Disclaimers: i personaggi sono di mia esclusiva
proprietà, quindi mi riservo il diritto di trattarli male quanto voglio^^
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Le feu dans
l'ame
parte II -
Renaissance
di
Kourin
Aveva sempre pensato
che morire avrebbe significato tornare nell’inferno da cui era venuto, ma
attorno a lui non c’era nulla di ciò che aveva sempre immaginato. Niente
fiamme, o demoni mostruosi o anime penitenti, nulla di tutto questo. Era
immerso in una sorta di silenzioso lucore ambrato che si estendeva
all’infinito attorno a lui, eppure, nonostante non avesse mai visto nessun
altro, non aveva mai avuto la sensazione di essere solo. A volte riusciva
a scorgere tremule scie colorate che attraversavano lo spazio cangiante e
udiva suoni flebili che non riusciva a riconoscere ma che lo confortavano
come mai nulla era riuscito prima e spesso si accorgeva di sorridere senza
motivo, anche se sorridere forse non era il termine più adatto. Trovava
buffo immaginarsi ancora con un corpo, tuttavia aveva la netta percezione
di essere un’entità distinta da ciò che lo circondava e la sola cosa a cui
poteva fare riferimento era la forma umana che aveva ricoperto fino ad
allora. Come aveva fatto decine di volte allargò le braccia, riversando
indietro la testa, come faceva da bambino per assaporare il piacere della
carezza del vento nelle limpide notti autunnali, quando la luna e le
stelle sembravano così vicine da poterle toccare. Sospirò piano. Non
esistevano punti di riferimento e le direzioni certo non avevano
significato in quello spazio uniforme, eppure aveva la certezza di
guardare sempre verso un punto preciso, un luogo che non sarebbe riuscito
a raggiungere. Non sapeva da dove poteva venire quella consapevolezza, ma
spesso aveva l’impressione di trovarsi in una sorta di luogo di passaggio,
uno spazio neutro tra la vita e la morte. Un’esile scia verde acqua si
mosse sinuosamente davanti ai suoi occhi e poi si allontanò lentamente,
facendo vibrare la luce attorno a lui. Chiuse gli occhi, assaporando
quella sensazione di pace così nuova e desiderabile. Ad un tratto si
irrigidì. Il suono sottile e familiare che ora gli riempiva la mente era
vicino, più forte del solito e per la prima volta intelleggibile.
“Come sta oggi il
nostro ospite?”
Quelle parole gli
esplosero nella mente con una violenza inimmaginabile, come se udisse
parlare dopo anni di sordità. Si raggomitolò su se stesso, stringendo le
ginocchia al petto, tremando per qualcosa che non riconobbe, ma che non
era paura. C’erano numerose emozioni inespresse in quelle parole, ma su
tutte dominava una sorta di calore buono che sapeva scaldare il suo spirito.
Le lacrime gli scivolarono involontarie lungo le ciglia senza che ne
comprendesse il motivo. Non stava soffrendo né sentiva dolore, piangere non
aveva senso, allora perché? Improvviso rivide il viso di sua madre, che con
occhi luminosi e lucidi di un pianto dolce distoglieva sorpresa lo sguardo
per guardare verso qualcuno di cui lui non aveva ricordo. Aggrottò le
sopracciglia per focalizzare meglio quell’immagine e poi sorrise, lasciando
scorrere liberamente quella strana emozione. Non aveva memoria di quel
supplizio tanto tenero, ma forse…forse poteva essere quella che chiamavano
felicità.
***
Il mondo intorno a lui
collassò d’un tratto, accartocciandosi su se stesso con il rumore di una
foresta in fiamme e con un terrore tale da offuscare ogni altro pensiero si
rese conto di abitare di nuovo un corpo. L’aria che bruciava nella gola, nei
polmoni, sulla pelle ipersensibile fu la prima e unica cosa che occupò la
sua mente sconvolta.
“No…”sussurrò.
Vagamente si accorse che
la sua voce era arrochita, che anche mormorare quel semplice monosillabo
costava dolore. Lacrime di disperazione gli corsero lungo le guance e
qualcosa di simile a un singhiozzo lo scosse da capo a piedi. Udì allora dei
passi affrettati, accompagnati da un fruscio che riuscì a trovare familiare,
quasi rassicurante.
“Lasciatemi…andare…”implorò.
Mani gentili gli
toccarono il viso con cautela, asciugando le lacrime con un lembo di seta.
