Mi sono
divertita tantissimo scrivendo questa fic... spero che il
divertimento si colga e che la ficcina non faccia proprio
schifo!! Dedico questa mia seconda alla Soffio (che mi ha
letto per prima e incoraggiato) e al Comitato tutto!
Vvb!! ^____^
L'erede
di Shohoku
di Fiorediloto
TITOLO: L'erede di Shohoku
AUTORE: Fiorediloto
SERIE: Slam Dunk
PARTE: 1/4
RATING: AU/NC-17
PAIRING: MitKo
DISCLAIMERS: Kiminobu, Hisashi, Ayako, Ryota, Hiroaki,
Akira... e insomma tutta la compagnia... non sono miei ma
del divino Inoue, che gli dèi l'abbiano in gloria! ^__^
CAPITOLO PRIMO: KIMINOBU
Ed era di nuovo inverno.
Il secondogenito dei Kogure strizzò gli occhi per
difenderli da una folata di vento gelido.
Era di nuovo inverno. La stagione più odiata.
«Mio signore, non state alla finestra. Prenderete
freddo.»
La voce premurosa gli giunse alle orecchie e alla
comprensione con abbondante ritardo. In tempo perché il
capitano lo raggiungesse - passi di soldato sul marmo
guantato di tappeti - e chiudesse con delicatezza
un'imposta.
«Guardavo la neve» mormorò, distante.
«Ancora un po' e ne sareste stato ricoperto»
replicò il capitano, con voce affettuosa, accennando ai
primi fiocchi che cadevano lenti dal cielo.
«Non sarebbe stato tanto male...» sussurrò
lui.
Al capitano si strinse il cuore nel petto. «Mio
signore... che cosa vi turba?» Prese la sua mano
sopra il davanzale di gelida pietra, e pur attraverso il
cuoio dei guanti la trovò ghiacciata.
«Allontanatevi dalla finestra, vi ammalerete.»
Senza abbandonare la sua mano, stretta saldamente nella
destra, con la sinistra chiuse anche l'altra metà della
finestra. Poi condusse il secondogenito del suo signore
fino al divanetto basso vicino al camino.
«Sapete che, qualsiasi cosa vi turbi, io sono qui
per ascoltarvi» insistette, gentilmente.
L'erede dei Kogure chinò il capo, nascondendosi dietro i
lunghi ciuffi castani. Con un'audacia che chiunque, a
castello, avrebbe disprezzato, ma che per lui era il
normale agire, il capitano gli sollevò il viso con due
dita. «Qualsiasi cosa» ripeté, sottovoce.
Kiminobu Kogure emise un flebile sospiro. «Proprio
perché so che sei pronto a condividere con me ogni...
motivo di turbamento...»
«Qualsiasi!» ripeté l'altro, accorato.
«... non voglio parlartene, Hisashi.» Scosse la
testa. «Perché sei entrato?»
«Mi manda vostro padre» rispose il capitano,
con una vena di tristezza per il rifiuto appena ricevuto.
«Vuole conferire con voi...»
«Il capitano delle guardie Hisashi Mitsui relegato
al rango di messaggero?» scherzò Kiminobu,
dolcemente.
«Ho fatto in modo di essere la persona più vicina,
in quel momento» rispose Hisashi, con un sorriso.
Strinse più forte la mano del suo signore tra le
proprie. «Vi attende nel salottino di lady Aya...
nel salottino al primo piano. C'è anche vostra
madre.»
Al mezzo nome della sorella, Kiminobu alzò gli occhi di
scatto. «So già quello che devono dirmi. Ma perché
lì?»
L'ultima volta che i reali Kogure avevano desiderato
conferire con uno dei loro figli nel salottino (Ayako,
quella volta), le conseguenze erano state disastrose.
Ma stavolta non sarebbe andata così. Lo sapevano, lord
Takenori e lady Haruko di Shohoku. Lui non sarebbe
fuggito.
Si alzò. Purché gli lasciassero continuare i suoi
studi. I suoi studi, sì. Non contava nient'altro. Glieli
lasciassero continuare, e avrebbe fatto come volevano.
Non chiedeva di più.
«Vengo con voi.»
Davvero non chiedeva altro? Guardò Mitsui e si sentì
male, come mai fino a quel momento. Avrebbe dovuto
lasciare anche lui. Dèi. Si sentì straziare a questo
pensiero. «No.»
Il capitano Mitsui si bloccò, sorpreso.
«Non voglio che ci sia anche tu.»
«Mio signore...»
«No, Mitsui. Questa volta no.»
Il soldato chinò il capo, in un inchino formale.
«Come milord desidera. Mi è concesso almeno aprire
la porta a milord?»
Kiminobu gli prese il viso tra le mani. «Quando mai
ti ho nascosto qualcosa, Hisashi? Eh? Ti conosco da
troppo tempo. Tu e Hiroaki siete gli unici di cui mi fidi
ciecamente, e lo sai.»
Mitsui deglutì. «Ma non volete che vi
accompagni.»
«Non ti piacerebbe ciò che vedresti.» Sconfitto.
Piegato. Senza un briciolo di volontà. Non voglio che tu
mi veda così, Sashi. Non voglio. «Saprai tutto
prima di sera. È una promessa.»
«È un fatto così grave, mio signore, da togliervi
la luce dagli occhi... e voi non volete che io vi sia
accanto» mormorò. «Come desiderate.»
Andò alla porta, l'aprì senza enfasi. «Dopo di
voi, milord.»
Tre anni prima, nel salottino bianco, Ayako aveva chinato
il suo grazioso capo per la prima e ultima volta nella
sua vita. Era stato impressionante, per Kiminobu, vedere
l'altezzosa sorella piegarsi con tanta rassegnazione. Ma
una fugace strizzatina d'occhio gli aveva dato l'esatta
dimensione della sua sincerità.
Cioè, nulla.
