I personaggi non sono i miei purtroppo, ma del sommo maestro Inoue!!

Questa è la mia prima ff su Slam dunk, iniziata a febbraio 2007 e conclusa questo giugno 2007! che fatica!

La dedico alla mia carissima amica Quistis, che mi è sempre vicina in ogni momento^_^!

Buona letturaaaaa!!!



 


 

La vita che verrà

parte VIII

di Releuse

 

“FORZA HANACHAN! DAI KACCHAN! UN ALTRO CANESTRO! FORZA SHOHOKU!”

 

Eriko urlava con tutto il fiato, agitandosi più che poteva per fare il tifo alla squadra.

Era in corso la partita fra Kainan e Shohoku e per l'occasione la ragazzina era stata fatta sedere al fianco di Ayako e dell'allenatore Anzai. Le sue grida erano talmente acute, che sembrava proprio Eriko a trascinare la tifoseria dello Shohoku.

 

La ragazzina si sentiva veramente lusingata di avere un posto così importante, ma era anche felice di non sedere sulla sua sedia a rotelle, che l'avrebbe fatta sentire in imbarazzo. Non che la cosa le desse fastidio, era abituata agli occhi della gente, agli sguardi di pietà o sdegno che le calavano addosso, ma quel giorno voleva che l'attenzione fosse solo per lo Shohoku.

Solo per Kaede ed Hanamichi.

Voleva che gli occhi degli spettatori e degli avversari fossero rivolti esclusivamente a loro.

E non verso la sua condizione.

 

 

Per l'occasione aveva indossato una lunga gonna di velluto, di quel colore antico dei petali delle rose, tenue, morbido e sfumato. In quel modo nessuno si sarebbe accorto delle sue gambe.

Quelle gambe che rappresentavano il marchio bollante la sua esistenza.

Un marchio indelebile. Che s'insidiava sempre di più nella sua carne.

 

Ma quel giorno Eriko non voleva pensarci. Non voleva ricordare.

Voleva essere solo la sorella di Kaede.

L'amica di Sakuragi.

Una grande tifosa dello Shohoku.

Solo quello, e nient'altro.

 

Era la prima partita che la ragazzina seguiva in prima persona.

Sin dall'inizio il ritmo del gioco, i passaggi rapidi, i canestri spettacolari, l'avevano rapita, catturata, coinvolta. Si trovava lì, in prima persona.

Emozionata.

Trepidante.

In ansia.

Forse Eriko provava una sensazione simile alla prima volta in cui si vola nel cielo, sull'aereo.

Hai paura, eppure sei curioso di guardare il mondo dall'alto, come se lo tenessi in una mano. Quando tocchi  terra scopri di avere le gambe di burro, tremanti, eppure il cuore batte per l'emozione nuova, indefinita, trepidante, ansiosa.

 

Una sensazione che ti strappa il cuore.

 

 

 

Improvvisamente Maki soffiò la palla a Mitsui avvicinandosi pericolosamente all'area sotto canestro, ma l'imprevista stoppata di Rukawa bloccò la sua azione,  facendo scivolare la palla nelle mani di Akagi che corse verso l'area del Kainan riuscendo ad  effettuare uno spettacolare canestro.

 

“GRANDE, KACCHAN! NON FARTI GIOCARE DA QUEL VECCHIO BAVOSO!”

Le grida di Eriko riecheggiarono per tutto il campo.

 

“Hey scimmia rossa...” Kyota, col suo fare un poco arrogante,  si rivolse ad Hanamichi.

“...ma è tua parente quella ragazzina urlante che sta seduta con il vecchio?” Domandò probabilmente infastidito dalle urla di Eriko contro il suo capitano.

 

Hanamichi lo guardò ridacchiando.

“Bè, caro nobuscimmia, lei...”

 

 Il rossino venne improvvisamente interrotto da una figura che gli si affiancò.

“È mia sorella, qualche problema?” Era Rukawa che guardava il numero dieci del Kainan con i suoi tipici occhi glaciali, questa volta tinti di una sfumatura minacciosa.

 

“Eh? Come? Tua sorella? No no, Rukawa...tranquillo, nessun problema!” Rispose il ragazzo quasi scusandosi.

Lo sguardo di Rukawa lo aveva fulminato.

Creandogli un groppo in gola.

 

“Kyota, smetti di fare il deficiente e continua la partita!” Lo sgridò Maki poco distante. Nobunaga obbedì in silenzio, ancora turbato dalla reazione del numero undici.

