Disclamer: la storia è mia, i personaggi pure. Ma se qualcuno vuole scrivere una side tory glieli presto volentieri.


Le pietre di New Empire

parte III

di Petra


VI

L’inverno inoltrato piegava i cipressi del cortile sotto un vento furioso. Athom dentro la sala di musica si chiedeva perché gli scienziati meteorologi permettessero che un freddo così malvagio spazzasse le strade di Futura, ghiacciando, attraverso le ossa, persino l’anima. 
Certo, comprendeva la necessità di avere su New Empire delle stagioni regolari come quelle della Terra, ma in quel mattino malinconico ogni fibra del suo essere, desiderava, in modo quasi doloroso, che l’inverno fosse meno rabbioso e triste. 
L’auditorium era occupato da un ventina di ragazzi intirizziti ed annoiati. La metà di essi non scambiava mai neppure una parola con Athom e l’altra metà, più gentile o forse solo più ipocrita, manteneva con lui rapporti di pura cortesia. Ma né l’uno né l’altro atteggiamento preoccupava Athom in modo particolare. Era abituato al disprezzo e alla solitudine. E poi, mai come in quel momento comprendeva i suoi compagni e la loro frustrazione. 
Quando era stato varato il nuovo programma di musica nelle scuole i master, per dare prova di efficienza, avevano riunito un po’ di studenti, fra gli atleti meno dotati, e avevano consegnato loro uno strumento musicale, senza preoccuparsi di constatare se qualcuno di essi avesse voglia e talento. Perciò, tranne Athom, non c’era nessun vero musicista tra di loro e ciascun ragazzo in quella sala avrebbe preferito di gran lunga essere in palestra insieme agli altri, piuttosto che sopportare lo strazio di quegli infiniti, noiosi esercizi. 
Come se non bastasse Athom era arrivato nella scuola preceduto dalla fama di genio musicale, etichetta che, alle orecchie degli altri alunni e persino della maggior parte dei master, suonava come un sinonimo di “disfattista” o “smidollato” ed altre simpatiche cose dello stesso genere. 
Quando, poi, si erano accorti che non un solo insegnante era all’altezza di quell’alunno dall’aspetto fragile e timido, il senso di imbarazzo era cresciuto di pari passo col suo l’isolamento. 
Eppure nessuno di loro poteva fare a meno di sentirsi incantato non appena Athom portava alle labbra il suo strumento. Le note che sapeva trarre da esso sembravano piccole gocce di luce appese ad una perenne oscurità. Esse rimanevano nell’aria a lungo, animate di una vita impossibile, più autentica e concreta di qualsiasi ragionamento o insegnamento. 
Ma quest’abilità, se possibile, peggiorava ancora di più la situazione. Gli abitanti di New Empire non erano abituati a fare i conti con sensazioni intricate. Vi erano le Pietre a spiegare loro cosa dovessero pensare o sentire, e le parole incise su di esse erano così chiare e cristalline che ogni mistero era bandito dal pianeta, quasi per decreto. E nessuna delle Pietre spiegava come comportarsi di fronte ad un insignificante ragazzino, incapace di correre i cento metri senza stramazzare, ma capace di riempire l’anima di emozioni sottili come farfalle, che risvegliavano cose alle quali la maggior parte di loro avrebbe preferito non pensare mai. 
Come stupirsi se lo guardavano con sospetto e lo tenevano a distanza? Athom, per primo, avvertiva il muro di ostilità che lo circondava come un qualcosa di scontato, come erano scontate tante cose tristi ed allegre della vita, sua e di tutti.

Da sempre si era sentito in colpa per essere così diverso dagli altri e aveva sempre considerato la sua solitudine come una giusta punizione per essere fatto in modo così strano. Tutto era talmente nell’ordine delle cose che mai avrebbe pensato che la sua vita potesse cambiare in un modo qualsiasi. Ed invece due anni prima aveva incontrato una persona che per la prima volta aveva ascoltato la sua musica come se essa fosse un dono e non una maledizione. Se un uomo simile affermava che un musicista poteva essere utile a New Empire quanto un atleta o un soldato, come fare a non credergli? E un miraggio di speranza si era aperto davanti agli occhi di Athom.

