Lost
(and found
you, today)
Di N
Chapter 3 - A
family
Finalmente il
furgoncino si ferma davanti a quella che dovrebbe essere la casa del do’aho.
È una villettina a due piani, piccola e ordinaria. Di fianco, c’è una
rimessa per il furgoncino e il giardinetto dimostra chiaramente che lì
ci vive un bambino. La biciclettina abbandonata in un angolo, i giochi
sparsi. Sanno di risate e felicità. E a me viene da vomitare.
“Scusa il casino, ma
non riusciamo ad inculcare a Kaede il senso dell’ordine!” dice con un
sorriso. È lo stesso che ha usato quando parlava con lui. Potresti
almeno fingere di non essere così perfettamente felice?
“Vieni. Ti abbiamo
approntato una stanza qui al pianto terra, così non dovrai fare le
scale. Di fianco c’è il bagno.” Continua a parlare a ruota libera,
mentre io osservo la casa. Con il sottofondo delle sue chiacchiere,
osservo il salotto piccolo, ma accogliente, e do uno sguardo alla
cucina, dove noto disegni di bambino appesi qua e là.
“…allora, Rukawa?”
Non ho ascoltato una
parola. Come un tempo, lui lo capisce solo dal mio sguardo, nonostante
io non abbia fatto nulla per farlo trapelare.
“Ma imparerai mai ad
ascoltare le persone? Comunque ho chiesto se avevi fame.”
Un tempo ti ho
ascoltato, Do’aho. Oh, se ti ho ascoltato! Un tempo ero attento ad ogni
tuo mormorio, ad ogni grido. Ma. Ma quel tempo è passato e con esso la
mia voglia di ascoltare qualsiasi persona. Te compresa.
“No.”
“Ok. Comunque l’ora di
pranzo non è lontana. Vuoi cambiarti? Darti una lavata? Ti posso
aiutare?”
lui ora è di nuovo il
ciclone dalle mille parole di un tempo. Io la stessa persona di poche
parole. Ma che ha imparato a usarle bene, quelle poche.
“No. Perché si chiama
Kaede?”
lo voglio sapere. Lo
devo sapere.
Lui mi guarda per un
momento in maniera per me indefinibile.
“Così ha voluto sua
madre” mi risponde con un mezzo sorriso e un piccolo sbuffo.
“Ho sete.” È tutto
quello che riesco a dire.
Siamo in cucina, io
seduto al tavolo con la gamba appoggiata ad un’altra sedia, lui in giro
a trafficare per farmi avere un thè freddo.
Noto i disegni. Li
studio bene, ora. In molti, ci sono scene di pallacanestro. Riesco a
riconoscere benissimo il rosso dei capelli del Do’aho, in quasi tutti.
Ma ce ne sono un paio che mi lasciamo perplesso.
“E quelli che
sarebbero?” mormoro, fissando lo sportello del frigo a cui sono fissati
un paio di disegni stranissimi.
Sono scene di
pallacanestro, ok. Ma i protagonisti hanno coda e orecchie da animali!
Non riesco capire che animali, però.
Lui ha sentito il mio
mormorio e imbarazzato mi dice un veloce ‘nulla’ che mi lascia più
incuriosito che altro.
Si avvicina l’orario di
pranzo e lo vedo iniziare ad armeggiare attorno ai fornelli, mentre io
rimango seduto ad osservarlo. Si muove veloce, come una persona che
compie gesti abituali e io mi perdo.
Mi ritrovo ad
immaginarci qualche anno più giovani, iscritti alla stessa università.
La stessa squadra, la stessa cucina. Lo stesso letto. Osservo la sua
schiena e i suoi capelli spettinati. E mille desideri affollano di nuovo
la mia mente. Dovrei odiarlo. In realtà, la maggior parte del tempo, lo
odio. Anche adesso, non posso far a meno di incolparlo di questo gesso.
E di essere sparito dalla mia vita. eppure. C’è qualcosa di molto più
forte che mi spinge ad osservarlo, a catturare ogni sua curva come una
fotografia di felicità sfiorata. Qualcosa che pensavo fosse morto da
anni. E invece…
Il rumore dei bicchieri
sulla tavola mi riscuote. Sono tre. Non pranzeremo soli, desumo.
Lo guardo di sottecchi
e lui mi spiega, senza bisogno di domande.