 

Hanamichi guardò per un attimo il suo ragazzo perplesso.

“Rukawa, non pensi di aver esagerato? Mi stava facendo una domanda! L'avrei gestito da solo la nobuscimmia!”

“Hn. Era da un po' che mi stava infastidendo. Continuava a fissare Eriko...” Rispose Rukawa con tono nervoso.

 

Sakuragi accennò un risolino.

“Altro che giudizio della gente. Mi sa che qui abbiamo un fratello geloso!”.

“....”

“Vero?”

“Do'hao!”

“Baka kitsune! Non puoi fregare il tensai!”

 

“WOOOAH! VOI DUE! LA PARTITAAAA!”

 

Il cavernoso grido del gorilla richiamò i due assi ai loro compiti.

 

 

Rukawa.

Quel giorno si distingueva particolarmente. Giocava con uno stile impeccabile, privo d' errori, e di punti deboli.

Brillante, elegante ed imbattibile.

Non solo gli spettatori dello Shohoku, ma anche quelli del Kainan, gli stessi giocatori, erano ammaliati dal suo modo di portare avanti la partita, di renderla viva, fluida, appassionante.

Da togliere il fiato.

 

Tutti gli occhi, erano su di lui.

 

Anche Sakuragi stava giocando con un' insolita abilità.

Non aveva ancora eseguito falli, e il suo gioco si presentava sicuro, spesso preciso, si muoveva con destrezza ed eseguiva slam dunk spettacolari.

Più di una volta lui e Rukawa avevano realizzato azioni congiuntamente, passandosi la palla, spiazzando gli avversari, per l'imprevedibilità dei loro movimenti.

 

Solo Eriko riusciva a prevedere le loro azioni, ad immaginare cosa sarebbe successo l'istante successivo.

Eriko che totalmente assorta, seguiva Kaede ed Hanamichi per tutto il campo, senza perdersi alcun movimento, alcun passaggio.

Eriko che si sentiva immersa nel flusso del gioco, sentendosi un po' Rukawa, un po' Hanamichi.

Avvertendo le loro stesse sensazioni, la loro trepidazione, la loro eccitazione.

Avvertendo il suo cuore battere sincronizzato con il loro.

Come se indossassero la stessa pelle.

 

Voleva applaudire all'ennesimo canestro del fratello, che ormai stava portando la squadra alla vittoria, ma qualcosa glielo impedì.

Qualcosa che era di una rigidità insolita.

 

Le braccia.

Come chiodi sotto una folata di vento.

Paralizzate. Non rispondenti agli impulsi della volontà.

 

Un turbamento improvviso si impadronì di Eriko, gelandole il sangue, trasferendole nella mente un'inquietudine ed una paura fino a quel momento cancellata.

 

Voci, richiami, avvertimenti.

Il tifo acceso.

Le mani che applaudivano.

 

Effetti acustici vivaci e carichi che la ragazzina sentiva nella sua testa. Sempre più violenti, confusi.

Pulsazioni laceranti travolsero il suo cervello.

E poi i rumori... sempre più lontani.

 

Uno sforzo, forse nel tentativo di alzarsi.

Ed Eriko cadde a terra, priva di sensi.

 

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Si presentava come  corridoio infinito, dalle lucide piastrelle bianche, di un colore simile alla madreperla, quello sul quale si sentivano veloci passi avvicinarsi sempre di più, passi carichi di tensione.

 

'Dio, ti prego. Fai che non sia successo nulla. Non prenderti Eriko, ti prego...Kaede...dove sei?'

 

“Kaede!” La voce di Hanamichi spezzò quell'atmosfera sospesa ed ovattata all'interno della quale Kaede Rukawa errava con la sua mente.

Incapace, da solo, di liberarsi.

Il rossino appoggiò preoccupato la  mano sulla spalla del numero undici, che indossava ancora la divisa della squadra.

 

La partita era stata sospesa per diversi minuti, per soccorrere Eriko riversa a terra, di fronte a spettatori sbigottiti.

Di fronte ad un Rukawa sconvolto e disperato. Per la prima volta i suoi compagni lo sentirono gridare, agitarsi, tremare di paura.

Finché l'ambulanza non arrivò per soccorrere Eriko, sulla quale salì anche Kaede.

Ma non Sakuragi.

Il rossino avrebbe voluto andare con lui, ma il capitano glielo impedì, ed anche Rukawa stesso.

C'era la partita, e dovevano vincerla.

 

 

“Hana...” Kaede, seduto su una fredda panca in legno, si voltò verso il ragazzo, tratteggiando un flebile sorriso dolceamaro.

