parte II di Tresor
Quattro anni.
Aveva dovuto far passare quattro lunghi anni per trovare il coraggio di ritornare nel suo paese. Quattro anni per dare una svolta alla sua vita. Per costruirsi un futuro e una personalità forti. Per diventare uno dei migliori giocatori di basket dell’NBA. Per chiudere il suo cuore in una scatola a tenuta stagno e gettarla insieme alla chiave nelle profondità di se stesso, perché tanto non gli sarebbe servito mai più. Quattro lunghi anni trascorsi a studiare in un’università straniera. Ad allenarsi. A giocare e vincere. Per cosa? Per tornare a casa, ritrovare gli amici del liceo, e farsi sbattere in faccia che ogni suo più piccolo sforzo di cominciare daccapo senza crepe o ferite nell’anima era stato uno spreco di tempo e di energie? - Non ho capito!- Ammise Akira, allontanando dalle labbra il brik del latte che aveva appena prelevato dal frigo. Tre paia d’occhi fissarono Hisashi e il suo compagno, seduti sul divano del salone. Akira avanzò, varcando la porta della cucina e fermandosi accanto alla poltrona su cui Hisa era seduto a bere la sua tazza di tè. Nella stanza calò un silenzio colmo di disagio. Il giovane alzò lo sguardo e l’espressione sul suo volto non sembrò delle più felici. - Scusa Akira…- Provò a dire, maledicendosi per non essersi assicurato che l’amico non fosse nei paragi. Non si era accorto che era sceso e si fosse diretto in cucina. Nessuno se ne era accorto. Doveva essere passato per la porta di servizio. Non c’era altra spiegazione. - Puoi ripetere, per favore?- Gli chiese quelli senza tradire la minima emozione. Hisashi sulle prime non seppe cosa dire. Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo e la consapevolezza che il suo sarebbe rimasto un pio desiderio non lo fece sentire affatto bene. E Kimi, seduto sul bracciolo della poltrona, dovette sentirsi nel medesimo modo dal momento che chinò il capo e spostò una mano timidamente sul braccio del compagno come a cercarvi rifugio. Privo di parole adeguate. Di una frase qualsiasi che in altre occasioni il suo carattere sempre così conciliante avrebbe certamente trovato. Anche Hana e Kaede, seduti sul divano, erano ammutoliti, l’abbraccio del primo che si serrava intorno al corpo del secondo in un gesto disorientato. Lo sguardo blu cupo di Akira si spostò su ognuno di loro, interrogativo e vagamente irritato da quella inspiegabile reticenza. Che avevano tutti e quattro? Ci voleva tanto a rispondere a una domanda tanto semplice come quella di ripetere quello che stavano dicendo prima che lui arrivasse? - Insomma, vi siete ingoiati la lingua tutti nello stesso momento?- Sbottò.- Non posso sapere anch’io che ne è stato dei nostri compagni ai tempi del liceo?... Stavate parlando di Koshino, no?- Aveva sperato che pronunciare quel nome non sarebbe stato così devastante. Se lo era ripetuto per tutto il viaggio da Los Angeles a Kanagawa. Ma si era mentito. Per quattro lunghi, dannati, anni non aveva fatto altro che mentirsi. Adesso lo sapeva con certezza e non poté che disprezzarsi per la propria inutile debolezza. Il coltello che era rimasto fermo all’interno di una ferita mai risanata adesso stava dando uno scatto e si rigirava, come animato di vita propria. Dolore. Un dolore sordo! - Si.- Ammise Hana, appena udibile, sfiorando i capelli scuri di Kaede con un bacio. - Aki, non…- - Che c’è, Kaede?- Lo interruppe lui di colpo, stufo. Non era riuscito ad afferrare tutte le loro parole mentre era ancora in cucina, ma aveva sentito qualcosa a proposito del lavoro del suo compagno d’infanzia e poi avevano smesso accorgendosi di lui. - Niente!- Fece l’amico, scuotendo la testa dispiaciuto. - Tanto lo verresti a sapere lo stesso.- Completò Hana rassegnato. Akira non seppe spiegarselo, ma all’improvviso gli venne su l’impulso di ridere. E lo fece. Ma fu una risata nervosa, inquieta quella che gli uscì dalla bocca. - Andiamo, è diventato forse un criminale?- Buttò là per gioco. Eppure le facce che si contrirono gli fecero tremare il cuore tanto da farlo pentire di aver detto quelle parole. Tornò a fissare Hisashi quasi incredulo di aver detto qualcosa di anche solo vagamente sensato. - No!