto, tranquillo e assolutamente disinteressato del fatto che tre ragazzi stessero per picchiarsi proprio al centro del diamante.

 

“Allora, spiegami, adesso il problema qual è? Logan? Pietro? O che altro?”

 

Bobby sollevò appena gli occhi per puntarli nei suoi azzurro cielo, e sbuffò.

 

Ma perché se ti dico una cosa tu devi subito pensare che ci sia un problema?!”

 

“Niente. Così.”

 

Si strinse nelle spalle e si allontanò in silenzio.

 

E iniziò a contare.

 

Non arrivò a cinque, come al solito.

 

“Warren! Warren aspetta! – conosceva Bobby da dieci anni, e quel giochetto funzionava sempre. – E’ che.. dovrei parlarti.. insomma..”

 

Che è successo?”

 

Bobby voltò le spalle alla furiosa rissa in campo lasciando che fosse Scott a prendere in mano le redini della situazione. In fondo lui era il capo, no?

 

“E’ una sciocchezza, davvero, solo che.. mi sento stupido ma ho bisogno di dirlo a qualcuno..”

 

Warren lo precedette dentro, nell’ampio ingresso del corpo principale della scuola, indicandogli una delle sale comuni, ora vuote.

 

Se non era da Hank, voleva dire che era una cosa per il quale il loro dottore lo avrebbe preso in giro a vita, e questa conoscenza non serviva a restringere molto il campo. Però non era andato neppure da Remy, e la cosa era molto più interessante: affari di cuore? Il perché non avesse utilizzato il suo nuovo fidato consigliere, Monsieur Jean Paul Baubier non riusciva proprio ad immaginarselo, a meno che il problema fosse proprio lui.

 

“Allora?”

 

Si sedette su una poltrona, Robert fece altrettanto, su un divano lì accanto, le braccia strettamente incrociate sul petto.

 

“Mi sento un idiota, Warren.”

 

“Me l’hai già detto. Centra Jean Paul?”

 

“No. – scosse il capo, e il suo broncio si arricciò un po’ di più – E’ una notizia che ho sentito in giro, e so che è vera perché sono tutti contenti della cosa..

 

E? – poi Warren si ricordò delle chiacchiere entusiasti, dei pettegolezzi, delle rivelazioni semi ufficiali e della preparazione di una nuova camera nell’ala destinata gli insegnanti. – Alex? Sei preoccupato perché sta arrivando Alex?!”

 

Alex Summers, il fratellino di Scott. Quanto il loro Ciclope era serio, compito, rigido, semi dittatoriale, Alex era tutto l’opposto. Non che fosse proprio come Bobby, però era un tipo simpatico, senza contare il fatto che aveva passato metà della sua vita a fare il surfista di professione in California, il che denotava chiaramente quanto fosse differente da Scott. Eppure Warren era sempre stato certo che andassero d’accordo, Robert e Alex.

 

A parte quel piccolo, insignificante particolare..

 

Bobby si passò una mano fra i capelli, strattonandoseli con forza, poi sospirò.

 

“Non sono preoccupato per Alex, figurati! Sono contento che viene qui, siamo tutti contenti! Se ci penso, sarà un vero spasso! Solo che.. beh, lo sai..”

 

Ecco perché non ne aveva parlato con Jean Paul: perché il canadese era lì da troppo poco tempo e non lo sapeva.

 

“Viene anche Lorna?”

 

Bobby sospirò.

 

“Lorna.”

 

Ecco, fantastico: un sospiro, e uno sguardo da cucciolo smarrito, disperato e distrutto.

 

Cazzo: Lorna! La prima.. no, forse non la prima, ma di sicuro la più devastante cotta che Robert, e tutta la squadra, ricordasse. Una cosa che era entrata negli annali della storia e che, quando qualcuno, con secoli di ritardo si fosse degnato di scrivere la biografia dei primi anni d’oro del gruppo non avrebbe mai potuto dimenticare: Bobby-e-Lorna. C’era materiale bastante per dieci tesi di laurea, una ventina di saggi monografici e almeno una voce nella enciclopedia britannica.