Il ragazzo sospirò sconsolato. Una mattina, qualche giorno prima, dalla finestra del refettorio aveva scorto nel cortile l’aeromobile privata di Master Reinald e nel riconoscerla il cuore gli era balzato in petto. Ma erano già passati tre giorni senza che potesse scorgerlo nemmeno da lontano. Forse era troppo occupato o forse si era semplicemente dimenticato di lui. A quel pensiero il peso dell’inverno gravava con una forza mai avvertita prima. Gli alberi spogli sulla collina di fronte sembravano fantasmi che ondeggiavano lugubri nella nebbia.

- Seduti, non c’è bisogno di alzarsi - disse una voce, ed era così simile a quella che Athom sentiva nei suoi ricordi che gli ci volle qualche secondo per capire che era reale e vicina. 
Si voltò di scatto, scostandosi dalla finestra e lo vide. Era in piedi vicino alla cattedra, col suo sorriso più disarmante sul volto sereno. Stava scambiando qualche parola con l’insegnante di ritmica e il suo corpo non molto alto, ma ben modellato, fasciato nell’uniforme bianca ed oro dei master di primo grado, faceva uno strano contrasto con la figura segalina e tetra dell’altro uomo. Quello aveva sul volto un’espressione seria che tradiva deferenza mista a nervosismo. Si volse verso di lui e il cuore del ragazzo perse qualche colpo sotto l’occhiata inquisitoria e leggermente sprezzante.
- Coleen – disse – Hai il permesso di uscire per il resto dell’ora. 
Athom arrossì e alzatosi dal banco uscì, sotto gli occhi stupiti ed astiosi di altri venti alunni, seguito dall’uomo in bianco. 
Appena fuori dall’aula Master Reinald gli fece cenno di seguirlo. Lo condusse fuori dall’edificio, in quello stesso piccolo parco in cui qualche settimana prima Mark lo aveva aggredito. Appena lontani dagli sguardi, l’uomo si voltò verso di lui e lo guardò con un sorriso compiaciuto. 
- Fatti dare un’occhiata, ragazzo – disse con la sua solita voce allegra – Sei cresciuto lo sai? Sei anche più robusto, scommetto che l’insegnante di ginnastica ti sta facendo sputare sangue. Su, non preoccuparti, è un brav’uomo io lo conosco bene, gli piace ringhiare ma è facile tenerlo a bada. Allora, cosa mi racconti? Ti annoi a morte, scommetto.
Athom rise, divertito e riscaldato come sempre da quella vitalità, e nello stesso tempo compiaciuto dal tono familiare con cui l’uomo più famoso di New Empire si rivolgeva proprio a lui, così emarginato ed oscuro. 
- Sto diventando sempre più bravo, Master. Adesso leggo le note come un vero musicista.
- Tu leggevi le note come il migliore tra i musicisti già un anno fa, Coleen, non raccontarmi panzane. Non c’è bisogno di mentire con me, lo so che deve essere un vero strazio. Immagino che sarai disgustato da tanta incapacità ed ignoranza.
- Questa è la scuola migliore di New Empire – disse Athom con fare incerto. Per lui era sempre difficile capire quando il suo mentore scherzava o quando era serio.
- Già, pensa un po’ come dev’essere la peggiore! – rise l’uomo con una risata calda e spontanea, buttando indietro la testa bionda. 
Athom si sorprese ad osservare ipnotizzato la gola abbronzata che si offriva indifesa con quel gesto di sincera allegria. In quel momento un raggio di sole aveva bucato le nuvole e si era posato sui capelli del Master, che ora rilucevano come per una sorta di aureola color ambra. Athom rimase a bocca spalancata ad ammirare quello che gli parve il segno tangibile di una distinzione che faceva di Master Reinald un essere fuori da ogni ragione comune. Ma l’uomo lo distolse dal suo incantesimo passandogli un braccio intorno alle spalle e trascinandoselo dietro a passo di carica.
- Lasciamo perdere queste miserie – disse – parliamo di cose davvero interessanti. Ho una sorpresa che ti farà urlare dalla felicità.
Athom non ci pensò nemmeno di puntualizzare che lui nella sua vita, per quanto andasse indietro con i ricordi, non aveva mai urlato di felicità e che non credeva di esserne capace. 
- Indovina cosa ha deciso il Consiglio degli Anziani durante l’ultima seduta. No, è inutile, non ci provare, non ci riusciresti mai. 
Si fermò e lo guardò in faccia, improvvisamente grave.
- In effetti, - disse – non dovrei parlartene perché la decisione non è stata ancora stata resa pubblica. Ma non importa – aggiunse subito, ridendo – in fondo ti riguarda in prima persona, perciò è giusto che tu lo sappia prima degli altri.
Athom raggelò. Come poteva una decisione del massimo organo di New Empire riguardarlo in prima persona? Ma l’uomo non gli diede il tempo di fare domande, lo prese di nuovo sottobraccio e ricominciò la sua passeggiata marziale.
