L'inquisitore

capitolo 2

di Kia

 

Il rumore degli zoccoli dei cavalli sul selciato del cortile interno, ombroso e fresco sotto le sue finestre.
Nelle sue stanze, ampie e rischiarate solo in parte dalla luce esterna schermata dalle pesanti tende, egli se ne stava inginocchiato davanti al piccolo altare privato annerito dal fumo delle candele continuamente accese.
Ormai era giorno fatto.
Di nuovo affondò il volto nelle mani giunte, stravolto, sulla sua schiena dei segni rossi bruciavano quella bella pelle chiara e delicata, risultato della punizione fisica che si era inflitto.
Due intere giornate e una notte erano passate da quando era stato in quella cella.
In un attimo era caduto nell’abisso, travolto dall’oscurità come mai nella sua vita, e ora era solo, privo della luce del Signore che aveva sempre albergato nel suo cuore. Il peccato lo aveva sommerso come non credeva sarebbe mai potuto accadere, e si era ritrovato debole, incapace di reagire, inadeguato a quella lotta come un bambino inesperto.
Eppure sapeva quanto può essere insidioso il Maligno!! Lo sapeva! Aveva dedicato la sua vita a conoscerne le trame! Ma questo... a questo non era preparato.
“Mio Signore abbi pietà. Ti scongiuro, aiutami!!” singhiozzò distrutto, con le guance arrossate dalle lacrime e gli occhi sfiniti a forza di versarne.
Ma qualcosa in lui si era come spezzato, con il passare delle ore se ne era reso conto. Il filo luminoso che lo legava al suo Dio si era di colpo interrotto, la porta che aveva aperto e attraversato dall’adolescenza era chiusa, buia, e non riusciva più a trovarla.
Il Signore era adirato con lui. Lui stesso non poteva osare guardarsi, guardare l’essere orribile che era emerso di colpo in lui, nemmeno la morte avrebbe potuto compensare una simile vergogna.
Chiuse gli occhi cercando ancora una volta di ritrovare Dio dentro di sé, come prima era in grado di fare, ma niente rispose al suo grido di aiuto: Dio lo aveva abbandonato.
Nell’oscurità emerse qualcos’altro, un tocco caldo, duro e orrendamente morbido, allettante, persuasivo... e poi quel tocco non era più sulle sue labbra, era dentro di lui, nella sua bocca come un sapore mai conosciuto che gli penetrava nelle ossa e nell’anima, come un liquido denso e dolce.
“NO!! MIO DIO NO!!!” singhiozzò roco riaprendo gli occhi e rialzandosi di scatto, tremando.
“Oh mio Dio... aiutami... ti prego! Sono indegno ma aiutami...” balbettò affondando di nuovo il viso tra le palme delle mani, come vergognandosi di mostrarlo.
Non aveva indosso il saio, aveva dei pantaloni e il torace nudo, come sempre quando puniva il suo corpo, ma questa volta provava una vergogna insostenibile nel sentirsi svestito. Rabbrividì e guardò il suo abito monacale poggiato su una sedia: no, non poteva metterlo, non poteva ora sporcarlo con la sua vergogna, non era più degno di metterlo. Si avvicinò al letto, scostò le pesanti tende del baldacchino e si rifugiò tra le coperte scomposte, rannicchiandosi su se stesso.
Egli aveva ventisei anni, ormai era un uomo, un inquisitore, eppure ora era come un bambino.
“Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Perché non mi sono ucciso subito? Perché non riesco a respingere questo peccato oscuro che si è posato su di me?” sussurrò.
Possibile che tutta la sicurezza che aveva avuto fosse stata in realtà solo inesperienza? Ora che doveva affrontare la vera prova del Maligno non ne era in grado, era stato irretito e in un attimo aveva perso la sua anima.
Di nuovo, proveniente dall’inferno stesso, sentì vivido il tocco caldo sulle labbra e questa volta anche sul resto del suo corpo, come se fosse ancora stretto contro quella dannazione dura e bollente.
Singhiozzò e si girò supino, colpendo rabbioso le coperte con il pugno chiuso, ma la carezza morbida delle lenzuola sulla pelle nuda lo fece rabbrividire, e non era un brivido di freddo.
I suoi sensi: di colpo era come se si fossero accorti che esistevano, che erano vivi, e si tendevano nel registrare ogni minima carezza amplificandola all’infinito sul suo corpo, come se esso si fosse risvegliato e ora fosse nella spasmodica attesa che lui gli desse qualcos’altro, qualcos’altro di simile a quello che lo aveva svegliato.
Odiò una volta di più il suo essere terreno.
Aveva sempre convissuto tranquillamente con il suo corpo, era sempre stato un fedele servitore, magari debole, magari bisognoso di correzioni ogni tanto, ma mai si era rivelato come un’entità quasi autonoma, che esprimeva i suoi sordidi desideri al punto di travolgere la sua anima.
Era cresciuto in monastero da quando aveva sette anni, poi aveva preso i voti, aveva studiato, la sua vita era stata appartata ma poi si era anche ritrovato a corte, aveva visto le insidie dei piaceri terreni, aveva conosciuto le donne, quei curiosi esseri emotivi e belli, tanto belli quanto deboli nel dominare la propria anima. Tanto incapaci di dominare i propri pensieri leggeri da innamorarsi persino di lui, un prete, e senza farsi scrupoli nel dirglielo.
Aveva sorriso di queste debolezze, come un padre sorride dei capricci di un figlio. Era stato incuriosito, attratto da ciò che non conosceva, ma mai ciò aveva solo sfiorato seriamente l’ambito del peccato. Egli era un sacerdote di Dio, quel mondo era per lui tanto lontano che non lo prendeva neppure in considerazione, non suscitava il suo interesse, com’era normale che fosse. Era sempre riuscito a dominare i suoi istinti perfettamente, sapendo riconoscere le sue piccole debolezze, i suoi velati desideri, i suoi pensieri poco appropriati. Li aveva puniti col massimo rigore, ma sapeva che era normale, dopotutto era un uomo e proprio nel superare le difficoltà umane c’era la fatica per arrivare ad essere vicino al Signore. Era sempre stato bravo. Anche quando aveva visto cadere suoi fratelli, rialzarsi a fatica dal peccato, lui aveva provato una compassione che era distante, affettuosa ma non partecipe, felice della sua capacità di circoscrivere e purgare il peccato quando nasceva in lui.
Ma questo, questo era terribile.
Non era stato un misero pensiero o uno sguardo o un tocco inappropriato, non era un piccolo cedimento che doveva essere ricondotto all’ordine: questo era l’abisso. In quell’attimo che da due interminabili giorni spaccava la sua vita come un taglio, lui aveva peccato in un modo radicale, inaccettabile, vergognoso.
Aveva peccato e aveva desiderato di peccare ancor!! Aveva desiderato la colpa stessa che avrebbe dovuto combattere e che invece lo tormentava, lasciva, dirompente, irrefrenabile. Nel letto in quell’attimo, mentre piangeva per la sua dannazione, una parte di lui non pensava affatto a Dio, a quanto fosse adirato, a quanto lui fosse ormai indegno, quella parte pensava a quelle mani, a quella bocca, a quella carezza, a quel piacere terribile, e desiderava un corpo caldo sul suo, qualcuno a cui stringersi e da cui essere stretto.