 

“Come sta Eriko?” Chiese Hanamichi con il cuore in gola.

“Lei...bene...sembra sia stato un crollo nervoso...un'agitazione improvvisa...nulla...nulla di grave...”.

 

Rukawa sembrò tentare di convincere se stesso delle sue parole, le stesse riferite dalla dottoressa, che lui stava ripetendo meccanicamente, mentre il suo corpo continuava a tremare.

Probabilmente si era sentito sollevato nell'udire quelle parole, eppure continuava ad essere agitato, nervoso. Ogni volta che metteva piede in quella clinica le angoscie lo assalivano. All'interno di quelle mura alte e sovrastanti, dall'aspetto claustrofobico, dominato dall'aria opprimente, il sudore diventava gelido.

E la tensione agghiacciante.

 

'...è terribile vedere Kaede in questo stato. Ogni volta che mettiamo piede in clinica, la paura lo assale, e io mi sento impotente...cosa posso fare?'

 

Sakuragi lo abbracciò, per rassicurarlo, noncurante delle persone presenti in quello stesso andito.

“Tranquillo Kaede. È tutto a posto ora....”

 

“Hn...la partita?” Chiese Rukawa con voce soffocata.

 

Hanamichi sorrise, pensando che, nonostante tutto, Rukawa non rinunciasse a pensare al basket. Doveva essere più forte di lui.

“Ma abbiamo vinto, no?”

“Davvero?” Una debole luce si fece spazio nelle iridi blu di Kaede.

“Certo, c'era il tensai, ne dubitavi?” Scherzò il rossino.

 

Rukawa lo guardò dubbioso.

 

“Ah, ah, ah! Mi hai scoperto, kitsune diffidente! È dura ammetterlo, ma abbiamo vinto grazie ai tuoi canestri che hanno creato un abissale distacco di punti! Quelli del Kainan erano sconcertati!” Esclamò Hanamichi con una punta di soddisfazione.

“Bravo, Kaede, oggi hai giocato proprio bene!” Concluse infine, dando spazio ad un sorriso dolce.

 

“...Signor Rukawa...” Un' infermiera richiamò la loro attenzione.

“Può seguirmi? La dottoressa vuole parlarle...”

“Arrivo subito.” Rispose prontamente Rukawa irrigidendosi.

 

“Aspettami qui, torno fra poco...” Disse il moretto rivolgendosi ad Hanamichi con tono improvvisamente distratto, sovrappensiero.

 

Il rossino annuì a malincuore. Sapeva che comunque lui non era parente dei Rukawa, e quindi non poteva assistere ai colloqui con l'equipe che seguiva Eriko. Decise così di sedersi.

E aspettare.

 

Kaede entrò nella stanza della dott.ssa Yamaji, il medico responsabile di Eriko.

La conosceva bene, quella stanza. Dalle alte pareti impersonali, con l'unica presenza di una grande scrivania in legno laccato, e una libreria metallica.

Arredo freddo, e distaccato.

Una natura morta.

 

' Come tutto, qua dentro...'

 

“Buongiorno dottoressa...” Fece il ragazzo entrando.

“Ciao, Kaede...” Rispose lei sorridendo gentilmente.

 

'...sono preoccupato, cosa vorrà dirmi? Non sarà che Eriko è peggiorata? Dio, ti prego...'

 

Era una donna un poco robusta, sulla cinquantina, che conosceva ormai da diverso tempo la condizione dei Rukawa. Da quando Eriko aveva manifestato i primi sintomi della malattia, era stata lei ad aver assunto il caso.

 

Rukawa si sedette, di fronte alla donna.

“Mi dica la verità, dottoressa!” Esclamò con foga il ragazzo, per liberarsi di un tormentato peso.

 

La donna sorrise, nuovamente, per rassicurarlo.

“Tranquillo, Kaede. Eriko, sta bene. Tornerà a casa stasera stesso, come ti ho accennato prima.

Kaede non capiva.

 

'Allora perchè...'

 

“Volevo parlarti di un'altra cosa.”

 

Disse la donna sospirando con evidente difficoltà nell'elaborare il pensiero. Poi però cercò di prendere coraggio, assumendo un tono serio e un poco professionale, forse, per non mostrare eccessivo coinvolgimento per un caso che comunque le stava a cuore.

 

“Sappiamo entrambi che questo è lo stadio finale della malattia di Eriko...”

 

Kaede sentì un brivido formicolare per la sua schiena.