Nottetempo il bandito che le aveva rubato il cuore e la
verginità, tale Ryota Miyagi, capitano del vascello
corsaro nascostosi nella rada più vicina, si era
infiltrato nel castello. I servi, corrotti a dovere, non
avevano visto né sentito nulla. Il corsaro aveva
raggiunto in silenzio le stanze della primogenita dei
Kogure, l'aveva trovata vestita di morbidi calzoni di
pelle, una semplice camiciola bianca, i lunghi riccioli
neri legati in una coda alla foggia delle serve. Aveva
una piccola valigia a mano, che poteva contenere sì e no
un decimo del suo guardaroba.
L'aveva baciata a lungo e stretta a sé fino a
costringersi a credere che sì, era tutto vero. Poi erano
fuggiti insieme.
La mattina dopo, il vascello aveva abbandonato la rada, e
Akira Sendo aveva perso la sua futura sposa.
Tutto questo, Kiminobu lo sapeva perché la sorella gli
scriveva lunghe e frequenti lettere per informarlo della
sua vita. Era felice. Miyagi l'amava come il principe
Sendo non avrebbe fatto mai - se pure quell'uomo era
capace di amare qualcuno oltre se stesso. La vita sul
vascello pirata era stata dura, i primi tempi, perché
nessuno sembrava disposto a farle sconti per il suo
retaggio: ma Ayako non ne aveva chiesti e si era
rimboccata le maniche. Si era fatta accettare per
qualcosa di più che per l'etichetta di «amante del
capitano».
Fu a metà del secondo anno che arrivò a Kiminobu una
lettera con uno strano nastrino azzurro incollato alla
busta.
Aprì e capì. Ayako era incinta.
"... Ryota ed io andiamo a vivere in Shoyo,
fratellino! Hai capito bene: abbandoniamo la vita di
mare, i saccheggi e i combattimenti. Del resto, il nostro
bambino - me lo sento, è un maschio - non può mica
nascere sul ponte della Tempesta, ed era da un po' che
Ryo ed io meditavamo di lasciare questa vita. Con i soldi
che possediamo potremo vivere più che bene: abbiamo
pensato di aprire una locanda..."
Il bambino era nato puntualissimo, nove mesi dopo.
"... non ho pensato al nome fino all'ultimo,
come vuole la tradizione. Ma quando Ryota l'ha avuto tra
le braccia e ha guardato fuori, l'acero che abbiamo
piantato in giardino non appena siamo arrivati qui, l'ho
sentito mormorare: «Kaede». E ho deciso che
quello doveva essere il suo nome."
A Kiminobu non sarebbe toccata una sorte altrettanto
felice, ma lo sapeva, lo sapeva già, sin da quando si
era iniziato a vociferare - era stato poco dopo la
nascita di Kaede - che il principe Sendo avesse rifiutato
tutte le principesse che gli erano state offerte in
moglie perché incapace di dar loro figli. E,
aggiungevano le voci più impudenti, incapace non perché
sterile. Il principe Sendo - malignavano le malelingue -
da diverso tempo preferiva i giovanotti.
Entrò nel salottino bianco, quello tanto amato da sua
sorella, con la morte nel cuore.
«Maledizione!» Il boccale, ancora colmo per
metà, andò a infrangersi con uno schianto contro il
muro della cucina, e ricadde al suolo in mille cocci
innaffiati di vino.
«Mitsui, calmati» disse Koshino, posandogli una
mano sul braccio.
«Calmarmi? Mi stai chiedendo di calmarmi?»
ruggì il capitano.
«Ti sto chiedendo di fare appello al tuo
buonsenso» ribatté Hiroaki, senza accennare a
diminuire la stretta. «Non otterrai niente facendo
così.»
«Koshino, io lo ammm...!»
«Zitto! Sta' zitto!» sibilò il vice-capitano,
tappandogli la bocca con forza. «Hai bevuto troppo,
e straparli. È meglio se te ne torni nella tua stanza e
ci dormi su.»
Mitsui si liberò della sua mano con un gesto violento.
«Tu non puoi capire!» ringhiò, tirandosi su
dalla panca. «Tu non provi per lui un decimo
dell'affetto che io...»
«Stammi a sentire, capitano» sibilò Koshino,
posando una mano pesante sulla sua nuca. «Non sei
l'unico qui che gli debba la vita. Non sei l'unico che
gliel'abbia consacrata. E non sei l'unico che vuole il
suo bene! Quindi taci e smettila di dire
scempiaggini!»
Mitsui si scostò. Era leggermente ubriaco. «Tu non
puoi capire, Kosh. Non puoi capire!»
«Sei tu che devi capire. Non ha scelta.»
«L'avrebbe, se...»
«Se?» Koshino lasciò che la sua espressione si
addolcisse un po', ma solo un po'. Mitsui doveva
comprendere che le sue ragioni non valevano nulla, in
quella circostanza. Anche a lui faceva male il cuore al
pensiero di Kiminobu sposato con quell'arrogante di
Sendo, ma... loro non contavano nulla. «Non fuggirà
come sua sorella. Lo sai. Rassegnati,» le pupille di
Mitsui si dilatarono, «sarà meglio per tutti.»
«Ma che cuore hai, Koshino?» gridò il
capitano. «Dopo tutto quello che ha fatto per te...
Dèi del cielo, ti ha accolto, ci ha accolti in questo
castello quando l'alternativa era la forca! Sei... sei
solo un ingrato, Hiroaki Koshino!»
Il vice-capitano, di molto più basso del suo superiore e
amico, si alzò e con flemma gli abbatté uno schiaffo
sulla guancia. «Vai a dormire, Mitsui. Se ti vedesse
in questo stato, gli faresti solo schifo.»
CINQUE ANNI PRIMA
«Bene» ridacchiò Mitsui, appoggiando il capo
contro la fredda parete di pietra. «Ci siamo
arrivati, alla fine.»
Koshino si mosse leggermente, facendo tintinnare le
catene che gli serravano i polsi. «Cosa c'è da
ridere?»
«Nulla, Kosh. Assolutamente nulla. È per questo che
rido.» Strinse i denti. «Per non
piangere.»
