Mi sono divertita tantissimo scrivendo questa fic... spero che il divertimento si colga e che la ficcina non faccia proprio schifo!! Dedico questa mia seconda alla Soffio (che mi ha letto per prima e incoraggiato) e al Comitato tutto! Vvb!! ^____^


L'erede di Shohoku
di Fiorediloto

TITOLO: L'erede di Shohoku
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 3/4
RATING: AU/NC-17
PAIRING: MitKo & SenKosh
DISCLAIMERS: Kiminobu, Hisashi, Ayako, Ryota, Hiroaki, Akira... e insomma tutta la compagnia... non sono miei ma del divino Inoue, che gli dèi l'abbiano in gloria! ^__^

CAPITOLO TERZO: AKIRA

Il risveglio fu molto meno piacevole, probabilmente perché evocato da un sonoro ceffone sulla bocca.
Hiroaki saltò a sedere senza neppure ricordare chi fosse e dove fosse. «Ma che…» Vide Sendo e d’un tratto ricordò, intuì, impallidì.
Il principe di Ryonan aveva un’espressione ben diversa da quella beata che gli aveva lasciato come ultimo ricordo di sé.
«Molto bene» disse, sistemandoglisi sopra a cavalcioni, e bloccando i suoi polsi contro la testiera del letto. «Adesso puoi anche dirmi chi sei.»
Hiroaki strinse i denti. Era tremendamente imbarazzante averlo addosso in quel modo… anche se Sendo indossava una vestaglia e tra loro c’erano le coperte… coperte che Hiroaki non ricordava d’aver avuto sul corpo, quando si era addormentato, ma quella era un’altra faccenda.
«Chi vuoi che sia? Kimi…»
«Credi che sia stupido?» ruggì Sendo, stringendogli i polsi con più forza. «Tu sei tutto tranne un principe!»
Hiroaki fece una smorfia sarcastica. «E cosa sarei?»
«Vista la tua forza, il tuo linguaggio, le tue cicatrici e queste mani piene di calli, a occhio e croce direi un soldato. Davvero credevi che ci sarei cascato?»
«Ieri non mi sembravi preoccupato della cosa» ribatté Hiroaki, avvampando al ricordo.
«Vedi di non parlare troppo, puttanello, quella lingua posso sempre fartela tagliare» minacciò Sendo. «E adesso dimmi chi sei!»
Hiroaki voltò il capo di lato, senza rispondere.
«Ti ho fatto una domanda…»
«Ho capito, non sono sordo.»
Sendo spalancò gli occhi. Mai – mai – da quando aveva memoria qualcuno aveva osato disobbedire a un suo ordine. A maggior ragione uno che si era portato a letto la notte prima!
Solo dopo che avevano fatto l’amore, quando si era fermato a guardarlo immerso nel sonno, tutti i piccoli particolari cui al momento non aveva dato peso si erano composti in un mosaico unitario. L’assenza degli occhiali, le cicatrici sparse in tutto il corpo… quelle mani callose e ruvide che uno studioso non poteva avere. Kiminobu Kogure non aveva mai toccato una spada, era risaputa la sua antipatia per le arti guerresche. E allora, con chi aveva fatto l’amore?
«Dimmi il tuo nome, o ti faccio frustare a sangue!» ringhiò.
«Non mi fai paura. E se davvero sono un soldato sarò abituato a ben altro che le frustate, Altezza!» rispose, con sarcasmo.
«Dov’è Kiminobu Kogure?»
«Per servirvi» rispose quello, serafico.
Sendo sentì qualcosa di molto simile alla frustrazione – sentimento sconosciuto, ma di cui aveva sentito molto parlare – farsi strada tra le pieghe del suo animo. «Dov’è – Kiminobu – Kogure» chiese, sillabando ogni parola. «Perché ti sei sostituito a lui? È stata un’idea sua?»
Lo sconosciuto lo fissò con calma e non rispose.
Era troppo, per Akira Sendo. Non solo aveva dormito poco e niente, tormentato dal pensiero di quello sconosciuto che gli dormiva al fianco, ma adesso quell’impudente lo prendeva anche per i fondelli, no, oh no, ne aveva abbastanza! Scese giù dal letto e gli sbatté in faccia i suoi abiti, neppure suoi, le vesti da cerimonia che dovevano essere del suo sposo. «Vestiti. Vediamo se qualche tempo giù nelle segrete ti fa passare la voglia di fare lo spiritoso.»
Hiroaki scese dal letto e si rivestì, in tutta calma. Adesso che tutto era stato compiuto, si sentiva estremamente calmo. La fuga si progettava più difficoltosa del previsto, ma ciò che aveva temuto di più – e che gli aveva lasciato un dolore ancora intenso, risvegliatosi coi movimenti del corpo – era finalmente passato.
Quel borioso di Akira Sendo avrebbe dovuto strapparsi una per una tutte le sue ciocche da porcospino, prima di cavargli una parola di bocca.
Recuperò uno stivale – l’altro gli fu tirato in faccia dal suo regale “sposo” – e li indossò entrambi. Poi alzò gli occhi, tranquillo, e attese.

