DISCLAIMERS: Hanamichi e Rukawa, protagonisti di questo racconto, sono stati concepiti dal sublime genio di Takehiko Inoue ed io ne sfrutto indegnamente i tratti principali e la popolarità, ma soltanto per affetto. Michele ed Edoardo (necessariamente adattato per essere inserito nella trama) sono i miei figli più cari, già vissuti in altre creazioni (in particolare nei romanzi Acqua e Aria), che un giorno spero avrete il piacere di leggere. Invece la piccola Ai è nata appositamente per questo viaggio. Questo è il mio regalo per Ria, per aver creato qualcosa che mi ha accompagnato lungo la strada e in qualche modo è cresciuto con me, insomma per festeggiare questi dieci anni insieme. .
La verità
di Yu
La Verità è che questa è una storia come qualsiasi altra. La Verità è un punto di vista e il punto di vista si può scegliere. La Verità è che le parole portano alla comprensione soltanto cercando la Verità dentro sé stessi. La Verità è conoscere se stessi e riconoscere i propri limiti. La Verità è che io alimento la mia sofferenza e posso smettere di farlo. La Verità è che io scelgo che cosa vedere, perciò sono responsabile della mia percezione di ciò che mi circonda; se vedo l’odio (la separazione) è perché ho scelto di avere paura, anziché amare. La Verità è che io sono padrone delle mie scelte e non vittima di ciò che mi accade. La Verità è che io sono quello che sono, la Verità è che tutti siamo quello che siamo. La Verità si può raggiungere tramite la comprensione, la consapevolezza si raggiunge tramite il sentire, il sentire è sempre Verità. La Verità è che passato e futuro non esistono, perché io vivo qui e ora: soltanto il presente è Verità. La Verità è già dentro di noi, noi siamo la nostra strada. La Verità è l’Amore; lasciamo andare la paura, perché noi siamo la Luce del mondo. LEZIONE 1: La Verità è che questa è una storia come qualsiasi altra. Ormai la depressione era diventata una minaccia tanto forte, che nemmeno la mia maschera riusciva a mantenersi salda. Di giorno in giorno vacillava sempre più, e la vedevo costantemente sull’orlo di sgretolarsi. A volte avevo persino l’impressione che gli angoli della mia bocca fossero piegati verso il basso, in una sorta di paralisi, come se gli stessi muscoli della faccia fossero collassati, allora mi concentravo per riuscire a trattenerli, per recuperare l’irrefrenabile caduta, ma la sensazione si amplificava e si espandeva all’intero volto, finché non mi convincevo che si fosse trasformato in una maschera triste e distorta e mi prendeva il terrore che fosse visibile a tutti. Era una sensazione terribile. Dovevo trattenermi dallo scappare per evitare gli sguardi altrui, che all’improvviso mi sembravano inquisitori. Appena potevo, cercando di non dare nell’occhio, mi rifugiavo in un bagno e mi guardavo. Ogni volta scoprivo che niente era fuori posto: la bocca era una linea perfettamente orizzontale, le sopracciglia fiere, gli zigomi sporgenti e gli occhi leggermente affilati verso l’alto. Non trasmettevo alcun segno di debolezza, ero la solita statua. Rincuorato, tiravo un sospiro di sollievo e tornavo sui miei passi. Mi sentivo di nuovo al sicuro, persino mi stimavo per la resistenza dimostrata. Poco dopo quel disagio tornava. Il campo da basket era l’unico luogo in cui potevo stare davvero tranquillo. La concentrazione assoluta, la fusione con l’obiettivo svuotavano la mia mente e in qualche strano modo riempivano il mio cuore. Amavo il gioco e la passione mi ardeva nel petto. Mi faceva sentire vivo e capace di migliorarmi, di progredire verso una meta sempre più ambita. Il giorno in cui iniziò davvero il cambiamento, sedevo su una panchina appartata, circondata da alcuni alberi nodosi e spogli, ma sufficienti a celare la mia presenza, almeno a chi percorreva il vialetto di ghiaia, senza curarsi troppo di ciò che lo circondava. Non sapevo bene come, ma partendo dall’analisi mentale di uno schema, avevo finito col pensare a lui. D’improvviso – e capita con tutte le rivelazioni di coscienza - mi ero reso conto di quanto fosse lo spazio, che lui aveva effettivamente assunto in quella grigia astrazione della realtà, che potevo definire come “la mia vita”. Lui era quel tizio che si era dichiarato il mio rivale sul campo, quel tizio che diceva di odiarmi sin dal nostro primo incontro. Era una continua distrazione, un ciclone che aveva investito il mio campo sacro e continuava a roteare e roteare attorno a me. Non si fermava mai. Le sue parole, gli strepiti, le pallonate deviavano di continuo la mia attenzione, arrivando a tratti persino a deconcentrarmi. Le sue spesso involontarie azioni di disturbo avevano reso la mia quiete e il mio lavoro molto più difficili. Per questo e perché lo consideravo un cialtrone che non si interessava davvero al basket, soprattutto i primi tempi, mi faceva innervosire e avrei voluto dargliele, finché non fosse rimasto a terra immobile e in silenzio. Eppure col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi…Nello scorrere di quel primo anno avevo visto crescere in lui la mia stessa passione, era diventato un degno rivale, uno stimolo indispensabile a migliorarmi, capace di rendere il gioco più interessante, persino la mia passione più intensa. Poiché era egli stesso parte degli unici momenti in cui mi sentivo vivo e in qualche modo felice, per una qualche assurda e insospettabile distorsione, da nemico della pace era diventato causa stessa di quella riscoperta felicità. Mi aveva insegnato che fare da solo qualcosa che amavo non era altrettanto vitale e piacevole, che poterlo condividere con qualcuno, capace di apprezzarlo allo stesso modo. Mi aveva insegnato che non bisogna credere alle apparenze, che non ero l’unico a sembrare diverso da ciò che ero, che forse non ero l’unico a nascondere qualcosa di me. Una chioma rossa mi schizzò davanti all’improvviso. Quel colore non poteva che risvegliare il mio interesse. Guardai meglio attraverso gli alberi intricati e oltre il piccolo fosso. Una ragazzina dalla capigliatura ribelle correva attraverso il vialetto di ghiaia. Appena scomparve alla vista, sentii smuovere i cespugli accanto alla panchina, proprio dove si trovava l’unico accesso possibile (a causa della mancata cura di alberi e arbusti, nonché del canaletto di scolo). Proprio lei ne sbucò fuori, la testa china, stava piangendo. Appena sollevò il viso e mi scorse, si asciugò freneticamente il volto e mi puntò addosso due feroci occhi nocciola. Sembrava incolparmi di aver invaso il suo territorio. La scrutai freddamente, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi sinceri, finché non parlò. - Che diavolo hai da guardarmi in quel modo?! – disse con rabbia mal trattenuta. Come se mi fossi risvegliato da un qualche incantesimo, spostai subito lo sguardo, cercando di celare l’imbarazzo dovuto alla pessima figura appena fatta; doveva essere molto buffo quel gesto da bambino capriccioso, accostato alla maschera indifferente che ostentavo, poiché la mia osservatrice all’improvviso scoppiò a ridere. Con naturalezza si sedette accanto a me, raccolse le gambe al petto e circondandole con le braccia vi poggiò la testa. Una brezza fredda ci soffiava addosso, e lei si perse ad osservare le poche foglie dorate che volteggiavano attratte dalla terra umida. - Brutta giornata, eh? – mormorò quasi casualmente. Mi limitai a fare un cenno del capo, deciso a non preoccuparmi se se ne fosse accorta o meno. Non riuscivo comunque ad ignorarla come avrei voluto; pensai che fosse proprio a causa di quella somiglianza, che subito avevo notato, e che contemporaneamente ravvivava e gelava il mio cuore. Il rosso dei suoi capelli era impossibile in natura, identico a quello del mio compagno di squadra. In fondo non era così strano incrociare qualche studente dai capelli tinti e quello non era neppure un colore così eccentrico da considerarsi raro, eppure accostato agli occhi nocciola e alla pelle naturalmente dorata (persino in quella stagione) componeva una singolare ed innegabile analogia. - Beh...Probabilmente sei venuto qui per startene da solo, perciò...Scusa, se ti ho disturbato – continuò, mentre distendeva le gambe decisa ad alzarsi. - Perché piangevi? – chiesi atono. La fermai, prima che potesse farlo, anche se non volevo dimostrare particolare interesse nei suoi confronti. - Certo che sei incredibile… - rispose ridacchiando, quindi si riappoggiò allo schienale e si stiracchiò, prendendosi il tempo di rifletterci un istante. – Potrei dirti che mi sento in gabbia e non posso avere quello che voglio, a volte vorrei persino che i miei non ci fossero più…Ma poi vedo mio cugino che i genitori li ha già persi, è solo e lavora dalla mattina alla sera, ma è sempre gentile e non si lamenta mai…Così finisce che mi sento viziata e colpevole, perché io non riesco a non detestare la mia famiglia…E, bada, non l’ho mai detto a nessuno, perché non ho alcun diritto di lamentarmi, prima o poi passerà… - fece una pausa - Insomma, è solo che sono stanca… – chiuse gli occhi e inspirò profondamente l’aria gelida. - E tu, riesci ad essere più patetico? – domandò, voltandosi a guardarmi con interesse. Rimasi in silenzio, senza nemmeno guardarla. Dopo qualche minuto d’attesa si strinse nelle spalle e si alzò. - Adesso devo scappare – disse, sorridendo lievemente - Ma pare che io abbia vinto questo match per ritiro dell’avversario – strizzò l’occhio e si voltò per passare nuovamente tra i cespugli.