 

Warren era convinto, però, che la storia fosse decisamente conclusa, dopo i due mesi di depressione assoluta in cui il cucciolo si era avvolto e crogiolato, con tanto di crisi di pianto e rifiuto di vedere chiunque.

 

Dall’espressione di Robert le sue sembravano solo vuote e rosee speranze nate già morte. Warren mosse leggermente le ali, sbattendole piano.

 

Quello era un guaio.

 

Beninteso: Lorna era  stata un guaio, fin dalla prima volta che l’avevano incontrata, e non credeva esistesse un motivo valido perché le cose fossero cambiate improvvisamente.

 

Warren si impedì di sospirare tristemente solo perché la cosa avrebbe decisamente nuociuto alla sua immagine.

___

 

Fotografare: Jean Paul si sentiva abbastanza stupido, tipo turista medio in vacanza, e questo, per lui non era affatto un complimento.

 

Restava il fatto innegabile che adorava fare fotografie, come se si potesse davvero fermare il tempo, imprigionare delle sensazioni per poi poterle ripetere ancora e ancora quando il ricordo fosse scolorito nella mente. Ed erano solo pezzi di carta plastificata fra le dita.

 

Distolse lo sguardo, sbuffando.

 

Tra le cento che aveva ammucchiate lì, non c’erano le fotografie che si portava dentro, che gli si erano incise nell’anima. Fotografie che ritraevano una scena che non aveva un luogo, fondali senza nome che servivano solo per catturare un’essenza, una sensazione: qualcosa che sfiorava l’impossibile per l’incanto dell’incredibile.

 

Per esempio, uno degli innumerevoli alberghi che avevano cambiato, di basso rango tutti simili tra di loro proprio come si rassomigliavano quelli a cinque stelle a cui era abituato lui. Eppure: una stanza misera pitturata di fresco, lenzuola pulite, un bagno singolo, una finestra tramite la quale vedere il cielo e dell’acqua calda era tutto quello che, Pietro diceva, sarebbe bastato.

 

In effetti era bastato.

 

In una di quelle vecchie stanze rimodernate, così antiquate che non avevano neppure una doccia, ma una semplice vasca, ricolma di schiuma e vapori che si alzavano per invadere ogni luogo, ecco, in una di quelle stanze ricordava Pietro, immerso in quel paradiso, abbandonato nel tepore, stravolto dalla fatica che, intuiva, doveva essere maggiormente quella di obbligarsi a una velocità normale che il resto, il capo reclinato all’indietro a mostrare quel magnifico collo indifeso e le palpebre chiuse. Sembrava una statua: la sua immobilità, la sua posizione, il completo, placido abbandono, il suo assorbire tramite ogni singolo senso tutte le sensazioni gradevoli che lo tramortivano.. e lo stupore del suo sguardo, addosso. Freddo e immediato, rapidissimo, un ghigno sbieco, la sua mano che, gocciolante si sollevava da sotto strati di schiuma perlacea e accarezzava, sensuale i bordi della vasca.

 

“Tocca.. non c’è da crederci..”

 

Le sue dita lente, a sfiorare quasi con lussuria quella superficie immobile e Jean Paul aveva dovuto obbligarsi a compiacerlo perché, fosse stato per lui, sarebbe rimasto lì a guardarlo, così, stupidamente, per ore che seguivano ore, senza senso, senza un motivo, senza.. la vasca era di *pietra*. Non era in uno di quei materiali obsoleti e smaltati in cui solitamente ci si imbatteva: era porosa e strana, lievemente ruvida e sotto le dita era così differente.. chissà cosa si provava a coricarcisi dentro, con l’acqua bollente, il vapore, la schiuma, il sapone e tutto il resto? Quella sensazione sconosciuta, e forse inaspettata bastava a far dipingere sul volto di Pietro un’espressione simile?

 

Sì, bastava.

 

Era incredibile.

 

Come era incredibile ballare.

 

Lungo un litorale qualsiasi che dava su un mare ignoto. Nonostante il temporale, i fulmini che squassavano il cielo, i tuoni che rotolavano urla ovunque. La pioggia che scrosciava terribile, senza una pausa, senza un cedimento, che era continuata per ore ed ore.

