TITOLO: Le Syriane
AUTORE: Marty.
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 14/19 (ho finito la sceneggiatura! È completa!)
PERSONAGGI: Kaede Rukawa - Hanamichi Sakuragi
RATING: Songfic, angst, NC-17 in alcuni capitoli.
DEDICHE unt RINGRAZIAMENTI: a Niane, sempre, per il prestito dell’Iguana e naturalmente alle mie sisters, nonché a Nuel ed Aurora che commentano puntualmente ^^
DISCLAIMERS: I personaggi sono di Takehiko Inoue, io
sono sempre la poveraccia senza un soldo bucato che ero quando ho acceso il pc,
anzi, ci ho pure sacrificato qualche ora di sonno…le canzoni (tranne un paio)
sono di Syria, da cui il titolo della fic ^^
La frase sugli album di foto è presa dal film “Just
Married”.
NOTE 01: RuHanaRu forever! Ma adoro anche
Mituccio, Hisashi (che è di Yukari ^^)…e chi più ne ha più ne metta!
La storia
prende spunto da una serie di canzoni della cantante Syria.
Per qualsiasi commento (
accio ) la mia mail è marty_rurulove@yahoo.it
!
NOTE 02: tra gli asterischi i flash back, in corsivo il testo delle canzoni/poesie, i cambi di POV sono segnalati...tutto come sempre insomma! Ah, dato che in ML non si vede il corsivo (non ho mai avuto questo problema, non utilizzando i testi ç_ç) mi limiterò a piazzare le strofe solitarie in mezzo a righe vuote…dovreste capire quali sono ^^
NOTE 03: andate tutti a leggere la saga dell’Iguana Club di Niane!!! È qualcosa di davvero fantastico, e poi qualcosa le devo in cambio del prestito no? ^^
ARCHIVIO: se Ria o Erika o Benni (o chi per loro) la vogliono...la pubblichino pure! Mi faranno solo felice!
Spero vi piaccia!
Un baci8 a tutti!
Marty
UN
PASSO INDIETRO: in questo spazio, metterò il riassunto del capitolo precedente
e le mie annotazioni.
Nello scorso capitolo, il padre di Hanamichi
ha fatto visita al figlio in sogno, per dirgli addio e per strappargli una
promessa: essere felice anche per lui…
-capitolo quattordicesimo-
- Non posso perderti -
Una sensazione di bagnato sulla guancia lo svegliò di soprassalto.
La finestra era aperta, proprio all’altezza della sua testa, e la pioggia picchiettava sul cornicione e sulla sua guancia.
Hanamichi si tirò a sedere, asciugandosi il volto e il collo con la manica del pigiama.
“Che strano sogno….” Mormorò guardando la luce grigiastra dell’alba che iniziava ad invadere la sua stanza forando alcune nuvole cupe e plumbee.
Suo padre che lo salutava, e lo pregava di fare del suo meglio per essere felice.
Il rossino si strinse le ginocchia al petto, vi appoggiò il mento sopra e rimase così, per qualche minuto, a rimuginare.
Aveva trovato il suo scopo nella vita: giocare a basket. Aveva trovato degli amici con cui condividere il cammino verso la sua crescita personale, come uomo e come giocatore.
Tutto sommato, era felice.
Perché non avrebbe dovuto esserlo?!
Si morse un labbro.
Perché non erano gli amici che avrebbe voluto accanto in quel momento.
Non erano gli amici che con uno sguardo parlavano al suo cuore.
E soprattutto, non era con quegli amici che voleva fare l’amore.
Possibile che fosse ancora questa l’unica cosa che gli importava?! Il sesso, con Kaede?!
Hanamichi si diede mentalmente dell’imbecille.
Sapeva perfettamente che così non era, e allora perché diavolo cercava di arrampicarsi sugli specchi accampando stupide scuse per non cercare di riprendersi l’unica persona che avesse mai amato?!
Se il suo fosse stato mero desiderio carnale, non sarebbe stato il suo cuore a sanguinare tanto.