- Il Consiglio ha finalmente deciso che New Empire deve avere un inno suo e io sono stato incaricato di comporlo. Tu invece sei stato incaricato di suonarlo ai giochi di primavera. Non è un cosa incredibile?
- Un inno? – chiese completamente disorientato. 
- Ma sì, un inno planetario tutto nostro. Ne abbiamo già parlato? Ricordi quando ti ho detto che era una vergogna che fra tutte le colonie solo New Empire non avesse un suo inno? 
Athom annuì. Ricordava perfettamente che in uno dei loro primi colloqui Master Reinald gli aveva parlato di quanto si sentisse umiliato, ad ogni occasione ufficiale, di dover accettare che per New Empire si suonasse l’antico inno terrestre.
- E’ vero che per lunghi anni abbiamo dovuto fare ben altro che preoccuparci di scrivere inni. – gli aveva spiegato - I nostri progenitori hanno dovuto lavorare sodo per trasformare il nostro pianeta in quello che è adesso, troppo sodo per preoccuparsi d’altro, ma ora i tempi sono maturi, abbiamo bisogno di acquistare una fisionomia più precisa, soprattutto ora, da quando metà della galassia dipende dai nostri giacimenti di platino. Non dobbiamo farci sfuggire l’occasione di assumere un nuovo peso politico. Gli anni davanti a noi saranno decisivi per la diffusione del Patto.
E si era profuso in una lunga e particolareggiata spiegazione che aveva travolto Athom fino al punto da stordirlo.
Quella era stata la prima di una serie di lunghe discussioni, in cui l’uomo aveva dispiegato davanti agli occhi del ragazzo un mondo completamente nuovo. La politica, infatti, insieme alla ginnastica e alla musica, era la grande passione di Master Reinald. Poteva continuare a parlarne per ore, con quel suo modo sicuro e suadente da conquistatore. Così aveva finito per esporre la sua visione del futuro, che spesso coincideva con quella dei libri che Athom studiava a scuola, ma che a volte se ne discostava, mostrando un profondità ed un’arditezza che sconvolgevano e affascinavano. Athom aveva pensato molto spesso, in mezzo a quelle disquisizioni, che era un peccato che Master Reinald non fosse un diretto discendente del Capitano dell’Astronave e che non potesse perciò aspirare alla prima carica dello Stato, perché nessuno come lui sembrava possedere l’entusiasmo e la forza per fare avverare le parole del Patto. 
In effetti erano le medesime parole che il ragazzo ascoltava da quando era nato, lo stesso sottofondo che accompagnava ogni abitante di New Empire per tutto l’arco della vita, e come un qualsiasi sottofondo ben presto diventava solo un rumore sbiadito, dimenticato nel chiasso di ogni giorno. Ed invece, grazie a Master Reinald le Parole da lettera morta, si erano improvvisamente animante, diventando una possibilità reale che prometteva un futuro realizzabile con l’impegno e l’abnegazione di tutti. Ma la cosa più stupefacente che Athom si era sentito dire era che proprio la sua musica poteva diventare la chiave di volta di quel futuro agognato. 
- Nelle Pietre non c’è alcuna parola contro la musica – gli aveva detto Master Reinald – ed il motivo è chiaro. Essa parla direttamente ai cuori ed è uno strumento straordinario per unire un popolo e guidarlo verso il suo destino. È il cielo che mi ha permesso di incontrarti Athom, vedrai cosa saremo capaci di creare insieme. 
Il ragazzo si sentiva infiammato da quei discorsi, ma soprattutto era il tono di profonda convinzione con i quali erano pronunciati che gli faceva credere, per la prima volta, che non si trattasse di pure chiacchiere. Forse era vero che il destino del pianeta in cui era nato fosse di ergersi a guida delle colonie, fino a far loro accettare con entusiasmo il rinnovamento della razza umana promesso dalle parole delle Pietre. Davvero un giorno tutti i discendenti della perduta Terra avrebbero accettato di rinunciare alla corruzione in nome di una morale superiore. E forse anche lui, Athom, si sarebbe riscattato da quella povera cosa debole ed inetta che era, per divenire degno del Nuovo Inizio. 
Finiva per sognare ad occhi aperti mentre Master Reinald parlava, ma era un sogno che sembrava si potesse toccare, se solo si allungava la mano. Era come se una luce fosse venuta a rischiarare la sua vita, mostrandogli una strada che lui, fino ad all’ora avvolto nell’oscurità, non aveva mai potuto scorgere. Di fronte a quella rivelazione non aveva più alcuna importanza la scialba realtà di ogni giorno. L’incomprensione degli insegnanti, lo sguardo di disprezzo negli occhi di suo padre, gli scherzi crudeli dei suoi coetanei, tutto diventava lontano ed irrisorio, come un incubo messo in fuga dal sole del mattino. Ed anche lì, a Futura, in quella scuola esclusiva, dopo mesi di solitudine, la lontana eco di quella luce continuava a consolarlo, persino nei momenti più penosi.