LEZIONE 2: La Verità è un punto di vista e il punto di vista si può scegliere. In seguito a quello strano episodio mi ritrovai a gironzolare sempre nello stesso parco; in effetti non solo comprendeva un semplice campetto da basket, ma piccolo e trascurato com’era, aveva pochi e rarissimi frequentatori. Insomma era il tipico luogo di cui avrei potuto innamorarmi: silenzioso, solitario e quasi selvaggio. Incontrai ancora quella ragazza, anzi con la scusa che ci passava attraverso quasi tutti i giorni, ogni volta faceva il giro completo per scovarmi. Acchan, così mi si presentò, era più solare di quanto mi sarei aspettato, sorrideva spesso e mi raccontava le sue mattinate a scuola o i pomeriggi con il cugino, a seconda che riuscisse trovarmi nel viaggio da scuola a casa di quest’ultimo o in quello di ritorno verso casa propria. Aveva la mia stessa età, ma a differenza delle mie compagne di scuola, o almeno dell’idea che avevo di loro, era una ragazza sveglia e simpatica. Per quanto arrugginita potesse essere la mia capacità di comunicazione, in qualche modo tentai persino di dimostrarle che apprezzavo la sua compagnia. Fortunatamente lo aveva già capito da sola. Un paio di volte si presentò persino con dei dolci da mangiare assieme, apprezzai che non fossero un regalo per me, ma una sua gentile concessione di qualcosa che le piaceva molto, affinché anch’io potessi apprezzarlo e “Chissà che magari non ti addolcisca un po’!”. Mi ritrovai per casa la sua sciarpa, in cambio dei guanti che mi aveva indebitamente sottratto una mattina in cui faceva troppo freddo e per fatalità ci eravamo trovati entrambi a passeggiare nel vialetto prima della scuola. Era indiana, di uno strano velluto, a larghe bande di colore, verde, oro e blu, insomma qualcosa che credevo non avrei mai potuto indossare, prima che me la mettesse addosso lei stessa. Così passarono i mesi e arrivò il Natale; una festività che avrei disprezzato in effetti come tante altre, se non per l’incredibile acuirsi di quel fastidio persistente, chiamato solitudine. Come di consueto i miei genitori partirono con destinazioni diverse e a me ugualmente ignote. Non avevo prestato ascolto a mia madre, mentre segnava sull’agenda (che mi aveva appena regalato) il numero dell’albergo in cui avrei potuto rintracciarla in caso di problemi; lei sapeva già che non avrei mai accettato di seguirla chissà dove, tantomeno da chissà quale sconosciuto amante. Invece avevo dovuto rifiutare il solito invito di mio padre a seguirlo in un qualche paradiso tropicale, dove sarebbe andato a staccare la spina dal troppo lavoro. Non mi andava di essere d’intralcio alla sua stessa liberazione dalle responsabilità, ma soprattutto temevo che avrebbe finito con l’ignorarmi in ogni caso. Come se non bastasse la scuola era chiusa, dunque niente allenamenti e niente squadra (insomma niente lui), mi ritrovavo da solo in una casa fredda e vuota. In quel periodo dell’anno non avere amici, o perlomeno una famiglia unita, diventava un peso non indifferente, praticamente impossibile da ignorare. Attorno era tutto festoni, luci e sorrisi; abbracci, cioccolata e baci; e io me ne stavo nel mio solito angolo buio, senza neppure un insulto o una sfida per cui reagire, sempre assolutamente privo di una vera conoscenza e presenza costante nella mia vita, privo di uno straccio di sentimento reale e sentito. Il ventiquattro Dicembre, per l’ennesima volta mi diressi al parco. Buttai là qualche tiro, per poi infilarmi tra gli arbusti e lasciarmi ricadere sulla solita panchina. Una sottile patina di ghiaccio e nevischio ricopriva il terreno e gli alberi, animandoli di una luminosità affascinante e nostalgica; la brezza fredda si insinuava fra le pieghe del cappotto, pungendomi con i suoi acuti spilli. Cercai di concentrarmi sul sollievo che mi avrebbe dato se mi fossi trovato d’estate dopo un estenuante allenamento, visualizzando la scena nella mia mente. Dopo un attimo riaprii gli occhi rassegnato, il freddo è uno stato mentale per me, ma quando è troppo, è troppo. Il sole tentava di donarmi un po’ di sollievo, senza tuttavia riuscire a vincere la plumbea densità del cielo. Me ne restai là seduto per quasi un’ora. Fissavo l’arancio del pallone contro il tessuto nero del mio cappotto, mentre la mia mente paralizzata dal freddo era incapace di decidere la cosa più razionale da farsi. Con estrema sorpresa riconobbi il consueto fruscio dei cespugli accanto alla panchina. Acchan ne sbucò fuori, esibendo un dolce sorriso e scuotendo lievemente il capo. - Come immaginavo – disse allegra. Era già venuta a conoscenza, più che altro per la sua spiccata capacità intuitiva, della mia situazione familiare e non ci voleva un genio per accorgersi della mia incapacità di relazione, perciò non mi sorpresi del suo commento, quanto in effetti per la sua presenza. Da parte sua avevo saputo che viveva con i genitori fuori città, anche se passava molto tempo con il cugino, perché si era rifiutato per orgoglio di accettare il loro aiuto e l’ospitalità che gli avevano offerto, ma credevo che la vigilia sarebbe rimasta obbligatoriamente a casa, visto quanto appariva oppressiva e tradizionalista la famiglia dai suoi racconti. Pensandoci meglio, capii che forse era venuta a cercarmi per via di quell’impeto di sincerità, in cui le avevo accennato qualcosa riguardo all’unica persona che (eccezion fatta per lei) riempisse le mie giornate. Le avevo raccontato di come avrei voluto ringraziarlo per ciò che faceva, di come avrei voluto spiegargli che avevo imparato ad apprezzare la sua presenza e non lo consideravo più fastidioso da molto, molto tempo. Non ero entrato nel dettaglio, poiché a malapena ci riuscivo con me stesso e lei era stata tanto gentile da non fare domande. Tuttavia avevo notato come il suo sguardo fosse cambiato quella sera, si era addolcito, come quello di una donna adulta di fronte ad un bambino abbandonato. Forse aveva compreso di essere l’unica persona che potesse fare qualcosa per me, o perlomeno starmi vicino. Sperai di non essere diventato pietoso ai suoi occhi ed allo stesso tempo che non lo facesse per amore, perché in tal caso non avrei proprio saputo che fare. Si avvicinò decisa, raccolse la mia sacca e mi prese per un braccio, trascinandomi dietro di sé. Non avevo alcuna voglia di oppormi e non lo feci. Senza aprir bocca, mi portò sin davanti ad un portone scuro, dove mi spiegò che suo cugino lavorava anche quel pomeriggio, che lei non voleva passarlo con i genitori dei quali lui aveva rifiutato l’invito. Disse che non voleva che restasse solo a cena, che desiderava almeno preparagli la cena, per fargli una sorpresa quando sarebbe tornato. Aveva le chiavi e, nonostante un mio burbero tentativo di opposizione, non volle sentire ragioni e mi trascinò all’interno. L’appartamento era piccolo, pressoché vuoto, eppure trasmetteva qualcosa di familiare e