Lost (and found you, today)

 

Di N

 

Chapter 1 - new start

 

I Cure, a volte, sono l’unica salvezza.

Ascolto la batteria ritmare i passi e i miei pensieri. E cerco di perdermi un altro po’.

Ma non ci riesco e la conversazione con Mitsui, avuta più di un’ora fa, si sovrappone al cantante.

 

“Tornerai a Kanagawa, prima di ripartire?”

“Hn”

“E’ un sì?”

“E’ un non so. Non ho molto, laggiù.”

Lo rivedo guardarmi incerto e grattarsi il mento, pensieroso.

“Un salto potresti farlo, potremmo chiamare gli altri. Rivederci…”

 

Non ha avuto bisogno di specificare chi fossero questi ‘altri’; entrambi lo sapevamo più che bene.

Ma questo non è uno stimolo al tornare là, semmai un deterrente.

Non sono pronto per incontrarli, con il rischio che ci sia anche lui. Rischio molto ipotetico, visto che è sparito nel nulla, anni fa. Però so che ci sarebbero sicuramente i ricordi. E ho paura che questi portino ancora il suo profumo, come marchio.

No, decisamente non devo proprio tornare a Kanagawa.

Per fortuna, anche con lui ho cambiato discorso…

“Mi sembra che tu sappia perfettamente come stanno gli altri. A proposito, come se la passa Kogure?”

Mitsui, a quel punto, ha accennato un sorriso… “Bene, grazie. E’ impegnato nel suo primo anno di insegnamento… ed è il vice allenatore della squadra di basket della scuola… comunque, non era per me che volevo organizzare la rimpatriata…”

“allora, risparmiati la fatica”

 

E ora sono qui, nuovamente solo,  per fortuna.

Molti degli altri sono già partiti, per tornarsene alle rispettive squadre e case. Io, al momento, non ho nulla a cui tornare; così passeggio con calma per questa cittadina così simile alla mia…

Devo ammettere che in questi anni il Giappone ha suscitato in me sentimenti contrastanti. Da un lato è ancora la mia casa. Non credevo potesse accadermi, ma, vivendone lontano per lunghi periodi, ne ho sentito molto la mancanza.

Eppure, quando ci devo tornare, provo timore. Ma questo non penso sia legato al paese…

 

Mi appare davanti l’entrata di un parco. Ha vialetti alberati e prati verdi. Tutto è un trionfo di piena estate.

Mi rilasso e sto quasi per mettere il pilota automatico quando, qualcosa mi sfreccia davanti. Un bambino di 3-4 anni che insegue un pallone da basket. Inseguito da una voce.

“Kaede! Kaede!!! Torna immediatamente qui!!! Lo sai che non ti devi allontanare da solo!!!”

e fulmineamente bimbo e palla vengono raccattati da un ragazzo, che poi si volta verso di me, pronto a scusarsi.

 

Ma in realtà cade il silenzio. Nessuno di noi due riesce a parlare, mentre il bimbo inizia a tirargli i capelli, chiamando papà.

 

Dopo 5 anni è la prima volta che io, Kaede Rukawa, rivedo Hanamichi Sakuragi.

 

“Papà!”

 

è la voce del bambino a far ripartire la scena. Ciak innocente di una giornata, ora per me, troppo calda e afosa. Lui mi guarda e accenna un sorriso. È imbarazzato e stupito. In fondo lo sono pure io. Soprattutto stupito.

“Ehm… ciao, Rukawa…”

 

“Saku-san, muoviti a prendere la palla! Dai! Dobbiamo continuare a giocare!”

 

Altre voci mi distraggono dalla contemplazione del ragazzo che ho avanti a me. O forse dovrei dire ‘uomo’. Il bambino gli si è arrampicato fino alle spalle e ha iniziato a tirargli una ciocca. Lui lo solleva con un sorriso.

Sorriso. Improvvisamente mi rendo conto che questa parola descrive un gesto come se fosse sempre uguale e costante.

In realtà non lo è.

Non lo è, perché ricordo perfettamente tutti i sorrisi che Sakuragi ha fatto in mia presenza e mai ne ho visto uno come quello che ha appena rivolto al bambino.

Familiare, caldo. Lucente.

“Kaede, quante volte ti devo dire di non correre dietro a tutte le palle?” sbuffa in un tono finto arrabbiato, che inganna solo il bambino. E forse non del tutto…

“Scusa. Partita continua?”

“sì, piccolo. E tu starai buono, ok?”

“ok!”

 

Finalmente mi guarda di nuovo. Pensava che, facendo finta di niente, io gli sarei sparito da davanti? Sei ingenuo come sempre, Scimmia!