Per la prima volta nella sua vita provava l’eccitazione dei sensi e senza nemmeno accorgersene si sfiorò appena il torace nudo: un brivido di godimento corse su di lui, avvertì il suo corpo reagire in un modo inammissibile. Quella parte di lui non doveva nemmeno esistere!! Per lui non doveva esistere perché serviva solo a sancire l’unione con una donna nel frutto di un matrimonio, nel dono di una nuova vita; lo aveva ripetuto infinite volte quando confessava uomini vittime del piacere, del piacere fine a se stesso…
Quella parte oscura lo stava divorando.
Reclinò la testa all’indietro sul cuscino e di colpo pensò a delle labbra dure e calde sulla sua gola, a dei capelli neri, a una pelle scura, di seta, all’odore di un sudore estraneo...
“Oh mio Dio!! Come posso essere io? Come posso essere diventato questo nell’arco dell’inferno di due giorni? Io ti ho servito fedelmente per tutti questi anni!!!” singhiozzò rabbioso.
E peccò ancora. Per la prima volta nella sua vita si rivolse con collera al suo Signore.
Sbarrò gli occhi atterrito, conscio di ciò che aveva appena osato pronunciare, poi nel silenzio distrutto del suo cuore si fece strada un pensiero costante.
“Maledetto! È tutta colpa di quel giudeo. Quell’emissario del Demonio...” sibilò per l’ennesima volta serrando la mascella, e una rabbia folle lo sommerse, una rabbia peccaminosa perché personale, vendicativa, ma non se ne accorse nemmeno troppo preso dall’oggetto del suo rancore.
“Maledetto ebreo, vuoi dannarmi?! Vuoi trascinare anche me nel fango del tuo peccato?! MA TI FARÒ PAGARE CARO QUELLO CHE MI HAI FATTO!!!” gridò alzandosi di scatto.
Afferrò il saio bianco, privo di remore ora che quell’idea lo dominava violenta, e si vestì, poi si precipitò fuori dai suoi alloggi verso le segrete.


Le torce annerivano con la loro fiamma il soffitto a volta, di pietra. Fuori stava scendendo la sera ma nel sotterraneo il buio era costante, insensibile a quei mutamenti vitali, statico nella sua oscura densità rischiarata solo da quel bagliore rossastro.
Il sibilo risuonò nell’aria per l’ennesima volta. Ora non gemeva nemmeno più, ma non era svenuto.
Il corpo magro e tornito dell’uomo era legato con le braccia tese tra due colonne di pietra, le corde passavano in ganci metallici piantati apposta nel marmo all’altezza giusta. Se cercava di cadere in ginocchio le braccia gli tiravano fino allo spasmo, caricate di tutto il peso del corpo che non arrivava a toccare terra. Ora non si muoveva, sussultava solo quando la frusta lo colpiva su quella schiena orribilmente martoriata dai segni.
“Gridate che siete un ebreo figlio del demonio! URLATELO! O vi uccido, e uccido vostro figlio, il vostro piccolo ragazzino mezzo ebreo.” sibilò roca la voce dell’inquisitore.
Non ci fu una risposta, il corpo scivolò verso il basso prima ancora che finisse la frase, sostenuto dalle braccia che sembravano sul punto di uscire dalla spalla, ora era svenuto davvero. Di nuovo.
Il giovane inquisitore reclinò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi per un istante e ansimando. Gli dolevano le braccia, era ricoperto di sudore.
Da due ore andava avanti a frustarlo di sua mano: da due ore.
Inizialmente lo aveva fatto frustare a tratti da una guardia mentre lo interrogava, mentre lo insultava rabbioso, ma il giudeo non aveva ceduto. Le sue risposte sprezzanti erano sempre le stesse, ostinate, e le sue iridi blu avevano uno sguardo feroce, penetrante, più loquace delle sue parole quando fissava in silenzio; l’inquisitore lo sapeva anche se rifiutava di guardarli quegli occhi, anche se cercava di tenersi sempre alle sue spalle; e così era trascorso il tempo, mentre il giorno passava e quella schiena, che in quei due giorni aveva appena riassorbito il dolore e la febbre della punizione precedente, si copriva di nuovi segni, mai troppo violenti ma dolorosi, in modo che il tormento potesse durare a lungo.
Nonostante le accortezze del carnefice aveva iniziato a perdere i sensi a intervalli regolari, restando svenuto per parecchio e impiegando il doppio ogni volta a tornare pienamente cosciente. In quei casi l’inquisitore ordinava di fermarsi, di attendere: doveva essere lucido il più possibile mentre lo torturava, mentre si prendeva la sua vendetta.
Perché era una vendetta.
Sapeva che avrebbe potuto bruciarlo sul rogo solo con le parole che gli aveva fatto pronunciare quella dannata sera, ma non bastava più. Doveva urlare chi era, doveva urlare di essere un lurido ebreo e un servo del demonio.
“SVEGLIATEVI!!!” urlò rabbioso stringendo la frusta, ma non si avvicinò. Non osava toccarlo, ed evitava di guardarlo; da quando lo aveva fatto portare in quella sala la mattina non gli si era mai avvicinato, mai.
La schiena magra, arabescata dei muscoli tesi all’estremo in quella posizione, grondava sangue. I segni della frusta erano ormai una massa compatta, dolorosa e orribilmente intersecata, e i colpi dell’inquisitore si facevano invece sempre più violenti, più radi ma più violenti mentre con la stanchezza anche il furore più crudele prendeva il sopravvento in lui.
Se continuava così lo avrebbe ucciso. Non era una cosa insolita che un imputato morisse durante la tortura, ma prima, prima che Dio fosse così misericordioso da accogliere quell’anima per sottoporla al suo giudizio doveva dirlo: doveva urlare la sua colpa, il suo legame col demonio!
“SVEGLIATEVI!!!” ripeté.
“Santo Padre, volete che gli tiri dell’acqua?” chiese rispettosamente la guardia che lo aveva frustato precedentemente, non osando alzare lo sguardo da terra e inchinandosi leggermente nel rivolgergli la parola.
Francisco D’Avalos lo guardò, come ricordandosi solo ora che era ancora presente.
“No, non è necessario. Sono molte ore che siete qui, vi congedo, se avrò bisogno di voi vi manderò a chiamare, recatevi pure a riposare e desinare.” ordinò quieto.
L’uomo si inchinò profondamente e uscì.
L’inquisitore si mise a sedere per un attimo accanto al tavolo su cui erano poggiati altri strumenti di tortura che non aveva usato. La frusta andava bene per questo cane, metodi più raffinati erano uno spreco con lui: lo avrebbe massacrato, era disposto a continuare tutta la notte, ma lo avrebbe piegato.