«Non è giusto!» esalò Koshino, chiudendo i
pugni. «Per un tozzo di pane, dèi...»
Mitsui respirò l'aria gelata e fetida di paglia bagnata
della prigione, tirando su col naso. Gli sarebbe venuta
la polmonite, a stare lì... Ma non ci sarebbe rimasto
più di tanto, si ricordò con ironia amara. «Quanto
manca?»
Koshino diede uno sguardo al cielo, tagliato a righe
dalle sbarre della finestrella. Era la decima volta in
pochi minuti. «Quanto mancava prima, meno qualche
minuto» mormorò. «Finiscila di
chiedermelo.»
«Così il tempo passa più lentamente, non lo
sai?»
Koshino espirò. «Non lo sopporto. Vorrei dormire e
non svegliarmi fino a domattina... sarebbe meglio.»
«È l'ultima notte, Kosh...»
«Non ha niente di speciale, è solo l'ultima»
borbottò.
Ironia della sorte, avevano dato loro come ultimo pasto
del pane fresco e fragrante, forse cotto apposta. E loro,
che per rubarne un tozzo raffermo erano finiti in quella
segreta, non avevano più fame. Tanto, non ci sarebbero
arrivati comunque. La pagnotta restava, lontano tormento,
a indurire da sola sul freddo vassoio di metallo.
Lo Shohoku era un regno povero, e le sue leggi contro i
ladri erano le più rigide dei Quattro Regni. Ma se lo
Shohoku e i suoi abitanti non fossero stati così poveri,
loro non si sarebbero ridotti a dover rubare una crosta a
un altro poveraccio.
«Che avresti fatto, in un'altra vita?»
Koshino si riscosse a malincuore. Era quasi riuscito a
prendere sonno. «Non lo so.»
«Io avrei fatto il soldato. Non il mercenario, dico
il soldato in un esercito regolare, con la mia bella
uniforme e tutto, spada che luccica e stipendio puntuale.
Sì. Mi sarebbe piaciuto. Tu che avresti fatto,
Kosh?»
L'amico si strinse nelle spalle, pensando. «Forse...
il soldato, forse sarebbe piaciuto anche a me.»
«Oppure?» insistette Mitsui, indispettito che
l'altro gli copiasse il suo sogno.
«Oppure... avrei imparato a suonare uno strumento.
Avrei fatto il menestrello. Mi sarebbe piaciuto anche
questo.»
Mitsui sospirò, lentamente. «Sono contento di
morire con te, Kosh.» Tese la mano nella sua
direzione, ma era inutile, l'altro non poteva
raggiungerlo.
Erano incatenati ai lati opposti della cella. Non
arrivavano neppure al vassoio col pane, sadicamente posto
al centro della stanza.
Nella penombra, Koshino tese la mano verso di lui.
«Anch'io sono contento di morire con te, Mit»
mormorò.
«Padre?»
«Mmm?» Lord Takenori Kogure di Shohoku alzò
gli occhi dalle sue carte. «Cosa c'è?»
«Ripetetemi quello che avete appena detto, vi
prego.»
Il Re calò gli occhiali sul naso, guardando con
perplessità il suo secondogenito. Aveva un rossore
strano sulle guance, insolito per il suo colorito
pallido. Riprese l'ultimo foglio e rilesse: «Mitsui,
Hisashi. Anni: 16. Koshino, Hiroaki. Anni: 15. Furto di:
viveri. Condanna: morte».
«Sono loro!» esclamò Kiminobu, strappando il
foglio di mano al padre. «Quelli che mi hanno
salvato dai banditi l'altra mattina! Sono loro!»
«Ne sei certo, Kiminobu?»
«Assolutamente!» Kiminobu fissò gli occhi in
quelli neri del padre, risolutamente, e sostenne il suo
sguardo indagatore per un lungo istante. Solo in questo
modo avrebbe potuto convincerlo. «Non li potete
mandare a morte» riprese, in tono calmo. «Sono
in debito con loro.»
«Kiminobu.» Il Re si sfilò gli occhiali,
posandoli sul tavolo. «Non è possibile revocare una
sentenza già emessa.»
«L'importante è che non sia già stata
eseguita» ribatté il secondogenito, con forza.
«Qui dice che moriranno... questa mattina!»
«È troppo tardi, Kiminobu» disse il Re,
accennando all'alba che si affacciava nel cielo.
Aveva sempre trovato in Kiminobu un collaboratore
eccellente e instancabile, malgrado la giovane età.
Quella era solo una delle tante notti che avevano passato
insieme, a vagliare i documenti più importanti che
giungevano da ogni parte del regno.
«Non è troppo tardi» ribatté, scattando in
piedi. «Datemi il permesso di revocare quella
sentenza, e farò in tempo.»
«Kiminobu...»
«Dovete loro la vita di vostro figlio, mio signore.
Dimostratemi quanto vale. Vi prego.»
«Kiminobu, è la legge» disse il Re,
riluttante.
«Voi siete la legge, padre. Sono solo dei ragazzi,
hanno rubato del cibo per non morire di fame.» Tese
la mano. «Datemi il vostro sigillo. Vi prego.»
Con un sospiro, lord Takenori lasciò cadere sul suo
palmo il grosso anello d'oro che portava al medio della
destra, quello con il quale siglava la ceralacca dei
messaggi più importanti. «Fa' presto.»
«Volerò, padre.»
Mentre correva fuori dalla stanza e lungo i corridoi del
castello, Kiminobu cercò di ignorare il senso di colpa
che sentiva stringerlo al petto. Non avrebbe voluto
mentire a suo padre, ma non aveva avuto scelta. Non
poteva lasciare che due ragazzi morissero per aver rubato
un pezzo di pane. Non l'avrebbe permesso.
Esistevano le bugie, e le bugie a fin di bene. La sua,
all'inizio, era stata una semplice bugia. Si era
attardato da solo, la mattina precedente, senza scorta, a
studiare una varietà di erbe medicinali che aveva preso
a crescere spontaneamente nel bosco appena fuori città.