intimo, quasi una sorta di calore. Dato che si trattava dell’appartamento di un ragazzo, per di più solo, me lo sarei aspettato molto caotico, al contrario l’assenza di mobilio superfluo lo rendeva armonioso alla vista. Acchan mi chiese di aiutarla a preparare la cena, giacché sarebbe stata certo una scelta migliore rispetto a quella di restare di fuori a congelarmi, aggiunse che dopo sarebbe passata dai suoi e che in cambio della disponibilità (obbligata) ero ovviamente invitato a cena (obbligata pure questa). Si giustificò affermando che non poteva permettere che suo cugino restasse solo persino a Natale, come che lo restassi io, perciò aveva deciso di risolvere la questione nel modo più funzionale, accontentandoci entrambi. Avrei voluto farle notare che io non avevo bisogno di certe premure, anzi. Avrei dovuto reagire, purtroppo tutta quella serie di informazioni sparate a raffica mi aveva completamente stordito e non potei che sedermi sul piccolo divano, cercando di farmi passare l’emicrania appena giunta. Inoltre ricordando il nostro primo incontro, di come l’avevo vista piangere e sentirsi colpevole e triste per la condizione del cugino, di come mi fosse parsa fragile, non me la sentivo proprio di correre il rischio di essere a mia volta colpevole del suo pianto. La osservai preparare accuratamente la cena, rilassandomi e perdendomi a poco a poco nella melodia che canticchiava casualmente a mezza voce.
LEZIONE 3: La Verità è che le parole portano alla comprensione soltanto cercando la Verità dentro sé stessi. Non avrei saputo dire che ora fosse quando mi svegliai, ci misi un po’ a rendermi conto di dov’ero e del perché. Allora compresi di trovarmi da solo in casa di uno sconosciuto, senza alcun motivo apparente. Dopo qualche attimo sentii la serratura della porta scattare. L’ingresso non era visibile per due ragioni. La prima: il divano gli dava le spalle, oltre ad essere spostato di molto a destra. La seconda: ero disteso. Tra l’altro notai che sopra di me era stata premurosamente poggiata una coperta. Non sapevo se farmi vedere, perché chiunque fosse entrato non si era diretto nella specie di cucina-soggiorno in cui mi trovavo, ma aveva preso una delle porte del corridoio. Avvertii lo scrosciare d’acqua di quella che interpretai come una doccia e finalmente mi concessi di alzarmi per scoprire se e chi fosse il padrone di casa, nonché fornirgli le spiegazioni che ritenevo necessarie. Seguito il suono rilassante, mi fermai di fronte alla porta del bagno e bussai. La voce in risposta mi giunse ovattata e lontana. - Sei Tu Acchan? – domandò con un attimo di esitazione. - No, sono un suo amico… – mormorai, forse sperando che non mi sentisse affatto, forse spaventandomi per la parola che avevo usato per definire me stesso. Mi parve di sentirlo ridere. - Non dirmi che sei il ragazzo del parco, che si è fatto trascinare fin qui! – esclamò divertito. - Mi sono addormentato sul divano – mi giustificai, leggermente a disagio. Lo sentii ridere di nuovo; era una risata con uno strascico di stanchezza ma piena e sincera, così diversa dalle quelle che avevo sempre sentito fare attorno me. Ne assaporai il suono, imbambolato a fissare lo spiraglio di luce sotto la porta. Il vapore che ne spirava lento e denso si mischiava ad un profumo di sapone e pulito. Mi trasmetteva una sensazione di serenità, che non avvertivo da anni, poi, come d’incanto, l’armonia si spezzò. Non fu qualcosa di improvviso, a dire il vero la porta si aprì con lentezza, ma trovandomi ancora in stato contemplativo, sollevai adagio lo sguardo, scoprendo con qualcosa di molto simile all’avidità il corpo nudo che mi era comparso di fronte. Sulla pelle abbronzata le gocce d’acqua splendevano per il riflesso della luce intensa, ma quello che veramente mi strappò il respiro fu il volto. I capelli ramati spiccavano ribelli e gli occhi nocciola mi guardavano sorpresi. Mentre mi maledicevo per essere fatto tanto male, qualcosa scattò dentro di me e la mia mente si chiuse in stato difensivo. La quasi spontaneità che Acchan si era conquistata, conoscendomi poco a poco, si dissolse in un lampo e tornai a sentirmi l’uomo sbagliato nel posto sbagliato, cioè come mi sentivo in qualsiasi luogo che non fosse il campo. Sarebbe bastata una sola parola mal interpretabile da parte del mio ospite e avrei sfoggiato il mio solito atteggiamento schivo e scostante. Mi odiavo per questo, ma data la mia incapacità nei rapporti umani, non riuscivo a comportarmi altrimenti. Sakuragi scosse la testa e sorrise. Si tenne sorprendentemente neutrale, né troppo gentile, né strafottente. - Come immaginavo – disse soltanto. Inarcai un sopracciglio e non emisi fiato, per evitare di doverlo insultare in qualche modo, com’era nei nostri schemi. - Ai mi ha parlato spesso del ragazzo del parco e non credo che a Kanagawa ci sia molta gente come te, volpe – si spiegò divertito, per poi dirigersi verso un’altra stanza. - Idiota – risposi di riflesso, senza neppure pensarci. Tutto quello che Acchan mi aveva detto sul cugino andò a sovrapporsi con quello che sapevo di Sakuragi, trasformando la sua immagine, donandogli una luce del tutto diversa, conferendogli anche una maturità di cui fino ad allora non avevo avuto alcuna prova. Quasi non riuscivo a far coincidere questa nuova visione con il Sakuragi che ero abituato a vedere e a pensare; era allo stesso tempo così simile e così diverso. Non riuscii a muovere un passo, nemmeno quando la sua voce mi raggiunse, aumentando di tono, mentre lui compariva vestito in corridoio e mi superava andando in cucina. - Visto che lei non sta mai zitta, credo tu sappia che ho appena finito di lavorare e sono stanco, inoltre è la vigilia di Natale, per cui non farti venire un colpo perché non ti picchio – quando finì di parlare era già sparito, mentre io ancora stavo fermo di fronte alla porta del bagno. Immobile con il mio dignitoso e composto sopracciglio alzato, constatavo che era riuscito a sentire la mia pressoché involontaria offesa. Ascoltai i suoi passi avvicinarsi e fermarsi accanto a me, e quando mi decisi a voltare il capo, mi stava scrutando con un’espressione buffissima divisa tra l’interesse e l’incomprensione. - Ah...Non stavi dormendo – mormorò. – Io ho fame, dato che la mia cuginetta è stata tanto gentile da preparare, mangiamo? – mi domandò infine. Mi resi conto che, anche volendo, non sarei riuscito a prendermela con lui e non mi andava neppure di rispondere a tono. Forse perché mi ero abituato a sentire la cugina parlare per ore e facendo un paragone in quel momento lui sembrava la tranquillità fatta persona, forse perché era davvero stanco e si leggeva nei suoi occhi che non era per niente ostile. - Aveva detto che sarebbe tornata – risposi atono e vago. - No, passerà questi due giorni con i suoi come ogni anno, inoltre alle sette comincia lo sciopero dei treni – ribatté, indicandomi