“Mio Signore, estirperò il peccato di quest’uomo dalla vostra Chiesa, dovrà implorare il vostro perdono prima di morire, abbiate fiducia nel vostro servo, riparerò alla mia vergogna... e poi farete di me ciò che vorrete.” sussurrò fissando il crocifisso appeso sopra l’ingresso.
Si alzò riavvicinandosi al corpo appeso, ancora incosciente. Girò dalla parte opposta.
Il torace, che non era ricoperto di sangue, era lucido di sudore. Il viso chinato in avanti era ricoperto dai capelli scuri, sporchi e scarmigliati.
Guardò la figura che aveva davanti agli occhi pensando al suo nero potere che lo aveva tormentato in quei due giorni, e di colpo considerò quanto questo fosse solo un misero corpo e nient’altro, nulla che avesse il potere o il valore di dannare un’anima. Forse il suo era stato solo un incubo irreale, inconsistente: quel misero verme non aveva certo il potere di oscurare la sua fede, si era affidato troppo alla sua mente invece che alla fede in Dio e alla Sua Provvidenza che regola ogni cosa, aveva troppo pensato a quello che era accaduto, questo era il suo errore, questo lo aveva portato a tormentarsi. Il disegno divino può essere oscuro, ci mette alla prova, ma anche nella disperazione non si deve mai abbandonare la fede in Lui, mai. E questo lo aveva fatto, si era rivolto a Dio supplicandolo di aiutare la sua inadeguatezza, e ora Dio gli rompeva il velo di quell’illusione peccaminosa davanti agli occhi, mettendogli davanti il giuda che lo aveva tentato e mostrandogli come la sua anima fosse distante da esso, sicura da ogni attacco. Non poteva certo essere stato questo misero uomo a tormentarlo. In quelle ore terribili il Demonio stesso doveva essersi mascherato sotto le forme di questo suo servo nella sua testa, per questo gli era stato tanto difficile reagire, capire, ritrovarsi.
“È incredibile come il Maligno possa sfruttare ogni misera crepa nella solidità di un cuore, mio Signore...” sussurrò stupito di quanto ora tutto gli apparisse chiaro.
Afferrò quei capelli con le dita sollevandogli la testa.
Era distrutto, le lunghe ciglia nere gli sfioravano la pelle, le labbra erano socchiuse, la barba gli era cresciuta ancora, ora era un velo scuro e morbido su quelle guance. Si rese conto che l’aveva sentita anche quella notte terribile sul suo viso quella barba, anche se non se ne era reso conto. Nonostante tutto, nonostante la spossatezza, il dolore, la sporcizia e il suo peccato, quell’ebreo del demonio era ancora di aspetto avvenente.
“Certo, solo un servo del demonio può essere ancora attraente in queste condizioni, ma il tuo gioco con me è finito Satana, puoi anche disfarti di questo tuo strumento.” dichiarò sprezzante.
Forse percependo quel mormorio indistinto dal limbo in cui era, l’uomo riaprì gli occhi, sbattendo le palpebre confuso come se venisse al mondo in quell’istante, poi mise a fuoco l’uomo che lo fissava dall’alto, in piedi davanti a lui tenendogli la testa. Sgranò gli occhi.
Ora quel volto, soffuso di stupore, sembrava quasi fanciullesco, e quella barba sembrava ricoprire le guance di un giovane ancora bambino nello sguardo.
“Vo... i...” rantolò a stento, riprendendo faticosamente fiato.
“La Santa Inquisizione vi chiede ancora una volta, nella sua mitezza infinita, di confessare le vostre colpe.” disse gelido e sprezzante l’inquisitore, fissandolo con i suoi occhi di ghiaccio rossastro al chiarore delle torce.
L’uomo deglutì a fatica, poi lo guardò di nuovo “Voi... siete...” un attacco di tosse lo interruppe, scuotendolo in tutto il corpo.
“Cosa dite? Non sento, parlate chiaramente.” ordinò l’inquisitore chinandosi e avvicinando il viso a quello dell’imputato socchiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia.
Quando la tosse si fu calmata il prigioniero rialzò la testa e si trovò faccia a faccia con quel viso di marmo. Deglutì ancora.
“Voi… siete... un angelo malvagio...” sussurrò.
Il viso dell’inquisitore si contrasse in un sussulto rabbioso.
“Come osate continuare? Come? Cosa volte, cosa sperate di ottenere? Che io vi uccida subito? Ma vi farò morire lentamente, tra i tormenti più indicibili che non potete nemmeno immaginare: implorate immediatamente perdono!”
Gli occhi scuri come il mare profondo lo guardarono quieti.
“Lo so... tanto siete... bello... tanto siete crudele... Dio non dovrebbe mai... creare... delle creature terribili come... voi...” bisbigliò la voce profonda ridotta a un sussurro.
Gli occhi di ghiaccio si spalancarono di scatto.
Bello.
In quei due giorni non aveva mai nemmeno osato rievocare nella mente quella parola che gli aveva detto: lui non poteva contemplare di pensare a se stesso come... bello. Lui era solo un servo di Dio; da sempre la bellezza è solo un terribile strumento di peccato, di dannazione.
Gli occhi blu lo guardavano, gli sembravano immensi. Accarezzarono il suo viso teso, scendendo sulle guance e poi... sulle labbra: si rese conto vagamente che il suo respiro si era fatto affannato. Sentiva quello sguardo come un tocco, come quel tocco. Gli sembrava che la stanza si fosse oscurata all’improvviso. Senza sapere quello che faceva si spinse appena in avanti, come per vedere meglio, ma quel viso era già tanto vicino che sentì sul naso il tocco della pelle calda che aveva davanti, un respiro caldo gli sfiorò le labbra.
Senza rendersene conto pensò che era una cosa bellissima, incredibilmente bella. Si avvicinò ancora e qualcosa di caldo, e morbido e saldo insieme gli sfiorò le labbra mentre qualcosa lo accarezzava quasi solleticandolo.
La barba? pensò, ma si era mosso ancora di un soffio e lo stava già baciando.
Nel momento in cui ebbe di nuovo sulla bocca quel calore dolce si dimenticò anche di se stesso e agì solo d’istinto, muovendo titubante le labbra su quella beatitudine come se cercasse di impararne e capirne la forma toccandola, poi quando anche quel piacere caldo e umido si mosse seguì impacciato quello che faceva, cercando di assecondarlo. Com’era bello…
Non era più l’inquisitore, non era più Frate Francisco D’Avalos, era solo Francisco l’irrequieto che si avventurava da solo tra i cespugli e gli alberi del monastero per seguire qualcosa che aveva visto, curioso di sapere cosa fosse senza pensare che poi l’insegnante lo avrebbe rimproverato.
Il piacere si schiuse e invertì la carezza prendendo le sue labbra nell’altro senso, spiazzandolo e facendosi più insistente. Ora Francisco non lo seguiva più, si era fatto fregare, non si aspettava quel cambiamento. Un sorriso gli spuntò sulla bocca, tirandosi indietro come per dire che non era valido, che lui non era ancora pratico di questo bel gioco e questa cosa non la sapeva fare, dovevano avvertirlo...
Sentì la bocca umida e riaprì gli occhi che si erano chiusi.