Se quello sconosciuto non fosse stato così bello, Akira Sendo l’avrebbe preso a schiaffi fino a fargli passare quell’espressione dalla faccia. Nessuno poteva osare trattarlo in quel modo, per gli dèi! Era l’erede al trono di Ryonan, non un uomo qualsiasi!
E lo sconosciuto non lo guardava come un uomo qualsiasi. Lo guardava peggio. Lo guardava come l’ultimo scarafaggio, l’ultimo verme strisciante, l’ultima immonda e schifosa creatura che camminasse sulla terra. Lo odiava e lo disprezzava. E Akira questo non riusciva a tollerarlo.
Tirò il cordoncino posto accanto al letto e dopo alcuni istanti un servitore fece il suo ingresso da una porticina secondaria. «Mio signore, comandate.»
«Di’ a Fukuda che voglio vederlo. Subito» ordinò, imperioso.
Il servitore si ritirò in fretta.
Akira si voltò verso l’impostore, squadrandolo con aria critica. «Adesso tu te ne vai nelle segrete, e vediamo se qualche giorno al fresco ti farà sciogliere la lingua, uh?» Gli si accostò, prendendogli il volto nella mano. Dèi, era così bello…! Perché non poteva semplicemente essere quello che aveva creduto, il suo sposo? Perché la sua vita doveva essere tanto complicata?
Non aveva rifiutato le principesse di Kainan e Shoyo per trovarsi nel letto un impostore. Aveva accettato di sposare Kiminobu Kogure perché era il meno peggio che potesse capitargli, ma quello era uno sconosciuto plebeo!
«Non contarci» sibilò lo sconosciuto, tra i denti.
«E magari ti insegnerà il rispetto» proseguì Akira, stringendolo più forte alla gola. «Kiminobu o no, tu adesso sei mio, e di te…», appoggiò le labbra sulle sue, «posso fare ciò che… ah!» Si ritrasse. Quel piccolo bastardo l’aveva morso! Si portò la mano libera alla bocca e la ritirò sporca di sangue. «Tu sei il mio giocattolo, è chiaro?» ringhiò, accentuando la stretta.
L’altro impallidì e si irrigidì, rantolando. Lo salvò un bussare deciso alla porta della camera da letto.
Akira Sendo lo lasciò immediatamente, con malagrazia. Non aveva voluto… per gli dèi, lo stava strozzando… lui che non aveva mai ucciso un uomo… «Avanti!» gridò, cancellando in fretta la confusione dal volto per riprendere la solita aria decisa.
«Ai vostri ordini, mio signore» disse Kitcho Fukuda, senza muoversi dalla soglia.
«Chiudi la porta e avvicinati.»
Il capitano delle guardie reali di Ryonan obbedì.
«Tu eri presente al matrimonio.»
«C’ero, Altezza.»
«Sei mai stato nella capitale dello Shohoku, Honor?»
«Sì, mio signore.»
«E hai mai visto il principe Kiminobu?»
L’uomo alzò gli occhi, d’un castano scurissimo, su quelli del principe. «Altezza… lo vedo come lo vedete voi, in questa stanza…»
«No, idiota! In quell’occasione, hai visto o no Kiminobu Kogure?»
Il capitano parve pensarci un attimo. «No, Altezza. Mi pare di ricordare che il principe fosse indisposto, in ogni caso non si presentò al banchetto.»
«Dunque non sapresti riconoscerlo, se lo vedessi.»
«Suppongo… di no, Altezza.»
Akira Sendo indicò l’impostore. «Prendilo e sbattilo nelle segrete.»
«Altezza?»
«Subito! E non discutere.» Gli occhi del principe fiammeggiavano. «Questo non è il figlio dei Kogure.»
Pur sconvolto, Fukuda fece un breve inchino e mosse un passo verso lo sconosciuto che restava, a testa alta, a fissare negli occhi il regale sposo. «Come ordinate, mio signore.» Afferrò il giovane per un braccio e lo trascinò fino alla porta.
«Fukuda?»
«Mio signore.»
«Che non lo sappia nessuno. Ficcagli un sacco in testa o fa’ come ti pare, ma che nessuno lo veda. Siamo intesi?»
«Comprendo perfettamente, Altezza. Eseguirò.»
«Sendo?»
Era stato l’impostore a parlare. Fukuda si fermò.
«Hai cambiato idea?» sbottò Akira, ironico. «Ti si è sciolta la lingua?» Per qualche ragione, sentiva che una resa così puntuale avrebbe tolto gran parte del suo fascino a quell’orgoglioso prigioniero.
Ma l’altro si limitò a sfilarsi la fede dall’anulare e scagliarla sul pavimento, ai suoi piedi.
«Portalo via» ordinò Akira Sendo, voltandosi verso la finestra.
Stava seriamente iniziando a considerare l’ipotesi di andare su tutte le furie.

Rimasto solo nella camera da letto, Akira Sendo chiamò le sue servitrici preferite e si permise di rilassarsi con un lungo bagno caldo, mentre le loro mani delicate massaggiavano la sua pelle. «Andate» disse poi. Restò nella vasca bollente finché non sentì tutte le tensioni abbandonare i suoi muscoli, anche se quelle della mente non lo abbandonarono neanche per un momento.
Sarebbe dovuto andare da suo padre e informarlo dell’accaduto. Se davvero Kiminobu Kogure aveva operato quello scambio per non sposarlo, be’… lo Shohoku avrebbe pagato cara quell’offesa. Nessuno poteva pensare di prendersi gioco del Ryonan in quel modo, tantomeno quel regno di morti di fame…
Sospirò. Il pensiero lo riportava allo sconosciuto che aveva avuto tra le lenzuola. Comunque andasse, per quel giovane ci sarebbe stata la pena capitale, e lui non voleva… che gli fosse fatto del male.
Si riscosse. Non voleva che gli fosse fatto del male? Quello era un impostore, uno sporco traditore che aveva creduto di prendersi gioco di lui e farla franca! E come l’avevano sfidato, quegli occhi! Quel cane orgoglioso era tanto impudente quanto bello, e Akira Sendo non poteva certo permettersi di fargli passare impunite tutte le sue ingiurie! L’avrebbe fatto frustare a sangue, tanto per cominciare. Soldato o no, avrebbe implorato pietà. Si sarebbe prostrato di fronte a lui e l’avrebbe pregato tra le lacrime di risparmiarlo…!
E lui l’avrebbe risparmiato, magnanimamente, perché adesso era il suo schiavo e, per gli dèi, gli piaceva. Gli piaceva tanto, troppo, più di qualsiasi altro amante che avesse mai avuto… L’avrebbe risparmiato e l’avrebbe tenuto per sé, l’ennesimo giocattolo prima di stancarsene.
Kiminobu Kogure, dovunque fosse, poteva aspettare.

E così, per la prima volta da quando riaveva la vita, Hiroaki era di nuovo in cella.
Gettato di malagrazia nella segreta buia, senza finestre, si guardò per prima cosa intorno. Se non altro, sembrava meglio dell’ultima in cui era stato. C’era una brandina, in fondo, accostata al muro, e un catino per i bisogni dall’altra parte. L’aria era gelida e odorava di pietra e urina. Il respiro si congelava in dense nuvolette di vapore biancastro. Con un sospiro, andò a sedersi sulla branda… ma il suo corpo protestò con un’acuta fitta di dolore, e scattò in piedi.
Adesso che l’avevano sbattuto in cella, la realtà aveva preso una forma molto più spiacevole, e la sua tranquillità era evaporata.
Gli pareva che, a questo punto, gli si aprissero davanti due sole possibilità: che Akira Sendo si stancasse di lui e lo facesse uccidere dopo avergli strappato la verità con la tortura, o che decidesse di tenerlo come suo schiavo e goderselo quando ne aveva voglia.
Sinceramente non sapeva quale delle due fosse peggiore.
La notte era passata… meravigliosamente. Doveva ammetterlo, almeno con se stesso. Con la sua coscienza era sempre stato estremamente sincero. Era stata una notte bellissima. Akira Sendo a letto sembrava rinunciare a buona parte della sua arroganza, per trasformarsi in un amante attento e generoso. Tranne in quel singolo momento, che aveva già dimenticato. Anche il solito sarcasmo aveva rivelato una nota diversa, più dolce, più… umana.
Scosse la testa. Akira Sendo poteva tenere ai suoi amanti, ma era lo stesso affetto malato di un bambino per l’animaletto di turno, con il quale giocare prima per poi straziarlo con le torture più atroci. Ne era sicuro. Akira Sendo avrebbe fatto brandelli di lui.
Sperò che almeno Kiminobu e Hisashi fossero in salvo. Se avessero scoperto anche loro… non voleva pensarci. Non voleva pensare che fosse stato tutto inutile.