Perso in quei pensieri Athom non si accorgeva che l’uomo accanto a lui aveva continuato a parlare, ma d’un tratto il suono di alcune parole lo distolse dalle sue fantasticherie, riportandolo di colpo a terra.
- … se fai i bagagli immediatamente potremmo essere al Palazzo d’Inverno prima ancora dell’ora di cena. 
Athom batté le palpebre, cercando di recuperare i passaggi del discorso che si era perso. Scoprì che essi erano stati registrati dalla sua coscienza e che erano lì nella sua mente, pronti a spiegare la stranezza di quelle ultime frasi pronunciate dal suo maestro. Si fermò, rigido come una statua di sale. Guardò in faccia Master Reinald che lo osservava con un sorriso divertito. Possibile che quelle parole avessero proprio il senso che pensava lui, o era tutta un’illusione? 
Si guardò intorno. Il parco oramai quasi del tutto spoglio, l’edificio principale che si intravedeva tra i rami contorti, la nebbia che nascondeva le palestre in fondo al cortile. Ogni casa sembrava immutata rispetto al mattino. Bieca e triste come una promessa non mantenuta. E allora perché sembrava che fosse esplosa la più luminosa delle primavere? 

VII

Milos eseguì le ultime bracciate e sentì, prima ancora di vederlo, l’orlo della piscina sotto le dita. Emerse dall’acqua e guardò il tabellone. Un nuovo record personale e questa volta si era pericolosamente avvicinato, con un altro balzo avanti, al record pangalattico. Con un unico fluido scatto, saltò sull’orlo della piscina e si alzò in piedi. Sorrise ai complimenti dei compagni e alla pacca sulle spalle dell’allenatore. Era consapevole di meritare tutta l’ammirazione che lo circondava, perché in quell’ultimo anno era incredibilmente maturato come atleta, al punto probabilmente da aver raggiunto il suo vertice massimo. Da quel momento in poi avrebbe certo progredito ancora, ma solo nella tecnica o per l’accumulo di esperienza, perché da un punto di vista agonistico invece era davvero al culmine. 
Si tolse la cuffia e si diresse verso gli spogliatoi. Accanto all’entrata scorse due uomini, entrambi master del grado più basso, che sulla soglia parlavano fitto fitto. Qualcosa nel loro atteggiamento lo colpì, c’era come l’alone di un segreto o di un sotterfugio che animava quella discussione. Erano talmente intenti in essa che non si accorsero delle manovre di Milos. Il ragazzo si era avvicinato e aveva lasciato che la piccola asciugamano con cui si stava frizionando i capelli gli scivolasse dalle mani. Si chinò a raccoglierlo, indugiando con le orecchie ben tese. Lo raggiunsero poche frasi, prima che i due si accorgessero di lui e smettessero di parlare. Milos raccattò lo straccio dal pavimento, con la sensazione che il suo cuore si fosse fermato in quel momento e che non volesse assolutamente saperne di ripartire. Entrò nello spogliatoio già affollato di ragazzi urlanti e si sedette su una panca. Chiuse gli occhi appoggiando il capo alla parete fredda, fredda come una mano di ghiaccio. Il rumore di fondo scomparve, sostituito da un ronzio dentro le sue orecchie. Il mondo scolorava, diventando di pece, nero, oscuro, asciutto come un osso spolpato. Milos aprì gli occhi, mentre una rabbia cieca, senza rimedio, né rimorso lo invadeva. Si alzò di colpo e si mise addosso la tuta lisa. Infilò le scarpe senza calze e si pettinò i capelli con le dita nervose. Uscì dall’edificio quasi di corsa.