“Tra poco ti presenterò
Midori, dovrebbe essere qui a momenti. Vedrai, ti piacerà! Di solito è
lei che alla mattina sta a casa dal negozio per mettere a posto la casa,
ma oggi era una situazione particolare e così…”
negozio? Vuoi vedere
che…
“negozio?”
“Sì. Frutta e verdura.
Non hai letto la fiancata del furgoncino? Era di Midori e io ora sono il
suo socio!”
sto per rispondere, ma
uno squillo interrompe tutto. Sento poi la porta aprirsi e una voce dare
il buongiorno. Strano, non sembra appartenere ad una persona giovane.
Hana le risponde allegro di raggiungerci in cucina e io mi preparo a
conoscere…
chi diavolo è questa?
Avrà 50 anni!!! È veramente lei, la moglie del Do’aho???? La madre di
suo figlio??? NO. Impossibile.
“Ecco, Midori. Questo è
Kaede Rukawa, il mio amico di cui ti ho parlato. Rukawa, lei è Midori
Takahashi!”
“E così tu sei il
famoso Rukawa… piacere!. Sarà un onore ospitare la famosa…”
“Midori!!” esclama un
Sakuragi rosso gambero…
“ok, ok..
Hana-chan. Ho
capito! Spero che starai bene, qui. Non possiamo offrirti molto, ma
cercheremo di far di tutto, perché ti possa sentire a tuo agio, qui da
noi. Mi impegnerò anche a legare i due cicloni, se dovessero darti
troppo fastidio…”
“Midori! Io e Kaede non
siamo cicloni!! Smettila di prendermi in giro come se io non ci fossi!”
‘Io e Kaede’… mi piace
questo, detto da lui. Peccato che il ‘Kaede’ non sia riferito a me. Io
non potrei mai essere considerato un ciclone…
“Non si preoccupi. Non
vi disturberò a lungo. Grazie” rispondo educatamente all’allegra
signora, che ho davanti. E mi convinco che non è la moglie del do’aho. E
allora: chi cavolo è?!
Li ascolto
chiacchierare tra loro, di amici, conoscenti e clienti. Midori mi spiega
che hanno un negozio ben fornito, uno dei primi della città! E mi
racconta scene buffe e aneddoti.
Hana appare invece più
distaccato, come se cercasse di spiegarmi il meno possibile. E invece,
di cose da dirmi ne avrebbe. Ha cinque anni di arretrati e sta lì a fare
da spalla a questa simpatica signora, invece che investirmi con le sue,
di parole.
“Rukawa-san scusa, ti
ho investito con le mie chiacchiere. Sarai stanco! Che ne dici di andare
a riposarti un po’?”
Accetto volentieri il
suggerimento di Midori, come mi ha detto di chiamarla. Lei ancora non
riesce a togliere il suffisso ‘san’ dal mio nome… a forza di trattare
con i clienti, le è impossibile non chiamare qualcuno per cognome senza
il san… ma non ho suggerito che mi chiamasse Kaede.
Vado nella stanza che
mi hanno assegnato e la sento tipicamente femminile… questa è la stanza
di Midori, in realtà. Lo capisco anche dalle foto che ci sono. Una è del
do’aho con il piccolo, davanti ad una torta di compleanno. L’altra, di
due ragazzi che sorridono felici all’obbiettivo. Lei è evidentemente
incinta… e lui la cinge amorevolmente da dietro. Chi saranno?
Mi sento come
catapultato d’improvviso in una realtà non mia, in una storia non mia. E
riscopro che in fondo è proprio così. Quella è la vita del do’aho. Vita
che non mi sfiora nemmeno più. O almeno, non mi sfiorava fino a ieri.
Ho il mal di testa.
Meglio dormire. Chiudo gli occhi.
Mi alzo intontito e
esco dalla stanza. Mi aggiro incerto e arrivo nella piccola cucina. Devo
aver dormito più di un paio d’ore, la luce del pomeriggio è meno forte.
Più rassicurante.
“Ben svegliato! Vuoi
qualcosa da bere?”
è la voce di Midori che
mi accoglie. Accetto volentieri. Ho una sete pazzesca.
“Hana-chan aveva
proprio ragione… sei da guinness dei primati in fatto di sonno! Hai
dormito due ore e mezza nonostante tutto il rumore che ho fatto nel
rimettere a posto casa… e io che mi preoccupavo!”
