L'inquisitore

capitolo 3

di Kia

 

1494. I roghi illuminavano ovunque la Spagna con i loro bagliori sinistri, con le grida disumane, con l’odore di pece e fumo denso, nero: niente poteva fermarli. Esecuzioni pubbliche, macabri spettacoli per la folla eccitata all’odio verso quelli che fino a un giorno prima erano loro fratelli, come un incendio divamparono incontrollabili. Niente di umano poteva fermare un rogo se era deciso. Niente.
Quella notte, quando tornò nelle sue stanze e si coricò stentando a prendere sonno, ancora tremante d’ira e di vergogna, Francisco D’Avalos aveva in realtà già chiuso l’episodio della sua vita legato a quel processo. A tormentarlo era sì il ricordo di quello che era accaduto, di quell’uomo e delle sue parole, ma ormai era un viso relegato nel passato e a pesare grave su di lui era il futuro, incerto e doloroso.
Si addormentò ancora una volta esclusivamente preso da se stesso come può esserlo un animo ferreo afflitto dal peccato e dal rimorso, come faceva dal momento in cui era iniziato il suo travaglio, in un’analisi radicale e accuratissima del suo essere: se era un giudice terribile per gli altri, sapeva esserlo in modo anche peggiore per se stesso.
Si addormentò, distrutto, e gli sembrò di scivolare in un limbo profondo per un tempo infinito; quando si svegliò lo fece di soprassalto, teso.
Il buio era intorno a lui, una cappa pesante. Le tende del letto erano chiuse e non lasciavano trapelare luce al loro interno, come in un guscio chiuso.
Si ributtò disteso, ancora ansimante. Doveva aver fatto un incubo anche se non lo ricordava assolutamente, e si passò una mano all’interno dello scollo ampio scostando la camicia da notte di lino fradicia di sudore. Richiuse gli occhi pensando a che ora potesse essere ma non ne aveva idea. Poteva essere l’alba come già il desinare. Sbuffò scostandosi i capelli dalla fronte e si rigirò bocconi nel letto, occupandolo di traverso tra le lenzuola sfatte cercando una parte fresca coi piedi nudi.
Pensò che forse presto non avrebbe più avuto un letto simile in cui riposare, magari avrebbe dormito per terra, avvolto solo da una coperta; aggrottò le sopracciglia con una serietà che dava la misura di quanto il suo essere nobile non fosse certo stato offuscato dalla sua vita ecclesiastica. Era nato in un letto simile, anche migliore, era cresciuto in uno dei più ricchi conventi della Spagna, con tutti i riguardi dovuti alla sua persona e al suo rango, aveva alloggiato a corte... ma questo era il piccolo Francisco irrequieto e viziato. L’altro lato di quel carattere dualistico subentrò rapido: l’Inquisitore, e pensò a quanto fosse sciocco avere simili preoccupazioni. Il suo animo era corrotto, la vita del più miserabile reietto era quella che gli si addiceva; avrebbe lasciato quel luogo al più presto senza infastidire, senza dare pena al suo ordine con una simile vergogna, dopo qualche settimana lo avrebbero creduto morto. Pensò che doveva trovare degli abiti normali; si passò una mano tra i capelli, fino a raggiungere la chierica: li avrebbe dovuti far ricrescere. Da ora era un uomo tra gli uomini.
Di colpo il ricordo di una promessa gli apparve nella mente: il bambino. Che sciocco, non poteva abbandonare l’abito e la Chiesa prima di averlo sistemato, quel bambino...
Povero fanciullo, probabilmente non sapeva ancora di essere rimasto solo, non sapeva che la casa in cui era cresciuto non era più sua, perché quella era la procedura: la confisca di ogni bene del condannato. Forse il bambino sperava ancora di riabbracciare suo padre, suo padre che era già...
Sì, doveva sicuramente essere già morto, probabilmente l’esecuzione era già avvenuta, doveva aver dormito parecchio. Quell’uomo. Ma non vide l’uomo nella sua mente, vide solo un imputato come era abituato a fare.