 

“...anche le braccia hanno iniziato a darle problemi. Da quello che mi ha detto si è spaventata perché non riusciva più a muoverle. È stato un impulso, sicuramente. Ora non mostra problemi...però, ha avuto un crollo nervoso. Si è agitata troppo e l'ansia ha prevalso sul suo corpo. Come un attacco di panico. Quello che mi chiedo è che se succederà sempre più spesso, come gestirai la cosa, Kaede?”

 

Il ragazzo per un istante trasalì a quel pensiero, ma tentò di nascondere quella debolezza.

“Dove vuole arrivare?” Chiese mantenendo con forza la sua freddezza.

 

“...Vedi, Kaede. Sai benissimo che qui noi tutti abbiamo chiuso un occhio. Tutta l'equipe l'ha fatto. Io, l'assistente sociale, la psicologa, la fisioterapista...Sei minorenne, e noi lo sapevamo bene. Data la vostra difficile situazione e la tua disponibilità abbiamo deciso di lasciarti prendere cura di Eriko, aiutandoti come potevamo. Ma ora la malattia sta diventando sempre più grave, e ci chiedevamo se tu, da solo, possa affrontare tutto questo, e il resto...”

 

“Dove volete portare Eriko?! In qualche istituto per handicappati? Non ve lo permetto!” Il ragazzo iniziava ad alterarsi e ad alzare la voce.

 

“No...Kaede, tranquillo. Figurati, la cura migliore è lo stare in famiglia in questi casi. Appunto, famiglia. E tu sei da solo. Pensavo... di contattare vostro padre. Magari potreste trasferirvi da lui...per affrontare questo ultimo periodo.”

 

Ultimo periodo.

Padre.

C'era una famiglia, una volta. Forse felice.

La malattia di una sorella.

Una madre.

Un esaurimento.

Una madre che non c'è più.

Kaede ed Eriko.

Padre.

 

“COSA?” Rukawa si alzò di colpo, mentre la sedia sulla quale era seduto cadeva, sbattendo violentemente per terra, facendo riecheggiare il frastuono nella piccola stanza.

“Sta scherzando? Mio padre?! Che c'entra mio padre ora?! Lui non c'entra nulla con me ed Eriko!” Gridava irritato il moro.

 

“Kaede, calmati!”

 

Il ragazzo diventava sempre più rosso in viso, aveva i nervi che si diramavano gonfi sul suo collo, sulle sue mani chiuse in uno stretto pugno. La voce era diventata troppo alta, quasi aggressiva. Kaede si accanì, sempre di più.

 

“No che non mi calmo! Lei non si rende conto di quello che dice! Mio padre non conosce nulla di Eriko, né di me! Cosa vuole che ne capisca? Chi si è preso cura di mia sorella fino adesso? Chi? Io! Da solo! Sempre! E continuerò fino alla fine! Non ho bisogno di mio padre!”

 

Rukawa respirava a fatica, fortemente agitato. Disturbato da dolorosi e confusi pensieri.

E forse, ricordi.

 

Silenzio.

Solo un ronzio, quello del condizionatore acceso.

 

La dottoressa non proferì parola. Forse non era troppo sconvolta dalla reazione del ragazzo. Più che altro si sentiva impotente. E indecisa.

 

Rukawa lentamente si calmò, abbassando gli occhi. Cercando di assumere sicurezza per quello che stava per dire.

 

“...e poi...non sono solo. Una persona molto importante mi sta vicino. E io sento...di potercela fare....”

 

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“Ne voglio ancora!”

Esclamarono in contemporanea Hanamichi ed Eriko tendendo il piatto verso Rukawa che aveva vicino a sé una pentola colma di riso al curry.

Il ragazzo li guardava stupito, entrambi avevano una buffa espressione insoddisfatta.

A vederli così, simili nei modi e negli atteggiamenti, spesso impulsivi ed affrettati, sembrava che ad essere fratelli fossero più che altro  loro due.

 

“Ma...Eriko, è già il secondo, sei sicura? La porzione di prima era abbondante...do'hao...la tua è la quarta! Poi stai tutto il tempo a lamentarti che mangi troppo!” Esclamò il moro esitante.

“Ma Kacchan! Ho fame!” Si lamentava la ragazzina scuotendo la testa.

“Kacchan...non fare la mammina lagnosa!” Scherzò Hanamichi prendendolo in giro.

“E poi lo sai...la tua cucina mi fa impazzire! Ti sposerei!” Continuò il rossino ridacchiando.