 

Si intuiva appena la melodia cantata in una lingua straniera, proveniente da una radiolina messa al riparo da una lamiera che forse, in tempi meno freddi, sarebbe servita a far ombra a un chiosco o a uno stupido negozio per turisti. E solo il temporale, l’inferno, il buio solcato da lampi d’argento, e come essi c’era Pietro.

 

Bianco, di più: scintillante, di mercurio, nervoso e veloce. Un fulmine, anche lui, come quelli che spaccavano il cielo.

 

Ballava.

 

Jean Paul non aveva mai neppure immaginato che Pietro potesse lasciarsi andare così tanto da mettersi a ballare. Eppure lo faceva, là in quel posto senza nome, dove finiva la terra e incominciava il mare, sull’acqua, nell’acqua, i capelli appiccicati alla fronte, gli abiti leggeri, scuri e zuppi, incurante del freddo, e dell’infuriare degli elementi intorno a loro. Solo lui e Jean Paul che ballavano.

 

Forse avrebbe potuto anche non esserci alcuna musica che sarebbe stato lo stesso, che le sue movenze sarebbero state comunque quelle, che le sue braccia l’avrebbero avvolto in quel modo, e i baci a leccargli via la pioggia che li inzuppava ma che non faceva loro alcun male.

 

Jean Paul non aveva mai provato una sensazione simile: era davvero tornato ad essere quel bambino che, forse, non era mai stato, ma il cuore gli si era gonfiato, riempito, e gli pareva che non potesse esistere nulla di più bello che stare stretto a Pietro, muovendosi a tempo con i lampi che scendevano dal cielo, gli abiti tanto fradici che era come essere nudi, e solo baci a mangiare baci, a inghiottire il fiato e il profumo e il presente non era nulla, era solo loro due, lontani dal passato, dimentichi del futuro. Non avevano niente, se non loro stessi. Ed era così tanto, allora, era quello un possedimento così pesante e denso da non crederlo possibile.

 

Pietro era così sensuale da sembrare osceno.

 

Osceno, nella sua esplicita mancanza di pudore. Nella sua inconfessabile incapacità di vedersi, di guardarsi, e scoprirsi attraente.

 

Come quando erano partiti, indossando un paio di jeans sbiaditi, dagli orli sfilati che coprivano le scarpe da tennis, un taglio, uno strappo sul retro di una coscia che faceva balenare appena la pelle chiara sottostante: solo per quello aveva visto almeno una decina di persone pronte a dare la vita per potergli anche solo parlare. Pietro aveva nascosto lo sguardo dietro occhiali da sole, e non li aveva neppure notati.

 

Pietro non lo sapeva, forse, cosa poteva fare col suo corpo, con un suo sguardo. Non lo sapeva, e indossava se stesso con una tranquilla incoscienza, con una così oziosa mancanza di riflessione che era stupefacente.

 

Come era stupefacente osservare il suo profilo assopito nel riflesso del vetro scuro d’un treno che percorreva la notte, accucciato su un sedile scomodo, il capo appoggiato di lato, le labbra appena socchiuse, gli zaini spinti sotto i sedili e solo il leggero dondolio del movimento a far loro da sottofondo.

 

Non c’era nulla: Jean Paul l’aveva scoperto in quei momenti, in quelle fotografie non scattate. Non esisteva nulla al di fuori di loro, al di là di ciò che li univa. Tutto quanto, al di là del vetro, correva e passava, solo loro due rimanevano.

 

Pietro aveva tutto un altro approccio a quel viaggio, ma era giusto così. In fondo quello era il suo viaggio, lui era lì per un motivo, mentre Jean Paul.. Jean Paul era lì solo per Pietro. E aveva imparato che si poteva sentire il vuoto scorrere come un vento gelido sulla pelle e, insieme, sentirsi protetto e al sicuro. Tranquillo.

 

Come non si era mai sentito.

 

Ora cosa era rimasto? Se l’era domandato con una sorta di ansia mordente, mentre teneva quelle fotografie fra le mani, mentre ripensava a quelle che non era riuscito ad immortalare.

 

Loro due.

 

____ CONTINUA..