l’orologio a muro. – In fin dei conti per quanto possa sembrare affidabile, è pur sempre una bambina – concluse sicuro. Affidabile, eh? Meglio che si preparasse a sentire, per la prima ed ultima volta nella sua vita, Kaede Rukawa che urla dalla rabbia. Scoprivo troppo tardi che erano le otto passate e che io non sarei potuto tornare a casa, eppure non potevo certo restare a dormire lì, con lui. L’idea che Sakuragi facesse fatica a comportarsi come al solito, che il battibecco fosse un qualcosa di stancante per lui, che sarebbe arrivato persino ad ospitarmi, non mi era certo sgradita ma sicuramente pericolosa. No, non potevo permettermi di correre un simile rischio. Dovevo ammettere di essere spaventato dalle molteplici conseguenze possibili. - È meglio che vada – mi decisi a dire. Lui, appoggiato al tavolo, mi scrutava dalla sedia su cui si era seduto. - Sappi, stupida volpe, che il Genio non ha intenzione di spezzare le tue preziose braccina nel sonno, anche perché quello lo potrei fare ovunque, dato che soffri di narcolessia come i nonnetti – replicò ironico, alzandosi per apparecchiare. Il suo sarcasmo non mi sfiorò neppure, era la proposta a preoccuparmi. - Ti capita spesso di ospitare quelli che odi? – sibilai freddamente, trafiggendolo con lo sguardo. Fece una smorfia, chinando il capo, come a pensare bene alla risposta che doveva dare. - Ho le mie ragioni – rispose infine. “Per ospitarmi o per odiarmi?” avrei dovuto chiedergli, ma il dubbio fu subito archiviato dalla mia mente, che si aspettava soltanto che qualcosa andasse storto e lui ammettesse di detestarmi. - E quali? – sibilai ancora. Pensandoci bene, io non facevo che fomentare il suo odio, ma reagivo come una bestia ferita, perché non riuscivo a capirlo e dentro di me desideravo che non mi odiasse affatto, anzi ogni volta speravo che avrebbe detto qualcos’altro, qualcosa di gentile, cosa che aumentava la mia frustrazione e peggiorava le mie reazioni. Inoltre a questa serietà innaturale avrei preferito si mettesse ad urlare e straparlare come un idiota, perché mal sopportavo che le mie speranze fossero schiacciate da una risposta razionale e presa con calma. Non potevo accettare di meritarmi il suo odio. Chi mai accetterebbe di essere odiato? – La Akagi? – aggiunsi sarcastico, come a sottolineare che non poteva certo essere un buon motivo. A me non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di salutarla, figuriamoci sfiorarla. Mi pareva anche che fosse abbastanza chiaro. Non poteva essere davvero così stupido da odiare me, solo perché quell’oca giuliva mi stava dietro. Insomma, mica poteva essere colpa mia. Tanto più che avendo saputo che conoscevo Acchan, avrebbe avuto più senso si preoccupasse per lei. - Un giorno, quando tutto sarà finito e noi saremo soltanto due vecchi amici, che si incontreranno per caso in un bar, allora forse te ne parlerò – rispose, senza perdere la calma e sorridendo tristemente. Come avremmo potuto diventare due vecchi amici, se non eravamo nemmeno amici? Che idiozie andava dicendo. Tuttavia decisi di lasciar correre, per il semplice fatto che la sua risposta non era stata scortese ma persino piacevole, o forse perché, qualunque cosa avesse detto, non avrei saputo oppormi ad un simile tono. - Davvero c’è sciopero? – domandai infine, pensieroso. Si limitò ad annuire. Sospirai ed andai a sedermi di fronte a lui, che nel frattempo aveva apparecchiato e messo a scaldare il katsudon, le melanzane e il pesce. Nella stanza, assieme al profumo invitante, aleggiava una certa tensione, tanto che pareva quasi ci mancasse il coraggio di spezzare il silenzio. In effetti io non ero intenzionato ad iniziare una conversazione e lui pareva davvero troppo stanco per attaccar briga, così mangiammo in religioso mutismo. Subito dopo Sakuragi si alzò e lavò i piatti, mentre io mi sedetti gambe incrociate sul divano. Mi passò per la testa che avrei dovuto aiutarlo, visto che io non avevo fatto nulla tutto il giorno, ma non ebbi il fegato di offrirmi spontaneamente, perché avrebbe significato mostrarmi più gentile di quanto non fossi di solito. Non appena finì di sistemare tutto, accese la tv e mi allungò il telecomando in modo che potessi guardare il canale che preferivo, quindi scomparve in una delle stanze che davano sul piccolo corridoio. Quando fu di ritorno, erano quasi le undici e io mi stavo addormentando di fronte al solito stupido film di Natale. Non avevo idea di cosa fosse andato a fare per tutto quel tempo, ma portava tra le mani un pigiama azzurro e della biancheria. - Se vuoi puoi fare la doccia - mi disse, porgendomeli. Annuii e mi diressi in bagno; moralmente ne avevo proprio bisogno e non volevo addormentarmi così presto, come già stava accadendo. Tanto per essere sicuro di riscuotermi, lavai anche i capelli. Dopo essere passato sotto l’acqua mi sentivo molto più tranquillo, sollevato e rilassato; stavo bene. Ritornai al divano e mi sedetti comodamente con indosso il suo pigiama pulito, che mi stava un po’ largo, i capelli ancora umidi mi si appiccicavano sulla fronte. Vi passai una mano, per tirarli all’indietro. Mi piacque molto lo sfuggevole sguardo che mi lanciò, mentre mi porgeva un bicchiere e lo riempiva. Era mezzanotte. Osservai perplesso il vino, tuttora non sono un gran bevitore. - Buon Natale – disse sorridendo e brindando. - Buon Natale – risposi, cercando di sembrare un po’ meno gelido. Quello fu il primo bicchiere ma non l’ultimo, l’atmosfera familiare e la tensione dissolta dal vapore caldo riuscirono quasi a trasformarmi in un essere umano, senza contare che fino ad allora ero stato astemio. Registrai, senza tuttavia darvi troppo peso, che Sakuragi reggeva molto meglio di me, tanto che pareva essere perfettamente sobrio, mentre io cominciavo a risentire dell’effetto trascinante dell’alcool; nonostante questo mi auto compiacevo di come la mia maschera resistesse bene. In tutta naturalezza mi sorpresi ad ascoltare con interesse i suoi aneddoti, frammisti di allegre risate, riguardanti il passato, la piccola Ai e la sgangherata banda di amici, fino ad arrivare alla squadra e persino a me. In larga misura a causa del vino, ma anche del racconto di quale fosse la sua situazione affettiva il giorno in cui mi aveva conosciuto, non riuscii più a trattenermi e, come non facevo da anni, scoppiai a ridere di gusto. Arrivai persino a tenermi la pancia, incapace di frenare l’euforia. La sua espressione sul tipo “Oddiomio ho visto un fantasma!” fu il colpo di grazia, e non ho idea di quanto tempo passò prima che riuscissi a riacquistare un’espressione composta, ma so che lui, credendomi del tutto ubriaco, scosse il capo con rassegnazione e divertimento e ripose la bottiglia. Quando finalmente mi calmai, mi sentivo stanchissimo e mi resi a malapena conto di scivolare ad appoggiarmi sulla sua spalla, poiché subito dopo i miei occhi si chiusero.