Così tanto che, quando era tornato a casa, stanco e
soddisfatto, si era trovato schierato a guerra l'intero
suo corpo di guardia.
Aveva dovuto inventare la storia che alcuni banditi
avevano tentato di derubarlo... ma due persone coraggiose
l'avevano difeso e si erano poi dileguate senza chiedere
ricompensa.
Era stata una bugia meschina, perché la sua scorta era
stata punita per la sua negligenza. Suo padre li avrebbe
fatti frustare tutti, dal primo all'ultimo, se non fosse
stato per le preghiere di Kiminobu. Cui, bisogna dirlo,
rimordeva terribilmente la coscienza.
Ma ora... questa era una bugia a fin di bene. Sì.
Pronunciata per salvare due vite. Non se ne sarebbe
pentito.
Stringendo nel pugno l'anello, troppo grande per le sue
dita sottili, scese nelle stalle e, aperto il box di
Hanamichi, il suo sauro dalla criniera fulva, gli montò
in groppa senza sella, posando il piede sul puntello che
aveva fatto conficcare nella parete di legno.
«Vai, bello» mormorò, malamente abbracciato al
collo dell'animale. «Dobbiamo salvare la vita a due
persone, capito? Corri come se avessi in groppa
Ayako.»
Al nome della principessa, amazzone spregiudicata,
Hanamichi diede un nitrito e uscì al galoppo dal box.
Forse nominarla non era stata un'idea brillante, ma
adesso era sicuro che il sauro avrebbe galoppato al
massimo delle sue possibilità.
«Kosh?»
«Mmm...»
«È l'alba...»
Hiroaki alzò il viso, stancamente. Un singolo raggio di
luce tagliato dalle sbarre batteva sui suoi occhi.
«Hai la faccia a righe, Kosh» mormorò Mitsui.
Aveva voluto essere un sogghigno, ma il tono era
tutt'altro che allegro. «Sei riuscito a
dormire?» domandò.
«A tratti» rispose, con voce impastata.
Era la prima volta che vedere l'alba non gli procurava
sollievo. Nella vita che avevano condotto fino a quel
momento, rivedere il barlume del sole al mattino
significava poter vivere ancora un giorno. Significava
che nessuno ti aveva pugnalato nel sonno, per derubarti o
per il solo piacere di farlo.
Ma quell'alba era messaggera di morte, non di vita.
Chiuse gli occhi, stringendo forte le palpebre.
Non avrebbe pianto. No. Se l'erano giurati. Non avrebbe
pianto.
«Io non ti sto guardando, Kosh» mormorò
Mitsui, alzando gli occhi al soffitto. «Non vedo e
non sento niente. Quindi fai un po' come ti pare.»
Koshino annuì, confortato, e lasciò che scorressero,
quelle lacrime assassine che gli bruciavano gli occhi,
dagli zigomi alla gola. Non ne avrebbe ricavato un gran
sollievo, ma almeno se ne sarebbe liberato.
«Stanno arrivando, Kosh.» La voce di Mitsui
tremava. «Senti?»
Koshino chiuse gli occhi. I passi della sentinella al
solito giro? No, quella aveva attraversato il loro
corridoio pochi istanti prima. Questi erano passi
diversi... concitati... più d'una persona, certamente.
Avvertì il tintinnio di un grosso mazzo di chiavi.
«È la fine» sussurrò, ingoiando le ultime
lacrime. Si asciugò in fretta il viso, deciso a non dare
alcuna soddisfazione ai loro aguzzini, e inspirò
profondamente. «Addio, Mit.»
«... addio, Kosh.»
La porta si aprì con lentezza. Da dove si trovava,
Koshino non poteva vedere i nuovi venuti, finché
restavano al di là della soglia. Mitsui invece li aveva
proprio di fronte.
Gli parve stupito.
«Che modo è questo...» esordì una voce
giovane, vibrante e indignata, «che modo è questo
di tenere i prigionieri?»
«Mio signore?» Una voce profonda e riverente,
catarrosa, di uomo. Il secondino, probabilmente.
«Non sapete che la sporcizia è il modo migliore per
favorire le epidemie? Volete che muoiano tutti di
peste?»
«Mio signore... devono morire comunque» osò
protestare l'uomo, incerto.
«Questi no» ribatté la voce. Il giovane entrò
lentamente nella cella. Il sole lo gratificò subito con
un raggio di luce più intenso.
Era un ragazzo di una quindicina d'anni, bello ma
d'aspetto dimesso, abiti di pregevole fattura, non
sfarzosi, gli fasciavano il corpo magro, e corti capelli
castani gli incorniciavano l'ovale del viso. Unico
simbolo della sua condizione, un sottile codino castano
partiva dalla nuca e si protraeva sino al centro della
schiena. Portava sul naso un paio di occhiali da vista.
Lo sconosciuto rivolse un lungo, attento sguardo a
Mitsui. Poi si voltò verso Koshino. «Che bisogno
c'era di incatenarli?»
«Mio signore...»
«Questa, poi.» Il giovane giunse fino al centro
della stanza, dove stava il vassoio con la pagnotta ormai
dura e fredda. «Ci arrivate?» Guardò Koshino,
poi Mitsui. «Arrivate a prenderla?»
Nessuno dei due rispose. «Ovviamente no»
sibilò lo sconosciuto, tra i denti. «Altrimenti non
sarebbe ancora lì.» Si voltò verso il carceriere,
con cipiglio. «Liberali.»
«Mio signore?»
«Non sai dire altro? Liberali, è un ordine!»
Tese nella sua direzione la mano con l'anello stretto tra
pollice e indice. «Di mio padre» sottolineò.
A Koshino tremò il cuore. Il principe. Il principe, dèi
del cielo! Avrebbe voluto chiedergli perché... perché
li stesse graziando, ma non aveva più saliva, né voce.
Gli erano tornate solo le lacrime.
E senza riuscire più a controllarsi, riprese a piangere.