«Akira, perché il tuo sposo non è presente?»
Akira Sendo si riscosse bruscamente. Se n’era dimenticato. Aveva dimenticato che il primo giorno dopo le nozze prescriveva che la sposa pranzasse con il marito, i suoceri e tutti i più alti dignitari di corte al banchetto ufficiale.
Aveva fatto il suo ingresso con aria distratta, solo, senza curarsi neppure dell’araldo che lo annunciava.
«Kiminobu si scusa, ma si sentiva molto stanco» rispose, a voce alta. E poi, piano, permettendosi un sorrisetto: «È stata una lunga notte, padre».
Jun Sendo si rilassò. Per quel matrimonio stavano facendo numerose eccezioni al rituale, ma nessuna di gran conto, in fondo. La felicità di suo figlio veniva prima. «È andato tutto bene?» domandò, passandogli un braccio intorno alle spalle.
«Come mai questa curiosità, padre?»
«Perché hai delle occhiaie molto eloquenti, figlio mio» sorrise il re di Ryonan.
«Anche il vostro genero, ve l’assicuro» rispose Akira, con una falsa allegria che stava cominciando a inacidirgli il sangue.
«Sono lieto di sapere che andate d’accordo. Ieri il principe Kogure non mi era sembrato… felice.»
«Ieri era ieri, e oggi è un altro giorno. Abbiamo… appianato… le nostre divergenze» sorrise Akira.
Jun Sendo prese due calici pieni dal vassoio di un servitore, e gliene porse uno. «Signori» disse, con una voce forte che tuonò per tutta la sala, «un brindisi a nostro figlio Akira, e che gli dèi guardino con benevolenza il suo matrimonio con il giovane Kogure!»
«Al principe Akira! Agli sposi!» ruggì la sala, levando i bicchieri ricolmi.
Akira sorrise senza sentimento, e mandò giù tutto d’un fiato. Gli sposi? Se solo suo padre avesse saputo… Ma c’era ancora tempo per dirglielo.
L’augurio della sala gli giunse alle orecchie talmente stonato che cercò in tutti i modi di dimenticarne il suono. Cosa che non gli riuscì.

Andò a trovare il suo prigioniero verso il vespro. In verità aveva pensato a lui per tutto il giorno, ma non si era permesso di scendere nelle segrete come avrebbe voluto. Voleva che la prigione iniziasse ad addolcirlo, perché ciò che aveva visto lo induceva a pensare che lo sconosciuto fosse troppo testardo anche per lui.
Ammissione, questa, che, circoscritta al buio della sua mente, dalla sua bocca non sarebbe uscita mai.
Lo trovò addormentato sulla branda, scomodamente raggomitolato su un fianco, i vestiti stretti intorno al corpo per trattenere un po’ di calore. Fece un passo nella segreta e quello si tirò a sedere, di scatto, squadrandolo con occhi ben vigili.
Forse non stava dormendo. O forse era davvero un soldato, e come i soldati dormiva con gli occhi aperti.
«Ben svegliato» lo motteggiò, incrociando le braccia al petto.
«Che vuoi?»
«Sono venuto in visita. Non sei contento?» ironizzò, raggiungendolo.
Lo sconosciuto strinse le palpebre sino a ridurle a due fessure sottili.
Akira Sendo sedette sulla branda, accanto a lui. Alzò una mano per accarezzargli i capelli, ma il prigioniero gli schiaffeggiò la mano, allontanandola con violenza.
«Non mi toccare» ringhiò.
«Ieri non eri così ostile… Forse ti ci vuole qualcos’altro per riscaldarti, uh?»
«L’unico modo in cui puoi farmi piacere la tua compagnia» sibilò l’altro, insinuando con gusto una nota ironica.
Sendo prese la sua mano, quella con cui l’aveva respinto, e la strinse forte. Si chinò sul suo viso. «Tutto questo odio, perché?» sussurrò. «Non ti ho trattato bene? Non mi sono fatto mille scrupoli, per te? Non per tutti mi sono prodigato in questo modo, piccolo impudente!»
Il prigioniero deglutì. «Mi fai soltanto schifo» scandì.
«Invece tu mi piaci, e tanto…» Di prepotenza, Akira gli ficcò la lingua in bocca e prese a baciarlo. A dispetto del suo carattere gelido, la bocca del prigioniero era così calda… Gli strinse le mani, intrecciando le dita con le sue, per riscaldarle. Dèi, si gelava, là sotto…
Si riscosse solo quando si rese conto che l’altro era rimasto immobile, senza ricambiare. «Sei un testardo, eh?»
L’altro voltò il capo e sputò, disgustato.
«Dimmi il tuo nome.»
«No.»
«Dimmi il tuo nome, non me ne faccio niente.»
«E allora perché lo vuoi?»
«Perché non ho un modo con cui chiamarti.»
Un sorriso tutto storto inarcò le labbra del prigioniero. «Chiamami “schiavo”, visto che non sono altro.»
«Un giorno in cella non ti ha addolcito, quindi.» Akira Sendo si tirò in piedi, aggiustandosi gli abiti addosso. «A domani, schiavo» lo salutò, sprezzante.
«A domani, padrone» sibilò il prigioniero.
Ma non appena fu fuori dalla cella, il sorriso sparì dalle labbra di Akira Sendo. «Dategli una coperta» mormorò alla guardia di turno, prima di lasciare il corridoio.