 

“Do'hao!” Sospirò un ormai rassegnato Rukawa, mentre riempiva nuovamente i loro piatti.

 

Eriko era tornata a casa ormai da qualche giorno, e sembrava stare in perfetta forma. Era sorridente, solare. Non faceva altro che parlare dell'emozione provata durante la partita contro il Kainan. Sapeva descrivere dettagliatamente ogni azione, ogni passaggio, conosceva anche i nomi tecnici delle azioni e dei vari momenti che scandiscono il gioco.

Avrebbe fatto invidia a qualsiasi cronista.

L'unica cosa di cui si corrucciava era il non aver potuto assistere fino alla fine, e su questo comunque riusciva a scherzare, prendendo l'accaduto come un fatto naturale, spontaneo.

 

“Pazienza, se è successo.”, diceva.

 

La ragazzina viveva la sua condizione con una invidiabile semplicità, naturalezza, coraggiosa fermezza.

Non era rassegnazione.

Ma  lucida consapevolezza.

Sembrava come se la malattia fosse una semplice appendice della sua esistenza. Indesiderata, è vero.

Eppure non abbastanza potente da impedirle di assaporare con serenità ogni istante di vita.

Non abbastanza travolgente da impedirle di esistere.

 

Era felice, si vedeva. Da quando Sakuragi era entrato nella loro vita, l'aria si era fatta più respirabile, e l'esistenza più accettabile.

Sia per Eriko.

Sia per Kaede.

Una plastica rappresentazione della serenità.

Un quadro sul quale ti soffermi con devota attenzione. Incapace di scorgere alcun difetto.

 

Eppure, agli occhi di Sakuragi, qualcosa non andava.

 

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“Sei preoccupato, Hana?”

Yohei Mito guardava il ragazzo cercando di decifrare la sua indefinita espressione.

 

Era l'imbrunire e i due amici stavano seduti su delle altalene in un parco ormai deserto. L'oscillare dei loro movimenti e l'aspro suono delle catene arrugginite, erano gli unici segni di vita che si potevano scorgere in qui momenti passeggeri.

 

“Un po'...” Rispose il rossino senza alzare gli occhi verso il suo migliore amico.

“Hai litigato con Rukawa?”

 

Hanamichi scosse la testa.

“No...anzi...è tutto perfetto....”

 

Il rossino fece un respiro profondo, per poi darsi una spinta e lasciarsi andare  al volo sull'altalena, mentre l'aria disturbata da quel movimento per ribellarsi gli scompigliava i capelli.

Mito continuava a fissarlo.

Lasciò che il tempo scorresse lento, in contrasto con i rapidi movimenti dell'amico.

Finché Sakuragi, forse stanco di quel gioco, o per dare voce alle sue preoccupazioni, si fermò, bloccandosi con il piede, mentre la polvere sollevata da terra si disperdeva intorno a loro.

 

“Sono preoccupato. Tutto sembra essere tornato normale, Eriko è serena, Kaede lo sembra altrettanto. Eppure mi ha riferito che la dottoressa è preoccupata che lui non riesca più a gestire la situazione. Perché è da solo. Perchè Eriko comunque peggiorerà sempre di più. Temono che Rukawa non ce la possa fare....”

 

Sakuragi respirò, nuovamente, per allentare la tensione.

“E sembra che Kaede le abbia risposto che ci sono io ad aiutarlo. È proprio un kitsune senza speranza...”

Rise fra sé, lasciandosi stuzzicare dalla  felicità provata per l'importanza che gli aveva dato il suo ragazzo.

 

Anche Yohei sorrise a quell'affermazione, ma poi tornò serio.

“Temi possano assumere decisioni eccessive e drastiche?”

 

“Anche. Inoltre la dottoressa ha accennato alla possibilità di contattare il loro padre, e di trasferirsi da lui.” Sakuragi si sentì schiacciato dal peso delle sue stesse parole.

 

“Ma...non sta in Germania?” Chiese Mito cominciando ad agitarsi per quello che stava intuendo.

“Appunto. Se loro si trasferiscono...io...io...cosa farei? Non voglio separarmi da loro Yohei! Lo capisci?” Il tono del rossino era di disperazione.

Evidente e tagliente disperazione.

 

“Hana...” Fece il ragazzo appoggiandogli una mano sulla spalla, cercando di confortarlo.

“Non credo che Rukawa lo permetterebbe. E neanche Eriko...la ragazzina mi pare proprio sappia il fatto suo! È testarda come te!”

 

Sakuragi riuscì a sorridere per le parole dell'amico, e per il tono scherzoso con cui le aveva pronunciate.