Dall'altra parte della stanza, Mitsui singhiozzava
abbondantemente.
Il secondogenito dei Kogure guardò con un misto di
tenerezza e sollievo i due ragazzi sciolti in lacrime.
Aveva avuto ragione. Erano solo due ragazzi disperati. In
quel momento più che mai, si convinse di aver fatto la
scelta giusta, adoperandosi perché fossero graziati.
E sapeva anche cosa avrebbe fatto di loro, adesso che
erano liberi.
«Voi venite con me» disse, mentre i due si
mettevano faticosamente in piedi.
«Dove?» domandò il giovane più alto, con voce
incerta.
Kiminobu gli rivolse un sorriso gentile. «Se
preferisci, puoi sempre restare qui.»
«No, no... Altezza!» esclamò il ladruncolo.
«Vi seguo pure all'inferno, ditemi voi!»
«Un po' meno in basso» disse il principe.
«E tu?»
Koshino si limitò a chinare il capo leggermente, senza
entusiasmo. «Comandate» borbottò.
Sospettoso. Be', era legittimo. Solo il tempo avrebbe
saputo dirgli se non stava per commettere una delle più
grandi sciocchezze della sua vita.
Kiminobu si era sempre fidato del suo intuito. Sempre. E
non ne era stato mai tradito.
«Seguitemi.»
Lasciò la prigione con i due ladruncoli che gli
camminavano dietro. Ne avvertiva i passi leggeri e...
be', anche l'olezzo non propriamente fresco. Per prima
cosa li avrebbe costretti a un lungo, lunghissimo bagno,
meditò. Il resto, agli dèi.
«Andremo a piedi. Il mio cavallo non può portarci
tutti e tre» li avvisò, mentre una guardia
strattonava Hanamichi per la criniera, guidandolo nella
sua direzione.
«Non dovrebbe tirarlo così» disse Koshino,
seccamente. «Gli fa male.»
«È vero» assentì Kiminobu, leggermente
sorpreso. Hanamichi mandò uno sbuffo indispettito e si
diresse verso il padrone, cercando nella mano e nella sua
tasca qualcosa da mangiare. «Abbi pazienza, Hana...
Lo so che non hai ancora fatto colazione, ma qui non ho
niente, d'accordo?» mormorò al cavallo,
accarezzandogli la criniera rossa. «Andiamo,
su...»
Si voltò verso i due graziati. Non gli piacque troppo il
modo in cui Mitsui guardava la bestia. Tornò a fissare
la strada.
«Vi pregherei di non tentare di rubarmi il mio
cavallo» scandì, con calma. «Perché gli sono
affezionato e perché lo ritroverei, e con lui voi. Ciò
che vi offro è di gran lunga superiore... scusa, amico
mio» sorrise, all'ennesimo sbuffo dell'animale.
«Perché?» Era stato Koshino a parlare.
Kiminobu si voltò. «Vi spiegherò mentre
camminiamo. C'è un po' di strada da fare.»
«Dove ci portate?»
«Naturalmente, al castello.» Sorrise.
«Dove, sennò?»
«Non sono un ingrato, Hisashi» mormorò,
rimasto solo nella grande cucina del castello. Poggiò i
gomiti sul tavolo, prendendosi il capo tra le mani.
«Non sono un ingrato. Dèi, datemi un modo... uno
solo... per evitargli questa tortura, e lo farò. Lo
giuro. Lo farò.»
Muti o solo indifferenti, gli dèi evitarono di
rispondere.
«Mio signore! Mio signore!»
Il bussare furioso alla sua porta e le grida straziate di
Mitsui destarono Kiminobu di colpo.
Si era disteso ancora vestito sul grande letto a
baldacchino, la mente svuotata, e nessun desiderio di
pensare. Non aveva cenato e non era riuscito neppure ad
annullarsi nei suoi studi. Niente di niente.
La disperazione nella voce del suo capitano accelerò
improvvisamente i battiti del suo cuore. Girò la chiave,
aprì con decisione la porta, e...
Mitsui gli cadde addosso, tanto pesantemente si era
appoggiato al legno solido dell'uscio.
«Perdonatemi, mio signore, io...»
«Hisashi? Piangi?»
Il capitano si tirò rapidamente in piedi, e tirò su
anche lui. Poi si accostò la porta alle spalle e lo
abbracciò, di forza.
Kiminobu restò un attimo sorpreso. Poi, con un mesto
sorriso, si abbandonò tra le sue braccia.
«Non sposatelo. Non sposate quell'uomo. Akira Sendo
non è degno di baciare la terra su cui camminate!»
«È... è per questo che stai piangendo?» osò
fiatare Kiminobu, spalancando gli occhi. Non era
possibile. Sarebbe stato troppo crudele.
«E per cos'altro, mio signore?» mormorò
Mitsui, straziato.
«Non decido io, Hisa...»
«Neppure vostra sorella poteva decidere,
eppure...»
«Lascia perdere Ayako.» Si staccò dal suo
abbraccio, lentamente. «Lascia stare mia sorella.
Io... io non fuggirò come lei.» Alzò gli occhi.
«Non ne ho motivo.»
Vide una sofferenza improvvisa passare nello sguardo di
Mitsui, passare e subito nascondersi, tanto che credette
d'essersela immaginata. Probabilmente si era immaginato
anche il resto.
«Io vorrei solo che voi foste felice...»
«Anch'io, ma non mi è dato.» Kiminobu andò a
sedersi sul bordo del letto, sospirando. «Non sarà
una tragedia, Hisashi. Non potremo certo avere figli,
nessuno si aspetterà che dormiamo insieme. E sono certo
che Akira Sendo non è la bestia che...»
«È peggio, mio signore, e voi lo sapete!»
esclamò Mitsui, gettandosi in ginocchio di fronte a lui.
Gli prese le mani nelle proprie. «Ripensate a quello
che vi scrisse vostra sorella... vi prego,
pensateci!»