Quella notte dormì solo, e di conseguenza male. Non era abituato a quel posto freddo accanto al suo. C’era sempre un corpo caldo e docile ad occuparlo.
Poi si svegliò in mezzo alla notte, da un sonno agitato e convulso. Non sapeva cosa stesse esattamente sognando, ma non era certo piacevole, visto il tremore che si scoprì addosso. Si strinse nelle coperte. La notte mormorava e ticchettava intorno a lui con mille allucinati rumori. Lui odiava svegliarsi in mezzo alla notte, se non c’era qualcuno a cui stringersi.
Con un sospiro scivolò fuori dalle coperte, raccolse la vestaglia dalla cassapanca, la indossò e infilò le pantofole. Fece per uscire, poi tornò indietro e tolse al letto la coperta di pelliccia, drappeggiandosela sulle spalle. Attraversò i corridoi in preda a una lucidità che rasentava la follia, probabilmente indotta dalla prolungata insonnia. Quando scese nelle segrete, il gelo intenso gli sferzò le gambe nude.
Strappò il mazzo di chiavi di mano alla guardia addormentata e le provò tutte, una per una, finché la serratura non si decise a scattare.
Il prigioniero si era già svegliato al tintinnio furioso delle chiavi, ma era rimasto immobile, a fissarlo al di là delle sbarre. Sendo lo raggiunse senza una parola, si tolse di dosso la coperta di pelliccia e gliela stese sul corpo, che sentì tremante malgrado la coperta che lo fasciava.
Così, con solo la vestaglia indosso, rimase a fissarlo. «Sento freddo» disse alla fine, ficcandosi le mani sotto i gomiti per riscaldarle.
L’altro non si mosse né parlò.
«Oh… al diavolo! Piccolo ingrato» borbottò Sendo, aprendo il tiepido nido di coperte e ficcandocisi sotto, a forza, le pantofole abbandonate sul pavimento lurido della cella, la vestaglia ancora indosso. «Hai freddo?»
Il prigioniero scosse la testa.
«Bene, perché io ho i piedi gelidi, e tu invece caldi, quindi…» Intrufolò i piedi tra i suoi, ignorando la sua esclamazione di fastidio. «Ti ho portato la mia coperta preferita. È il minimo che tu possa fare per ricambiarmi, non pensi?»
Non ricevendo proteste, lo abbracciò delicatamente. «Sicuro che non hai freddo?»
«Che vuoi da me?»
«Non mi piace dormire solo.» Sorrise. «Mi fa venire gli incubi.»
«Peggio di un bambino» borbottò lo sconosciuto, in tono meno cattivo del solito.
«Ognuno ha le sue debolezze. Io ho questa. E tu?»
L’altro si limitò a guardarlo negli occhi e non rispose.
«La loquacità, evidentemente» borbottò Akira, e quasi non volle credere ai suoi occhi quando vide un sorriso tranquillo, bellissimo, apparire come un’alba radiosa su quelle labbra. Subito scomparve, ma Akira se ne sentì rallegrato.
«Allora sei capace di sorridere anche tu…» mormorò, baciandolo piano, con rispetto.
«Adesso ho capito cosa vuoi» sibilò quello, ritraendosi.
Akira si fermò, come avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «No.»
«Ah, davvero?»
«Davvero.» Se lo strinse al petto con calore, deponendogli un bacio sulla fronte. «Sempre che tu non voglia…»
«Scordatelo, Sendo.»
Akira sospirò, passandogli le dita tra la seta nera dei capelli. Avevano lo stesso profumo della prima volta che l’aveva visto… un profumo appena percepibile, ma dolce e inebriante. Delizioso. «Sono contento che tu e Kogure vi siate scambiati, sai?»
L’altro non si mosse.
«Mi hanno detto che Kiminobu Kogure è bello, ma…» esitò un istante, «tu mi piaci di più.»
«Non l’hai neanche visto, come fai a dirlo» mormorò il prigioniero.
«Non lo so, lo sento.» Sorrise. «Gli studiosi non mi piacciono più di tanto… invece i soldati hanno un loro fascino… testardo. Non sei d’accordo?»
«Non lo so. Non ho mai amato un soldato» mormorò lui.
«Ed io che sono?» Akira chinò il capo per guardarlo in viso. «Sono il primo spadaccino del regno, è risaputo.»
«Ah…», un sorriso ironico storse le labbra dello sconosciuto, «qui in Ryonan dite soldato?»
«Perché, voi come dite?» chiese Akira, confuso.
«Damerino.»
«Sei insopportabile, lo sai… qualunque sia il tuo nome!» sbottò il principe.
L’altro sorrise di nuovo, un altro sorriso sincero sulla sua bocca troppo triste. Akira non resistette e lo baciò di nuovo, con dolcezza. «Non ti sto mica violentando…» mormorò, sentendolo irrigidirsi. «Stai calmo…»
«Non mi piace.»
Akira sospirò, rassegnato. «Dormi» mormorò, e abbracciandolo guidò il suo viso contro il proprio petto.
L’alito caldo del prigioniero, che si insinuava subdolamente dentro le pieghe della sua vestaglia, l’avrebbe tormentato per tutta la notte. Ma non aveva importanza.
Chiuse gli occhi e dopo un attimo già dormiva.