Si voltò su un fianco, liberando le gambe dalla camicia da notte, sotto era nudo. Sospirò senza volerlo mentre riandava con la mente a quelle sensazioni terribili, a quell’eccitazione... no, si era imposto nel momento stesso in cui aveva lasciato quella cella di non soffermarsi su di esse.
Il suo peccato c’era, questo solo doveva sapere, e in quel momento era troppo debole anche solo per ricordare le tentazioni, sarebbe ricaduto in esse altrimenti.
Che cosa incredibile: non pensava potesse esistere niente di simile, non pensava che la carne potesse avere tanta forza. Si chiese se e quanto gli sarebbe stato difficile combatterla, in ogni istante, ad ogni angolo, qualsiasi donna avesse incontrato magari...
Si rivoltò supino, deglutì. O qualsiasi uomo magari... qualsiasi uomo avvenente? Signore, sarebbe stato terribile, cogliersi a desiderare cose oscene alla vista di un uomo... no!
Si chiese quanto fosse profonda la sua brama di desiderio. Pensò a una donna, una donna: per lui una senza volto, una summa di tutte le figure femminili in cui si era imbattuto nel corso della sua vita, la solita curiosità lo prese, quella curiosità tesa e affascinata che spesso aveva represso in sé mentre era a corte. No, questo peccato lo conosceva, se voleva poteva resistere come aveva già fatto.
Inspirò. Non era quello il problema, no; il suo peccato riguardava ben altra deviazione. Si fece coraggio e con la curiosità del bambino e l’inflessibilità dell’Inquisitore, lasciò scivolare davanti ai suoi occhi chiusi le figure degli uomini che aveva incontrato nella sua vita, cercando di cogliere in sé, ferocemente attento, un qualche spregevole fremito. I suoi fratelli, i novizi ordinati con lui, con cui aveva studiato per anni e spesso dormito fianco a fianco: no, non provò altro che un caldo sentimento di affettuosa amicizia; i bei volti di palazzo, il loro essere disinvolte farfalle di corte o devoti burocrati, o duri militari, ne aveva incontrati, ma non provò nulla. Non poteva tirarsi indietro di fronte a niente, doveva esserci almeno qualcuno, doveva capire quanto fosse radicata la sua deviazione: arrivò a pensare al suo unico fratello minore. Quanti anni aveva l’ultima volta che lo aveva visto? Venti, venti... presto avrebbe preso i voti anche lui, era bello suo fratello, oggettivamente molto bello, più di quanto potesse esserlo lui: aveva capelli corvini come loro padre ma la pelle chiara e gli occhi verdi ed incantevoli della loro madre, un sorriso dolce quanto lui era freddo; provò un certo affetto, l’affetto che si può avere per un fratello che si è visto una decina di volte nella propria vita, ma nient’altro.
Niente. Possibile che il peccato fosse svanito?! Di colpo non ce n’era più traccia?!
Un’ondata di gioia selvaggia lo attraversò, per un attimo fu pronto a rinnegare tutto. Non doveva lasciare niente, non doveva più abbandonare la sua Chiesa, no...
Quello che aveva fatto, quello che aveva provato però, lo ricordava bene, non poteva essere cancellato... ma allora qual era la chiave per portare quel lato oscuro allo scoperto? Quale?
Liberò nella sua mente il viso olivastro dagli occhi blu di un uomo che lo guardò con la sua espressione fiera. Non lo faceva dalla notte precedente, un’ondata calda lo attraversò dalla testa ai piedi: in un attimo iniziò a sentire la carezza del lenzuolo e del lino sul suo corpo, il calore sudato del letto, la sua morbidezza, eccolo, ecco quel dannatissimo, frenetico desiderio.