Kiminobu scosse la testa. Erano giorni che cercava di non
pensarci. E adesso, Mitsui... «... un
pervertito, Kimi. Ringrazio tutti gli dèi del cielo di
avermi permesso la fuga. Non l'avrei sposato mai, mi
sarei uccisa, piuttosto. Che inferno sarebbe stata la mia
vita con lui? Nei suoi occhi non c'era che lussuria... il
modo in cui mi guardava mi faceva accapponare la pelle.
Sarei stata il suo giocattolo, finché non si fosse
stancato di me...»
«Basta, Hisashi» mormorò. «È già
abbastanza difficile, senza che tu...»
«Io voglio che voi non dobbiate pentirvi mai di una
decisione così importante!» esclamò Mitsui,
tendendosi verso di lui, accoratamente.
«Hisashi... hai bevuto, non è vero?»
«Sono sobrio, dannazione! Ascoltatemi!» Prese
le sue mani e le baciò, prima una e poi l'altra,
procurandogli due brividi consecutivi lungo la spina
dorsale. «Voi vi fidate di me?»
Kiminobu annuì, pur non riuscendo a capire che legame
avesse questo con la discussione.
«Mi avete dato una possibilità una volta... ora...
vi domando, mio signore... mio splendido signore, volete
darmene un'altra?» domandò, le lacrime nuovamente
affiorate agli occhi.
«Una possibilità... per cosa?»
«Rispondetemi!»
Kiminobu inspirò. «Sì. Sì, Hisashi, anche se non
capisco cosa... cosa... Hisashi, cosa stai facendo?»
Il capitano si tese nella sua direzione, asciugandosi con
la lingua le lacrime che gli bagnavano le labbra. Quella
lingua... quel movimento rosa sul pallido delle labbra
avrebbe tormentato i sogni di Kiminobu a lungo, ne era
certo. Non riusciva a staccarne gli occhi.
Poi Mitsui gli posò le mani ai lati del collo e
dolcemente lo baciò.
L'aria si spezzò intorno a loro, e da tiepida che era si
fece torrida. Kiminobu passò le mani intorno al collo di
Hisashi e si strinse a lui disperatamente, lasciando
vagare i palmi sulla distesa infinita della schiena,
dischiudendo le ginocchia perché avvinghiarglisi meglio.
Si sentì ardere.
Da quanto tempo aspettava quel bacio?
Non se n'era neppure reso conto.
«Non ti voglio lasciare...» gemette, ancora
prigioniero della sua bocca dolce di vino speziato.
«Non ti voglio lasciare, Sashi...»
Stava piangendo. Non sapeva da quanto. Gli sembrava che
il tempo li avesse abbandonati, soli nell'infinità.
«Kiminobu... Kiminobu...»
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti
prego...» ansimò. «Ti prego...»
Hisashi gli abbandonò le labbra, solo per un momento.
«Quel cane non ti avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro
su questa vita che mi hai reso cinque anni fa... Ad
averti sarà solo colui che amerai!» Deglutì.
«Se pure tu ti accorgessi che non sono io, quella
persona» aggiunse più piano.
Kiminobu lo abbracciò ancora più strettamente,
appoggiando la fronte contro la sua. «Giura di
amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò disposto a
commettere una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì» mormorò il capitano, senza
fiato.
Il viso di Kiminobu era rosso per l'emozione e forse
anche per l'imbarazzo, ma era splendido come al solito.
«Anch'io ti amo, Sashi...» Si rituffò sulla
sua bocca, con una furia che non gli era solita, e
riprese a baciarlo. Una furia non priva di disperazione.
«Fuggirai con me?» bisbigliò Hisashi,
guidandolo disteso sul letto.
Kiminobu annuì, lentamente. «Troveremo il modo
di... di non lasciarci... Anche se il disonore...»
«È così importante?» mormorò il capitano,
affranto.
Kiminobu scosse la testa. «Di fronte a... questo...
niente è più importante» sussurrò, lasciandogli
lo spazio per intrufolarsi tra le sue gambe.
«Kiminobu...», com'era dolce il suo nome nella
bocca, l'avrebbe pronunciato fino a restare senza fiato,
solo per il piacere di sentirne il suono, «Kiminobu,
non te ne pentirai, vero?»
«Non me ne sono pentito, la prima volta»
mormorò il principe.
«La prima... volta?» ripeté Hisashi, sbarrando
gli occhi. A chi? A chi si era concesso, senza che lui ne
avesse neppure il sospetto? Si sentì morire...
Gli occhi di Kiminobu ridevano dolcemente. «Mi hai
detto che volevi un'altra possibilità, capitano
Mitsui... ed io della prima non mi sono pentito...»
«Tu... vuoi farmi morire» sussurrò,
appoggiando le labbra sulla sua guancia. Con timidezza,
quasi. «Vuoi farmi impazzire, Kiminobu...»
«È chiusa, la porta?»
Mitsui alzò gli occhi. «Sì.»
«Allora...» chiuse gli occhi, attirandolo a
sé, le labbra sulla sua gola, «Sashi... vuoi...
vuoi insegnarmi a... fare l'amore?»
«Kiminobu... amore mio...» Con un ansimo
struggente si riappropriò della sua bocca, e lasciò che
le mani agissero come sapevano.
Hiroaki era passato dalla camera di Mitsui, quella
accanto alla sua, per vedere come stesse. Era certo di
trovarlo lì, probabilmente buttato sul letto come una
bestia ferita. Avrebbe cercato di consolarlo come meglio
poteva, anche se non era capace di consolare la gente.
Forse la sua sola vicinanza gli avrebbe comunicato un po'
di calore.
Ma non l'aveva trovato.
In preda a un cattivo presentimento, fece di corsa le
scale che portavano al secondo piano, quello con le
camere dei reali, e quasi si sentì male al vedere che,
nel corridoio in penombra, una debole lama di chiarore
proveniva dalla porta socchiusa della camera del
principe.
Stava facendo qualche sciocchezza. Di sicuro, stava
commettendo una sciocchezza.