Il giorno successivo, Akira sembrò aver recuperato il suo solito buonumore. Si era svegliato con il suo prigioniero ancora tra le braccia, immerso in un sonno profondo e calmo, e non era riuscito a trattenere un sorriso intenerito.
D’accordo, non doveva. Era una cosa sbagliata e stupida.
Ma gli si stava affezionando.
Gli aveva deposto un bacio in fronte, a fior di labbra, ed era scivolato silenziosamente fuori dalle coperte e dalla cella. Più tardi, dopo essersi lavato e vestito, aveva deciso che da quel momento l’avrebbe preso con le buone.
Cos’aveva detto? Con le buone? Lui, Akira Sendo?
Si guardò allo specchio, vagamente sorpreso. Quel ragazzo stava avendo un cattivo effetto su di lui… deleterio. Si stava raddolcendo troppo. Stava quasi dimenticando che quello era un traditore e che avrebbe dovuto fargli scorticare la schiena a frustate e…
No, no, no. Lui non era un sadico. Se lo fosse stato, non avrebbe dato ordine di dargli quella coperta, né tantomeno si sarebbe limitato ad abbracciarlo, la notte precedente, quando bruciava dalla voglia di fare l’amore con lui un’altra volta.
Era un giorno e mezzo che non lo faceva, e poteva sembrare un’inezia, ma non era stato troppo piacevole ignorare il desiderio, la notte prima, con quel corpo così piacevolmente stretto al suo… Scosse la testa, imponendosi di non pensarci. Avrebbe potuto prendersi un amante, ma non ne aveva voglia. Non finché quel ragazzo restava, indomato, nelle segrete.
Il giorno passò e a sera, ancora vestito, scese nelle segrete con un piccolo regalo per il suo amante ritroso.
«Buonasera» lo salutò, con un bel sorriso. «Come stai?»
Quello si limitò a guardarlo, da sotto la montagnola di coperte.
«Ti ho portato un regalo. Adesso arriva.»
Vide la curiosità, sospettosa, negli occhi dell’altro.
«È una cosa che ti farà solo piacere, te l’assicuro… ah, ecco qui.» Tolse dalle mani della guardia l’otre di pelle, riempito d’acqua bollente, e la congedò. Si avvicinò alla branda, sollevò le coperte in corrispondenza dei piedi e lo sistemò per bene.
«Che te ne pare?»
Non ricevette risposta, ma ormai c’era abituato. Si spogliò rapidamente, restando con indosso solo la biancheria intima, ed entrò nel calore delle coperte. Il caldo era piacevolmente soffocante.
«Sicuro che non vuoi…»
«Scordatelo.»
Akira sospirò, senza perdere il sorriso. «Fatti baciare, almeno…» E così dicendo gli sollevò delicatamente il viso e si appropriò della sua bocca. Ma l’altro non lo ricambiava e smise presto.
«Dormi» sussurrò.
Passò così una settimana, e guardandosi indietro Akira si sarebbe chiesto come aveva fatto a resistere per sette giorni con quel corpo caldo tra le braccia senza forzarlo a fare l’amore.
La mattina dell’ottavo, comunque, aveva preso una decisione. Se una settimana di prigione non era stata sufficiente a domarlo, e difatti il ragazzo era ancora testardo e indomito come prima, dubitava che anche un mese ci sarebbe riuscito.
Chiamò Fukuda e diede ordine di farglielo trovare, lavato e profumato, in quella stessa camera.
Anche quel giorno, a colazione, suo padre gli domandò di quello che credeva essere Kiminobu Kogure.
«Un lieve raffreddamento e un po’ di febbre» rispose con noncuranza, imburrando una fetta di pane. «Quest’inverno è particolarmente rigido, e Kiminobu è di salute un po’ cagionevole…»
«Non mi era sembrato» borbottò Jun Sendo, aggrottando la fronte. «Niente di grave, vero?»
«Assolutamente. In un paio di giorni sarà di nuovo in piedi» concluse Akira, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.
Tornò nella sua camera con leggera trepidazione.
Lo trovò lì, seduto sulla cassapanca ai piedi del suo letto, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo attento. Corrucciato, come al solito, e guardingo.
«Come va, oggi?» domandò, sorridendogli.
L’altro si limitò a inarcare un sopracciglio.
«Bene? Male? Accetto anche “meravigliosamente” come risposta.»
Silenzio.
«Ti ho liberato, per gli dèi, potresti almeno ringraziare!» sbottò Akira Sendo.
«Visto che mi ci hai sbattuto tu, lì sotto, non vedo proprio perché.»
«Perché non ho ancora parlato con mio padre, ad esempio. Per questo mi potresti ringraziare.»
Il prigioniero scosse la testa. «Perché non ti privi dell’opportunità di giocare al padrone e al servo con me? In fede mia, generoso.»
«Quindi, dato che sai tutto, sai anche spiegarmi per quale ragione non ti ho ancora fatto mio?»
Lo sguardo dell’altro si fece distante. «Evidentemente non ne avevi voglia» rispose, con voce pacata.
«Sai benissimo che ne avevo voglia, e sai anche quanta.»
Il prigioniero non rispose.
«Sto avendo per te più cura che per chiunque, quindi, fammi il favore di mostrarti riconoscente, è chiaro?»
L’altro sorrise ironico. «Ma io sono riconoscente. Non si vede?»
Akira gli si avvicinò, a passi larghi. «Potresti dimostrarlo in modi migliori…» sussurrò, sulla sua bocca.
«Non ci tengo» rispose quello, scivolando fuori dalla sua portata.
Akira scosse la testa. Quel ragazzo l’avrebbe fatto impazzire, ne era certo. «Ad esempio, tentando di mettere in fila più di quattro parole?»
«Ma l’ho fatto.»
«Senza insultarmi?»
«Difficile.»
Akira andò a sedersi sul letto, ridacchiando. L’avrebbe fatto impazzire, sì, ma per qualche ragione non si sentiva preoccupato. «Siediti, via. Non ti tocco.» Alzò lo sguardo. «Che fai, non ci credi?»
«Dovrei?»
«Sì. Volendo, l’avrei già fatto.»
Il prigioniero gli si sedette accanto, con cautela.
«Credo che sia meglio ricominciare da capo, sei d’accordo?» Gli tese la destra. «Akira Sendo, lieto di conoscerti. Come ti chiami?»
Quello non si mosse.
«Akira Sendo…» ripeté il principe, afferrandogli la destra, «… tu come ti chiami?»
«Perché dovrei dirtelo?»
«Perché non dovresti?»
L’altro si riprese la mano. «Che cosa vuoi da me, Sendo? Dillo chiaramente, una volta per tutte.»
«Il tuo nome» rispose Akira. «Voglio il tuo nome.»
«E quando l’avrai saputo?»
«Il motivo per cui hai fatto tutto questo.»
«E poi?»
«Ti chiederò di restare con me.»
«E… se dirò di no?»
«Ti terrò con la forza.»
Qualcosa di molto simile alla delusione passò sul viso dell’altro. «Non ti smentisci mai, Akira Sendo, non è vero?»
«Ma insomma, cos’altro vuoi? Dovrei denunciarti e invece ti sto dando l’opportunità di appartenere a me… Sai quanti darebbero un braccio per questo?»
Il prigioniero scosse la testa. «Io non sono uno dei tuoi leccapiedi.»
«Leccapiedi?»
«Quella gente che ti venera e che darebbe un braccio per farsi sbattere da te. Sai una cosa? Se ti conoscessero davvero, ti fuggirebbero come la peste. Come ha fatto Kiminobu. Sono felice di aver preso il suo posto, perché anche solo un istante con te è un veleno per l’anima, e la sua è troppo bella per insozzarsi con la tua vicinanza.»
Akira Sendo spalancò gli occhi e un’espressione mai vista gli si dipinse in viso. Qualcosa come… angoscia. Angoscia mista a rabbia. Hiroaki strinse i denti, preparandosi ad essere colpito e forse anche violentato, ma l’altro non lo toccò.
Si alzò, senza una parola, andò alla porta e se la chiuse alle spalle facendola sbattere.
Dall’altra parte, nessuno scatto di chiave avvisò Hiro di essere stato chiuso dentro.
I suoi occhi scintillarono.

Come aveva pensato… aperta. Il cuore di Hiroaki perse un battito, poi iniziò ad accelerare le pulsazioni. Dèi. Aprì cautamente la porta, facendo capolino nel corridoio. C’erano alcuni domestici, ma Sendo non era in vista.
Se aveva capito bene, gli unici a conoscenza dello scambio erano Sendo e Fukuda, per cui gli sarebbe bastato guardarsi da loro due, e sarebbe stata fatta. Uscì nel corridoio cercando di ostentare un’aria naturale.
«Altezza» si inchinò una domestica. «Vi siete ripreso?»
«Ah… sì. Sì, sto benissimo, grazie.» Naturale, Sendo doveva essersi inventato qualche malattia per giustificare la sua prolungata assenza. Accelerando il passo, raggiunse le scale che conducevano al piano di sotto.
«Principe Kiminobu!»
Dèi del cielo, dèi del cielo, proprio lui no… lui no…
Il re Jun Sendo lasciò calare una pacca affettuosa sulle spalle del presunto genero, togliendogli all’istante il fiato. «Come mai siete in piedi? Mio figlio mi ha detto che siete indisposto, non dovreste rimanere a letto?»
«Maestà!» gemette Hiroaki, tentando di ricomporsi. «Vostro figlio si preoccupa troppo. Mi sento molto meglio, oggi, davvero…»
«Ne siete sicuro? Vi vedo pallido, mio caro. Avete mangiato?»
«Oh, sì, sì. Anzi, avevo intenzione di scendere in giardino a prendere una boccata d’aria… Sapete, stare chiuso in camera con questo bel sole…»
«Principe, oggi c’è tutto tranne il sole… è piuttosto nuvoloso, non ve ne siete accorto?»
«Dite davvero? Ah, be’… meglio! Preferisco le giornate di pioggia, sapete? Se volete scusarmi…» Si liberò del suo braccio e corse giù per le scale, implorando tutti gli dèi che non gli ponessero davanti un altro contrattempo. Il sangue gli rombava nelle tempie, assordandolo.
Parve che gli dèi l’avessero ascoltato, perché raggiunse il cortile senza che nessuno lo fermasse. Si guardò intorno. Dove mai potevano essere le stalle? Poi sentì un lieve nitrito, in lontananza, e si avviò in quella direzione, circospetto.
Gli dèi lo amavano. Erano proprio le stalle. Vide di fronte a sé un bellissimo morello, già sellato, pronto ad essere montato, con una faretra e un arco sistemati alla sella. Chissà chi l’aveva preparato. Be’, non aveva importanza. Lo raggiunse, mise il piede nella staffa e…
«Dove credi di andare?» gridò una voce conosciuta.
Hiroaki buttò la gamba destra al di là della sella e strinse le redini. Poi affondò con decisione i talloni nei fianchi dell’animale. Quello, obbediente e forse fermo da troppo tempo, mandò un nitrito felice e partì al galoppo.
Quando passò i cancelli del castello, Hiroaki non poté fare a meno di lanciare un mezzo grido di gioia. Libero. Era libero. Le lacrime gli offuscarono la vista.