Gli occhi blu lo fissavano socchiusi, sognanti, a un soffio dai suoi.
“Voi... siete... stupendo...” sussurrò una voce vellutata, tesa dall’emozione.
Francisco si staccò di più e guardò quell’uomo bello, sentendosi smarrito, poi guardò i vestiti che portava, il saio dell’Inquisitore Francisco D’Avalos. Il suo viso si tese in una disperazione fanciullesca che era sull’orlo del pianto, poi Francisco svanì lasciando solo la sua espressione su quel volto.
Si portò una mano alle labbra. Erano ancora umide e calde.
Con un singhiozzo si raddrizzò di scatto lasciando l’imputato e corse via da quella stanza.


Abbandonò il processo.
Fu preso dalla febbre e costretto a restare a letto per quattro giorni, giustificando così la sua decisione. Il giudizio dell’imputato fu affidato a un nuovo tribunale inquisitorio.
Nessuno conosceva quello che Alejo di La Guardia aveva detto quella notte terribile, ne l’Inquisitore Francisco D’Avalos lo registrò nei verbali ufficiali, così fu come se non avesse mai pronunciato quelle parole e il processo riprese all’incirca da dove era iniziato.
Ma in realtà, per l’inquisitore, niente era più come quando quel processo era iniziato.
Il travaglio della sua anima fu terribile. Nel delirio pensò di togliersi la vita, arrivando a spalancare di notte le finestre guardando il selciato sotto di lui come ipnotizzato; poi la sua razionalità riprese il sopravvento: il suicidio era forse un peccato ancora più orribile di quello che già lo infettava.
Non era più degno di servire Dio, ormai lo sapeva. La dannazione si era radicata in lui, piantando le radici oscure nel suo animo e diramandosi lentamente ma inesorabilmente.
Negli incubi che lo accompagnavano di notte, bagnato di sudore, vedeva solo due iridi blu davanti a sé, enormi, capaci di divorarlo, e quelle iridi terribili si posavano su di lui, facendolo tremare, rendendolo incapace di fare altro che schiudere le labbra e socchiudere gli occhi, avvicinarsi...
La febbre però passò, e fu costretto a ritornare cosciente. Seduto sul balcone delle sue stanze, quieto e silenzioso nel sole del mattino che gli rendeva i capelli chiari un alone luminoso, fissava il cortile sotto di sé, i tetti in lontananza e il mare sullo sfondo da quella posizione rialzata: era bello il creato, era bello il mattino, era bella quella luce calda nell’aria ancora fresca della notte. Ma quella grazia non era per lui. Era indegno di tanto amore e bellezza, sordido di vergogna dietro il suo viso quieto.
Lo stupiva come il suo aspetto fosse solo un po’ più stanco e debole del solito, come non gli apparisse in volto il chiaro segno di quello che era diventato. Si sentiva un bugiardo, come se la menzogna del demonio fosse appositamente scesa su di lui occultando il suo peccato agli occhi degli uomini.
Sarebbe stato meglio se tutti avessero potuto scorgerlo con chiarezza e additarlo, scacciarlo, disprezzarlo per ciò che era, almeno avrebbe avuto una giusta punizione e questo sarebbe stato una gioia per lui: trovare un modo per espiare, un modo terribile, un modo qualsiasi ma che esistesse.
Non era così, invece, e sentiva che la ragione era evidente: il suo peccato era tanto orribile da non poter nemmeno essere menzionato sotto quella luce chiara e pura, da nessuna bocca che altrimenti ne sarebbe stata sporcata. Per lui non c’era una pena perché non poteva esserci espiazione né perdono.
Ma se Dio non era più con lui, allora il Demonio dov’era? Ormai lo aveva reso un suo servo, non aveva più la necessità di colpirlo nascondendosi, eppure non c’era. C’era solo lui, e la sua debolezza di essere umano.
Pensò all’altro. Ormai non era più un imputato per lui che non era più un inquisitore, sapeva che non avrebbe mai più potuto esserlo, così come non poteva più essere un sacerdote, un membro della Chiesa di Cristo, e questo lo sentiva con chiarezza. Non avrebbe sporcato quella Chiesa che lo aveva allevato dall’infanzia continuando a farne parte pur essendone indegno: no, si sarebbe volontariamente allontanato da essa, senza recarle ulteriore vergogna, e questa era l’unica ragione che lo consolava del fatto che nessuno sapesse.
E l’altro? Il suo nome: Alejo di La Guardia, per la prima volta lo vide mentalmente associandolo alla persona. Chi era Alejo di La Guardia? Era un uomo.
Gli uomini non nascevano malvagi, di questo era certo, nonostante credesse fermamente nel Battesimo necessario a lavare il peccato originale questo non significava che gli uomini potessero nascere malvagi. Questo significava che anche quell’uomo era stato irretito dal peccato nel corso della sua vita, magari aveva sofferto come lui soffriva ora… Che cosa provava Alejo di La Guardia?
Se lo chiese per la prima volta e ne restò sorpreso, ora che era il più orribile dei peccatori era come se fosse passato dall’altra parte di un muro. Ora i suoi compagni di cammino erano i reietti del Signore, i colpevoli, i miserabili schiavi dei loro errori, come quell’uomo. Ora erano sullo stesso piano? No... no, lui era peggiore, perché in fondo per Alejo di La Guardia quale significato poteva mai avere il peccato cristiano? Era ebreo, un giudeo, forse per lui questo non era affatto un peccato. Ma no, conosceva abbastanza di giudei per sapere che non accettavano certo una simile vergogna, nemmeno i giudei accettavano una cosa simile, perché il suo peccato non solo investiva i sensi più abbietti, ma era... contro natura.
Strinse i braccioli di legno desiderando ancora una volta di morire per sottrarsi a quella vergogna.

Due giorni dopo seppe che era stato emesso il verdetto.
Alejo di La Guardia visti gli infruttuosi tentativi precedenti non era nemmeno stato interrogato ulteriormente e non aveva confessato, ma qualcuno lo aveva fatto per lui: la madre di sua moglie. Interrogata dall’Inquisizione aveva infine confermato che quell’uomo continuava a eseguire riti giudei nella sua casa e che aveva ospitato i due ebrei che avevano fatto il suo nome. Poi era morta.
Quando lo seppe Francisco D’Avalos pensò che almeno era morta nella pace del Signore dopo aver confessato, ma qualcosa in lui si ribellò questa volta: sapeva perché era morta, sapeva come le dovevano aver estorto quella testimonianza, e per un attimo dubitò che fosse un’azione degna.
Un sorriso amaro gli salì alle labbra, e pensò a quanto fosse meschino il suo animo che ora iniziava a dubitare della Chiesa stessa sapendo quanto fosse grande la sua colpa e temendo un giudizio su di sé. Infondo lui quella decisione, quando era stato in suo potere, non l’aveva presa, non ritenendo giusto tormentare una vecchia per la colpa di un uomo, ma questa era stata la sua visione, e poi non si era certo dato pena nel coinvolgere il figlio di quell’uomo, anche se era stato attento al fatto che non gli fosse torto un capello. Pensò al bambino, ora era davvero solo.