“No.”
Quel suono pacato risuonò
come una condanna. Singhiozzò ancora, incurante del dolore lancinate che
quel sussulto aveva scatenato nel suo corpo. Avrebbe voluto urlare e
scalciare, sfogare tutta la sua frustrazione, invece rimase immobile,
svuotato anche della forza che conferisce la disperazione.
“Ti…prego…lasciami…ti…”
“Non è ancora tempo.”
Una mano scivolò sulla
sua fronte e poi si insinuò sotto la nuca, sollevandolo un poco e facendogli
riversare indietro la testa. Labbra morbide si poggiarono sulla sua bocca e
qualcosa di tiepido e amaro gli scivolò lungo la gola, togliendogli come una
benedizione la percezione della realtà.
***
Un suono sconosciuto
invase la sua mente, conducendolo con gentilezza oltre i confini del sonno.
Aggrottò le sopracciglia. Qualcuno stava cantando. Sbatté le palpebre per
schiarire la vista. Stagliata contro il sole che inondava la stanza distinse
appena una figura che, per un lungo istante, gli parve costituita essa
stessa di luce. Il canto si spense dolcemente, seguito da alcune parole
pronunciate ridendo in modo sommesso poi la misteriosa creatura rientrò
nella stanza, scostando con un gesto elegante le chiare tende di seta. Gettò
un’occhiata cauta in direzione del letto e sorrise con benevolenza, senza
avvicinarsi ulteriormente. Indossava un semplice abito bianco, lungo fino a
terra e molto accollato e per un attimo l’altro ebbe la sensazione di
trovarsi davvero di fronte a una sorta di essere ultraterreno. Quando gli
parve di essersi lasciato osservare a sufficienza quella meravigliosa
creatura si inchinò profondamente, al punto che una lunga treccia color
miele scivolò oltre la sua spalla.
“Buona giornata, solan
(1).”
La sua parlata aveva
l’accento della gente di pianura, eppure dava l’impressione che stesse
parlando in quel modo solo perché potesse farsi comprendere da lui. Il suo
ospite balbettò qualcosa di incomprensibile, strappandogli un altro sorriso
e finalmente mosse qualche passo nella sua direzione. Si sedette al suo
fianco e gli sfiorò la fronte con una carezza familiare.
“Puoi dirmi il tuo nome?”
“Ki…”
Il ragazzo si zittì,
allarmato da qualcosa, forse semplice disappunto, che vide balenare negli
occhi grigi fissi su di lui.
“Desidero sapere il nome
che ti ha dato tua madre.”
L’altro si morse
l’interno della bocca, ad occhi socchiusi.
“Meriart.” bisbigliò.
“Allora bentornato, solan
Meriart.”
Troppo tempo…erano
passati anni dall’ultima volta che aveva udito pronunciare il suo nome e con
quel tono sinceramente gentile. Si coprì il viso con una mano e si girò su
fianco, raggomitolandosi e singhiozzando come un bambino. Udì un lieve
sospiro e una mano tiepida cominciò a carezzargli il braccio nudo. Solo dopo
qualche minuto si rese conto che non avrebbe più dovuto avere delle dita, né
un viso da coprire con esse. Sentì i muscoli tendersi in uno spasmo
involontario. Le dita che gli sfioravano il braccio si strinsero con
gentilezza sulla sua spalla, in un tocco leggero eppure rassicurante.
“Avrai ogni risposta,
quando arriverà il momento.”
Meriart respirò
profondamente per calmarsi, quindi si voltò verso di lui, in una muta
domanda.
“Il mio nome è Lir’yel.”
piegò le labbra in un ennesimo sorriso “ Benvenuto a Filevrynn.”
*****
Note:
(1)
solan: nel bizzarro mondo nato
dalla mia fantasia questo termine ha un significato equivalente a
“fratello”, ma non indica necessariamente dei legami di sangue. L’accento si
trova sulla prima vocale (e se qualcuno mi dice che ha un suono che ricorda
da vicino il romanesco “sòla” giuro che divento una belva >_<)
(2)
altri accenti: Meriart e
Filevrynn hanno l’accento sulla prima vocale, idem per Lyr’yel, ma in questo
caso immaginate di pronunciarlo lasciando una brevissima pausa dove c’è
l’apostrofo e quindi riaccentate sulla “e”.
(3)
Dopo queste delucidazioni, ci
sarà ancora gente disposta a leggere il seguito?
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