Le pietre di New Empire 

di Petra


Quando Athom era ancora un bambino un uomo gli regalò un Albatros e gli insegnò a suonarlo. L'uomo dopo un po' svanì in quel nulla in cui a volte finivano inghiottiti gli abitanti di New  Empire. Ma Athom continuò a suonare e a ricordare. Così, per quanto tornasse indietro con la memoria, era sempre nel gesto con il quale gli donavano quell'oggetto come vetro, che rintracciava l'inizio della sua vita. L'inizio in cui essa cessava di essere puro ed incosciente scorrere del tempo, per diventare una storia.
Eppure, a ben guardare, c'era anche un altro punto, da cui si poteva cominciare a raccontare. Bastava guardare in  alto, nel cielo di New Empire, da dove undici secoli prima che Athom nascesse erano giunte le navi dei pellegrini.
Essi, atterrati su quel mondo, avevano trovato un pianeta sterile, arido e rovente sotto l'occhio implacabile di un sole bianco. Ma in fondo nessuno di loro voleva un paradiso che li tentasse con la sua voluttà, piuttosto erano impegnati da anni nella ricerca di un mondo ostile da trasformare con volontà implacabile. Chiamarono quel mucchio di sabbia New Empire, con un'ambizione talmente smisurata da sconfinare con una follia da veggenti. Le leggi che si diedero furono semplici e spietate, il fine chiaro e senza appello. New Empire non avrebbe conosciuto gli errori che avevano perduto Terra, l'antica culla dell'uomo.
Ci vollero due secoli per rendere abitabile quel deserto e solo dopo tre generazioni le donne cominciarono a dare alla luce bambini vivi e sani. Nel frattempo i padri coloni riempirono ogni angolo del nuovo mondo di pietre e monumenti, a memoria del Nuovo Patto.


II

Accanto ad uno di essi, appoggiato ad una panchina di ferro brunito, Athom si scostò i capelli dal volto sudato e si permise un leggero sospiro. La custodia dell'albatros sulle sue spalle cominciava a pesare, come quella lunga attesa all'astroporto di Futura. Il ragazzo osservava con un po' di sgomento la vita della capitale che gli rutilava attorno. Sotto la cupola, il cielo era attraversato da leggere nubi artificiali, in una perfetta imitazione di un tardo pomeriggio autunnale della vecchia, perduta Terra. Rabbrividì sotto il venticello pungente e si strinse nella leggera giacca della divisa da studente. Attorno a lui la città accendeva ad una ad una le luci della sera, ad illuminare con riflessi colorati le vesti bianche e leggere delle donne.

Finalmente un uomo vestito impeccabilmente di bruno si avvicinò a ad Athom. Il volto pallido, perfettamente sbarbato, non mostrava l'ombra di un sorriso. Il ragazzo riconobbe un Master di terzo grado e s'inchinò leggermente in segno di saluto. Il suo viso atteggiato ad un'austera serietà non mostrò, se non con un guizzo nascosto degli occhi lucidi, il sollievo di non essere stato dopotutto dimenticato. I due si scambiarono poche, brevi parole, poi si diressero verso un veicolo ad energia solare, che li trasportò nel cuore della città.