 

“Hai ragione...solo che...non so quanto potrà durare. In fondo anche se ci sono io, siamo comunque da soli...sono da soli.”

“Ma che dici! Voi tre siete una famiglia! Una vera famiglia! Hana lo dico sul serio! E poi...ci siamo io, e l'armata e ...insomma Hanamichi Sakuragi! Non è da tensai abbattersi così!”

 

Il rossino guardò con stupore l'amico, sentendosi un poco sollevato per la sua affermazione.

 

'Famiglia...siamo una famiglia...'

 

“...grazie Yohei...mah...in un modo o nell'altro il tensai ha sempre avuto una soluzione, no?”

Sakuragi si sforzò di sorridere. Le sue parole non erano per niente convincenti.

Né per il suo amico.

Né per se stesso.

 

 

Hanamichi continuava a camminare, ormai solo, assorto nei suoi pensieri, sulla solita strada, ma si sentiva come una vagabondo errante, privo di una destinazione precisa, o forse incapace di trovare la strada giusta che lo conducesse alla propria meta.

 

Alla fine arrivò a varcare il cancello di casa Rukawa.

 

'Lo dice anche Yohei, siamo una famiglia in fondo...io e Rukawa...e la piccola Eriko. Io vorrei stare sempre con loro. Non potrei vivere lontano da Kaede...mh?'

 

Sentì il trillo del campanello di casa.

 

Alzò gli occhi, mentre si avvicinava all'entrata.

Ormai il sole era tramontato e il cielo coperto da consistenti nubi si era fatto particolarmente fosco, negando ai suoi corpi luminosi la possibilità di affacciarsi verso la Terra.

Eppure la luce bianca dei lampioni nella strada principale e quella lampadina sopra la porta d'ingresso, insieme con le paure degli ultimi giorni, furono sufficienti.

Sufficienti a plasmare quella figura ferma sulla porta, a darle una forma, un volto, e forse un senso.

 

La voce di Sakuragi morì nella sua stessa gola. Fu incapace anche solo di pensare.

 

“Hana! Hai di nuovo dimenticato le chiavi? Sei proprio un do'h...”

 

Rukawa aprì la porta, bloccandosi all'istante, non appena i suoi occhi entrarono in contatto con quella luce che incorniciava l'ingresso.

Si irrigidì, diventando come il cemento fresco  a contatto con l'aria.

 

“Papà...cosa ci fai qui?” Balbettarono le sue labbra, non appena il sangue riuscì a circolare nuovamente all'interno di esse.

 

“Kaede, figliolo, come stai?”

 

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Masahiro Rukawa.

Lo osservava, Sakuragi.

Un uomo di bell'aspetto, dal fisico asciutto, un poco più basso del figlio. Aveva i capelli leggermente brizzolati, tirati all'indietro, con delle lunghe basette scure che gli incorniciavano il viso e facevano risaltare gli occhi. Blu come quelli di Kaede, e di Eriko. Uno sguardo a tratti gentile, a momenti perso nel vuoto. Malinconico, sovrappensiero.

Era un signore posato, dai modi gentili, con una voce roca e pacatamente bassa che s'intonava perfettamente all'interno di quelle mura.

 

Perché le conosceva meglio di lui, quelle mura.

 

Hanamichi continuava a guardarlo, a studiare ogni sua frase, ogni suo gesto, e lo stesso faceva con Kaede.

Padre e figlio non si erano abbracciati. Solo un breve saluto, un sorriso accennato da parte di entrambi, una stretta di mano.

Il rossino iniziò a capire che la cosa non era dovuta all'improvviso arrivo dell'uomo, ma che probabilmente quello era sempre il loro modo di comunicare. L'unico possibile.

Eriko l'aveva abbracciato, sembrava anche felice di vederlo, sorrideva e scherzava con lui, come un amico di famiglia, non come un padre.

 

'Kaede me ne aveva parlato. Lui periodicamente viene a trovarli...è normale. Eppure mi sento troppo agitato. E Kaede...anche lui lo è...'

 

Sembrava di stare dentro una stanza priva di tempo.

L'atmosfera eccessivamente gelida veniva assorbita dai corpi dei presenti, rendendo la pelle troppo arida, i pensieri intorpiditi.

Già, i pensieri.

Avevano cenato, chiacchierato della scuola, del lavoro, del basket, del tempo degli ultimi giorni.

Cose inutili. Ma dei veri pensieri, di ciò che realmente vagava nella mente di ognuno di loro, nessuno aveva osato parlare.