VIII

Si fermò sull’uscio della stanza a guardare la scena con quella stessa ansia che lo aveva spinto a correre via, fuori dalla palestra, seminudo e bagnato con ancora l’odore del cloro addosso. Nella camerata deserta Athom Coleen era talmente impegnato nel fare i bagagli che non lo udì entrare. 
Allora quello che aveva sentito poco prima, il discorso tra due Master che non avrebbe dovuto ascoltare, era vero. Quello stupido moccioso se ne andava…
Rimase a guardare sconcertato la schiena sottile del ragazzo, concentrato nello sforzo di infilare un paio di grosse scarpe dentro lo spazio irrisorio di una sacca militare. 
- Vai a fare una gita? – chiese sarcastico.
Athom sobbalzo e si voltò indietro allarmato.
- Non ti ho sentito entrare – disse tornando al suo lavoro – mi hai messo paura.
Milos si avvicinò e lo afferrò per un braccio. 
- Posso sapere dove te ne vai di bello? – chiese.
- Mi fai male! – il ragazzo gemette, ma Milos non allentò la presa. 
- Allora rispondimi. 
- Non posso dirtelo e poi non sono affari tuoi. – Athom si divincolò con uno strattone.
Cercò di nuovo di concentrarsi sui preparativi, ma sentiva lo sguardo dell’altro sulla sua schiena e le mani cominciarono a tremargli mentre il cuore batteva con forza. 
- Quel Master che ti ha fatto entrare nella scuola alla fine è venuto a prenderti.
Non era una domanda ma un’affermazione che suonava come un’accusa. Athom sobbalzò e lo guardò stupito.
- E’ inutile che fai quella faccia, è già di dominio pubblico fra i Master. Si chiedono cosa gli sia preso al grande eroe per piombare qui e portarsi via un moccioso la cui unica qualità è di soffiare dentro un affare di vetro.
Il ragazzo più giovane non disse niente, ma era stupito e spaventato dalla violenza che sentiva nel tono dell’altro. Il cuore sembrava volesse schiantandosi contro il torace, mentre sentiva quella rabbia come un qualcosa di concreto, un oggetto che si poteva quasi toccare. 
- Sei il suo amante? – sibilò Milos e la domanda rimase appesa al vuoto come un’ombra mostruosa, dalla bocca spaventosamente spalancata.
Athom si voltò di scatto rosso in volto di stizza e di vergogna.
- Come ti permetti? – urlò quasi.
- Master Reinald. Il grande eroe, l’uomo simbolo di perfezione morale che si scopa un ragazzino. Cosa ti fa quando siete da soli? Ti sbatte su un letto recitando le parole delle Pietre?
- Smettila, - Athom esplose – tu non sei degno neanche di nominarlo. Sporchi ogni cosa che tocchi con quella lingua schifosa. Sei tu che hai un’anima corrotta fino al midollo e allora non puoi fare a meno di vedere il marcio ovunque…
Lo schiaffo partì ancora prima che il ragazzo potesse accorgersene e bruciò sulle sue guance come mille lingue di fuoco. Athom rimase per un attimo stordito, poi il suo volto si contorse in una smorfia e lui si lanciò in avanti urlando.
Si ritrovarono a rotolare sul pavimento, avvinghiati in un groviglio mostruoso di braccia e gambe. Milos sorpreso da quella furia cieca si ritrovò schiacciato sotto il corpo sottile del ragazzino. Tentò di difendersi afferrandolo saldamente per le braccia e urlò di dolore quando sentì i denti di Athom affondare profondamente in una mano, ma non mollò la presa. Con uno sforzo tremendo riuscì a ribaltarsi su se stesso e a spingere l’altro sotto di sé. Lo afferrò per i capelli e gli inchiodò la testa per terra. Con un ginocchio puntato contro le gambe gli impedì di scalciare ed infine riuscì ad inchiodargli le braccia sopra la testa.
- La smetti adesso? Ti calmi? - 
Athom tentò ancora per qualche momento di difendersi, infine stremato si arrese. Gli puntò gli occhi in faccia e Milos vi lesse dentro un tale smarrimento da togliergli di dosso ogni voglia di continuare quella farsa. Lo lasciò andare e si scostò dai lui senza alzarsi. 