Se quell’impudente, piccolo bastardo credeva di farla franca in modo così barbaro, bene, era evidente che non conosceva Akira Sendo. Il principe raccolse subito un’altra sella, la sistemò con mani febbrili sul dorso della sua cavalla Anya e strinse le cinghie.
Gliel’avrebbe pagata carissima, questa volta. Montò in sella e lo inseguì fuori dai cancelli.
Era stato talmente stupido da dimenticare la porta aperta, colpa sua, ma la rabbia gli aveva impedito di ragionare. Aveva lasciato quella camera perché l’alternativa sarebbe stata picchiarlo fino allo stremo delle forze, e non voleva. Per lui! Solo per lui aveva deciso di mordersi la lingua e uscire, fare una cavalcata e andare a caccia per qualche ora.
Al ritorno, si sarebbe sentito meglio e avrebbero potuto parlare con più civiltà.
Per lui! Per quel maledetto che non aspettava altro che il momento opportuno per scappare!
Akira giurò a se stesso che, non appena l’avesse preso, per prima cosa se lo sarebbe sbattuto. Se l’era vietato per una settimana, per gentilezza, ma stavolta non avrebbe avuto pietà. E poi l’avrebbe riportato a castello, denunciato a suo padre e stabilito la punizione per lui: non la morte, ma la schiavitù vita natural durante. Sarebbe stato il suo schiavo da letto finché gli fosse piaciuto.
E Kiminobu Kogure… ah, solo il tempo di riprenderlo, e anche lui si sarebbe pentito di aver tentato un simile scherzo! Avrebbe dovuto piangere tutte le sue lacrime per la sorte del suo amico… il suo amico che gli voleva così bene da avergli immolato la verginità! Ah! I propositi di vendetta si affastellavano l’uno sull’altro nella mente di Akira Sendo.
Così ragionando, le redini strette tra le mani e i talloni ficcati nei fianchi di Anya, seguì la scia lasciata dagli zoccoli di Hikoichi.

Hiroaki sapeva di avere Akira Sendo alle calcagna, e proprio per questo era consapevole di non potersi fermare neanche un istante. Il morello che cavalcava era sovreccitato, il che era solo un bene, ma a quell’andatura si sarebbe stancato presto, e non poteva cambiarlo, perché recava il marchio di proprietà del re e l’avrebbero scambiato per un ladro. Invece Akira Sendo poteva usufruire di qualunque posta volesse.
Hiroaki si impose di pensare con calma.
Fra non molto sarebbe giunto ai cancelli della città… avrebbe dichiarato la sua finta identità e sarebbe passato, poi al momento giusto si sarebbe accampato in un luogo nascosto. Se necessario, avrebbe abbandonato il cavallo e proseguito a piedi. Sì.
Il cuore gli era impazzito nel petto, ma doveva restare lucido. Kiminobu. Riabbracciare Kiminobu. Riabbracciare Kiminobu, si ripeté, come un mantra. Il pensiero del principe non lo calmò, ma gli riempì di calda luce la mente. Li avrebbe riabbracciati, lui e quell’idiota di Mitsui. Li avrebbe riabbracciati presto.
L’importante era crederci.
Non ci credevano però le guardie poste ai cancelli, aperti, che già a distanza gli intimarono di fermarsi. Hiroaki affondò con violenza i talloni, curvandosi sulla sella. Se avesse permesso loro di fermarlo ora, Sendo l’avrebbe ripreso.
Sendo… No! Il morello nitrì, scontento, ma accelerò. Il vento sferzò sul suo muso e sul viso di Hiroaki. I cancelli si stavano chiudendo… dèi…
«Vai!» gridò Hiroaki, implorando il cavallo o gli dèi, non lo sapeva più.
… Passati! Erano passati! Hiroaki si consentì una fuggevole occhiata indietro, e vide in lontananza la sagoma di Akira Sendo a cavallo, ormai in prossimità dei cancelli. Diede ancora di sprone e ringraziò tutti, gli dèi e il cavallo, perché evidentemente quello era il suo giorno fortunato.
Tuttavia, circa un’ora dopo, Akira Sendo lo stava ancora tallonando, e Hiroaki cominciava seriamente a preoccuparsi. Aveva intenzione di seguirlo fino in Shoyo?
Aveva deciso con Mitsui e Kiminobu che si sarebbero trovati ai cancelli del confine ovest dello Shoyo, il giorno seguente alle nozze, e anche se aveva mancato l’appuntamento Hiroaki conosceva il nome della locanda di lady Ayako, nella capitale Iustitia. Li avrebbe ritrovati in ogni caso.
Ma Akira Sendo…? Doveva seminarlo.
Il morello aveva la lingua fuori dai denti e stava iniziando a rallentare il ritmo. Non andava bene, no, non andava affatto bene. Hiroaki si guardò intorno. Quella campagna si estendeva per miglia, piatta e tutta uguale, ma forse… Gli dèi si erano intestarditi a proteggerlo, quel giorno. A est riposava un piccolo boschetto… di querce, a prima vista.
Con un sospiro riconoscente, Hiroaki vi si diresse. Sapeva che Akira Sendo l’avrebbe seguito, ma doveva necessariamente fare una sosta e lì avrebbe potuto nascondersi. Sperando nella buona sorte che non l’aveva ancora abbandonato, si immerse nell’ombra fredda degli alberi.

Akira Sendo strinse i denti. Quello stupido! Si era andato a cacciare nel bosco infestato dai banditi! Non poteva saperlo, evidentemente.
Se avesse voluto soltanto una sbrigativa vendetta, avrebbe potuto lasciare che quei banditi lo uccidessero. In fondo, quel ragazzo gli aveva creato più problemi di chiunque prima e anche la morte sarebbe stata una punizione ragguardevole. Si sarebbe potuto trovare amanti migliori e vendicarsi personalmente di Kiminobu Kogure.
Ma la verità… la verità era che nessuno poteva osare toccare quel ragazzo, perché era suo. Suo. Non voleva che nessuno gli facesse del male.
Strinse le redini. Si era innamorato di lui?
Lo conosceva solo da una settimana.
Senza volerci pensare, diede di sprone ad Anya e si tuffò nel bosco dietro di lui.