Eppure tutta la stanza ne era impregnata.

 

 

L'uomo chiese anche chi fosse Hanamichi, e il figlio stava per dirgli la verità se il rossino non l'avesse fermato in tempo, spiegando lui stesso di essere un amico di Kaede che andava a dargli una mano di tanto in tanto.

Non voleva peggiorare le cose inutilmente.

E l'uomo gli sorrise, ringraziandolo per quello che faceva per i figli. Con la grazia e gentilezza propria di una persona onesta, forse un po' triste, ma genuinamente sincera.

 

E intanto il tempo passava, lento, vuoto, carico d' attese.

Eriko era distesa sul divano, ormai addormentata, con il viso rilassato, sembrava sorridere.

Kaede lavava i piatti, scambiando di tanto in tanto parole con suo padre. Le solite, futili, sterili parole.

 

'Sembra che Kaede stia parlando con un estraneo. Non capisco. È troppo rigido, distaccato, non l'ho mai visto così.'

 

Sakuragi continuava a pensare, in silenzio. E ad assistere, come un osservatore esterno, incapace di coinvolgere se stesso dentro quella oscura situazione. C'era qualcosa che non riusciva a capire.

 

Poi il telefono. Improvviso.

Squillante.

Fastidioso.

 

“Rispondo io!” Disse prontamente Sakuragi alzandosi dal divano.

Aveva bisogno di uscire da quella situazione, un piccolo frangente che lo aiutasse a risanare la mente, troppo  provata da quell'ambiente snervante.

 

“Ah, Yohei, sei tu!” Nel sentire la voce dell'amico, Hanamichi si rincuorò.

 

Alle sue spalle intanto, era calato il silenzio.

 

Kaede aveva appena finito di lavare le stoviglie e si apprestava ad entrare in soggiorno, ma non appena fu sulla porta arrestò il passo...

Suo padre era di fronte a lui, e lo guardava.

Serio. E visibilmente preoccupato.

 

'Hn, è inutile che mi guardi così papà, so a cosa miri.'

 

“Kaede...dobbiamo parlare...” Disse con il suo solito tono basso, dal quale si percepiva una forte tensione.

Cosa temeva?

 

'Credi che te lo permetterò?'

 

“Sono tutto orecchie...” Rispose Kaede, con un'espressione indecifrabile sul viso. Sembrava si aspettasse qualcosa.

Suo padre ebbe il sospetto che fosse vagamente ironico, ma scacciò quel pensiero dalla sua mente.

 

'Forza, che aspetti a parlare?'

 

“Pensavo...che forse...per tutti e due..per te ed Eriko...” La sua voce tremava.

 

'...continua, voglio sentirtelo dire, voglio capire fin dove arriva la tua sfrontatezza...'

 

“Vai avanti...di cosa hai paura?”

 

Ancora quella voce.

Ancora quel tono.

Sempre più ironico. Sempre più cinico.

 

Il signor Rukawa sentì il sangue gelarsi nelle sue vene. Non ne capì il motivo. Il cuore cominciava a battere rapidamente e quell'espressione enigmatica del figlio...lo inquietava.

Deglutì, facendosi coraggio.

 

“Pensavo che forse sarebbe meglio che vi trasferiste da me, in Germania”.

 

'Lo sapevo. Allora non hai capito davvero niente.'

 

“...sarebbe una cosa bella, non credi? Non dovrai più prenderti cura di tua sorella da solo. Potrai dedicarti al basket, alla scuola....e...”

 

'Forza, continua...'

 

“... anche mia moglie ne sarebbe felice...insomma so che prima non volevate, ma ora credo sia la situazione migliore. Anche per la dottoressa. Mi ha fatto riflettere, forse è ora...”

 

“Che ti metta a fare il padre? Ma non farmi ridere!”

 

Esclamazione mirata. E sprezzante.

L'uomo sgranò gli occhi. Per le parole del figlio e per quella smorfia che si stava gradualmente formando sulle sue labbra.

Un vago sorriso. Maligno.

Compiaciuto.

 

“Mi fa piacere che ora ti sia venuta voglia di fare il padre, ma spiacente, forse è troppo tardi. Non puoi alzarti la mattina e decidere di portare via me ed Eriko solo perché senti che sta per arrivare la sua fine. Per questo ti stai facendo divorare dai sensi di colpa, eh? Vuoi lavarti la coscienza? Spiacente...non te lo permetto....”