Rimasero seduti sul pavimento, i secondi passavano senza che nessuno dei due dicesse una sola parola. Milos si era accovacciato con le testa in mezzo alle ginocchia e anche Athom era rimasto seduto, imitando inconsciamente la posizione dell’altro. Milos si chiese perché, perché tutto all’improvviso era diventato pesante ed oscuro. I giorni davanti a lui gli parvero come i fili di una ragnatela che lo stringevano in una trappola viscida e mortale. Perché?
- Mi dispiace – disse – non volevo farti male e non volevo nemmeno dire quelle cose. Ma non mi piace che tu te ne vada. Non andartene. 
Lo disse senza ira, e senza tono di comando, solo con una leggera punta di tristezza nella voce, evitando di guardalo in viso e Athom suo malgrado, davanti a quel tono sottomesso, si sentì stringere il cuore in una morsa. 
- Non vado via per quello che pensi tu. Come puoi credere che un Master possa cadere così in basso da fare cose simili con un ragazzo? Uno qualunque come me, per giunta.
Milos gli rifilò un’occhiata di traverso, piena di dubbiosa ironia. Athom sbuffò spazientito. 
- Master Reinald ed io abbiamo ricevuto un incarico dal Consiglio, non posso parlartene perché non è ancora ufficiale, ma ha a che vedere con la musica. E poi, non vado via per sempre, tornerò presto..
Mentre parlava si chiese come mai sentisse il bisogno di rassicurare quello stesso tizio che un momento prima era entrato come una furia in quella stanza a sputare veleno su di lui e sul suo benefattore. Quell’arrogante, assurdo ragazzo che da mesi oramai gli rivolgeva a stento qualche parola. Non erano amici loro due, forse nemmeno si piacevano e quello che era successo tra loro, i brevi, imbarazzanti contatti che avevano avuto, erano serviti più ad allontanarli che altro. Ed adesso, dopo tanto tempo passato ad ignorarlo, Milos Ranke era lì, seduto sul pavimento, a chiedergli con voce sconsolata di non andare via, come se la sua presenza per lui contasse qualcosa o temesse di sentire la sua mancanza. E lui stupido, subito ad abboccare, a sentirsi nascere dentro quella strana sensazione di pena, per quello che in fondo non era che un ulteriore capriccio di un ragazzo viziato dalla fortuna. 
Milos finalmente si alzò e gli porse una mano, il ragazzo l’accettò e si lasciò tirare in piedi. Rimasero di nuovo senza parole a guardarsi torvi in viso, come se avessero paura di quel qualcosa che aleggiava nell’aria, non detto.
Ancora una volta fu Milos a rompere per primo il silenzio.
- Tu però non sei innamorato di lui, non è vero?- chiese stancamente, ma guardandolo dritto in faccia. 
Athom avrebbe voluto protestare con la stessa foga con la quale poco prima aveva difeso l’onore di Master Reinald. Riuscì invece solo a scuotere la testa, mentre un nodo gli stingeva la gola.
- Non dovresti dire certe cose, lo sai che è corruzione.- Riuscì appena a biascicare con il volto paonazzo per la vergogna. 
Milos sorrise e per un momento ridiventò il giovane lupo che azzanna una preda indifesa.
- Noi due siamo una bella coppia di ipocriti, Coleen, ma almeno io con me stesso sono sincero. 
Athom lo guardò senza parole, ma nel suo sguardo Milos poté leggere un appello così disperato che ne sentì pietà. Si odiò per quella debolezza, ma non poteva farne a meno. Per mesi lo aveva evitato in ogni occasione e non per paura o vergogna di quello che era successo tra di loro. Ciò che non sopportava era invece la tenerezza che quell’innocenza senza difese gli procurava. Tenerezza e rabbia per una tale assoluta mancanza di barriere, che esponeva Athom di fronte a tutti senza l’ombra di una difesa e che rischiava di perderli entrambi. E Milos non era disposto a mettersi nei guai per una stupida, irrazionale attrazione. Erano anni che lottava per temprarsi a sopravvivere in un mondo che, se solo avesse saputo la verità, lo avrebbe distrutto senza la minima misericordia. Non poteva permetterseli sentimenti come la compassione o l’affetto o… altro. Non di certo per uno così fragile e trasparente come Athom.