A Hiroaki la calma di quel bosco non piaceva affatto. Dov’erano finiti i piccoli rumori prodotti dagli animali, i versi degli uccelli, lo scricchiolio dei rami spezzati? Non si udiva niente, solo l’ululato del vento. Brutto, bruttissimo segno.
Rallentò un po’ l’andatura, guardandosi intorno. Doveva trovare un posto in cui accamparsi, il morello era stremato. Forse, quella radura…
Sentì alle sue spalle lo scalpitio degli zoccoli di un altro cavallo. «Stupido! Vieni via subito!» gridò Akira Sendo.
«Scordatelo! Non mi avrai!»
«Non è per questo, idiota! Questo bosco è infestato dai…» Qualunque cosa avesse voluto dire, gli morì in gola. Hiroaki si voltò di scatto. Impallidì.
Non avrebbe saputo dire da dove fossero sbucati fuori, ma adesso cinque banditi a piedi avevano circondato il principe.
«Guarda un po’ cosa abbiamo qui…» gli giunse la voce di uno di loro, «il principino Sendo! Che bella caccia!»
«Che diavolo aspetti?» gridò Akira Sendo, stringendo saldamente le redini del suo cavallo. «Scappa!»
Hiroaki si maledisse. La sua buona sorte stava esagerando, decisamente. Gli dèi lo amavano, d’accordo, ma non c’era bisogno di ammazzare Akira Sendo! Staccò l’arco dal gancio della sella e trasse fuori una freccia dalla faretra, incoccandola.
Se sapeva tirare ancora bene… Occhi aperti… Scagliò e pregò. Un urlo e il bandito si abbatté al suolo. Morto.
«Meno uno!»
Due banditi si mossero nella sua direzione, le spade sguainate, mentre gli altri si avventarono su Akira. Raccogliendo un’altra freccia, Hiroaki prese la mira e scoccò. Ma le mani gli tremarono e anziché nel cuore, la freccia si piantò solo nella spalla del bandito, che la estrasse rabbiosamente.
Prese le redini in una mano sola e diede uno strattone. Il morello, spaventato dal gesto inconsulto e dal baluginare delle spade, cui non era abituato, si impennò, abbattendo il bandito già ferito con un colpo di zoccolo. L’altro schivò e gli passò al fianco, ma Hiroaki gli assestò un calcio sulla bocca e poi smontò da cavallo con un salto, arrivandogli addosso. Gli strappò la spada di mano e gliela conficcò nel cuore.
Un grido straziato lo avvertì che Akira era stato ferito. Con una stretta al cuore, Hiroaki corse nella sua direzione e piantò la spada nella schiena di quello che l’aveva ferito. L’ultimo, vedendo il disastro, pensò bene di scappare nel folto degli alberi.
«Non sai… neanche difenderti… da cinque banditi?» ansimò Hiroaki.
Akira Sendo mormorò qualcosa, poi cadde riverso sulla sella. Svenuto. Gli occhi di Hiroaki si spalancarono alla vista della larga macchia rossastra che andava allargandosi sul suo fianco.

«Do… dove sono?»
«Al sicuro. Sta’ zitto e lasciami fare.»
«Che… che stai…?»
«Devo ricucire, ma se preferisci ti lascerò lo squarcio aperto.»
Akira Sendo strizzò gli occhi per abituarsi alla nuova luce. Giaceva prono, la faccia su un cuscino dai bordi sfilacciati, e il suo sguardo non andava molto al di là della stoffa bianca. Alzò gli occhi. Tutt’intorno vide una stanza modesta, forse una casa di contadini. Accostato al letto su cui giaceva, un piccolo tavolino con una candela accesa.
«A che serve la… ah!» Soffocò un grido nella stoffa del cuscino.
«Lo so che fa male, ma parlare non ti aiuta. E neanche gridare. Tieni.» Gli porse un piccolo legnetto, il pezzo di un ramo che aveva raccolto nel bosco. «Tienilo tra i denti.»
«E… aiuta?» gemette Sendo.
«Un po’» rispose, riprendendo a cucire. Aveva le mani abbondantemente lorde di sangue, e non sapeva se la ferita si sarebbe infettata, dopo. L’aveva ripulita con estrema cura, ma lì non era come al castello, dove i medici facevano tutto il lavoro – un lavoro pulito, sicuro, da esperti.
Lui aveva imparato per necessità, non per passione.
«Fatto» mormorò, dopo quella che parve a entrambi un’eternità. «Adesso fatti bendare. Sendo…?» Gli toccò la spalla. Era svenuto. Così distrutto, il viso madido di sudore, aveva un’aria poco detestabile. Hiroaki gli scostò una ciocca domata, piegatasi come il gambo di un fiore sulla sua fronte.
Non doveva pensarci. Gli tolse il legnetto dalla bocca e, con qualche difficoltà, gli fece passare la garza tutt’intorno all’addome.
Poi sedette sulla seggiola accostata al letto, con un sospiro. Era stanco e non aveva mangiato nulla.
Adesso se ne sarebbe potuto andare, lasciando Akira in mano all’anziana coppia di fattori che aveva accettato di dar loro ospitalità. Non gli avrebbero fatto del male, sembravano persone degne di fiducia. Quando la ferita l’avrebbe permesso, Akira se ne sarebbe tornato a casa con il suo cavallo, mentre lui, con il morello ormai riposato, avrebbe raggiunto il confine e i suoi amici.
E allora, si chiese, gettando uno sguardo pensieroso al soffitto, perché resto ancora qui?
La ferita potrebbe infettarsi, si rispose, dopo un lungo istante.
Incrociò le braccia al petto e rimase ad aspettare che Akira Sendo si svegliasse.