 

Kaede si era appoggiato sullo stipite della porta, a braccia incrociate. Era  Calmo.

Estremamente calmo.

Troppo calmo.

 

“Cosa dici, Kaede? Lo sai, eravamo separati da prima con tua madre, e io mi ero già costruito una famiglia...come potevo...vorrei solo prendermi cura di te e di Eriko...”

 

L'uomo era in preda alla confusione. L'atteggiamento del figlio lo stava disorientando. Si sentiva impotente, insicuro.

Era un uomo fragile.

 

“Ora? E chi si è preso cura di Eriko fin'ora? Eh?”

Kaede lo fulminò con lo sguardo.

 

“Vuoi rispondere?!”

 

Il ragazzo sembrò alterarsi, e la sua calma affievolirsi.

 

“No! Io non voglio andare da nessuna parte!” Una voce disperata si levò nell'aria della stanza.

 

La piccola Eriko era in piedi, aggrappata allo schienale del divano, tremante nelle gambe sulle quali faceva fatica a sostenersi.

Eppure si sforzava, sfidando un atroce dolore.

 

“Eriko, piccola...” Il signor Rukawa si spaventò di fronte a quell'amaro spettacolo.

 

Kaede rimase immobile con gli occhi fissi sulla sorella.

 

“Papà...io voglio rimanere qui, ti prego!”

Il volto di Eriko era sofferente. Per la disperazione, per il supplizio al quale stava costringendo il suo piccolo corpo.

Finché la forza delle sue mani venne a mancare e, priva di un ulteriore appoggio la ragazzina cadde a terra, pancia in giù, con il braccio che tendeva verso di loro.

 

“Ti prego...” Disse con l'ultimo filo di voce rimasta.

Ormai il dolore stava andando in metastasi per tutto il suo corpo.

 

L'uomo fu incapace di muoversi. Sconvolto.

Era in uno stato confusionale.

 

“Allora...”

 

La voce di Kaede, ancora.

 

“...non vuoi fare il padre, ora?”

 

Tagliente.

Come la spada dell'angelo della morte che viene a dare il suo giudizio.

 

Eriko sbarrò gli occhi.

 

A quelle ultime parole l'uomo si voltò dal figlio.

Scioccato. Atterrito.

 

Kaede era immobile come una statua, privo di vita, continuava a rivolgere il suo sguardo verso un punto di fronte a sè.

Era Eriko. O era il nulla.

 

“Che cazzo stai facendo Kaede?”

Sakuragi, sull'ingresso, guardava Rukawa, sconvolto per quello a cui stava assistendo.

 

Per quello che aveva sentito.

 

Ma non aveva tempo per pensare, si fiondò subito verso Eriko, che non appena sentì il suo corpo avvolto dal caldo abbraccio del rossino si sentì mancare. Cominciando a tremare.

E a piangere.

 

“Calmati, Eriko, calmati...” Le sussurrava Hanamichi accarezzandole i capelli.

 

 

Di fronte a quella scena qualcosa scattò nella mente di Kaede.

Sembrò tornare in sé mentre i suoi occhi si concentravano su di loro.

E il suo cuore probabilmente riprendeva a battere.

 

Si sentì smarrito, per qualche istante. Come se si stesse risvegliando da un coma profondo.

 

“....Hana...io...”

 

Vacillava, Rukawa.

 

Lo sguardo di Sakuragi, carico di rabbia e disprezzo si conficcò brutalmente nei suoi occhi.

 

'Dio, Hanamichi, Eriko...io...io...cosa ho fatto?

 

“...non...farlo...non permetterti mai più! Ti rendi conto di quello che hai appena fatto, eh? Non puoi usare tua sorella come arma contro tuo padre. Non puoi usare Eriko per salvarti dalle tue frustrazioni!”

 

'...non è vero, io non...'

 

La voce di Hanamichi ruggì per tutta la stanza.

 

 

 

“Cosa volevi dimostrare, eh?”

Fu la lapidaria domanda di Sakuragi, mentre si apprestava a portare Eriko nella sua stanza, lontano da lui.

 

Kaede lo guardò salire le scale.

Non riusciva a parlare, né a muoversi.

Era inchiodato a terra.

 

Suo padre di fianco a lui era troppo sconvolto per poter esprimere qualcosa. Non riusciva più  guardare il figlio. E provava disgusto anche per se stesso.

 

Non c'era più un ghigno a dipingere il volto di Kaede.

Le labbra venivano morse dai denti, le gote si stringevano sempre di più. Come i suoi occhi.

Troppo disperati per poter piangere.