Ma adesso lui stava per andarsene… stava per andarsene… 

Lo guardò, in piedi davanti a sé, con le guance ancora arrossate e quel tremito sulle labbra, che in qualche modo tentava di controllare.
- Aspetta –disse – Stai sanguinando.
Sollevò una mano e gli passò la punta delle dita nell’angolo vicino alla bocca. Su quella mano Athom notò i segni dei suoi denti. Milos seguì lo sguardo dell’altro e rise divertito.
- Ce le siamo proprio suonate. Non credevo che fossi così pericoloso. Adesso capisco perché Mark si portava dietro quei due gorilla quando voleva picchiarti. 
- Ho cinque fratelli più grandi, ho dovuto imparare a difendermi…
Athom cercò di scherzare, ma la voce gli tremava, anche perché le dita di Milos indugiavano sulle sue labbra, con una carezza che lo riempiva di sgomento. 
Il ragazzo più grande si avvicinò e gli prese il viso tra le mani attirandolo a sé, Athom chiuse gli occhi, mentre il respiro dell’altro era già sulla sua bocca. Le sensazioni provate una sera di fine autunno tornarono con una prepotenza che lo annientò. Ancora una volta si sentì avvolto dal calore di quel corpo, e lo avvertì come un rifugio dalla solitudine e dall’aridità. Sentì la sua ragione e le sue emozioni sdoppiarsi, e avviarsi su piani opposti, mentre lui restava lì in mezzo, rischiando di spezzarsi in due, senza rimedio. In qualche modo avrebbe voluto opporsi, staccarsi da quel contatto così pericoloso, perché sapeva, la sua ragione lo sapeva, che ciò che stava succedendo in quella stanza era la peggiore delle corruzioni. Le parole delle Pietre gli rombavano in testa come se un invisibile scalpello le stesse incidendole dentro il suo cervello: NON AVVICINERAI IL TUO CORPO AD UN ESSERE DEL TUO STESSO SESSO, QUESTA E’ CORRUZIONE. 
Erano le parole che gli avevano insegnato, i pericoli da cui lo avevano messo in guardia. La sua ragione ci credeva, fino a punto da fargli temere che New Empire sarebbe potuto crollare dalle fondamenta per quello che stava succedendo in quella stanza. 
Ma d’altra parte dietro le palpebre chiuse sentiva solo il suo sangue che girava veloce dentro le vene. Vivo come mai prima nella sua esistenza, mentre ogni centimetro del suo corpo desiderava solo perdersi per sempre dentro quel fiato che sapeva di cannella. 
La lingua di Athom gli accarezzò le labbra ancora chiuse e Milos aprì la bocca e l’accolse dentro di sé, come un assetato. Meraviglioso. Non c’era altra parola per descrivere quel momento. Tutta la sua anima sembrava un’unica cassa di risonanza per l’inno che saliva dal suo sangue. E lui voleva solo abbandonarsi a quel canto e perdersi per sempre anche a costo di frantumarsi in milioni di pezzi. 