LEZIONE 4: La Verità è conoscere se stessi e riconoscere i propri limiti. Il venticinque Dicembre, al risveglio misi a fuoco il soffitto bianco di una stanza a me sconosciuta. Avevo un leggero cerchio alla testa, che riuscii dopo poco ad attribuire alla bevuta della sera precedente a casa di Sakuragi, in cui presumevo di essere ancora. Quello che non riuscivo ad afferrare era come facessi a trovarmi a letto e soprattutto che cosa fosse la macchia rossa che scorgevo con la coda dell’occhio alla mia destra. Eppure ero quasi certo di essermi addormentato sul divano…Mi pareva di ricordare la sua spalla, ma mi venne il dubbio di averlo sognato. In fondo poteva essermi confuso per via della sbronza. Mi risolvetti a voltare la testa. Sakuragi giaceva a pancia in giù, sopra le lenzuola alla mia destra, i corti capelli ribelli arruffati e l’espressione tenera di un bimbo addormentato. Un sorriso mi sfuggì. Scoprii che era sveglio, perché dischiuse le palpebre, scoprendomi a fissarlo. - Allora non succede solo quando bevi – commentò, sorridendo a sua volta, mentre io riacquistavo a fatica la mia faccia di bronzo. - Ho sonno... – aggiunse sbadigliando – Ti da fastidio se resto qui? – concluse, rubandomi il cuscino e portandolo a coprire la testa, credo per ripararsi dalla luce del mattino inoltrato. Restò a sbirciare da sotto di esso, con sguardo vago, in attesa della mia reazione. Scossi il capo. Come avrebbe potuto darmi fastidio un comportamento simile? Decisamente stavo sognando, non poteva essere altrimenti. Mi aveva trattato con estrema gentilezza, qualcosa di assolutamente inimmaginabile per i nostri standard, e stava beatamente disteso accanto a me, come fosse invece la cosa più naturale del mondo. Una piccola parte della mia coscienza ripeteva che non dovevo esserne contento, perché non sarebbe durato, mi assicurava che dovevo aspettarmi un brusco risveglio, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, perciò per la prima volta in vita mia la ignorai e mi limitai a sospirare. Tuttavia non ero in grado di restagli tanto vicino, non così apertamente, perciò decisi di preparare la colazione. Insomma, un po’ sapevo cavarmela, e mi sembrava il minimo per ricambiare l’ospitalità e soprattutto la gentilezza insperata. Mentre preparavo la moka, cercai di ricordare il viaggio che mi aveva condotto al letto, ma la mia mente pareva rifiutarsi con accanimento di collaborare, l’unica cosa che riuscivo a cavarne era una strana nebbiolina scura da cui emergeva un dolce mormorio indistinto. Delle braccia, lo ricordai di colpo, mi avevano sollevato con gentilezza; non erano state le mie gambe a condurmi fino al letto. Questa rivelazione non fu di aiuto al processo di riequilibrio di sensi e sentimenti che stavo cercando di portare a termine. Anzi la mia mente passò da una cieca e testarda non collaborazione con il proprietario, ad una fantasmagorica visualizzazione di scene allusive che potevano con facilità colmare il lasso di tempo che non trovava continuità nella memoria. Visioni improbabili, per non ammettere la loro impossibilità, e tutt’altro che fredde, sufficienti a mandare in frantumi in un istante la mia ferrea capacità di controllo. Cose che non solo non credevo possibili, ma fino a quel momento neppure avrei creduto immaginabili, almeno non da parte mia. Stavo quasi per buttare all’aria l’impasto e mettermi le mani nei capelli, nonché prendere a testate la dispensa (cosa in cui lui si sarebbe riconosciuto parecchio), quando lo sentii entrare nella stanza. - Buon giorno – mi salutò con la voce impastata dal sonno. Strinsi spasmodicamente il manico della padella, su cui stavo cuocendo le crêpes, “amorevolmente” preparate senza pensarci. Cercai di recuperare il mio solito contengo, persino mi imposi di visualizzare l’aura gelida che avrebbe dovuto espandersi dal mio stesso corpo, ma l’unica cosa che riuscii a sentire fu il sangue che mi affluiva alle guance, quando lui, interessato alla colazione, si avvicinò e poggiò il mento sulla mia spalla. Salutai definitivamente anche quel misero straccio di razionalità che mi rimaneva, non appena parlò, soffiandomi inavvertitamente sul collo. – Ma che bravo – sussurrò ammirato e allegro. Non riuscii a discernere se fosse una presa in giro o un effettivo complimento, ma sentivo che l’unica possibilità di riabilitazione che mi rimanesse era tirargli un bel destro dritto in faccia. Ovviamente avrei perso in via definitiva qualsiasi possibilità di essergli amico. Poteva essere un dubbio amletico per chiunque, ma non per Kaede Rukawa; il gelido, borioso, egoista, insensibile Kaede Rukawa. Tuttavia quel giorno avrei voluto essere chiunque altro, meno che me stesso, addirittura avrei dato qualsiasi cosa per non esserlo mai stato. - Ti sorprende? – riuscii a rispondere con sarcasmo. - Affatto – ribatté acido lui, allontanandosi. Andò a sedersi sul divano e accese la tv, evitando incredibilmente di cogliere la provocazione. La voce atona dei cronisti del telegiornale si riversò nella stanza. Ringraziai la mia buona stella per averlo fatto allontanare, prima che potessi avere un altro tipo di reazione, magari qualcosa da ragazzina isterica. Ascoltai distratto il servizio che riguardava i disagi nei festeggiamenti natalizi e d’improvviso compresi che era davvero mattino e che cosa questo significasse: lo sciopero era terminato e io potevo andarmene. Certo, in tal caso Sakuragi sarebbe rimasto da solo in casa, proprio il giorno di Natale. In fondo io c’ero abituato. Una sorta di rassegnata tristezza mi avvolse. Fu allora che me ne resi conto, non era per lui, era per me che volevo restare. Non avevo scampo, perché non era soltanto un interesse particolare o una rivalità stimolante. Non mi sentivo solo, io volevo restare con lui. Per la prima volta mi sfiorò il dubbio di essermi innamorato. Il panico mi assalì. Ero diventato, se possibile, ancora più pallido. Per mia fortuna ero di spalle e l’espressione allarmata che mi sfuggì non poteva essere vista. Quando la colazione fu pronta, Sakuragi si mise a mangiare seduto a gambe incrociate sul divano, invece io presi posto al tavolo, bevevo distrattamente la mia spremuta, cercando di mantenere