Giunse di fronte alla porta e si fermò. Non voleva
origliare, ma...
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti prego...
Ti prego...»
«Quel cane non ti avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro
su questa vita che mi hai reso cinque anni fa... Ad
averti sarà solo colui che amerai! Se pure tu ti
accorgessi che non sono io, quella persona.»
«Giura di amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò
disposto a commettere una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì.»
«Anch'io ti amo, Sashi...»
Hiroaki osò sbirciare attraverso la sottile fessura
lasciata aperta. Trovò Kiminobu seduto sul bordo del
letto, e Hisashi inginocchiato ai suoi piedi, stretti nel
bacio più intenso e furioso che avesse mai visto.
In silenzio, evitando anche di respirare, tirò a sé la
maniglia e chiuse del tutto la porta.
«Kimi... Kiminobu...»
«Sashi...»
«I muri... sono abbastanza spessi?»
Il principe guardò il suo amante con occhi già
annebbiati dal piacere. «Spessa pietra...»
sussurrò. «Potremmo... gridare... non ci sentirebbe
nessuno...»
«Gridare...» ripeté Hisashi, martoriandogli le
labbra tra i denti. Scese sul collo, poi, repentinamente,
passò a mordicchiargli una clavicola appetitosa,
facendolo sussultare. «No, mio signore... non ti
puoi trattenere... dammi ciò che mi hai
promesso...»
«Devi fare di meglio... non mi sento in vena di
grida...ahh... reeehhh...»
Kiminobu ebbe l'impulso di portarsi una mano alla bocca,
e tapparla con forza. Era un tiro mancino, quello!
La lingua di Hisashi battagliava silenziosamente con il
suo capezzolo sinistro, che non ne voleva sapere di
tornare quieto e remissivo com'era sempre stato. Un
attimo dopo, la battaglia si spostò sul destro. Kiminobu
cominciò a chiedersi se i muri fossero davvero
abbastanza spessi da contenere tutta la voce che sentiva
premere in gola... premere per uscire nell'aria torrida
della sua camera.
«Amore mio...»
Sentì la bocca di Hisashi tracciare un'umida scia lungo
l'incavo appena pronunciato dei suoi addominali...
giù... la lingua riempire un istante l'ombelico,
strappandogli un primo grido... e poi... dèi, cosa aveva
in mente quel pazzo...?
Le dita di Hisashi si fecero strada tra i lacci dei suoi
calzoni, li tirarono a forza, li strapparono, fino ad
allontanare quell'inutile schermo dall'oggetto del suo
desiderio.
«Hisashi... toglimeli...» supplicò Kiminobu.
Il capitano obbedì. Gli sfilò gli stivali e li gettò
via con i calzoni di pelle e la biancheria di Kiminobu,
sul pavimento, lontani. Il caminetto crepitava poco
distante, ma se pure l'avessero spento non avrebbero
patito il freddo.
«Hisashi... che vuoi fare...» gemette.
«Intessere una conversazione brillante con questo
vostro amico, mio signore...» rispose Hisashi, e poi
si chinò e ne baciò l'umida punta, facendo fare a
Kiminobu un balzo inaspettato.
«Oh dèi dèi dèi... non mi abbandonate...»
implorò il principe, mentre il capitano, ridacchiando,
tornava a infierire con voluta lentezza.
«Dèi!»
Se quello era fare l'amore, Kiminobu si chiese perché
avesse atteso tanto prima di concedersi di provarlo.
I miei studi...
Al diavolo gli studi!, pensò, intrecciando le dita
con i lunghi capelli di Hisashi. Nessuna delle piante che
amava tanto gli aveva mai dato quelle sensazioni. Nessuna
delle piante che amava gli aveva mai restituito amore.
«Sashi... mi stai uccidendo... Sashi...!»
gridò, stringendogli i capelli così forte da
distoglierlo dal suo compito.
Gli occhi neri di Mitsui si posarono sui suoi,
dolcemente. «Vuoi che smetta?»
Kiminobu tentò invano di riprendere fiato.
«Voglio... di più...»
Il capitano risalì il suo corpo, lentamente,
strofinandocisi contro in tutta calma.
«Quanto...»
«Levati i calzoni...»
Hisashi obbedì ancora una volta, senza farsi pregare.
Anche se adorava sentirlo pregare.
«Io... io non ho mai... tu mi aiuti, vero,
Sashi?» balbettò Kiminobu, allacciando le caviglie
dietro la sua schiena.
Hisashi lo baciò, intensamente. «Certo... se tu
aiuti me...» E gli passò le dita sulle labbra
umide, per poi lasciarsele catturare dalla sua bocca. Un
dito alla volta, gli occhi di Kiminobu scintillavano.
Non era mai stato più bello.
Lasciò scivolare la mano giù, tra i loro corpi che non
aderivano perfettamente, non ancora, e spinse
delicatamente un dito.
Kiminobu ansimò leggermente. Sussurrò un:
«Ancora» che fece sorridere Hisashi.
Quando ne aggiunse un secondo, l'espressione cambiò in
fastidio. Non molto pronunciato, ma presente. E quando
azzardò aggiungerne un terzo, lo sentì irrigidirsi
completamente.
«Shh...» sussurrò al suo orecchio, senza
accennare a muoversi. «Stai tranquillo... Passerà
presto...»
Kiminobu si rilassò.
«Non ti voglio fare male, ma un po' è
inevitabile» mormorò. «Vuoi che... rimandiamo
a un'altra volta?»
«E... e se non ci fosse, un'altra volta?»
replicò Kiminobu, stringendolo a sé. «No...
continua...»
«Ci sarà un'altra volta... ce ne saranno
migliaia...» sorrise Hisashi, portandosi le sue
gambe sulle spalle, con cautela.
Non era mai stato più indifeso.
Kiminobu strinse i denti e i pugni, rilasciando tutto il
fiato che aveva. Dèi! Non l'aveva immaginato così...
così... lacerante. Ma si costrinse a tenere gli occhi
aperti. Quelli di Hisashi erano puntati sui suoi, colmi
di premura e preoccupazione... Akira Sendo avrebbe avuto
gli stessi riguardi?