III

Solo pochi mesi dopo Athom ascoltava il rumore gioioso dei ragazzi che si allenavano nel cortile, intorno all'onnipresente statua del Capitano, incuranti della pioggia che cadeva su di loro con indifferente regolarità. Egli poteva udire, attraverso il vetro della finestra chiusa, persino la voce stentorea del Master K., urlare ordini perentori.
Provò per l'ennesima volta ad escludere il mondo dai suoi pensieri e a concentrarsi sul suo esercizio.
Suonò una scala dietro l'altra, ascendente e discendente, e poi ancora daccapo, con una regolarità tediosa. Certo, non era per sfinirsi su quegli assurdi accordi che aveva lasciato il suo villaggio nelle terre Occidentali,  e aveva viaggiato per migliaia di parsen, alla volta della scuola più prestigiosa della capitale. Suonava ormai da ore e le dita cominciavano a fargli male, aveva voglia di smettere, magari di mettersi ad urlare. Invece, continuò ancora a lungo, mentre dal cortile le voci si affievolivano. 
Se solo avesse potuto vederlo in quel momento, Master Renard sarebbe stato orgoglioso della sua forza di volontà. Athom sentì una stretta alle viscere pensando al sorriso del suo maestro lontano. Era un dolore simile ai morsi della fame, che gli apriva un vuoto in mezzo allo stomaco.
Sconvolto da quella sensazione, chiuse gli occhi e appoggiò la fronte contro il vetro gelido della finestra. In quell'esatto momento la porta si spalancò e un gruppo di ragazzi in pantaloncini e maglietta, bagnati fino alle ossa si precipitò vociando nella stanza. Athom aprì gli occhi e si drizzò sulla schiena, ma nessuno dei nuovi arrivati fece caso alla sua presenza. Gli atleti, cominciarono a rovistare nei cassetti, e a liberarsi degli indumenti bagnati. 
Nemmeno uno, più tardi poté dire come fosse iniziata la baraonda, soltanto ricordarono i vestiti zuppi che volavano  in aria. Lo scherzo cominciato per caso degenerò ben presto in una battaglia di indumenti lanciati da un lato all'altro della stanza, a colpire i compagni meno lesti a schivarli. Athom in piedi, stordito dalla confusione, si prese una scarpa in pieno viso. Il colpo fu talmente violento che il ragazzo barcollò. Cercando istintivamente di salvare l'albatros, si buttò all'indietro e con la testa colpì lo spigolo del letto accanto al suo, finendo lungo disteso sul materasso. Un ragazzo con i capelli rossi lo afferrò allora per i capelli dietro la nuca e lo rimise ruvidamente in piedi.
_ Ehi, ragazzi, guardate ho trovato un pidocchio sul mio letto- disse ridendo, - Mi sa che dovrò andare in direzione a protestare.
Una risata generale accolse le sue parole. Athom sentì che arrossiva violentemente e con uno strattone si liberò della presa.
- Ehi, ma sta sanguinando! - disse un ragazzino magro con aria disgustata.
Athom si portò la mano sulla tempia umida e osservò atterrito le dita sporche di rosso.
- Mark, ma che gli hai fatto?! - disse qualcuno, con voce spaventata.
_ Io? Non l'ho nemmeno sfiorato- disse il pel di carota da un punto imprecisato dello spazio. Poi, tutto divenne nero intorno e lui piombò nel buio.

Si svegliò adagiato su un letto in una stanza sconosciuta. Era sdraiato senza cuscino e sentiva una forte pulsazione alla tempia. Tentò di sollevarsi, ma una mano lo ricacciò giù.
- Stai fermo - disse una voce giovane al suo fianco, - mi hanno raccomandato di non farti muovere.
Athom spostò di lato la testa, sbirciando il punto da cui arrivava la voce. Il ragazzo seduto accanto al suo letto indossava un camice bianco sulla divisa da ginnastica e aveva sul bel viso arrogante un'espressione accigliata. Era Milos Ranke il responsabile della sua camerata.
- Cos'è successo?- chiese.
- Piacerebbe saperlo anche a me. Per colpa tua Mark è stato punito, ma lui giura di non averti torto un capello. A dire il vero anch'io sono piuttosto nei guai...
Athom sbatté le palpebre, si sentiva la testa pesante e confusa.
- Non capisco, perché per colpa mia?
- Ti sei ferito alla testa e poi sei svenuto. I Master hanno dato la colpa a Mark, ma lui continua a negare di averti sfiorato. E' proprio furibondo...- Aggiunse con un sorriso divertito sulle labbra.
Athom rifletté, pian piano tornarono i ricordi.
- Ha ragione, è stato un incidente, lui non c'entra. In quella confusione ho perso l'equilibrio e ho sbattuto la testa contro lo spigolo del suo letto. È così che mi sono fatto male.
Sapeva che non era la verità completa, ricordava una scarpa che volava verso di lui, lanciata con forza selvaggia, ma era sicuro che il ragazzo coi capelli rossi non intendeva colpirlo. O per lo meno, abbastanza sicuro.
- Non è stato Mark a spingerti? -  chiese Milos.
- No - rispose - è stato solo un incidente, te l'ho detto.
Milos sospirò. - Be', almeno non dovrò passare i prossimi quindici giorni a sopportare i lamenti e gli scherzi di quello scimunito.
- Quindici giorni di consegna nel dormitorio, - spiegò poi, notando lo sguardo confuso di Athom, - è la punizione che mi è stata inflitta dai Master per aver lasciato allentare la disciplina in camerata.
- Oh, - assentì il ragazzo ferito con simpatia, - mi dispiace.