 “Scusa, ma ora devo tornare dai ragazzi. Se non li tengo sotto controllo, sono capaci di combinare cose pazzesche!”

 E si volta, per andarsene. Rimango immobile sul posto e lo vedo depositare il bimbo a bordo di un campetto da basket ed entrarvi con fare determinato.

Riporta, con poche parole ferme, l’ordine tra i ragazzini e fa riprendere una partita di cui lui, evidentemente, era l’arbitro.

 

Io mi avvicino al bordo campo e osservo in giro. Lui che arbitra in modo giusto e imparziale, i ragazzi che lottano per la palla, il bimbo che gioca con alcune costruzioni.

Rimango affascinato dall’impegno del piccolo, per far star ritta una costruzione e, istintivamente, mi avvicino a lui, inginocchiandomi, per aiutarlo.

Quando ci riusciamo, lui improvvisamente la colpisce. Mentre i pezzi cadono, ride e alza il visino per guardarmi.

E due occhi nocciola, luminosi e vitali, si fissano nei miei. Solo quando il bimbo viene distratto dagli urli dei ragazzini, mi accorgo di aver trattenuto il fiato.

 

E mi rendo conto di aver già visto in passato degli occhi simili guardarmi così. Per rendermi partecipe di felicità e orgoglio…

 

Mi alzo in piedi. E mi concentro sul possessore di quegli occhi simili, che ora sta sgridando un ragazzo per un brutto fallo commesso.

E improvvisamente, la rabbia che ho sepolto sotto ore di allenamento, torna fuori. Come una di quelle scatole con un pupazzo, che salta fuori a spaventare chi prova ad aprirle.

Fisso il ragazzo - ormai uomo!- che l’ha provocata anni fa, con tutto il mio odio, il mio disprezzo, la mia ferocia. Gli pianto addosso due stiletti di ghiaccio. E lui se ne accorge. Ha sempre avuto la capacità di capire quando anche solo pensavo a lui… e ora, lo vedo sbalordito tentare di non finire schiacciato da tutto ciò che provo.

Ma io lo voglio schiacciare, lo voglio umiliare.

 

 

“Ok. Basta! Per oggi finisce qui! Tutti a casa!”

“ma è presto.. c’è ancora luce…” “ancora cinque minuti…”  grida di protesta si levano, ma l’arbitro è inflessibile.

“No è tardi! Se non vi mando a casa puntuali, poi chi le sente le vostre madri, domani?”

“ma almeno facci vedere il numero per la gara di domenica!”

“Ehm.. non è ancora pronto… facciamo domani…”

Sbuffo generale.

“Prometto. Stasera lo perfeziono e domani l’altro ve lo mostro!”

“ci contiamo…”

 

Dalla mia postazione di fianco al bimbo, vedo il gruppetto allontanarsi piano, scambiandosi saluti e battute. E lui venire verso di me. O meglio, di noi.

 

“Ciao.”

“ti sfido”

“Cosa?”

“Do’aho, sei forse diventato sordo? Ho detto che ti sfido… in fondo ti devo ancora un one-on-one, no?”

mi fissa. È indeciso. Dovresti fuggire, altro che tentennare, idiota!

In realtà voglio che accetti, per andare sul campo e umiliarti. Per andare nel mio elemento naturale e avere la meglio su di te. È sleale? Non me ne frega un cazzo. Ora voglio solo ferirti, come mi hai ferito tu, sparendo senza nemmeno una spiegazione. Senza un addio.

 

Alcuni dei ragazzini mi hanno riconosciuto e, mentre si stavano avvicinando per degli autografi, hanno sentito il nostro discorso.

Sono rimasti stupefatti perché conosco il loro allenatore e perché l’ho sfidato…

“Dai Saku-san! Fagli vedere chi sei!”

lo incitano. Devo dire che sono i degli allievi di un allenatore do’aho… come pensano mi possa battere?

“Come pensate possa battere uno dei migliori giocatori dell’nba?”

è lui ad aver parlato… guardandoli con una comica espressione sgomenta.

“Cosa c’è? Il Tensai ha paura di essere umiliato nuovamente?”

Lo sto provocando. Perché? Non mi basta che abbia ammesso di essermi inferiore? Che sono uno dei migliori? E, presto, sarò il migliore…

No. Lo voglio di nuovo tra me e il canestro. Devo averlo, di nuovo, tra me e il canestro.

È un bisogno che so da sempre di avere. Il confrontarmi nuovamente con lui. Avrei preferito farlo in una partita ufficiale, magari proprio dell’nba… o magari in un one-on-one nel campetto del parco vicino a scuola, anni fa… ma ciò avrebbe implicato molte cose che non sono accadute.

Così mi accontento di averlo ritrovato ora e mi aggrappo con tutte le forze a questa mia occasione.