una calma sufficiente a non scoprirmi in alcun modo. Lo vidi corrugare la fronte, come se fosse stato improvvisamente assalito da pensieri negativi. - Volpe, posso farti una domanda? – disse, esitando un istante prima di sollevare il volto a guardarmi. – E non osare prenderti gioco di me, chiaro? – aggiunse minaccioso. Mi limitai ad annuire, mossi appena la testa per darmi un’apparenza di distaccato disinteresse. - Se tu dovessi...Ecco...Beh... – quasi balbettò, tanto da sembrare persino imbarazzato - Se tu dovessi provare qualcosa per qualcuno, che però...Sì, insomma…Con cui sei certo di non aver alcuna speranza... – si interruppe come per rifletterci un istante. Di cosa diavolo stava parlando, mi chiesi, mentre si insinuava in me la consapevolezza che la risposta che lui tentava di chiedermi era forse la stessa che avrei voluto avere io. - Se tu non potessi sopportarlo, se finissi per odiare sia lei, che te stesso per i sentimenti che provi... – sospirò, di nuovo incerto, – No, forse è meglio lasciar perdere, è troppo complicato, per poter essere spiegato, proprio non ci riesco – concluse imbronciato. Restammo in silenzio per una buona decina di minuti, mentre cercavo di fare chiarezza su quelli che erano i miei di sentimenti, più che analizzare e ricostruire in ordine logico ciò che lui aveva tentato di esporre. Non avrei saputo definire e interpretare in modo chiaro le mie sensazioni, anche se era innegabile che in sua presenza mi trovassi decisamente meglio di come mi fossi trovato con chiunque altro in precedenza. Ammettevo di provare qualcosa, sì. Se avesse detto amare, l’avrei ritenuto un’esagerazione, perché non avevo idea di che cosa significasse l’interesse che nutrivo per lui, tanto meno mi sarei messo a valutare a cosa potesse portare, se coltivato, anche perché se già ero insicuro su di me, figuriamoci si di lui. Credere che un’inclinazione tanto assurda e vaga, potesse essere ricambiata da un tipo come lui, sarebbe stato come credere che uscito di casa avrei trovato per terra un grosso diamante, allegato ad un biglietto con su scritto Per Kaede Rukawa: puoi farne quello che vuoi, andrà comunque bene, non vogliamo nulla in cambio. Tuttavia io non sarei mai arrivato a detestarlo perché non ricambiava le mie turbe nei suoi confronti, certo che detestare Haruko sarebbe stato molto più facile, visto che io la consideravo una macchia sporca nella mia visuale, ma per lui era diverso, perché lui era diverso da me. Insomma io non avevo abbastanza elementi su cui basare qualsivoglia aspettativa, ma molteplici indicatori di un finale a dir poco tragico. Il nostro punto comune era che ci trovavamo entrambi in una situazione decisamente svantaggiosa e confusa. Mi persi a contemplare le incrinature sul liquido scuro nella tazza. Alla fine annuii, avevo capito la sua difficoltà di esposizione, era ovvio, al suo posto avrei fatto di peggio. - Ho capito – aggiunsi pensieroso. Lui si sorprese. - Che...Cosa faresti...? – domandò esitante. - Tu? – rigirai su due piedi la sua richiesta. Io non sapevo proprio che fare, anzi molto probabilmente avrei fatto quello che facevo sempre con le persone: nulla. Magari una risposta migliore lui già ce l’aveva e io potevo guadagnarci un buon suggerimento. Sospirò pesantemente. - Non lo so – rispose rassegnato. Finsi di non badarlo e mi alzai per lavare le stoviglie, dandogli le spalle. Lo sentii muoversi sul divano, probabilmente era indeciso se lasciare la stanza o meno. - Se ti piace davvero per quello che è, non puoi farci nulla – recitai atono ma a voce alta, poi quasi involontariamente mi ammorbidii e mi ritrovai a mormorare – Anche se dovesse non saperlo mai, anche se dovesse respingerti, in sua presenza continuerai a provare sempre qualcosa. – Era forse la frase più lunga che Sakuragi mi avesse mai sentito pronunciare da quando ci conoscevamo. In fin dei conti non volevo vederlo soffrire e in quel momento non aveva certo bisogno di sentirsi dire che secondo me l’amore non esiste e se esiste comincia male, continua male e finisce nel peggiore dei modi. E in effetti nemmeno io avevo bisogno di sentirmi dire una cosa simile. - Mamma, che paura! – esclamò e subito rise sollevato. Si sistemò meglio sul divano. – Ma glielo diresti? – mi incalzò, di nuovo estremamente serio. Questo era proprio ciò che io stesso dovevo affrontare, ma non avevo alcuna intenzione di farlo, perché a pensarci ero terribilmente confuso e niente mi aveva mai spaventato tanto. Avrei potuto dare una risposta, che io stesso non possedevo? Soprattutto era quella che avrebbe deciso della mia vita, perché in effetti il basket mi dava la vita, ma ormai Sakuragi era entrato in campo e senza di lui avrei perso una parte di essa. Terminai di sistemare e andai a sedermi accanto a lui, mi appoggiai allo schienale del divano e lasciai ricadere la testa all’indietro a fissare distrattamente il soffitto bianco. - Perché mi odi? – domandai soltanto, lasciai che la mia voce si spandesse lenta e calma nel quieto silenzio della stanza. Ridacchiò un poco. - Certo che sei loquace oggi, eh volpe? – replicò ironico, tuttavia sentivo che non aveva nessuna voglia di provocarmi seriamente. Mi sembrò più che altro un gioco, uno schema solo nostro in cui avrebbe potuto nascondersi. – E poi tocca a te rispondere, non vorrai far infuriare il Genio, ignorando la sua domanda – con una diplomazia, di cui non lo credevo capace, glissò abilmente la risposta. - La risposta è: non lo so – rivelai in tutta sincerità e socchiusi un poco gli occhi. Sakuragi prese un profondo respiro, quindi si alzò e si voltò verso di me. – Dato che pare tu non possa più fare a meno della mia sublime compagnia, sappi che devo ancora comprare il regalo per Acchan e se non glielo faccio mi ammazza! Per cui ora, in cambio della generosa ospitalità che il Genio ha offerto a questa misera volpe randagia, mi ci accompagnerai – concluse con una smorfia, a metà strada tra un sorriso esagerato e l’espressione di un bulldog di fronte ad un intruso. - Tsk – mi limitai a ribattere. Mi ignorò stoicamente. Si diresse nella sua stanza, facendomi segno di seguirlo, quindi mi porse i miei abiti. Li presi e andai a cambiarmi in bagno.