“Mi manca il plaid con i gatti che c’è sul suo divano…
Mi manca il suo volto, che dal vivo è un milione di volte più bello che in foto…
Mi mancano le nostre liti e la sua voce…
Mi mancano le sue braccia intorno al collo…
Mi manca il suo ritorno dagli allenamenti, quando è stanco e sudato…
Mi manca il mio Kaede…”
Solo quando sentì la sua voce spegnersi nel silenzio della sua stanza riuscì a metabolizzare quello che sentiva.
Poteva essere un cretino insensibile, che sembrava nato apposta per fargli perdere le staffe, ma lui lo amava.
Ed era il momento di farlo sapere anche a lui, ‘fanculo il resto.
Si alzò dal letto, incurante della pioggia che lo inondava, e si avvicinò alla sua scrivania. Trasse dal primo cassetto un block notes a quadrettoni, la sua penna a sfera e una busta un po’ stropicciata su cui era già attaccato un francobollo. Rovistando ancora un po’ nel cassetto, trovò un foglio mezzo accartocciato su cui aveva appuntato numero di telefono ed indirizzo del famoso Hiroshi da cui Kaede si era recato.
Lo trascrisse con cura sulla busta, poi sulla parte davanti aggiunse un appunto per lui. Non voleva che leggesse la lettera, ma solo che la consegnasse a Kaede.
Respirò a fondo e poi scrisse di getto.
Baka kitsune!
…
Ok, il baka sono io.
Non avrei dovuto gettarti
addosso la mia infelicità.
Ma kuso! Sei tu che mi cavi di
bocca le cattiverie e mi chiami i pugni, scusa!
No, ok, la smetto. Non volevo
accusarti di nulla, non in questa lettera, almeno.
Mi dispiace, va bene? Mi
dispiace di essermi trincerato dietro alla mia tempesta ormonale per ignorare
bellamente quanto nella mia vita fossi diventato importante.
Mi dispiace per averti usato,
senza darti niente a cui appigliarti quando io non c’ero. Dirò a mia difesa che
le tue proteste non erano granché convincenti, però.
La verità è una (arrossisco
anche nello scriverlo): ti amo, maledizione.
Ti amo e non posso farci niente.
Sei diventato sempre più
presente nella mia testa, nel mio cuore, nei miei pensieri…addirittura nei miei
ricordi! Sai che comincio a rivederti in ogni momento della mia vita?!
Come diceva qualcuno “Il taglio
sul ginocchio, la bici nel fosso, la mia prima sbronza e anche la seconda…fu
tutto per arrivare a te”. Beh, è esattamente questa la mia sensazione.
Tutto ha acquistato un senso da
quando ho smesso di rinnegare ciò che sentivo.
Quando ero piccolo mio padre mi
diceva sempre che l’amore si può vivere in due modi: come un rischio calcolato,
evitando quanto può farci soffrire e non scoprendoci mai più di tanto, oppure
come un fulmine a ciel sereno, una bolla di calore che esplode rovesciando su
di noi i suoi innumerevoli frammenti, illuminando tutti quegli angoli del
nostro cuore di cui fino a quel momento abbiamo ignorato perfino l’esistenza. E
poi diceva che quando due persone si amano, sono come una formula chimica.
Qualcosa di lampante ed inequivocabile, che dà un risultato all’operazione della
nostra vita che altrimenti resterebbe insoluta.
Mio padre amava le scienze
matematiche! Parlava anche delle anime gemelle che sarebbero come seno e coseno
formando un angolo perfetto, ma meglio che non mi impegoli in un discorso
simile: finirei per sparare una marea di cazzate, e anche se (visto che tu non
brilli come studente) probabilmente non te ne renderesti conto meglio non
rischiare.
Mia nonna invece, che era una
patita delle fotografie, diceva che la vita è come una pellicola, su cui resta
impressa ogni lacrima, risata o litigio. Una volta mi mostrò il suo album delle
foto, e io le dissi che lei ed il nonno non litigavano mai e andavano sempre
d’accordo, visto che sorridevano felici in tutte le foto. Lei mi accarezzò i
capelli e mi disse “Hana, in un album di foto si raccolgono solo i momenti
belli, ma sono quelli brutti che ti permettono di passare da uno scatto
all’altro, perché è in quelli che si cresce insieme e si impara a volersi bene
davvero.”