«Finalmente si sta riprendendo… credevo che non si svegliasse più.» Una voce di donna, in là con gli anni. Apprensiva e dolce.
«Tranquilla, nonnina. Questo qui ha la pellaccia dura.» La sua voce. Molto più gentile di come la ricordasse.
Akira aprì gli occhi, lentamente. Dapprima vide solo il viso del suo prigioniero, chino sul suo, e nient’altro. Gli sorrise. «Grazie» sussurrò, sfiorandogli una guancia con le dita.
L’altro, colto di sorpresa, fece un balzo all’indietro, permettendogli così di vedere anche la donna anziana che aveva accanto. Forse la padrona di casa.
Akira tentò di muoversi, ma non appena cercò di far leva sul gomito per tirarsi su, una fitta di dolore dal fianco gli ricordò perché si trovava lì. Chiuse gli occhi. Gli doleva il collo per la prolungata immobilità, ma a quanto pareva non poteva cambiare posizione.
«Ti aiuto io» disse il ragazzo, facendosi avanti. Gli passò un braccio sotto la testa, portandolo ad appoggiarsi alla sua spalla, e con estrema delicatezza l’aiutò a voltarsi supino.
«Vado a prepararvi qualcosa da mangiare» disse la nonnina, allegramente, e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Senti…» mormorò Akira, ancora appoggiato a lui. «Io… sei libero, d’accordo? Non ti seguirò.»
«Ti sei già stancato della corsa?» ribatté l’altro, sferzante.
Akira lo guardò con calma. «Non potrei seguirti neppure volendo. E in ogni caso non voglio. Ti devo la vita, e… questo significa qualcosa anche per un pervertito come me, sai?»
L’altro si morse la lingua, evitando di guardarlo.
«Mi dici almeno come ti chiami? Vorrei… portare indietro il tuo nome, insieme al tuo ricordo.»
L’ex prigioniero sospirò. «Hiroaki Koshino. Vice-capitano delle guardie di Sua Maestà Kogure di Shohoku» mormorò.
«Avevo ragione, allora… sei un soldato…» sussurrò Akira, sorridendo. «È stata del principe, l’idea?»
«È stata mia.»
«Lo ami così tanto?»
«Non si può non amarlo. Ed io… gli dovevo troppo.»
«La sua anima è troppo bella per insozzarsi con la mia vicinanza…»
Hiroaki lo guardò, con calma. Akira Sendo era bello, ma senza l’arroganza che lo contraddistingueva era splendido. E quella luce dolorosa negli occhi faceva di lui una meraviglia rara. «Sai essere migliore di così» mormorò.
«Se dovessi giudicare in base alle tue reazioni, non lo direi.»
«La verità è che sei un arrogante, Akira Sendo, e un prepotente. Ma sai anche non esserlo, quando vuoi. E allora sei migliore.»
Akira sospirò, chiudendo gli occhi. Dunque aveva sbagliato tutto. E ormai… ormai era troppo tardi per ricominciare.
«Hiroaki… se io te lo chiedessi… gentilmente… resteresti con me al castello?»
«Perché?» chiese Hiroaki, sospettoso.
«Perché mi farebbe piacere.»
«Non sarò uno dei tuoi concubini, Sendo.»
«Tu sei il mio sposo.»
«Tu hai sposato Kiminobu Kogure…»
«Io ho sposato te con un altro nome.»
Hiroaki scosse la testa. «Non dovevo esserci io, lì. Tu avresti sposato Kiminobu e basta. Io non c’entravo niente.»
«Ma gli dèi hanno messo te al suo posto, e sono tuoi gli occhi che ho guardato per tutto il tempo… ed è tua la mano che ha ricevuto il mio anello… ed è a te che ho fatto le mie promesse… Hiroaki, non mi vuoi dare neanche una possibilità? Una sola?»
Hiroaki esitò. «Tu la tradirai. Non sei fatto per il matrimonio.»
«Io brucio quando ti vedo, Hiroaki. Nessun altro mi fa ardere in questo modo.»
«E quando avrò smesso di farti bruciare? Quando ti sarai raffreddato?»
«Questo non succederà…»
«Ti stancherai di me.»
Si alzò, adagiando il suo capo sul cuscino, e andò alla finestra, a scrutare senza scopo la campagna sconfinata.
«Dimmi come te lo posso dimostrare.»
Il vice-capitano si voltò, sorpreso.
«Dimmi come te lo posso dimostrare» ripeté Sendo. «Ed io lo farò.»
Hiroaki tornò a fissare il panorama. «Che cosa farà tuo padre, quando saprà che non hai sposato Kiminobu?»
«Andrà su tutte le furie, credo… e vorrà la testa dei responsabili e che lo Shohoku ripaghi l’offesa.»
«Dunque, che sarebbe di me?»
«Ti difenderei io, Hiroaki. Nessuno potrebbe toccarti. Tu sei il mio sposo» ripeté, «e per gli dèi i nomi non contano. Io ho sposato te e adesso tu sei il principe consorte. I nostri riti sono chiari e definitivi.»
«Parecchi avranno da ridire, su questo.»
«Che dicano. A me non importa.»
«Perché ti accanisci così?»
«Non l’hai ancora capito, stupido?… Io ti amo.»
Hiroaki non si voltò. Fu solo dopo un infinito silenzio che Akira lo sentì mormorare: «Non mi fido di te, Akira Sendo.»

«Non saresti più mio prigioniero… potresti andartene in qualsiasi momento. So che mi disprezzi, ma io ho una parola sola.»
Hiroaki non si mosse. Perché, perché era così insistente? Lo conosceva appena e diceva di amarlo… che pazzia! Anche se le ultime sette notti erano state un abisso di dolcezza, lui non…
Si passò una mano sul viso. Che gli stava succedendo? Possibile che avesse iniziato a provare qualcosa per quel… quello sbruffone?
«Io devo andare a Iustitia. Quando tornerò… forse ti farò visita.»
«Lo prometti?»
«No.»
Il principe sospirò. «Avvicinati. Devo darti una cosa.» Hiroaki si sedette sul bordo del letto. «Chiudi gli occhi.»
«Per far che?»
«Chiudili e basta.»
Hiroaki sentì che l’altro gli prendeva la mano sinistra tra le sue, e poi… il freddo di un anello contro l’anulare. Aprì gli occhi. «L’hai conservata» mormorò.
«Quando il tuo viaggio sarà finito, devi comunque tornare da me. Se non vuoi essere il mio sposo devi ridarmela, è la tradizione.»
«Credo che questa tradizione te la sia inventata, Sendo.»
«Può darsi, ma non sono il principe per nulla.» Sollevò una mano, ad accarezzargli la guancia, e Hiroaki vide un lieve stupore tingergli di rosso le guance quando si accorse che non si ritraeva. «Perché mi permetti di toccarti?» sussurrò.
Hiroaki non lo guardò. «Un esperimento.»
«Che esperimento?»
«Niente. Continua.»
Le dita di Akira si attardarono sulla guancia, sfiorarono il lobo dell’orecchio e poi scesero, lungo il collo, sfiorando la pelle fresca del suo sposo. La blusa era leggermente aperta sul davanti… Akira ne sciolse un laccio e lasciò vagare le dita sul torace, caldo stavolta, fino a un capezzolo che parve implorarlo di attardarsi… ma Akira passò al gemello, un istante, e poi lasciò risalire la mano sino alla nuca di Hiroaki, dove la posò.
Hiroaki era arrossito. «Non me lo daresti un bacio d’addio?» mormorò Akira.
«Non sto ancora andando via…»
«Sì, invece. Nella tua mente mi hai già lasciato, e non tornerai più.»
«Non è vero, io…»
«Non lo è?»
Hiroaki avvampò, smascherato. «Sei un bastardo, Akira Sendo…»
«Damerino. Sono un damerino…» sussurrò, piegandoselo addosso.

(continua...)


Fiorediloto: Oh oh oh (l'Anzai virus è in giro insieme all'influenza)!! Non vi potete lamentare, stavolta!! ^____^
Hiro (riluttante): E va bene... però mi hai fatto fare una settimana di prigione, sadica che non sei altro!!!
Aki: Cucciolinooooo!!! C'ero io a riscaldarti i piedini!!! ^__________________^
Hiro: Stammi lontano tu!
Aki: Ma... ma... ce l'hai ancora con me per quello scherzetto, cucciolino???
Fiorediloto (sospirando): Ah... pene di cuore... o era CUORE DI PENE???
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: ^/////^ Ihih, come sono volgare...
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: Ehi? (schiocca le dita) Potete anche svegliarvi...
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: Andati... vediamo se così si svegliano... (va al computer e inizia a digitare, leggendo a voce alta) Fu allora che nella casetta irruppe Jun Sendo, incazzato come un caimano, che per punizione al figlio e all'amante fedifrago decise che li avrebbe entrambi inc...
Aki & Hiro: AAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHH!!!
Fiorediloto: ... atenati nelle segrete!!! Fatta sotto, eh???
VOCE FUORI CAMPO: Ci scusiamo per l'interruzione, ma l'autrice è stata improvvisamente rapita dai suoi personaggi e... gulp!... parecchie fonti indicano che non tornerà per MOLTO, MOLTO tempo...
Hisa & Kimi: ç_ç E noi siamo stati dimenticati...


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