- Rispose infine Kimi, al posto del compagno. Trovò il coraggio di alzare la testa e di guardarlo, mentre aggiungeva:- … E’ all’università di S. Si è iscritto a scienze della comunicazione e gioca nella squadra di basket.- Per un momento rincuorato, Akira annuì affatto sorpreso. - E’ sempre stato il suo progetto quello di iscriversi a quella facoltà.- Confermò, ricordando tutte le volte che, negli anni passati, si erano ritrovati a parlare di quello che avrebbero voluto fare dopo il liceo. - E’ andato via di casa circa quattro anni fa.- Proseguì Hisashi, dimentico della tazza di tè che aveva ancora nelle mani, ormai freddo. - Ah, che strano, alla fine i suoi lo hanno accontentato mantenendolo fuori casa!- - No… Si mantiene da solo. Ha trovato un lavoro e si paga gli studi.- Una sensazione di leggero orgoglio si impadronì di Akira. Era contento malgrado tutto. Ma perché quell’aria da funerale persisteva nella stanza e sulle facce di quei quattro allora? C’era qualcosa che non andava? Sembravano così strani! All’inizio aveva pensato che si fossero dispiaciuti per lui che li aveva sentiti parlare di Hiroaki. Sapevano come era finita tra loro quattro anni prima. E sapevano che non si erano più né visti né sentiti in tutto quel tempo. Allora lui aveva avvertito la necessità di confidarsi e loro erano stati gli amici solleciti ad ascoltarlo e a offrirgli delle spalle su cui piangere. Cosa c’era dunque? - Beh?- Esordì impaziente. Parlare di Hiro gli faceva male anche a distanza di tanti anni. E probabilmente si vedeva benissimo anche se stava cercando in ogni modo di apparire il più distaccato possibile. Ma non gliene importava niente. Di solito era un muro invalicabile con tutti. Sorridente e gentile come lo era sempre stato, ma era solo la maschera che ormai aveva imparato a sfoggiare davanti a chiunque per tener lontani i curiosi. Ma con loro non doveva preoccuparsi di indossare alcuno schermo. Certo, non avevano più parlato di quella storia morta e sepolta dopo i primi tempi. Né con Kaede e Hana, che vivevano con lui a LA. Né con Kiminobu e Hisashi, con i quali si erano mantenuti in contatto, e che periodicamente andavano a trovarli negli Usa. Ma probabilmente lo conoscevano abbastanza bene per capire quel che ne era stato di quel brutto periodo. Hisashi raccolse un profondo sospiro, si sarebbe detto sofferto,e infine si decise. - Lavora in un locale da quando vive da solo…- Dannazione perché era così complicato dirlo? Imprecò Hisa contro se stesso, sentendosi soffocare. Ma perché diavolo era toccato a lui trovarsi a dire quelle cose a uno dei suoi più cari amici. Perché lui e non un estraneo? - Che locale?- - Un locale per… accompagnatori per uomini.- Disse Kimi cautamente. - Fa la puttana, dannazione!!- Imprecò Hisashi al limite, scattando in piedi e facendo sussultare tutti per la sorpresa. – E’ inutile girarci intorno!!- A che serviva darsi la pena di trovare termini ricercati se il significato finale non cambiava? Che senso aveva indorare la pillola se poi si sarebbe rivelata ugualmente amara? E dopo tutto se non glielo avessero detto loro, sarebbe comunque venuto a saperlo da qualcun altro al ricevimento che Hana e Kaede avrebbero dato da lì a qualche settimana. E forse era meglio così: venirlo a sapere da estranei avrebbe potuto essere molto più duro che detto da lui. Trascorse qualche momento in cui Akira credette davvero di non aver capito né l’espressione, né la reazione di Hisashi. Lo seguì mentre cominciava a camminare per la stanza avanti e indietro come se improvvisamente dentro di lui fosse scoppiata una tempesta. Vide Kiminobu andargli vicino e tentare di calmarlo con una carezza, e quelli reagire con stizza, come infastidito. In verità soltanto addolorato. Registrò appena Kaede che si scioglieva dall’abbraccio del marito per alzarsi e raggiungerlo, togliergli con un gesto gentile il brik del latte dalle mani, che stavano perdendo la presa man mano che il senso di quel che la mente aveva ascoltato, andava facendosi strada in quella parte di sé che provava a tradurne il significato. D’un tratto una fragorosa risata proruppe dalla sua gola, squarciando il silenzio come un tuono in pieno cielo estivo. Quattro paia d’occhi gli si appuntarono addosso esterrefatti. Hana scattò dal divano con il cuore in gola, artigliando la mano di Kaede, spaventato: perché Akira si era messo a ridere? Inspiegabile. Cosa c’era da ridere in una notizia del genere? Ma non trovò alcuna risposta né nello sguardo del proprio compagno, né in quelli degli amici, rimasti inchiodati a pochi metri da loro, altrettanto inebetiti. - Akira?