“Hn”
“Comunque questo è un
bene.. alla mattina, qui… beh è un po’ movimentato… e, a proposito di
movimento … goditi questa pace, che tra poco saranno qui i due cicloni.
Oggi niente allenamenti al parco con i ragazzi!”
Alzo un sopracciglio,
ma non dico nulla. Lei traffica veloce… in questa casa, tutti passano il
proprio tempo a preparare del cibo?
“Hai preferenze o
allergie particolari? So che è strano preparare già la cena… ma con
Kaede a casa diventa un’ impresa… e visto che ho tempo ora, preferisco
fare ciò che posso con più calma. Senza preoccuparmi che quel terremoto
si possa tirare qualcosa addosso… se vuoi, puoi andar a guardare la tv
di là. O andare in giardino…lì c’è il giornale di oggi.”
Visto il caldo, afferro
il giornale e con le stampelle mi reco in giardino. Mi piace come lei mi
abbia chiesto se avevo bisogno d’aiuto… mi ha detto semplicemente ‘se mi
vuoi, chiama’. E mi ha lasciato libero di arrangiarmi. Potrei quasi
riuscire a sopportare di stare qui. Un paio di giorni.
Mi siedo su uno sdraio
in giardino e appoggio la gamba su una sedia in plastica lì vicino. Mi
godo il venticello e l’ombra.
Distrattamente leggo i
titoli e un po’ dello sport. Non mi sono mai interessato molto a quello
che accadeva nel mondo.
Improvvisamente, sento
delle risate provenire dalla strada. E dopo un attimo, vedo entrare dal
cancello Hana e Kaede, che ridono insieme.
Quando la risata si
spegne, Hana fa scendere dalle spalle il piccolo e mi viene incontro,
tenendolo per mano. Poi ci presenta.
“Kaede, questo è il
signor Rukawa. Ti ho già detto che si fermerà con noi un po’ perché si è
fatto male, no? Su, fa vedere quanto sei educato.”
Il bambino mi guarda
incuriosito, ma obbedisce e fa un buffo inchino ”Piacere, Kawa-san!”
Poi rialza la testa e
mi fissa. Non penso sia intimorito. Primo, perché sono steso e non erto
in tutta la mia altezza; secondo, perché Hana è alto anche più di me.
Mi studia attento. Poi
all’improvviso esplode in un grido meravigliato ed inizia ad urlare:
“Kitune!!!!!! Kitune!”
io lo guardo sotto shock e Hana si fa bordeaux mentre cerca di calmarlo.
“No, Kaede, no. Ma
secondo te, è lui??? NOOOO… è molto più brutto e meno bravo… ti sei
sbagliato. “
io non ci capisco
molto. Ma sbaglio o il bambino gridava ‘Kitsune’???
“No, lui è un mio
amico. Pensi che se conoscessi Kitune, non te l’avrei detto?”
Kitune? O Kitsune… l’ha
detto così per prenderlo in giro, per non far capire a me, perché si
chiama Kitune?
Non ho il tempo di
pensare oltre perché il bambino, dopo un cenno di comprensione, ha
ripreso ad esaminarmi. Mi gira intorno e tocca il gesso, chiedendo
spiegazioni.
Ed Hana gliele dà.
Paziente. Ora capisco come e perché ha imparato a dominarsi… ha trovato
pane per i suoi denti!
Presto mi trovo a
partecipare ad un monologo del piccolo, che un’ora dopo mi ha edotto su
tutti gli amichetti dell’asilo, del campo… su quanto è bravo il suo papà
a giocare a basket, su quanto sono schiappe quelli che allena… e sul
fatto che da grande farà il giocatore di basket e batterà il grande
Kitune. Per dimostrarmelo, va al piccolo canestrino montato in un angolo
e inizia a tirare…e a me viene da ridere. Esagerato. Diciamo da
sorridere. Lo vedo impegnarsi con la lingua che spunta attraverso le
labbra e il visino concentrato. Non riesce subito, ma non demorde. E
quando finalmente ce la fa… lo vedo voltarsi con sguardo fiero e dirmi
un “Visto?” che è tutto un programma… e mi viene da ridere, perché ha la
stessa identica espressione che aveva Hana ogni volta riusciva in uno
dei suoi canestri da pazzi.