Per un momento confuse il rumore alla porta col battito del proprio cuore, ma appena realizzò che qualcuno stava bussando alla porta fu colto dal panico. Si staccò con forza da Milos che lo guardò disorientato, gli occhi torbidi per l’incomprensione. Il rumore alla porta si ripeté. Milos scattò indietro e raggiunse la finestra, sembrava incapace di ricomporsi. 
- Avanti – disse Athom sperando che la voce non gli tremasse troppo.
- Si può sapere quanto tempo ci metti? – disse Master Reinald entrando nella stanza, a passo di carica, ma si bloccò notando Milos fermo davanti alla finestra.
- Mio caro, - disse sorridendo rivolto ad Athom, - se ti metti a discutere con i tuoi amici faremo tardi…
Milos scattò sull’attenti e rimase lì a fissare il nuovo arrivato con un’espressione austera sulla faccia dura. 
- Cadetto? – chiese Master Reinald con condiscendenza.
- Milos Ranke, ultimo anno e capocamerata di questa sezione, signore.
Athom guardò con sgomento la metamorfosi di quel ragazzo, che poco prima gli stava avvinghiato addosso e che ora sembrava l’esempio incarnato della salute morale e si chiese come facesse a sembrare così innocente ed limpido, il ritratto stesso dell’atleta senza macchia e senza paura. 
- Oh, ma allora ti conosco, - disse l’uomo compiaciuto – Sei il campione di nuoto. Ho sentito parlare in termini entusiastici di te, ci aspettiamo tutti grandi cose. 
Milos lasciò che un leggero rossore di piacere ed imbarazzo gli imporporasse le gote, mentre rispondeva con un virile e secco “Grazie, signore,” a quei complimenti. Ed intanto la sua mente era intenta a catalogare il tizio che si stava portando via Athom, sperando di trovare altre ottime ragioni per detestarlo a morte. 
Master Reinald era un uomo di poco più di trent’anni, dall’aspetto incredibilmente attraente e dai modi sicuri. Milos si ritrovò suo malgrado ad ammirarne i movimenti felini, che rivelavano l’ex atleta di pregio e nascondevano a stento, sotto una superficie di raffinatezza, un’energia da predatore. Senza alcuno sforzo e senza ostentazione, quell’uomo emanava un fascino e un carisma fuori dal comune. Non stava recitando, la sua forza era autentica, come la sua sicurezza. Lui stesso era autentico in ogni sua fibra. 
- Allora, ti ci vuole ancora molto? – disse, rivolto di nuovo ad Athom, senza che in quelle parole suonasse ombra di comando o di rimprovero. – Cerca di fare in fretta o finirò per trascinarti via con la forza – rise.
Milos vide l’altro ragazzo illuminarsi di una gioia così profonda che persino i suoi lineamenti mutarono. In un attimo aveva perso l’aria infelice e insicura che ne scavava il volto immaturo e si era trasformato in un essere trepidante, di una bellezza che faceva male agli occhi. Quella visione gli diede il capogiro. Si appoggiò al davanzale della finestra, cercando di assumere un’aria indifferente, ma il mondo intorno a lui era stato inghiottito da tenebre di colore rosso cupo. Attraverso quel velo vide Athom infilare in fretta le sue ultime cose in quella assurda sacca mimetica. Appena ebbe finito gli si avvicinò e gli tese la mano. 
- Allora arrivederci, Ranke – disse e gli rivolse uno sguardo implorante. “Non tradirmi, non fare niente di imbarazzante” diceva quello sguardo “o ne morirò”.
- Arrivederci – rispose seccamente Milos stringendo quella mano nella sua. 
Scattò di nuovo sull’attenti per salutare il Master che per tutta risposta si limitò a lanciargli uno dei suoi affascinanti sorrisi. Poi li vide uscire. 
Aspettò immobile che i passi si allontanassero lungo il corridoio, ed improvvisamente, la sua attenzione fu attratta da una piccola sfera di vetro posata sul comodino di uno dei letti. Si avvicinò e la strinse tra le dita. La superficie era fredda e dura, e attraverso di essa il mondo appariva deformato in maniera grottesca. Dentro galleggiava un paesaggio montano, con una piccola baita e pini silvestri. Milos agitò la sfera e su quel minuscolo mondo cominciarono a cedere milioni di pagliuzze bianche. 
“Che cosa stupida e inutile” pensò il ragazzo. Poi, sollevò lentamente un braccio e scagliò la sfera con violenza contro la porta. Essa si frantumò, spargendo nell’aria innumerevoli frammenti scintillanti.




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