LEZIONE 5: La Verità è che io alimento la mia sofferenza e posso smettere di farlo. Dopo poco eravamo per strada, in mezzo alla gente, anche se non molta in effetti, perché del resto il Natale si passa in famiglia. Faceva freddo e le vetrine decorate, piene di qualsiasi tipo di articoli, attiravano l’attenzione dei pochi, che come Sakuragi avevano disperatamente bisogno di una sorpresa folgorante. Un sottile manto di neve bianca, quasi una spolverata di zucchero a velo, resisteva sugli alberi snelli, che separavano il marciapiede dalla strada, sui quali restava un’impura fanghiglia impiastricciata dal passaggio delle auto e dei pedoni. Ci fermammo di fronte ad un negozietto di oggetti antichi. La vetrina, meno imponente ed illuminata delle altre, aveva un aspetto gradevole ed invitante, perché rendeva appieno l’idea che all’epoca avevo del Natale: un momento solitario e nostalgico. Sakuragi entrò ed io lo seguii in silenzio. L’interno era caldo ed accogliente, la stessa luce soffusa e densa che traspariva dalla vetrina, dei mobiletti in legno, esponevano sulle mensole aperte oggetti di svariate forme, dimensioni e materiali. Sentii un tonfo alle mie spalle e mi voltai appena in tempo per vedere una ragazza che, nel tentativo di proteggere un oggetto di vetro che teneva fra le mani, stava cadendo a terra. Fece un profondo sospiro, seduta sul pavimento in una buffa posizione, ma subito sollevò il capo, facendo sì che i lunghi boccoli dorati si scostassero dal volto, solo allora si accorse di noi. Saltò in piedi, fece un grazioso inchino e ci sorrise con dolcezza. - Salve, desiderate qualcosa in particolare? – chiese, con uno strano accento. Era occidentale, gli occhi colore del mare, il viso dalla linea dolce e l’espressione cordiale e fiduciosa, le conferivano un’aria vagamente infantile. Portava un vestito blu, lungo fin sopra il ginocchio e decorato da nastrini e merletti azzurri. Notai che teneva la statuetta di vetro stretta al petto con fare protettivo. Sakuragi si grattò la nuca ed arrossì un poco. Non era certo strano pensare che fosse stato attratto da lei, anzi era un enorme salto di qualità, se paragonata a quel mostriciattolo della Akagi. - Dovrei fare un regalo… - rispose piano. La ragazza si guardò intorno con aria riflessiva. - Si tratta di una persona a cui tiene molto? – domandò, sorridendo dolcemente. Lui si limitò ad annuire, ancora imbarazzato, quindi la seguì verso il banco. Io continuai ad aggirarmi per il negozio, ma sentii la ragazza presentarsi e colsi qualche parte della spiegazione sull’oggetto che portava con sé. L’insieme dovette essere convincente, perché lui decise di comprarlo e, dopo che si furono scambiati gli auguri, mi richiamò per poter uscire. Lo seguii lentamente e mi voltai a guardare un’ultima volta la ragazza, che mi sorrise, salutandomi con la mano. - Dove andiamo? – chiesi, quando mi trovai al suo fianco. Sakuragi si strinse nelle spalle, ma continuò a camminare, con le mani sprofondate nelle tasche del giaccone. Il sacchetto penzolava dal braccio destro, sbatacchiando qui e là. Con tutta la cura che ci aveva messo la commessa a proteggerlo, non avrebbe dovuto venderlo ad un animale come quello. Camminammo senza meta, finché che finimmo al solito parco, quello dei miei incontri con Acchan. Lui si sedette su una panchina, che dava sulla piazzola interna, in ci per via delle festività si trovava anche un chiosco degli hot-dog. Ero rimasto indietro e senza neppure pensarci mi fermai a comprarne uno per entrambi. Glielo portai e presi posto al suo fianco. Si sorprese e mormorò un qualche ringraziamento. Restammo a lungo in silenzio, entrambi apparentemente immersi nei propri pensieri, in realtà io avevo la testa vuota e non registravo nient’altro se non i suoi movimenti. Si lasciò ricadere contro lo schienale, sbuffando. - Stasera devo lavorare – disse contrariato. - Anche il giorno di Natale? – chiesi placido. - Eh, già...Razza di schiavisti! – sbuffò ancora. - Che lavoro fai? – domandai. - L’accompagnatore in un club gay – rispose con la massima serietà. Dimentico della maschera, mi voltai a guardarlo sorpreso, con tanto d’occhi sgranati. In un istante recuperai la faccia di bronzo, cercando di farlo sembrare normale. - Stai scherzando? – domandai ancora, e quasi trattenni il respiro. - Sì – ridacchiò divertito – Credi davvero che Mr. 50 rifiuti possa fare l’accompagnatore? Faccio il barista in un locale, anche se in verità il capo ha un debole per me... – aggiunse. La mia espressione mutò ancora vertendo sul broncio per un millesimo di secondo. Non saprei dire come, se ne accorse e rise di nuovo, così di scatto mi voltai a guardare la strada. Mi sentii davvero ridicolo. - Idiota – commentai a denti stretti. - Sei proprio una vecchia volpaccia scorbutica e priva di senso dell’umorismo – rispose, sfoggiando un sorriso che voleva sembrare perfido, ma sembrava solo ebete. Mentre parlava, si alzò e mi mise una mano sulla testa, spingendola verso il basso. Mi scompigliò i capelli. A pelle era un gesto che avrei definito persino affettuoso. Per fortuna subito si allontanò per buttare i rifiuti e non dovetti preoccuparmi di che reazione avere, perché riprese a camminare e potei limitarmi a seguirlo. Quando rientrammo era pomeriggio inoltrato, dopo aver fatto un altro giro del centro e visitato qualche negozio di articoli sportivi, pur non avendo parlato molto, l’atmosfera era rilassata ed eravamo riusciti a passare una giornata che, dati i nostri standard, si poteva definire più che piacevole. - Credo sia meglio che vada – dissi, mentre si apprestava a cambiarsi per andare a lavoro. Il locale a quanto mi aveva detto apriva alle sette e mezzo, ma lui alle sei doveva esserci già. Mi aveva anche spiegato dove si trovava e consigliato di andarci, dato che era un posto molto carino e, nonostante lui ci lavorasse, abbastanza tranquillo. Attesi una risposta, finché uscì dalla camera. - Potresti accompagnarmi e salvarmi dalle avances del capo... – rispose allegro – Di sicuro se ti vedesse punterebbe te – concluse, passandomi accanto e andando in cucina. - Idiota – risposi come al solito. Non avevo mutato il mio atteggiamento nei suoi confronti, ma lui pareva essersi accorto che era soltanto il mio modo di relazionarmi e non c’era alcuna ostilità. Era come se in tutta naturalezza avessimo preso confidenza. Arrivai a pensare che forse avremmo finito davvero col ritrovarci un giorno in un bar a chiacchierare come due vecchi amici. Ad ogni modo era strano che non si decidesse a salutarmi, mi sfiorò il dubbio o forse il desiderio che stesse cercando di trattenermi. Mi passò accanto per andare ad infilarsi le scarpe. Lo seguii fino alla porta, restando fermo alle sue spalle, ma non disse nulla. L’aprì, facendomi uscire, e la richiuse. Mentre scendevo le scale si avvicinò dietro di me. – Se non ti sta bene, posso sempre dirgli che sei il mio ragazzo – sussurrò melenso e subito scoppiò in una fragorosa risata. Cominciò a correre giù per le scale, per scampare eventuali ripercussioni. La sua spacconeria mi era più che nota, ma mi chiesi dove avesse trovato tutta quella confidenza. Forse avrei dovuto aspettarmi simili battute da un come lui, quando fa l’amico, ma rimasi impietrito li dove mi trovavo, senza che nemmeno mi passasse per l’anticamera del cervello di scatenare la mia ira. Anche se avevo appena scoperto che per scatenare qualcos’altro, ci sarebbero stati buoni margini di trattativa. Quanto avrebbe potuto essere rischioso per me, concedergli simili spazi? Soprattutto che rischio avrei fatto correre a lui? Se fossimo finiti ubriachi come due buoni amici, forse non avrei risposto di me e avrei combinato cose che neppure avevo il coraggio di immaginare.