Alejo di La Guardia sarebbe stato bruciato sul rogo il giorno seguente.
Seduto sul balcone, ancora convalescente, poggiò il capo sullo schienale e chiuse gli occhi per un istante sentendosi stanco.
Almeno quell’uomo forse avrebbe avuto la sua punizione e finalmente avrebbe trovato la pace… o forse no visto che non era per quel peccato che veniva bruciato... e lui cosa avrebbe fatto? Un’idea gli era balenata per la mente in quei giorni, attraversare il mare come aveva fatto il genovese due anni prima. Andare nel Nuovo Mondo, una cosa assurda, non sapeva nemmeno cosa avrebbe potuto fare una volta arrivato là; per un attimo aveva pensato che avrebbe potuto predicare la parola di Dio, rendersi utile in tale modo, ma poi aveva sentito di nuovo il peso della sua vergogna: come poteva osare insegnare ad altri? Magari li avrebbe dannati anch’essi.
No, doveva isolarsi, avrebbe trascorso quel che gli restava da vivere isolato, cercando di combattere quella peste interiore che lo aveva contagiato. Decise che non si sarebbe arreso, non si sarebbe piegato, avrebbe cercato di lottare con tutte le sue forze.
Riaprì gli occhi e fissò il cielo velato di nuvole. In quella mattinata grigia, radicalmente diversa da quella precedente, si sentiva molto più a suo agio e ritrovò la sua forza ferrea che dopotutto non era scomparsa. Avrebbe lottato, quantomeno per limitare quell’orrore, mai più sarebbe caduto in delle debolezze tanto grandi come con quell’uomo, come in quella stanza, quando lo aveva baciato senza più avere il controllo di sé.
Quell’uomo, lo avrebbero bruciato; era strano come l’essere che lo aveva gettato in quell’abisso tra poco sarebbe stato solo cenere, mentre lui avrebbe continuato a vivere portando dentro quella deviazione maligna che gli aveva istillato. Provava ancora rancore, ma sapeva che l’unica vera colpa era ormai la sua, era stata la sua debolezza a spingerlo ancora verso quell’uomo.
Quella sera, nel sotterraneo, gli era stata data una seconda opportunità. Avrebbe potuto redimersi scacciando il suo peccato, e invece ci era ricaduto dentro, invischiato in quella pece nera di sua spontanea volontà, e la mattina seguente quell’uomo sarebbe stato cenere. Aggrottò le sopracciglia riflettendo. Forse voleva parlargli prima. Sì, voleva parlargli prima che morisse, come se avendolo iniziato al peccato potesse spiegarglielo, trovare un ordine nella confusione della sua anima... forse poteva, in fondo forse era davvero un servo del demonio ed era stato consapevole di quello che gli faceva... forse lo aveva fatto coscientemente, proprio per ottenere quel risultato... ma allora era necessario che gliene chiedesse la ragione! Sì, il perché lo aveva fatto, prima che morisse. Prima che venisse la mattina seguente. Quella notte.


La guardia aprì la porta che cigolò sui cardini e lo fece entrare.
La cella era diversa, più grande, quella riservata ai condannati in attesa di esecuzione. Era posta al livello della strada, non nel sotterraneo più basso, e la luce della luna filtrava all’interno da due grate poste in alto sulla parete come una cascata di bellezza in quell’oscurità sordida.
“Aspettate santo padre, vi porto una luce...” disse con reverenza la guardia girandosi verso il corridoio.
Francisco aguzzò lo sguardo nell’oscurità cercando di abituarsi alla penombra argentea, non fu difficile, quella notte la luna era piena.
“No, vi ringrazio, non ve ne private vedo anche così”, rispose con un cenno di ringraziamento, “andate pure.” concluse, poi entrò mentre l’altro gli rivolgeva un inchino rispettoso e richiudeva l’uscio senza inchiavare.
I passi si allontanarono.
“Siete tornato.”
La voce risuonò profonda e avvolgente nella cella prima ancora che il rumore dei passi si spegnesse del tutto. Alejo di La Guardia era accovacciato in terra, appoggiato alla parete in un tratto del muro poco rischiarato, quasi una figura scolpita nella densità dell’ombra stessa. Le iridi. Le iridi blu sembravano qualcosa di irreale, un sogno notturno. Come obbedendo alla forza della luce lunare avevano una lucentezza simile a quella del metallo, che si stagliava in quel colore denso come il fumo, piatto e compatto come il mare di notte.
Non dimenticherò mai questi occhi finché avrò vita, capì Francisco, sentendo quanto ciò fosse una verità assoluta, capendo che quegli occhi sarebbero stati una delle cose che avrebbe rivisto nell’istante della morte, nella summa della sua vita, come il viso di sua madre.
Avanzò di qualche passo, poi si fermò.
Questa volta un fiotto di luce illuminava in pieno lui, mentre l’ombra, per uno strano gioco di simmetrie, velava l’altro, i suoi lineamenti, il modo in cui sedesse, tutto a parte gli occhi.
Francisco si guardò per un istante, osservando il saio bianco che sembrava un alone luminoso nella luce lunare.
“Perché siete ritornato?”
La voce si spanse come prima, ma con una nota negativa, in qualche modo ostile. Odio? Disprezzo? Diffidenza? Una diffidenza esausta.
“Dovevo parlare con voi.”
Non trovò altro da dire, e anche quello lo disse fermo, duro, come quando ancora sedeva sul suo scranno.
“Domani mi bruceranno.”
Questa volta la voce era roca, e c’era una follia disperata trattenuta a stento.
Gli colpì lo stomaco come un pugno, non sapeva perché ma era così, sentirla in quello stato: poche cose lo avevano ferito in quel modo. Forse era la disperazione di un altro essere umano a essere tanto penosa? Forse era così perché adesso si trovava dall’altra parte del muro.
“Mi hanno fatto radere, ora, dopo giorni che lo chiedevo e non mi davano nemmeno un secchio per lavarmi... ma il perché è semplice, lo sapete, domani prima dell’esecuzione mi raderanno anche i capelli, è perché potrebbero prendere fuoco troppo in fretta, invece la sentenza prescrive che tutto si svolga con lentezza... con lentezza...”
Era roca, roca di terrore, roca di disperazione... basta, non voleva sentirla così!
Il silenzio scese su di loro mentre Francisco fissava il pavimento, incapace per qualche ragione di alzare lo sguardo. Le immagini di tutti i roghi che aveva visto gli si affollarono nella mente, distinte e confuse, eppure... eppure tra tutte non ce n’era una di un condannato poco prima che salisse al patibolo, di quegli attimi in cui veniva preparato per gli ultimi passi della sua vita, per il dolore più atroce. Come può un semplice uomo sopportare quei momenti?
“Rispondetemi, c’è una cosa che io voglio chiedervi. Qual è il terribile peccato che commette un uomo nell’essere ebreo e contemporaneamente spagnolo? Quale delitto ho commesso per meritare una simile pena? Quale? Io non ho ucciso Cristo, solo non riesco a considerarlo il figlio di Dio, se lo facessi avrei due dei, mentre Dio può essere solo uno, come lui mi ha comandato, ma queste sono vuote discussioni. Io vorrei solo sapere cosa ho fatto come essere umano per meritare tanto odio.”