Ah, e poi diceva che quando in
un bacio c’è vero amore il resto del mondo scompare in un alone bianco, come
quando ti scattano un flash negli occhi che ti acceca per qualche minuto.
Che famiglia, eh? Tutti dei Geni
delle metafore!
Mi sono detto e ridetto che mi
facevi male. Mi facevi STARE male, soprattutto. Come quella sigaretta che mi
accendevo quando ero troppo teso, durante i miei anni da teppista. Era una
manna per i miei nervi, e nonostante sapessi perfettamente quanto male poteva
farmi non ci rinunciavo. Ne avevo bisogno, un bisogno psicologico disperato. Ed
è la stessa dipendenza che ho da te adesso, Kaede. Il pensiero di te mi fa
girare la testa, come il tuo profumo e la tua pelle serica. Mi gira la testa,
come quando si balla volteggiando troppo vorticosamente.
Io ti amo.
Dopo averlo detto una volta, mi
sembra che ora venga fuori più facilmente.
Forse riuscirò anche a dirtelo
di persona!
Sai, i momenti in cui il mio
corpo si aggrovigliava al tuo ed io ti riempivo di marchi che attestassero che
eri mio, ti sentivo gridare. Il tuo sudore, il tuo sguardo da belva ferita, il
tremito delle tue mani. Tutto gridava. Ma io…non potevo fermarmi. E sai perché?
Perché non volevo perderti. Non potevo, non posso perderti. Il contatto fisico
era l’unico che ci legasse e mi ci aggrappavo con tutta la disperazione di chi
non ha niente da perdere. O tutto. E poi la verità è che anch’io gridavo.
Perché mi dilaniava l’anima farti del male.
Solo che nessuno mi ha mai
insegnato ad amare, ad essere amato, a CONDIVIDERE qualcosa.
Non che questa sia una
giustificazione, me ne rendo conto perfettamente.
È che pensavo…ecco, neanche tu
sei un grande esperto di relazioni e sentimenti, no? Basta pensare a cosa mi
hai fatto in quel vicolo. Oh, certo, non era che un assaggio di quello che ti
avevo fatto patire io, però…insomma…potremmo ricominciare. Imparare insieme a
volerci bene, come diceva la nonna.
Io non credo che sia troppo
tardi.
La mia vita è in bilico
sull’abisso di un’eterna solitudine senza di te. E non voglio caderci dentro.
Ti prego, Kaede, non spingermici dentro. Con te sarei disposto a gettarmi nel
vuoto di un futuro incerto e difficile. Con te potrei farlo. Voglio sporgermi
su quel vuoto mentre ti tengo per mano, stupido volpino spelacchiato.
Non posso perderti, amore mio.
Non posso perderti senza averti
mai avuto davvero con me.
Se lo stare con te mi farà male,
va bene. Se per convincerti a riprovarci dovrò strisciare, supplicarti,
umiliarmi, va bene. Farò tutto quello che vorrai. È una promessa.
Quindi, kitsune, ti prego, non
dirmi che è troppo tardi.
Io non posso perderti.
Hanamichi
(Che non si è mai sentito tanto
do’hao come in questo momento)
Solo quando fu arrivato in fondo il rossino si rese conto di aver trattenuto il fiato per buona parte della stesura della sua lettera.
Non volle neppure rileggerla. Magari era piena di errori, grammaticali, ortografici o sintattici, ma non poteva rischiare.
Sapeva che, se l’avesse riletta, tutto il suo coraggio si sarebbe sgonfiato e non l’avrebbe mai spedita.
Si infilò una mantella impermeabile sul pigiama ed uscì in pantofole sotto la pioggia battente, stringendo la busta al petto, sotto la camicia perché non si bagnasse. La cassetta della posta era proprio di fronte a casa sua. Attraversò correndo e la imbucò.
Ora non poteva fare altro che aspettare.
E pregare perché andasse tutto bene.
*tsuzuku*
un po’ più lungo (e melenso) del precedente…ormai siam quasi alla fine!
Ah, notiziona dell’ultima ora: ho cambiato il finale ^__^