III

Alla ventesima scala ascendente Milos sollevò la testa dal libro che stava leggendo, sdraiato supino sul letto e: - La vuoi piantare con questa solfa? - ringhiò all'indirizzo di Athom.
Il ragazzo smise di suonare, ma le sue dita si strinsero nervose intorno all'Albatros.
- Devo studiare - si difese.
- Anch'io - sibilò l'altro, alzandosi di scatto e mandando a sbattere il libro contro la parete di fronte. Athom sussultò e distolse lo sguardo puntandolo verso la finestra.
- Mi spiace...- mormorò.
Milos si lasciò cadere sul letto e rimase sdraiato con le mani dietro la nuca ad osservare il soffitto.
Giusto in quel momento Mark, completamente scagionato, correva insieme agli altri in cortile e presto sarebbe tornato, sudato ed ansante, con quell'espressione di ebete sfottò sulla faccia ottusa.
Come Milos aveva previsto i Master dopo il racconto di Athom avevano rilasciato Mark, ma non avevano diminuito di un solo giorno la punizione del responsabile della camerata, e perciò eccolo lì chiuso in gabbia già da una settimana, giorno e notte tra quelle quattro mura, lontano dalla sua piscina, senza alcuna distrazione a parte i libri di scuola e quel ragazzino in convalescenza, con la sua musica insopportabile.
Milos alzò la testa dal cuscino e guardò il suo compagno di prigionia. Athom era ancora girato verso la finestra e guardava fuori con aria infelice. Tra le mani stringeva pateticamente quello strano strumento trasparente. Sembrava indeciso se obbedire alla paura che sembrava ispirargli il ragazzo più grande e più robusto, o ricominciare a suonare. Alla fine si strinse nelle spalle e sospirò. Si sedette sul suo letto e posò lo strumento sulle ginocchia.
Milos continuò ad osservarlo. Aveva il profilo di un bambino, un bambino non molto in salute e dallo sguardo malinconico nei grandi occhi languidi. Erano proprio quegli occhi e quell'espressione che mandavano in bestia i ragazzi più rudi come Mark.
Milos notò che le  ciglia lunghe e ricurve gli ombreggiavano le gote lisce come la seta. Le sue dita straordinariamente affusolate continuavano ad accarezzare nervosamente lo strumento sulle sue ginocchia.
- Almeno suonassi qualcosa - disse il ragazzo  tra i denti - macché, tutto il giorno con questa roba noiosa!
- Sono scale - rispose Athom - mi servono per esercitarmi. Anche tu fai gli esercizi di atletica e corri tutto il giorno attorno alla statua del capitano per poter diventare più bravo a nuotare. Non è noioso quello?
- Non è per niente la stessa cosa - disse Milos sorpreso che il ragazzo avesse osato contraddirlo. Ma quello evidentemente era arrivato al limite della sopportazione. Si voltò di scatto con aria indignata.
- Perché non sarebbe la stessa cosa? Solo perché lo sport è più importante della musica? Lo so benissimo da me, non credere.
Milos si accigliò.
- Non volevo dire questo
- Oh sì, invece. Lo so benissimo che tu mi disprezzi perché sono un musicista. Come tutti del resto... ma anche la musica ha la sua importanza ed io cerco solo di fare del mio meglio... di fare ciò che posso per la grandezza di New Empire...
Milos si sollevò a sedere sul letto e lo guardò a bocca aperta.
- Tu... credi che io sia un buono a nulla - continuò l'altro, sempre più accalorato, - un vigliacco smidollato... solo perché non sono un bravo atleta e non sarò mai un bravo soldato, ma anche la musica può dare un contributo... io sono un patriota, esattamente come te...
Milos scoppiò a ridere fragorosamente e Athom si bloccò rosso per la vergogna. Sentì, immediatamente, gli occhi che gli si riempivano di lacrime e allora si alzò di scatto, correndo verso il bagno. Vi entrò ancora di corsa, rinchiudendosi dietro la porta e appoggiandovisi con la schiena. Lasciò che le lacrime di rabbia e di frustrazione scorressero lungo le guance, odiandosi ogni secondo per la propria debolezza. Cercò almeno di trattenere i singhiozzi, col solo risultato di sentirsi soffocare, mentre lo stomaco si serrava in una morsa.