Possibile che fosse solo lui?! Solo quell’uomo a scatenarglielo? Ma non era possibile, allora era davvero un demonio!! Lui aveva sempre visto il suo peccato come qualcosa di radicato nel suo animo indipendentemente da ciò che lo circondava, qualcosa che sarebbe potuto riemergere in ogni momento, stimolato da chiunque, ed invece no! Era solo con quell’uomo forse che succedeva!
Un sorriso oscuro e un po’ folle gli si allungò sulle labbra: quell’uomo doveva essere morto, e allora forse il suo peccato era morto con lui...
Morto... bruciato... non l’imputato, ma quell’uomo alto, magro, con quei capelli lucidi che gli ricadevano sugli occhi blu, la pelle scura e setosa, quelle mani con le dita lunghe e forti, le stesse che quella notte lo avevano toccato... era stanco, stanco di trattenersi con tutte le sue forze; in quel letto ovattato e buio, in un momento imprecisato di quel giorno, si lasciò andare per un attimo, un attimo solo. Si stese nel letto reclinando la testa all’indietro e rivivendo il piacere dolce e denso della notte più terribile della sua esistenza, rabbrividendo sotto la carezza delle lenzuola sognando un’altra carezza, sospirando; il suono del suo sospiro lo eccitò per una qualche strana ragione; titubante emise un gemito leggero: era come se rendessero il suo sogno reale, come se ricreassero sulla pelle quel tocco. Lo voleva. L’inquisitore non doveva saperlo, ma lui lo voleva, lo voleva da morire, con tutto se stesso.
Riaprì gli occhi con un singhiozzo, tremando.
“Mio Dio, se non volevi che io scoprissi tutto questo perché me lo hai fatto incontrare? Perché lo hai creato? Io lo desidero Mio Signore, desidero il suo corpo, quello che mi fa, la sua voce... Non è malvagio Mio Signore, è un padre affettuoso, dolce col figlio, e ha coraggio, orgoglio, lo so che è un peccato ma è anche l’attributo di un animo forte... Mio Signore, ti prego, ti ho servito per tutti questi anni, lasciami quell’uomo... Cercherò di rendertelo e sarà un buon servo per te... cercherò... di non commettere nulla di impuro con lui, ma lasciami stare accanto a quell’uomo... Non gli farò mai più vedere quanto il suo peccato mi attiri, sarò io a redimere lui, non lui a dannare me se tu mi aiuti...” balbettò tutte le sue sciocchezze col cuore, come un fanciullo che prega con tutto l’animo per essere esaudito, appeso all’infinita generosità e grazia del Suo Signore: ma era morto.
Si bloccò di scatto e deglutì. Stava pregando per un uomo che già non esisteva più, che era già morto: bruciato dal rogo. Vide le fiamme, i corpi orribilmente deturpati, e vide Alejo urlare tra le fiamme.
“No!!!!!” sussurrò sconvolto, incredulo, drizzandosi di scatto, mentre la campana iniziava a emettere da lontano i suoi rintocchi che scandivano il giorno. Francisco si rannicchiò su se stesso, serrando le braccia attorno alle ginocchia contando i rintocchi, pregando di aver dormito solo poche ore, che quella fosse solo l’alba, che Alejo, Alejo fosse ancora vivo…
…ma i rintocchi proseguirono placidi, inesorabili. Era il mezzogiorno.
Un singhiozzo disperato gli uscì dalle labbra quando i rintocchi infine cessarono. L’alba e l’esecuzione erano passate da un pezzo.
Un lamento roco sempre più forte gli scoppiò in petto, e di colpo la disperazione più grande della sua vita lo travolse. Sbatté il pugno sul letto, furiosamente mentre le lacrime gli scendevano sulle guance.
“Noooo!!! È mio! È mio Signore, ridammelo!! RIDAMMELO!!! Ti giuro che ne farò un cristiano, ma ridammelo!!!” gridò rabbioso, incapace di controllarsi. Continuando a singhiozzare scansò le tende del letto alzandosi e correndo verso la finestra, impazzito, come se potesse inseguire qualcuno che gli stava portando via il suo tesoro più prezioso. La stanza era avvolta in una penombra grigiastra; spalancò la tenda di una finestra e si bloccò: il cielo plumbeo.