La voce era più chiara ora, stava riacquistando un velo di freddezza.
Francisco deglutì, la sua mente andò rapida alla sua istruzione teologica, alla sua esperienza, formulando frasi su frasi da dire in quel momento, ma stranamente tra di esse si rese conto che non c’era nemmeno una risposta, o forse solo una, quella che avevano dato anche a lui tanti anni prima, tante volte, radicandogliela nel cuore come il comandamento più sacro.
“La mia Chiesa chiede questo, la mia Chiesa per me esprime il volere di Dio, e per questo non devo pormi domande, solo servirla.” mormorò quieto.
Il silenzio sembrava quasi un rumore assordante quando era così assoluto.
“Ho capito”, disse infine la voce, sincera, “ma c’è una cosa, una cosa che voglio chiedervi dunque. Non ve la chiederei se avessi altra scelta, non so nemmeno se voglio davvero chiedervela, devo farlo, ma prima vorrei sapere il vostro nome. Ve lo chiedo come a un altro uomo, non come a un inquisitore.”
Inspirò: “Il mio nome è Francisco D’Avalos.”
L’altro lo recepì per un attimo, fissandolo con quelle iridi lunari.
“Francisco...” sembrò restare per un attimo nei suoi pensieri, poi riprese, “Francisco D’Avalos, vi devo chiedere un favore, un favore a titolo personale e spero che vogliate accontentarmi. Io vorrei che voi badaste alla sistemazione di mio figlio.”
Francisco sgranò gli occhi, incredulo mentre la voce continuava.
“I miei beni verranno confiscati come quelli di ogni condannato, mio figlio non ha più nessuno, anche la madre di mia moglie è morta... ed io è come se già lo fossi. Vi prego di sistemarlo in un... convento, dato che non c’è altra soluzione, ma non abbandonatelo al suo destino, ve ne prego...” concluse in un soffio che era una supplica. Quell’uomo orgoglioso lo supplicò per suo figlio.
Francisco serrò la mascella, vide l’immagine del bambino.
“Ve lo giuro Alejo di La Guardia. Mi occuperò della sistemazione di vostro figlio, crescerà senza problemi, ve lo giuro sulla mia vita.” promise con tutto il suo essere.
Era vero. Quell’uomo ora non pensava solo a sé, ma anche a suo figlio. Moriva lasciandolo solo: come può un semplice uomo, affrontare una simile prova?
E lui? Cosa era venuto a dire? Cos’altro era venuto a chiedere a quest’animo che già era gravato da pesi simili? Di prendere anche i suoi che non riusciva a portare da solo?
“Vi ringrazio. Ora posso morire più tranquillo.” rispose la voce profonda con un velo di resa, di abbandono. Capì che solo ora che aveva affidato suo figlio a qualcuno si era davvero sottomesso all’idea di dover morire.
Dal suo alone di luce lunare Francisco D’Avalos chinò impercettibilmente il capo in un gesto di assenso rapido e netto, quasi marziale.
“Non temete per il bambino, affrontate pure serenamente il vostro destino. Io credo che Dio, nella sua grazia infinita, forse avrà pietà di voi e salverà la vostra anima.”
Sentì quelle parole sulla sua bocca come una veste usuale, calda e confortevole, ma dall’oscurità gli rispose una risata, una risata di gola, risonante, un po’ sguaiata. Si gelò.
“Vi ringrazio della vostra benevolenza cristiano. Sicuramente una frase simile, rivolta ad un giudeo come me, deve essere stata una fatica per un ortodosso come voi! Ma purtroppo non credo che Dio avrà pietà di me, e non perché sono ebreo, la dannazione mi aspetta, solo quella troverò.”
“Se il vostro cuore ha in sé dei peccati potete provare a pentirvene sinceramente, ma del resto riguarda solo voi.” disse rigido distogliendo lo sguardo, sprezzante per quell’atteggiamento. Quest’uomo rideva anche della sua dannazione: era assurdo, come poteva? Per un attimo pensò che fosse ateo, e rabbrividì a quel pensiero innominabile.
“NO NON È VERO CHE RIGUARDA SOLO ME!”
Francisco sobbalzò a quel grido roco, improvviso, riportando gli occhi sulla figura accovacciata con spavento.
“NON RIGUARDA SOLO ME!!” ripeté la voce rabbiosa, di colpo fuori controllo e piena d’ira, le iridi lunari lo divoravano lucide come lame. Un pensiero si fece strada nella mente del frate.
“Perché siete venuto? Rispondete. Siete venuto a compiacervi della sentenza che purtroppo non avete potuto emettere di persona?! O forse a divertirvi nel vedere un misero giudeo implorare, avere terrore per la propria vita? O cosa? Rispondete!!”
Francisco si raddrizzò sulla sua persona, sollevando il capo e fissando la figura rannicchiata.
“Sono venuto a chiedervi sinceramente, come un semplice uomo, se siete un emissario del Maligno e se siete stato mandato per dannarmi.” deciso, risoluto, con un’aria di sfida.
Di nuovo una risata gli rispose dall’ombra.
“Sì, siete un esaltato, in effetti non potreste non esserlo. Cosa vedete in me di tanto terribile? Non sono un demonio, sono un semplice uomo, convincetevene infine. Siete voi, voi a dire a me se sono un demonio; voi siete un ingenuo dunque?”
Francisco abbassò gli occhi di scatto, sentendosi arroventare.
“Io sono... un uomo di Chiesa. La mia fede è sempre stata salda, ma ora sono dannato...” Inspirò cercando di farsi coraggio. “Alejo di La Guardia, io ho abbandonato spontaneamente il vostro processo e credo che abbandonerò anche l’Inquisizione, non sono più degno di servirla. Il peccato che avete istillato in me è grande, terribile. Non ho trovato in me la forza per oppormi e questo è indegno di un servitore di Dio.”
“Non dite sciocchezze!” lo interruppe la voce.
Francisco aggrottò la fronte, di nuovo simile all’inquisitore terribile che c’era in lui, ma gli occhi lo guardavano immensi: in quelle parole non c’era disprezzo.
“Voi...” la figura nell’ombra sospirò. “Io domani dovrò morire, lo sapete... volete sapere perché Dio non potrà mai accettare la mia anima? Sapete ciò che intendo dire senza che mi spieghi ancora, vero? In questo il vostro Dio non è diverso dal Mio.”
Francisco riabbassò la testa di scatto e fece un passo indietro.
“NO! Aspettate, io non ho più nulla da perdere, so di essere dannato; ma c’è una cosa che desidero prima di morire. Venite avanti, vi riguarda; la mia anima vi riguarda più di quanto crediate e dovete ascoltarla, DOVETE ascoltare il peccato di questo giudeo!!!”
Un attimo passò titubante, silenzioso, poi la figura bianca tornò al suo posto sotto la luna, a capo chino.
“Francisco.”