“Un giorno sarò il
migliore e batterò la Kitune. Sono un Tensai!”
e io, terrorizzato e
divertito, gli dico di impegnarsi.
Poi guardo suo padre
che è seduto sull’erba di fianco al mio sdraio. Ha lo sguardo fisso in
avanti ed è chiaramente in imbarazzo. Il sole gioca con il suo profilo.
E io mi sento parte di una scena familiare, ma non come elemento
estraneo e fuori posto.
“Chi è Kitune?”
Lui arrossisce. “Un
personaggio come tanti” risponde. Ed entrambi ci perdiamo nel tirare a
canestro del piccolo.
Dopo cena. Sono sul
divano che guardo la TV. Kaede è sul tappeto che gioca e Midori legge
sulla poltrona. Hana è di sopra a non so che fare.
Scende e pare pronto
per andarsi ad allenare. È in pantaloncini e maglietta e nella sacca che
ha sulla spalla si intuiscono le forme di un pallone. Cosa?
Lui e Midori si
guardano e lei, scuotendo la testa, lo rassicura: “Va’ e non ti
preoccupare. Al forte ci penso io” dice con un sorriso. “Solo: sta
attento.”
“Non ti preoccupare.
Sono un Tensai!”
In quel momento, il
piccolo lo nota e lasciando i suoi giochi va da lui… “Kitune. Voglio
vedere la Kitune!”
“lo sai che ora è in
vacanza. Ha appena vinto il campionato, avrà diritto a divertirsi, no?”
“uffi… io la voglio
vedere giocare! Tu dove vai?” Sveglio il bimbo! Su questo deve aver
preso dalla madre…
“Te l’ho già spiegato
ieri… stasera vado a giocare con dei miei amici. Tu non puoi venire,
perché faremo tardi e i futuri campioni devono andare a letto presto… se
no, poi ti addormenti durante il giorno. Secondo te, la kitune si
addormentava mai a scuola? No, perché era bravo e dormiva tanto alla
notte!”
Dicendo questo, sento
che sta per ridere e noto che mi guarda ironico di sfuggita. Io mi
rifiuto di capire quello che il cervello suggerisce…
“Ora, fa’ il bravo e
non fare i capricci. Fra un po’ Midori ti farà il bagnetto e poi ti
racconterà una fiaba.”
“Della scimmia rossa e
della kitsune nera? Con la squadra del Sonno?” stavolta non ho
sbagliato, non ho capito male. Allargo i miei occhi stupito e li punto
su Sakuragi. Lui è arrossito, ma persiste nel guardare fisso il bambino.
“No… te ne racconterà
una diversa… quella te la racconterò poi… Ora devo andare. Fa’ il
bravo!”
“ok… ufff…” mormora il
piccolo un po’ deluso. Lui ci saluta velocemente e se ne va. Che strano.
Mi sembra quasi che scappi.
Rimango lì con Midori e
Kaede. Presto, lei porta il bimbo a farsi il bagnetto e a prepararsi per
la notte. E io rimango a riflettere su quei nuovi particolari che ho
sentito… e a farmi molte domande. Troppe.
Vengo distratto da una
vocetta che mi augura la buona notte e mi ritrovo una scimmiottina
abbarbicata addosso che mi dà il bacio della buona notte su una guancia.
“Notte. Kitune” la
seconda parola è un sussurro complice, detto con occhi scintillanti. Io
rimango incerto. Non sono abituato al contatto fisico. E ancora meno, lo
sono a un bambino di 4 anni. Rimango rigido e mormoro un ‘buona notte’
che un po’ lo delude.
Midori si scusa e me lo
stacca, portandolo a dormire.
Dove diavolo è Sakuragi?
Perché, ogni istante che passo in questa casa, nella mia testa si
formano migliaia di domande??
Midori dopo un po’
ritorna. Io nemmeno mi accorgo bene di ciò che fa. Dopo un po’ mi
riscuote il rumore della tv che si spegne. La guardo un po’ sorpreso.
“Tanto stavi facendo di
tutto, tranne che guardarla” dice lei, con un sorriso e un’alzata di
spalle.
“Io…”
“Tu?”
“nulla”
Non andrò certo a
chiedere spiegazioni. A me non importa nulla del do’aho, della sua
famiglia e di tutta questa situazione.