Davanti ai suoi occhi scendeva il diluvio.
La pioggia sembrava inondare ogni cosa, ora sentiva quello che aveva eliminato come un rumore di sottofondo fino a poco prima: lo scroscio violento. Nel cortile rivoli d’acqua come piccoli fiumi correvano rapidi verso gli scoli, ma già una parte era allagata per metà.
Francisco rimase immobile a fissare la scena. Con gli occhi sbarrati.
Giugno. Nel mese di Giugno l’acqua scendeva irrefrenabile dal cielo, a fiotti: non aveva mai visto un temporale simile. Sembrava che una cascata avesse deciso di annegare ogni cosa... in Giugno!
Francisco aprì la finestra e le gocce rimbalzarono rapide all’interno, su di lui. Nel giro di un attimo fu fradicio. Richiuse attonito guardando la camicia di lino bagnata che ora gli aderiva addosso, sentì un brivido di freddo.
Si avvicinò alla porta e chiamò un servo, trasognato... Un ragazzino arrivò di corsa inchinandosi teso e non osando alzare lo sguardo da terra.
“Ragazzo, da quanto sta piovendo in questo modo?” chiese riprendendo a stento il suo tono abituale, gelido.
Il valletto non rialzò la testa ma si affrettò a rispondere, probabilmente era tanto intimorito da lui da non notare nemmeno che era in camicia, fradicio, e che aveva gli occhi rossi di pianto.
“D... Da questa notte Mio Signore.”
“I roghi?” interrogò febbrile, quasi infuriato l’Inquisitore.
“S... Sono... stati rimandati... Signore... era impossibile... con questo tempo... la piazza è allagata...” balbettò quasi scusandosi della cosa, “Vi... porto il pranzo?”
Francisco lo guardò recependo a stento quell’ultima domanda.
“No, non è necessario, vai.”
Rientrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle, gli sembrava che tutto girasse vorticosamente: si mise a sedere con le mani accasciate sulle ginocchia.
“Rimandati...”
Guardò verso l’alto, verso il soffitto anche se in realtà non lo vedeva.
“Mio Signore, Voi... volete davvero che io ve lo renda? Posso?”


La febbre c’era ancora, anche se lieve c’era.
La pietra era fredda, dura, e l’uomo rannicchiato tremava sentendosi perennemente la schiena in fiamme e il corpo gelato. Faceva freddo. O forse il freddo era dentro di lui.
Si mosse e la schiena gli lanciò una fitta di dolore. Emise un sospiro. Gli sembrava di non essere mai stato sano, mai, come se quel dolore ossessivo gli si fosse radicato nelle ossa.
La luce del giorno filtrava nella cella, grigia, chiazzando quel pavimento lurido: da ore, ore. Entrava. Era giorno, era giorno da una vita ormai; aveva sentito le campane rintoccare e già avevano superato il mezzogiorno da quattro ore.
Se non lo avesse capito sarebbe impazzito: ma alla fine aveva capito.
Pioggia.
La pioggia entrava nella cella dalle grate, ormai aveva creato due pozze corrispondenti che si andavano allargando, pioggia...
Alejo si tirò di nuovo a sedere, a stento. Le catene che aveva ai piedi emisero il loro suono metallico. Non sarebbe morto fino a che questa pioggia non avesse smesso di cadere.
Reclinò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi, sentendo il nero del terrore sommergerlo di nuovo come aveva fatto per tutta la notte, per tutte le ore di quel giorno.
“Non voglio morire, ho paura...” sussurrò roco. A chi? Non lo sapeva, ma dirlo sembrava quasi che gli desse una speranza folle di essere ascoltato da qualcuno: dal Signore...
Si passò una mano tremante su una guancia liscia, di nuovo sbarbata, e pensò a suo figlio. Ad Adàn.
“Signore, proteggilo.” pregò ancora, come in una litania infinita.