Un lieve bussare alla porta lo fece sussultare.
- Coleen, ti senti bene?- la voce di Milos aveva una nota di reale preoccupazione e questa fu la goccia definitiva. I singhiozzi cominciarono a squassarlo e lui poté solo piegarsi sullo stomaco, reggendosi ad uno dei lavabi.
- Coleen... Athom, fammi entrare o vado immediatamente a chiamare un Master! - minacciò l'altro con voce troppo decisa per pensare che scherzasse.
Il ragazzo si tolse dalla porta, appoggiandosi con le spalle contro una parete. Milos entrò e rimase per un momento a guardarlo con aria stupita. Poi gli si avvicinò. Athom si coprì il viso dentro l'incavo del gomito, piangendo indecorosamente, completamente annientato per l'umiliazione. Adesso Milos Ranke, il grande e famoso atleta, avrebbe riso di lui,  di quella piccola persona ignobile e senza spina dorsale che si scioglieva in lacrime come una bambina piagnucolosa. Adesso lo avrebbero saputo tutti, quello che era, fino a che punto poteva essere patetico, e lo avrebbero deriso ancora più di quanto non facessero già.
Con un braccio cercò di respingere il ragazzo che si avvicinava e Milos infatti si bloccò fermo a guardarlo, senza dire una parola, aspettando pazientemente che l'altro si calmasse. Ci volle un po' di tempo, ma finalmente gli spasmi alla bocca dello stomaco cessarono e lui poté cominciare a respirare, mentre le lacrime cessavano di scorrere come fiumi.
- Avanti, - disse Milos,  aprendo un rubinetto dell'acqua, - datti una sistemata.
Athom ubbidì. Si sciacquò il viso devastato e l'acqua fredda sulla pelle lo rianimò. Sentì la mano di Milos stringerlo attorno al gomito e si sentì trascinare gentilmente nel dormitorio. Era completamente privo di forza, come una bambola di pezza, senza volontà propria, perciò si affidò all'altro e lasciò che egli lo conducesse fino al suo letto, per poi aiutarlo a sdraiarsi. Chiuse gli occhi, la testa completamente priva di pensieri e li riaprì solo quando avvertì una lieve carezza sulla guancia. Vide allora il volto di Milos chinato su di sé e si stupì per l'espressione dipinta sul suo viso.
- Ti senti meglio? - gli chiese con insospettabile gentilezza. Athom annuì e richiuse gli occhi esausto.
-Lo dirai a tutti, non è vero? Scommetto che non vedi l'ora.
-Sei un vero stupido.
L'insulto gli fece riaprire gli occhi di scatto, Milos era ancora chinato su di lui e la sua mano era ancora appoggiata sulla sua guancia. Tentò di dire qualcosa, ma la mano si posò sulle sue labbra, per zittirlo e rimase lì a sfiorargli lievemente le bocca. Athom sentì un brivido corrergli per la schiena e spalancò gli occhi sul volto dell'altro. Milos lo stava guardando a sua volta con un'espressione intensa, da affamato.
- Sei bellissimo - sussurrò con una specie di stizza, - accidenti a te, bellissimo...
Athom non ebbe il tempo di reagire in alcun modo, mentre il volto dell'altro si avvicinava. Vide i lineamenti ingigantire e il suo respiro sulla pelle. Poté solo chiudere gli occhi, mentre le labbra di Milos Ranke si posavano sulla sua guancia. Da lì con una lentezza di secoli esse si spostarono sulle sue labbra, lasciando una scia di piccoli baci. Calde e morbide quelle labbra si unirono alle sue e lui aprì istintivamente la bocca, accogliendone la lingua dentro la propria bocca. Il sapore del ragazzo lo invase, sconosciuto eppure gradevole, mentre un calore mai provato prima gli saliva al cervello, togliendogli ogni senso delle cose.
Fu uno shock essere abbandonato improvvisamente da quel calore, gli sfuggì un gemito di disappunto e allungò istintivamente le mani per attirare ancora a sé quel corpo caldo. Non si era nemmeno accorto che la porta della stanza si era spalancata e che la  massa informe e vociante dei suoi compagni si era precipitata dentro. Athom si alzò di scatto e fece appena in tempo a scorgere la schiena di Milos che spariva nei bagni.