Chi se ne frega se dovrei riposare, per via del piccolo infortunio di ieri!

Lo vedo guardarmi ancora indeciso e allora lo provoco nuovamente.

“Sei forse diventato un codardo?”

Vedo la sua mascella contrarsi e, per un istante, nel suo sguardo rivedo il bagliore che lo contraddistingueva un tempo… di furia e determinazione a vincere.

Gli occhi gli splendono infuocati…

“E sia. Ai venti. Palla al principiante, cioè a te.”

Dice voltandomi le spalle e dirigendosi verso un canestro. Poi si blocca

“Seto. Stai attento a Kaede mentre gioco, per favore. Non vorrei che si allontanasse o si facesse male, mentre sono distratto.”

Kaede… che buffo sentire il proprio nome pronunciato da quella scimmia in un tono così dolce… per un momento, inconsciamente, vacillo nei miei propositi di vendetta. Ma è solo un attimo.

 

E ora siamo uno davanti all’altro. E, dopo molto tempo, mi sento vivo. E pure lui, lo sembra. Vivo e bellissimo. È più alto, forse anche più massiccio. I capelli corti come un tempo e gli occhi… quelli sono la cosa più diversa in lui.

Sono occhi più maturi e meno ingenui. Più freddi e controllati. Ma una cosa rimane: la determinazione e la forza.

Mi stanno guardando fieri, aspettando che inizi la danza.

 

È il rumore del pallone che rimbalza a terra che dà il secondo ciack al nostro incontro.

 

Sono passati già alcuni minuti e io mi sono accorto di molte cose. Prima fra tutte che il Do’aho non ha affatto smesso di allenarsi e migliorare, in questi anni. Me ne sono accorto da come riesce a controllare bene la difesa e la gestione del suo corpo. È agile, elegante e veloce, come neanche al liceo era. Come non potrebbe essere, se avesse smesso di giocare da tempo.

Seconda, in ordine di presa di coscienza, il fatto che lui sembra conoscere perfettamente le mie mosse… come se avesse visto le mie partite miriadi di volte e studiato attentamente il mio modo di giocare… questo mi ha sbalordito e poi compiaciuto. Sarà più bello umiliarti così!

 

Ma non riuscirò ad umiliarlo. Ovviamente sto vincendo, ma non sto dominando come mi aspettavo. A tratti ho anche l’impressione che lui si trattenga. Soprattutto quando salto. Che sappia dell’infortunio di ieri?

Impossibile, non l’ho detto a nessuno e ora non ho fatto nulla per farlo notare. E poi è una cosa da niente.

Continuiamo a giocare. Sto per segnare il canestro decisivo con un tiro in sospensione, quando sento un “Oh, al diavolo!”… In un attimo è in salto davanti a me e di potenza mi stoppa la palla. Non l’aveva fatto fino ad ora... sinceramente pensavo si fosse appesantito e non avesse più l’elevazione di un tempo, invece…

Sbilanciato, ricado malamente all’indietro. Cerco di appoggiare un piede a terra per riprendere l’equilibrio prima di toccare il terreno, ma qualcosa non va per il verso giusto. È la gamba dove mi sono fatto male: che cede, facendomi atterrare in preda al dolore più atroce. Rimango lì, immobilizzato dal dolore acuto che sento, sdraiato a terra con mille aghi nella gamba.

“Caz... cavolo! Lo sapevo che finiva così! Lo sapevo, accidenti a me! Non dovevo permetterti di giocare! Maruo, prendi il mio cellulare dalla sacca e chiama un taxi! Dobbiamo portarlo al pronto soccorso!”

La voce del Do’aho mi arriva sfocata attraverso il dolore. Provo a protestare

“Cosa dici.. non ho niente! Figurati!”

Provo anche a rialzarmi, ma proprio non ce la faccio. Porca..!

“Stai fermo un attimo, stupido! vuoi che peggiori? … Seto, accompagna Kaede  da Midori e dille che la chiamo più tardi, per favore! E ora, stupida kitsune orgogliosa, veniamo a noi.”

Questa frase penetra attraverso il muro che il dolore ha eretto tra me e il mondo e mi trasporta direttamente in un passato, talmente remoto, da sembrare inesistente. Un passato fatto di baruffe, pallonate e… felicità.

Sento un braccio attorno alla mia vita e uno sotto le gambe… accenno una protesta, ma in cambio ottengo solo una stretta più forte e uno sbuffo.

Mi sento sicuro e protetto per la prima volta dopo secoli e mi permetto di scivolare nel buio senza dolore.

 

End chapter 1 - New start 

 

 

 I personaggi appartengono al loro creatore.

 

 

 

 


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