Pensò a Isabel, a sua moglie, chiese anche a lei di proteggerlo perché lui non poteva più, non poteva; forse lei poteva intercedere per lui anche col Dio dei cristiani, lei che era cristiana, per suo figlio.
“L’ho affidato a quello Isabel, l’ho fatto pensando a te che anche se eri cristiana eri buona con chiunque. L’ho fatto perché non avevo scelta, ma quello non è come te, è un feroce servo di un dio sanguinario.”
Quello: non era momento per lui nei suoi pensieri, no. Questo era il momento dei suoi cari, non li avrebbe mischiati con quella cosa oscura.
“E io padre verrò presto a raggiungerti sai?”
Padre.
Suo padre era stato un brav’uomo, un uomo mite, per questo lo aveva fatto convertire e si era convertito, per suo padre non importava che un uomo fosse cristiano o ebreo, era un uomo.
“Ti sei sbagliato padre, è stato tutto inutile, forse sarebbe stato meglio se fossimo scappati allora...”
Poi però pensò che non avrebbe sposato Isabel così, che non avrebbe avuto Adàn, e allora no, no meglio così.
“Spero solo di morire in fretta padre...” gracchiò con un sorriso disperato.
Dei passi. La chiave girò nella serratura. Il cuore gli si fermò.
No, ancora piove... pensò per un istante, poi la porta si aprì.
Una figura entrò, rapida, bianca.
Alejo si ritrovò davanti due occhi di ghiaccio, un viso di marmo.
Per un istante si fissarono in silenzio, poi l’Inquisitore si avvicinò e si inginocchiò accanto a lui senza guardarlo, senza dire una parola, prendendo le sue caviglie. Un rumore metallico. Gli tolse le catene.
“Voi...” fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare sbigottito fissando quella testa di capelli biondi coronata dalla chierica, china su di lui ancora per un istante, poi l’Inquisitore si rialzò rapido. La sua espressione gelida.
“Venite.”
Solo questo disse, e Alejo, come in un sogno, si alzò a fatica e lo seguì.
Lo seguì nei corridoi bui, senza parlare, senza capire, all’infinito. Gli faceva male la schiena, non riusciva a sorreggersi bene sulle gambe... perché era lì?
La pioggia tutto ad un tratto lo bagnò, gelida sul calore delle ferite. Tremando convulsamente Alejo guardò verso l’alto e vide una cappa grigia, scura, altissima, altissima: il cielo. Barcollò ma continuò a seguire la figura bianca davanti a lui, con i piedi nel fango di un vicolo stretto; girarono un angolo: una carrozza. L’uomo di ghiaccio si girò di nuovo verso di lui, anche i suoi capelli erano fradici, anche su di lui scorreva l’acqua, come su una statua indifferente nella sua perfezione, aprì la porta della carrozza e gli fece cenno di salire. Salì, a stento ma salì, e dopo di lui lo stesso fece il frate richiudendo.
La carrozza si mosse.
Alejo non badava più alla carrozza che si muoveva, non badava più a niente: davanti a lui, rannicchiato sul sedile, un ragazzino con i capelli neri dormiva quieto, silenzioso. Come davanti a una visione l’uomo singhiozzò e iniziò a tremare, si sporse in avanti, fissando quel piccolo essere perfetto, gli accarezzò appena i capelli, e una lacrima gli scese su una guancia ma nemmeno se ne accorse.
“Non lo svegliate, sarebbe d’intralcio. È meglio che dorma fino a che non arriviamo.”
Una voce ferrea, dura come una lama e gelida nella sua indifferenza risuonò accanto a lui.
Alejo si girò, fissando quel viso marmoreo che aveva accanto, quegli occhi chiari, disumani; continuando a tremare fece un cenno di assenso, anche se non capiva, non capiva nulla. La testa bionda si girò di nuovo dall’altra parte fissando i vicoli inondati d’acqua che scorrevano all’esterno.
 

- fine capitolo 3 -