Con un sussulto gli occhi chiari si rialzarono di scatto, sgranati, e l’uomo si rese conto che dovevano essere rare le volte in cui qualcuno lo chiamava così. Continuò.
“Francisco, io sarò dannato per causa vostra. Siete voi che mi avete fatto commettere un peccato ignominioso, un desiderio contro natura”, la figura bianca rabbrividì, “e capite che la mia anima è dannata, non ho scampo, domani la mia fine sarà sancita. Non posso nemmeno affrontare il fuoco con la serenità del giusto, nonostante mi brucino per una colpa che non esiste; ma allora ho un desiderio: vorrei l’essere per cui mi danno. Voi.”
Le parole risuonarono nella stanza vuota, e al frate sembrarono rimbombare all’infinito, le une sulle altre, fuori e dentro di lui... e non provò orrore. Non provò orrore per quelle parole. La risposta che cercava: il peccato era suo e di nessun altro. Quell’uomo non lo stava blandendo con astuzia, non cercava di ingannarlo. Quell’uomo era solo un peccatore come lui, niente di più... o no?
“Voi siete bello Francisco, in un modo terribile. Siete il mio peccato e io vi desidero.”
La voce roca e vibrante lo investiva penetrandogli nel sangue, gli sembrava di tremare, di sognare... cosa gli stava dicendo? Cosa provava nel sentire quelle parole?
“Non mi importa niente della mia anima, io vi voglio, lo so cosa pensate, come rabbrividite di fronte al mio peccato vergognoso. Siete un esaltato, un bigotto, questa è la verità. Io almeno sono sincero, guardarvi eccita il mio desiderio, non vedervi eccita il mio desiderio... e voi? Vi eccitava frustarmi? Perché siete scappato? Per cosa? Per il bacio che mi avete dato? Quello è il vostro terribile peccato? Siete una vergine ingenua, un fanciullo: quello era quanto di più casto, non potete immaginare i pensieri che io ho per voi...”
Il giovane prete alzò le mani di scatto, con un singhiozzo, afferrò la stoffa bianca e tirò. Si sfilò l’abito rapidamente, come quando si spogliava la sera o prima di lavarsi, ma con una furia isterica. Lo posò per terra, con una rabbia esasperata.
L’uomo sussultò, si raddrizzò come serrandosi contro il muro, quasi spaventato. Un rumore metallico. Catene.
Francisco rimase fermo per un attimo, dritto in piedi, rabbrividendo, fissandolo febbrile. La luce lunare bagnò di chiarore quel corpo nudo e bianco, più bianco del saio.
Sentiva gli occhi blu su di sé, li sentiva come il tocco di una mano, più profondi del tocco di una mano.
Lo guardava.
“Volete vedere il mio peccato giudeo?!” sibilò con un tono stranissimo su quella voce in genere netta e ufficiale, quasi di perfida minaccia o divertimento instabile, autodistruttivo.
Gli occhi lo fissavano increduli, sconvolti al punto di essere intimoriti. E il prete avanzò verso di essi, fulmineo e rabbioso. Quando gli arrivò davanti lo vide finalmente con chiarezza, vide il torace nudo, la pelle scura, le gambe lunghe piegate e ricoperte da quel che restava dei pantaloni, le braccia con i muscoli affusolati che cingevano le ginocchia, le catene che dalle sue caviglie lo legavano alla parete di pietra. E vide il viso. Il viso dagli zigomi pronunciati, la linea delle narici che gli davano un’aria altera, le labbra ampie e sensuali, gli occhi dal taglio arabo, orientaleggiante, il loro colore ipnotico... ma lo vide solo per un istante, prima di afferrarlo per i capelli.
Strinse con forza quelle ciocche aggrovigliate, scure, strattonandolo con violenza e rovesciandogli il viso verso l’alto, poi si chinò e si avventò sulla sua bocca d’istinto, senza sapere cosa faceva e non importandogliene. Il tentativo di bacio si trasformò in un morso mentre l’uomo emetteva un gemito soffocato e i suoi occhi blu restavano sbarrati a fissare il nulla, ma l’inquisitore staccò la bocca per un attimo e lo spinse a terra di lato, disteso, cadendogli addosso con il suo peso e cercando di nuovo quelle labbra che ora erano bagnate di sangue. Il rumore delle catene smosse li accompagnò.
Alejo emise un urlo di dolore, ma l’altro nella sua furia lo recepì a stento.
“Cosa c’è giudeo? Non volevate vedere il mio peccato? Eccovelo! Pensate forse che poiché sono un frate io non sia un uomo? O è perché sono biondo? Potrei fottervi, così si dice, no? Non so come si fa ma posso sempre provare!”
Gli occhi di metallo scuro lo fissavano sbarrati, la bocca si schiuse per formulare una risposta, ma di nuovo fu tappata da quella furia rabbiosa e sentì il sapore del sangue.
Francisco ritrovò quelle labbra gonfie e calde e riprese a premerci sopra con le sue, a morderle senza volerlo, come cercando di divorarle senza sapere come. Avvertì una mano accarezzargli il collo, la nuca, infilarsi tra i suoi capelli. Le labbra si schiusero docili, abbandonandosi alla sua violenza, e mentre lui si bloccava un attimo senza capire gli accarezzarono morbide la bocca, seguite dalla lingua. La mano lo spinse di più verso quel calore dolce. Chiuse gli occhi e smise di muoversi, dimenticandosi della sua rabbia: non voleva muoversi, era bello quello che gli faceva, da solo quel piacere infinito non lo sapeva prendere da quella bocca, non poteva se lui non glielo dava. Sentì l’uomo sospirare, e senza accorgersene riprese a seguire le labbra dimenticandosi di respirare se non quando l’altro si staccava appena, riprese a tentare di imitarlo cercando di aumentare quel piacere all’infinito: di più, ne voleva di più! Ancora…
Una mano scivolò sulla sua coscia nuda, salendo verso l’alto e si chiuse su uno dei suoi glutei, lo strinse, lo spinse verso il basso; un’ondata di godimento quasi folle lo investì. Era quell’ancora che voleva ma non lo recepì nemmeno, staccò la bocca con un gemito e si protese istintivamente con i fianchi mentre il suo respiro si faceva più rapido, sbarrando gli occhi e puntellandosi sui gomiti. Le dita della mano su di lui si mossero leggermente scivolando sulla sua pelle chiara; di nuovo premette coi fianchi, più di prima, inarcandosi e chiudendo gli occhi fuori di sé.
Un urlo soffocato gli fece eco dal basso, un sussulto di dolore. Riaprì gli occhi semicosciente, guardando il viso tra i suoi gomiti: era teso dal dolore, gli occhi e le labbra serrati. Sbatté le palpebre senta capire, aggrottando le sopracciglia.
Non gli piace... cosa sto facendo?!
Si sentì gelare. Vergogna.
Come avvertendo quel terrore istantaneo gli occhi blu si riaprirono, il bel viso abbozzò un mezzo sorriso tirato ma candidamente sincero, non cercava di nascondere il dolore. Francisco non gli aveva mai visto un’espressione simile: era privata, personale. Si sentì strano, non aveva mai condiviso un’espressione simile con qualcuno.