- Kaede si riprese per primo. - Questa è bella, non trovi?- Esordì di colpo il giovane, guardandolo dritto in faccia. Non c’era ilarità nei suoi occhi, anche se il riso ancora gli incurvava in viso e gli incrinava la voce. Una voce quasi non sua. - Akira, senti…- Nel sentirsi chiamare di nuovo, così com’era apparsa, la voglia di ridere sparì e Akira sentì una curiosa, fastidiosa, agitazione pizzicargli la pelle.: l’adrenalina, simile a quella che gli mandava il sangue a mille quando era in partita, adesso gli si propagava nel corpo e gli stava avvelenando ogni fibra. Ecco cos’era quella sensazione di orticaria. - Perché?- Chiese senza fissare nessuno in particolare. Hisashi scrollò le spalle. - Non lo so! Non lo sa nessuno, anche perché lo vediamo abbastanza di rado da quando il liceo è finito.- - Hiroaki studia qui, ma lavora a Tokyo.- S’intromise Kimi.- Quasi nessuno sa del suo… lavoro. Secondo noi nemmeno i suoi genitori. Abbiamo pensato che sia per questo che si è spostato nella capitale.- - Io sono venuto a saperlo non perché lo abbia detto lui, ma perché un mio amico frequenta quel locale e un giorno che ci siamo incontrati, me ne ha parlato. Mi ha detto che è un club privé molto esclusivo e che… Hiro è uno dei ragazzi più ricercati là dentro! Che per farsi fissare un appuntamento con lui è necessario mettersi in lista d’attesa.- - Allora deve guadagnare parecchio!- Osservò Akira quasi casuale. In realtà piuttosto disorientato.-… E bravo il ragazzo!- - Mi spiace che tu sia venuto a saperlo!- - E perché, Hisa? E’ padronissimo di fare quel che gli pare della sua vita. Non sono affari miei.- - E’ stata una… sorpresa anche per noi!- Ammise Kimi sempre più a disagio. - Sorpresa?!- Gli fece eco lui, e di nuovo gli venne da ridere.- Mi sembra un eufemismo. Mah… fatti suoi!... Io vado di sopra, scusate!- E così dicendo si riprese il brik dalle mani di Kaede e se ne andò senza degnarlo di uno sguardo.
- Mi dispiace!- Disse Hisashi dopo
diversi minuti di silenzio, la voce soltanto un sussurro.
- Non te la prendere, amore, tanto glielo avrebbe detto sicuramente qualcun altro. Non c’era modo di tenerglielo nascosto una volta tornato a Kanagawa.- - Kimi ha ragione!- Replicò Hanamichi scorato, e si gettò di peso sul divano, portandosi le mani nei capelli ramati.- Oddio che situazione incredibile, mi sembra impossibile!!- - A chi lo dici! Quando quest’amico di Hisa ce lo ha detto, siamo rimasti senza parole per almeno mezz’ora. Hiro è stato sempre un ragazzo di buona famiglia. Una persona schiva, con un caratteraccio scorbutico e un po’ chiuso, ma questo di certo non ce lo aspettavamo.- - E lui non ve ne ha mai parlato personalmente?- Chiese Kaede. - No. Te l’ho detto, lo vediamo poco e quasi sempre per caso. Ci si scambia qualche parola, niente di più. Noi non gli abbiamo chiesto niente. Non vogliamo creargli imbarazzi o fastidi. Credo… che sia una situazione delicata!- - Ahhh!!- Hana gettò fuori in un urlo di rabbia la propria frustrazione.- Questo è un casino, non c’è proprio niente di delicato, maledizione!... Perché non ce lo avete detto, avremmo provato a impedire ad Akira di tornare in Giappone almeno!- - Non dire stupidaggini, Hana, come credi che avremmo potuto impedirglielo senza una ragione?- - Kitsune, tu appoggio zero, eh?- - Hn!- - Ecco, appunto! Cheppalleee!!!!