L'avrebbe violentato come una bestia...
«Non ti preoccupare... sto bene...»
«Tra un po' starai meglio...» gli assicurò
Hisashi, baciandolo. «Tra un po' sarai in
paradiso...»
Ci sono già... No, non riusciva a dirlo, con
quel dolore squarciante in mezzo alle natiche... dèi...
Una spinta più avventata gli strappò un grido, e il suo
corpo lo avvertì che erano entrambi al limite... Hisashi
del suo corpo, lui del dolore. Ancora un po' e l'avrebbe
implorato di smetterla.
«Tranquillo, amore mio... tranquillo...»
bisbigliava Hisashi, immobile dentro di lui. Ma la sua
voce non era più tanto ferma. Per la prima volta
Kiminobu si rese conto che Hisashi era anche al limite
della sopportazione.
«Ora... Sashi... non farmi... aspettare
troppo...»
Non avrebbe neanche saputo dire in quale momento il
dolore si era sfrangiato in un piacere soffuso, gradito.
Ma seppe esattamente quando questo esplose in un alone di
luce accecante. Fu quando si sentì violare in un preciso
punto. Un'estasi.
«Dèi!» gridò, avvinghiandosi al suo corpo.
«Hisashi!»
Il capitano si avventò su di lui come se non avesse
atteso altro, incapace di controllarsi oltre, e come
dargli torto? Nel sentirsi colpito dal calore umido
dell'amore di Kiminobu, prosciugato tra le sue braccia,
mandò un lungo gemito e si liberò nel suo corpo.
«Quando verrà quel bastardo di Sendo?»
mormorò accarezzandogli dolcemente la schiena, nuda
sotto le pesanti coperte.
Kiminobu si strinse a lui. «Non verrà. Dovrò
andare io in Ryonan.»
«Perché? La tradizione vuole...»
«La nostra, sì. Ma la loro vuole che la... la
sposa... si rechi dallo sposo portando con sé la propria
dote.»
Hisashi lo guardò inarcando un sopracciglio. «Che
dote porti, amore mio?»
«Non l'hai capito?» Kiminobu ebbe un sorriso
amaro. «Lo Shohoku.»
«Dovremmo diventare sudditi di quel... quel...
maledetto?» esclamò il capitano, facendo un balzo
tra le coperte.
Kiminobu evitò di guardarlo. «Non finché mio padre
e mia madre saranno in vita. Ma dopo... sì. Andrà
così.»
«Ma tu non lo sposerai, Kimi.»
«Che cosa possiamo fare? Io... la mia volontà non
conta niente, Sashi. Ho detto a mio padre che l'avrei
sposato. Per il bene del regno, e...»
«Tu devi pensare al tuo bene» replicò
Hisashi, sollevandogli il viso. «No, niente storie.
Niente storie sul fatto che sei prima un principe e poi
una persona, no, non credo più a queste stupidaggini. Tu
sei Kiminobu, prima di tutto. E sei mio. Nega l'evidenza,
se puoi.»
Il principe scosse la testa. «Non posso. Sono tuo. E
se Sendo scoprirà che non sono più vergine...
probabilmente mi ripudierà, e... sarà peggio. Peggio di
prima.» Inspirò. «Prego gli dèi che non
abbiamo commesso una sciocchezza.»
«Avevi detto che non te ne saresti pentito...»
sussurrò Hisashi, addolorato.
«Non me ne pento. Ti amo. Tanto basta» rispose
Kiminobu, baciandogli la bocca. «Ma dobbiamo pensare
a cosa fare...»
«Quando dovrai andare in Ryonan?»
«Domani, verso la nona...»
«Così presto! Bene, allora fuggiremo dal castello,
domattina. Ripareremo in Shoyo, da...»
«Non sarà così facile, Hisa... mio padre mi ha
avvertito. Si fida di me, dice, ma dice anche che, per
evitare spiacevoli inconvenienti, non uscirò più dalle
mura del castello se non per andare a sposare Akira
Sendo.»
«Così ti tratta?» replicò Hisashi.
«Non gli ho mai dato problemi, ma... neanche Ayako
gliene aveva mai dati. Pensa che la cosa potrebbe
ripetersi, e...»
«E non sbaglia» disse Hisashi, con decisione.
«Troveremo il modo di fuggire. Io non ti lascio
sposare quel porco, chiaro?» Gli terse due lacrime
fuggitive dagli zigomi. «Ti fidi di me, amore
mio?»
«Come di nessun altro» rispose Kiminobu,
appoggiando il capo sulla sua spalla. «Come di
nessun altro.»
(continua...)
Fiorediloto: Embè?
Kimi: >.< Devo sposarmi con Sendo???
Hisa: Lemon... sbav... Volevo dire... DEVE SPOSARSI CON
SENDO???
Fiorediloto: Sì, ma... è in arrivo la sorpresina!!!
Kimi e Hisa: CHE SORPRESINA???
Fiorediloto: ^__- Non vi fidate di me???
Hisa: NOO!!!
Fiorediloto: Kimi!!! Amore mio!!! Almeno tu!!!
Kimi: Ehm...
Fiorediloto: Mi tradiscono tutti... ç__ç Ma io me ne
vado e vi lascio stuprare tutti e due da Sendo...
Akira: Ehi! Io non li voglio 'sti due sfigati!
Hisa: Sfigato a chi, maniaco porcospino???
Hiro (rimuginante): In tutto questo mi chiedo io che
farò...
Fiorediloto (di nuovo allegra): Taaaaaante cose belle!!
Sì sì sì!!! *__*
Hiro: ç_ç Significa che farai stuprare anche me, lo
so...
Fiorediloto: Ma nooo!!! Da quando in qua faccio queste
cose?!?
Tutti (+ Gregory in trasferta dall'omonima original): DA
SEMPRE!!!
Fiorediloto: ç_ç
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