“Non è colpa vostra... o forse sì: è la schiena, mi duole ancora molto sapete.”
Il frate si sentì un’idiota. Con la sua mente brillante gli era capitato rarissime volte nella sua vita: lo odiava, odiava non sentirsi mentalmente all’altezza di qualcosa. Si sollevò rapido, tirandosi indietro e mettendosi a sedere evitando di guardarlo.
“Ma certo... non... non lo ricordavo... vi duole, certo...” mormorò cupo.
L’altro si tirò su a fatica riprendendo fiato, le catene rimandarono il loro rumore metallico. Lo fissò.
“Voi siete davvero completamente... inesperto...” disse stupito, divorando il suo corpo con gli occhi.
Francisco girò la testa di scatto, con una rabbia sprezzante, mostrandogli inconsapevolmente il suo profilo dritto e fine, e la linea del collo.
“Io sono un ministro di Dio: la castità era uno dei miei compiti e ho saputo adempierlo sempre con la massima sincerità, nulla può essere fatto a metà, cercare di ingannare lo sguardo di Dio è un sacrilegio inammissibile.” Si blocco, abbassò il viso con una smorfia amara, “…anche se ora non sono più degno di essere un servo del mio Signore... ora sono solo un essere abbietto nel modo più infame... ora è questo che mi si addice, questa cosa... animalesca... contro natura ...”
L’ebreo lo fissò ancora per un attimo in silenzio.
“Voi non avete mai goduto del vostro corpo né di quello di un’altra persona, e ditemi: vi piace? Questa cosa vi piace?”
Francisco rialzò gli occhi di ghiaccio fissandolo, aggrottò le sopracciglia.
“Cosa intendete?” chiese riluttante, indignato. “Dovrei compiacermi del mio peccato? Lo trovo orribile, orribile e vergognoso...” si bloccò, fu come se riacquistasse la consapevolezza di essere nudo e si irrigidì, fissando il suo abito gettato per terra.
“Dunque vi vergognate, siete un uomo e vi vergognate di esserlo?! Questo produce allora la vostra Chiesa con le sue regole bigotte e assurde?! Dei pudichi vergini crudeli poiché gli è vietato ogni piacere?”
“NON OSATE NOMINARE LA MIA CHIESA!!! VOI NON DOVETE OSARE EBREO!!! COME SI POTREBBE APPARTENERE A DIO CONSUMANDO IL PROPRIO ESSERE E INSOZZANDO LA PROPRIA PUREZZA NEL RIPRODURSI ANIMALESCO CON UNA DONNA?! MA DEL RESTO IL VOSTRO POPOLO UCCISE CRISTO SULLA CROCE, SIETE I CANI DEL DEMONIO DALL’ETERNITÀ !”
Lo sguardo era di nuovo affilato come una lama, la voce dura e imperiosa come l’atteggiamento. Era di nuovo l’inquisitore che lo aveva frustato fino allo sfinimento, in quell’uomo le due essenze coesistevano in un modo vorticoso: una ingenua innocenza e una consumata e feroce forza, abituata a dominare, imperare senza tollerare ostacoli di sorta.
“Allora dimostrate a questo cane ebreo di essere un uomo, coraggio, prendetevi il vostro piacere ora che non siete più un fedele servo del vostro Dio bigotto ma un lurido invertito!” sibilò con odio l’uomo socchiudendo gli occhi blu in due fessure rabbiose.
La mano dell’inquisitore scattò rapida e lo afferrò per i capelli, torcendogli la testa e avvicinandola alla sua. Le iridi di ghiaccio lo fissavano colme d’ira.
“Non osate rivolgervi a me con quel tono, o domani vi farò fare la morte più orribile che potreste immaginare giudeo: nonostante il mio peccato io sono ancora un Inquisitore, voi siete un vile EBREO.” sillabò torcendo il viso in una espressione di disgusto.
“Bene, Messer Inquisitore.” sorrise feroce l’uomo ignorando il dolore.
Gli afferrò il polso stringendo, stringendo più che poteva, fino a che non lo costrinse a lasciare la presa, poi lo fissò con le sue iridi blu, lucide e sfrontate, e piegò la testa sul suo torace sfiorandolo col respiro.
Francisco sussultò, fece per ritrarsi ma alle sue spalle incontrò il muro, e intanto il viso dell’uomo scese rapido sfiorandolo appena, chinandosi su di lui come se volesse poggiargli la testa in grembo... e infine fece una cosa inammissibile.
Mentre le sue dita prendevano lo strumento mai scoperto del suo piacere e la sua bocca scivolava calda su di esso Francisco emise un grido roco affondando le unghie nella pelle di quelle spalle scure chine su di lui.
“COSA… COSA MI FATE MALEDETTO?!! LASCIATEMI, NON OSATE TOCCARMI!!!” la voce terrorizzata, stridula infine.
L’uomo, ignorandolo, iniziò a fare di lui quello che voleva. Lui cercò di ribellarsi, isterico, senza nemmeno recepire inizialmente quello che gli stava facendo, ma di colpo i suoi sensi ripresero il sopravvento e allora il piacere si irradiò liberamente su di lui.
Si appoggiò al muro di pietra, tendendosi senza volerlo, boccheggiando. Fu come cominciare ad impazzire.
“No... lasciatemi... siete… questa cosa è... orribile, è una vergogna orribile.”
Smise di parlare e iniziò a respirare convulsamente, gemendo senza volerlo, terrorizzato e schiavo del godimento che gli stava procurando, bloccato tra il piacere e il pudore e il terribile senso di colpa. Le dita stringevano ancora le spalle, senza sapere cosa fare o contro cosa lottare.
Inarcò la schiena chiudendo gli occhi e mormorando proteste sconnesse, e l’uomo smise. Si staccò da lui. Francisco non se ne rese conto se non dopo qualche attimo, travolto dal desiderio, provando per la prima volta in vita sua il tormento di non essere appagato.
“Cosa... cosa... fate?” balbettò roco.
La testa dell’uomo si sollevò a guardarlo, le iridi scure brillavano e un sorriso cinico gli piegava le labbra umide, gonfie.
“Ritirate quello che avete detto su di me e la mia gente; ritiratelo e pregatemi di continuare, poiché voi siete crudele visto che non vi è stato concesso di godere, questo vi rende tanto gelido e rabbioso e vi fa disprezzare la natura umana.”
Per un istante il frate lo fissò in silenzio, con gli occhi chiari spiritati nel loro stravolgimento, poi le sue dita affondarono sulla schiena segnata dai tagli facendolo urlare di dolore, e mentre l’altro si accasciava lo afferrò per i capelli e se lo tolse di dosso rialzandosi rapido.
Si riavvicinò al suo abito e se lo rimise freddamente, dando le spalle al condannato ancora chino per terra, poi uscì nel silenzio interrotto solo dai gemiti di dolore dell’uomo.
La porta si richiuse.
Le iridi blu la fissarono tormentate.
“Addio...” mormorò con un sorriso disperato Alejo di La Guardia.
 

- fine capitolo 2 -