- Capitolo III Lavora in un locale. Che locale? Un locale per… accompagnatori per uomini. Fa la puttana! Le parole continuavano a girargli nella testa come un nastro inceppato. Seduto sul davanzale della finestra in quel pomeriggio di primavera, una gamba piegata sulla soglia di marmo, il braccio abbandonato sul ginocchio con la mano che ancora teneva il brik semivuoto del latte un poco inclinato, lo sguardo che vagava per il giardino attraverso il tepore tiepido di una dolce brezza che gli sfiorava la pelle del volto e del petto privo di indumento, Akira non tentava neppure di farsene una ragione. Fa la puttana. Il mio Hiro si prostituisce! Non posso crederci. Com’è potuto succedere? Lui così schivo, riservato. Lavora in un locale. Fa la puttana. E’ uno dei ragazzi più ricercati. Per avere un appuntamento con lui bisogna mettersi in lista d’attesa. Se non fosse assurdo, mi verrebbe solo da ridere. Se non fosse così insopportabilmente assurdo! Assurdo! Amore, ma che hai fatto? Dio, aiutami! Continuo a pensarti mio quando non lo sei mai stato! Continuo a chiamarti amore nei miei pensieri e non lo sei mai stato! Pensavo di essermi liberato di te. Ho combattuto contro me stesso fino a sanguinare per liberarmi di te. E tu sei ancora qui a farmi male e nemmeno lo sai. Come puoi aver fatto una cosa simile? Come hai potuto accettare di vendere il tuo corpo? Permettere a mani estranee di toccarti, di fare i loro comodi con te? Come è potuto succedere? Per soldi? No, non posso crederci che tu lo abbia fatto per denaro. Avresti potuto cercarti qualsiasi altro lavoro. Non puoi averlo deciso per dello sporco denaro. Non tu! Ma poi, perché mi fa così male saperlo? Dovrei infischiarmene. Dovrei provare repulsione per te. Dovrei detestarti. E non ci riesco. Mi hai mentito quattro anni fa. Hai detto di amarmi e non era vero. Mi hai tradito. Hai tradito la nostra amicizia. La fiducia che avevo sempre avuto in te. Hai sputato sul mio amore senza farti alcuno scrupolo. Perché? Fa la puttana. Fa la puttana. No. No. No!!! Non tu! Dovevo dimenticarti. Dovevo cancellare ogni traccia di te dalla mia mente. Dai miei pensieri. Dai miei sogni. Dai miei incubi. Dovevo riuscirci in tutto questo tempo. Ci ho provato. Il cielo sa se ci ho provato. E ho perso solo tempo. Tanto tempo prezioso. Tempo che avrei potuto usare per costruirmi una vita decente. Per trovare qualcuno che meritasse il mio amore. Quell’amore che tu hai calpestato senza tener in conto neppure l’amicizia. Il rispetto. E non ci sono mai riuscito. Mai una volta che abbia potuto concedermi il lusso di ingannare questo stupido cuore, che ha continuato a cercare i tuoi occhi e il tuo volto in quelli degli altri. Che ha voluto sentire all’infinito i tuoi sospiri nella passione di altre persone che non erano te. Che se ne è infischiato di me e della mia volontà e ha continuato ostinatamente a impormi la sua folle ricerca dei tuoi sorrisi così rari nei sorrisi di coloro che nulla avevano di te. E tu… tu vendi il tuo corpo. Quel corpo che avrebbe dovuto essere mio. Che avrei adorato come il più prezioso dei tesori. Offri il tuo corpo a mani sconosciute che non hanno alcun rispetto di te. Hai venduto anche la tua anima al miglior offerente? Come hai potuto? Come? Dimmelo, perché questa cosa mi sta facendo impazzire. Adesso che avrei dovuto superare la prova del fuoco rivedendoti dopo tanti anni. E nemmeno ti ho ancora incontrato. E già ho fallito. E già sto ricominciando a tormentarmi con domande inutili. A odiare tutti quelli che ti hanno avuto. A desiderare di vederli morti perché hanno osato toccarti! A questo punto dovrei cominciare a odiare anche te. Sarebbe giusto, no? Sarebbe la naturale evoluzione della considerazione che ho sempre avuto di te anche quando mi hai dato il benservito. Dovrei odiarti. Dovresti farmi schifo addirittura. Perché non è così allora? Perché devo essere così stupido? L’odio è un sentimento così semplice da provare. Così ovvio. Così naturale. Facile tanto più che non ti sei preoccupato di farmi male, allora come adesso. Allora perché non ti odio? Perché non ci riesco? PERCHE’???
A presto per i prossimi capitoli...
spero ç_ç!!!
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