III

Athom percorse tutto il sentiero di terra battuta, stringendosi al petto l'albatros trasparente. La strada aggirava i campi da gioco e la grande palestra coperta e si inerpicava con una cura sinuosa intorno ad una breve collina. Il ragazzo la si arrampicò fino in cima e lì si sedette a terra, sotto l'ombra di un grande faggio.
Era un luogo solitario, che lui aveva scoperto per caso, in uno dei suoi vagabondaggi, in cerca di un posto dove poter suonare senza essere disturbato.
L'erba era così alta che una volta seduti, nessuno poteva vederlo, dal lato dove sorgeva il grande edificio della scuola. Dall'altra parte, invece, la collina finiva in una scarpata scoscesa e selvaggia, ed in fondo, azzurrina per la lontananza si stendeva la città di Futura, in tutto il suo ordinato splendore.
Athom appoggiò l'albatros per terra e si sdraiò supino sull'erba soffice. Il cielo di New Empire era di un azzurro accecante. Oltre quel blu illusorio, lui lo sapeva bene, si estendevano le cupole che rendevano il pianeta abitabile agli umani. Nessuno degli abitanti di New Empire poteva guardare il cielo senza ricordarsi di quel miracolo della tecnica degli Antichi Padri a cui dovevano ogni cosa. E d'altronde se qualcuno aveva voglia di dimenticarlo, c'erano le pietre ad ogni angolo di strada, ogni piazza, o trivio, svincolo o svolta a ricordarlo per loro.
Le pietre e le loro parole incise... perentorie esse stesse come pietre:

"New Empire è il mondo nuovo. Noi lo difenderemo da ogni forma di corruzione. Il sangue che è costato non è stato sparso invano. Le lacrime che lo hanno bagnato, sono la nostra acqua. New Empire vivrà nella nostra carne, per sempre".