“Sai, Hana non parla
mai degli amici che ha lasciato a Kanagawa. Della vita che faceva prima.
E così mi chiedo quanto abbia parlato a voi della vita che fa adesso.
Non l’ho mai visto telefonare a qualcuno che non fosse Mito… né scrivere
lettere. Come vi tenevate in contatto?”
“non ci tenevamo in
contatto. Ci siamo incontrati…”
“per caso, ieri. Me
l’ha detto. Deve essere stato un colpo per te, allora. Ritrovarlo dopo
anni, con un bambino, un lavoro e una vecchia per casa.”
“lei non è vecchia”
protesto per gentilezza. No, non è vecchia. Ma è molto più anziana di me
e Hana. Potrebbe essere nostra madre.
“E scommetto che quello
zuccone non ti ha detto niente”
“Hn.” Faccio. Come per
farle capire che non gliel’ho nemmeno chiesto.
“Hana è il fratello di
mia nuora. Lei e mio figlio… è una lunga storia. Semplicemente, non sono
più qui.”
E da come dice questa
frase, capisco dove siano ora. Mi torna in mente la foto che c’è nella
camera e allora
“Kaede è vostro
nipote.”
“già, Hana si considera
suo padre. E si comporta come tale. Il resto, beh… quello te lo dirà
lui. Se vorrà”
e rimaniamo in
silenzio. Lei a leggere ed io a pensare.
E’ tardi. Dei rumori in
casa mi risvegliano. Sono andato a dormire abbastanza presto. E Hana non
era tornato. Sento qualcuno dirigersi in cucina e mi accorgo di avere
sete.
La luce è spenta.
Eppure nell’ombra intravedo una figura, che non può che essere lui.
Accendo la luce ed
entro. Lui sobbalza e, ancora attaccato al cartone del succo di frutta,
mi guarda arrabbiato.
“K’so, Rukawa. Mi hai
fatto prendere un colpo! Che ci fai ancora in giro? È tardi!”
È completamente sudato.
La maglietta gli si attacca addosso e i corti capelli sono ancor più
stravolti. È bellissimo. Pensiero stupido.
“Sei stato ad
allenarti?” che diavolo di domande faccio?
“Sì. Domenica prossima
c’è un mini torneo per dilettanti in città ed io e un paio di amici
parteciperemo…”
Parla a bassa voce. Ma
sento che c’è dell’altro. Vedo il livido che gli si sta formando sotto
all’occhio. Nel parlare ha abbassato il cartone.
“Che diavolo hai fatto,
lì?”
“dove?” “sotto
all’occhio. Hai un livido!”
“oh, beh.. una botta.
Ora vado a lavarmi e poi a nanna. Domani io devo alzarmi molto presto
per andare al mercato e aprire il negozio… ma ci sarà comunque Midori,
in giro per casa.”
“Sakuragi…” “hn?” mi ha
già superato, per andare in bagno. Io l’ho chiamato per fargli domande,
ma. Ma c’è un vistoso livido su un suo polpaccio, e questo mi ferma.
“Con chi diavolo ti sei
allenato??? Sei pieno di lividi!” e osservandolo, noto ora che ha anche
un paio di cicatrici. Che sicuramente non aveva, quando giocavamo
insieme.
“Andiamo! è solo un
graffio. Non ti capita mai? Ora scusa, ma sono a pezzi!”
E, silenzioso, se ne va
in bagno.
Io zoppico fino alla
stanza e mi sdraio sul letto. La caviglia mi pulsa, l’ho sforzata
troppo. Il rumore della doccia mi culla e io immagino il corpo del Do’aho
avvolto dal getto. E alla mente mi ritornano i lividi e le cicatrici. E
questi, alle nostre risse e ai nostri scontri. E questi di nuovo al suo
corpo contro il mio, quella volta, abbracciati per festeggiare. O
semplicemente perché avevamo bisogno l’uno dell’altro. Mi chiedo come
sarebbero andate le cose, se quella volta io non mi fossi limitato ad
abbracciarlo… se le nostre vite si sarebbero comunque divise, in questo
modo… se… Mi ritrovo a sorridere, mentre penso che, per una domanda a
cui trova risposta, la mia mente ne formula mille che mai troveranno
soluzione.
End chapter 3 - A family
I personaggi
appartengono al loro creatore.