La corruzione... Athom si coprì il volto nell'incavo del gomito e lasciò che i ricordi lo sommergessero. 
Un uomo gentile si chinava sorridendo verso di lui bambino e gli regalava un oggetto fatato, trasparente come il vetro. Quell'uomo mite sapeva trarre da quello strumento suoni che il bambino ascoltava rapito per ore.
Erano venuti di notte a prenderlo. Athom nel suo letto aveva sentito il sibilo dei motori solari spegnersi davanti casa. Poi il rumore di stivali che risuonavano sulle scale e colpi secchi alla porta del piano di sopra. Si era coperto le orecchie con le mani e aveva cacciato la testa in fondo alle coperte. Il cuore che batteva impazzito contro le costole copriva ogni altro suono, eppure ad Athom parve di udire  un lungo gemito, come la nota di un albatros, che si innalzò purissima, finché non fu inghiottita dal cuore della notte.
La mattina dopo a colazione i suoi genitori parlottavano tra loro, talmente assorti dai loro discorsi da non far caso al chiasso dei fratelli e delle sorelle di Athom che schiamazzavano intorno al tavolo della cucina. Lui invece sedeva tranquillo, cercando di ingollare il cibo, insieme alle lacrime che tentavano di risalire su. 
"Alla fine se l'è cercata!" esclamò suo padre ad un certo punto, "Come potevamo sopportare la sua corruzione sotto il nostro tetto?"
Sua madre lo zittì, accennando verso di lui che ascoltava.
"Oh! Che senta pure" disse l'uomo, "almeno imparerà cosa significa essere degli smidollati, disfattisti ed immorali. Hai capito figliolo?", chiese rivolgendosi direttamente a lui, "Impara che a New Empire sappiamo come trattare la feccia. E adesso non metterti a piangere. Ma che diavolo ha questo bambino, donna? È possibile che stia sempre lì a piagnucolare?"


Che lui stesse sempre a piagnucolare era una cosa di cui si erano accorti in molti. I suoi fratelli, ad esempio, o i suoi compagni di scuola, che non perdevano occasione per provocarlo e godersi lo spettacolo. Lo spettacolo di lui che crollava... così come era crollato il pomeriggio precedente davanti a Milos Ranke. E se almeno quello si fosse limitato a ridere come tutti gli altri, invece di... di cosa?
Cos'era esattamente successo tra lui e Milos prima che gli altri ragazzi rientrassero in camerata? Cos'altro sarebbe successo se non fossero stati interrotti?
Dita forti che gli sfioravano i capelli. Labbra calde sulla sua guancia, nell'angolo vicino alla bocca. Il cuore che batteva forte, che pareva sul punto di schizzare via dal petto e quella sensazione meravigliosamente dolorosa, che lui aveva già provato prima, a volte, ma mai così forte... così forte proprio mai.
Milos non gli aveva più rivolto un solo sguardo per tutto il resto della serata. Lui, invece, lo aveva osservato di sottecchi chiacchierare e scherzare con gli altri, tranquillo, come se niente fosse successo. Sulla sua bella faccia di atleta di razza nessuno avrebbe potuto leggere una minima traccia di ciò che era appena accaduto.

Durante la notte Athom si era svegliato di soprassalto angosciato da un sogno che aveva subito dimenticato. 
La camerata era immersa in un silenzio vivo dei respiri dei suoi compagni addormentati. Si erano dimenticati di oscurare le finestre, così la luce delle due lune di New Empire entrava nella stanza e scolpiva gli oggetti e i volti di un argento irreale.
Athom si era alzato dal letto e si era avvicinato ad una delle finestre. Aveva azionato il congegno dell'oscuramento ed improvvisamente il vetro si era trasformato in uno specchio scuro. La sua immagine riflessa aveva la consistenza di uno spettro, ed egli si vide, pallido ed evanescente con due pozze oscure al posto degli occhi e la bocca scarlatta, che tagliava il volto come una ferita. Dentro il pigiama troppo grande il suo corpo fragile, sembrava sul punto di svanire nell'aria.
Athom era rimasto a lungo a contemplare quell'immagine in disfacimento, con l'assoluta, incrollabile certezza che nessuno avrebbe mai potuto sopportare una simile corruzione sotto il proprio tetto.



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