LEZIONE 6: La Verità è che io scelgo che cosa vedere, perciò sono responsabile della mia percezione di ciò che mi circonda; se vedo l’odio (la separazione) è perché ho scelto di avere paura, anziché amare. Ritornato alla mia solita, vuota casa, non riuscivo più a sopportare nemmeno l’aria che vi si respirava, così dopo neanche mezz’ora e tre giri del corridoio, ero di nuovo fuori. Non riuscivo a togliermi dalla testa il comportamento di Sakuragi, le sue parole spezzavano il flusso dei miei pensieri, ripetendosi ad intervalli regolari. Non capivo quale fosse la verità nascosta tra di esse. Mi chiesi perché avesse scelto di fare uno scherzo simile proprio a me, che di lui in fondo non sapevo nulla e avrei potuto facilmente fraintendere. La sua immagine prorompente mi si figurò nella mente. Cercai di studiarne i lineamenti, di interpretarne le risate. Volevo capire se almeno il riferimento al locale dove lavorava fosse veritiero e se fosse possibile che il padrone avesse un interesse particolare nei suoi confronti. A dire il vero ero stanco di pensare e di camminare, perché sapevo che non avrei concluso nulla, ma se mi fossi fermato, sarei caduto nell’apatia. Volente o nolente, quando mi ne resi conto ero di fronte al Blue Moon; avevo seguito le istruzioni ricevute come un automa e a quel punto sarebbe stato ancora più stupido non entrare. Dovetti riconoscere che in effetti era un locale molto carino e abbastanza tranquillo. Sakuragi, lo notai subito, era dietro il banco, solo allora mi spaventai di essere arrivato a tanto e mi sentii fuori luogo. Stavo per battere in ritirata, quando un’altra cosa attirò la mia attenzione: un uomo, seduto all’angolo buio del bancone ed elegantemente poggiato su di esso. Vestiva abiti scuri, i capelli corvini, così lunghi da essere legati molto in basso, scivolavano sulle spalle e sulla schiena ampia. Anche senza vederne il volto, l’avrei giudicato un uomo bellissimo, ma soprattutto notai che ascoltava le parole che un impacciato barista gli stava riferendo e teneva, nella mano affusolata e con una certa nonchalance, il pacchetto che quell’idiota suddetto aveva acquistato il giorno stesso. Mi avvicinai un poco, cercando di non farmi notare. Un cameriere richiamò la loro attenzione, l’uomo l’ascoltò con tranquillità e con un gesto consigliò di lasciar correre, quindi riportò il proprio zelante interesse su Sakuragi, tanto da farlo arrossire. Qualcosa, che avrei potuto facilmente riconoscere come gelosia, mi montò dentro. Strinsi i pugni e passo dopo passo, cominciai ad avvicinarmi. Mentre cercavo di trovare una valida scusante per la mia forse molesta presenza, l’oggetto del mio astio con grazia si scostò i capelli dal volto, per stringere la coda che si era allentata. Non smise di guardare l’altro, ma si scoprì abbastanza da farmi riconoscere il suo sguardo paziente, gli splendidi occhi smeraldo. Era senza dubbio un uomo bellissimo. Imprecai mentalmente. Tu guarda, se proprio in quel locale doveva essere finito a lavorare Sakuragi. D’accordo, in effetti era un bel posto, anzi probabilmente era uno dei migliori di Tokyo, vista la fama di quell’uomo. Era più corteggiato e adorato di quanto il piccolo Kaede fosse mai stato. Era attraente, giovane e molto, molto ricco, ma anche estremamente gentile, posato e di buon gusto. Era tanto carismatico che con una sola conversazione sarebbe riuscito a portarsi a letto persino la Madonna, ma quello che lei non avrebbe mai saputo era che lo faceva per il semplice gusto di farlo, perché adorava auto-compiacersi e soprattutto vincere. Era ovvio, scemi com’erano, che quei due si fossero trovati. Sì, senza dubbio era un uomo bellissimo, Edoardo, il cugino di mia madre, o come preferiva farsi chiamare lui zio. Mentre lo fissavo accigliato, mi avvicinai troppo. Sakuragi si accorse di me e mi riservò uno sguardo sorpreso. - Ehi, volpe! – esclamò allegro. - Idiota – risposi come sempre. Quindi mi voltai verso Edoardo. Mi sorrise amichevole e il suo irresistibile magnetismo mi investì come un faro puntato sulla faccia in piena notte. Per un attimo lo immaginai con la faccia deturpata dai miei calci, convenni con me stesso che con un paio di denti in meno avrei trovato il suo sorriso molto meno irritante. In verità se ci fosse stata una maschera con le sue magiche espressioni, l’avrei comprata subito. Avrei dato qualsiasi cosa per avere la sua classe e la strabiliante capacità di trattenere un innocente ed irresistibile sorriso sul volto anche in situazioni come la sofferenza o il peccato. Era il tipo che sarebbe riuscito a provarci con la vedova al funerale di mio padre, se non avesse avuto la certezza che la donna in questione fosse sua cugina (verità da lui candidamente ammessa in presenza del figlio di quest’ultima, cioè io); era il tipo che sarebbe riuscito a rubare un vassoio in un negozio di argenteria, fingendo di avere una bomba nascosta dentro il cappotto, ma avrebbe restituito i dieci centesimi caduti alla vecchina e rotolati in mezzo alla strada. - Buona sera, piccolo Kaede. Come stai? – domandò, con tono molto dolce. - Potrebbe andare meglio – risposi, sfoggiando la più bronzea delle mie facce. - Voi vi conoscete? – si intromise uno sconvolto Sakuragi. - E’ mio nipote – spiegò Edoardo con l’usuale tono morbido. - E’ il cugino di mia madre – precisai freddo e tornai a fissare la mia personale minaccia atomica. – Di’, questo locale è tuo? –. – Sì, è mio – rivelò e si guardò attorno soddisfatto. - Come mai da queste parti, piccolo Kaede? – chiese premuroso. - Sono venuto a dire al proprietario di questo posto di tenere giù le mani dal mio ragazzo – risposi categorico. L’oggetto del nostro dibattere mi guardò allibito, con tanto di bocca semiaperta. Invece lo zio si limitò a chinare il capo, sussurrando un – Touché -. - Bene – disse Sakuragi, dopo un attimo di riflessione terapeutica - Sappiate che ora siete nei guai – continuò determinato, puntando il dito contro entrambi - Tutti e due -. - Prima devo parlare con te. E poi mi occupo di te – aggiunse, guardando prima Edoardo e poi me. Infine si voltò e ricominciò a lavorare, ignorandoci entrambi. Il nemico mi sorrise con complicità e io lo fulminai con gli occhi. Non volli nemmeno immaginare che cosa avesse in mente di combinare, ma subito si alzò e si diresse da Sakuragi. Mi accorsi che gli riportò il pacchetto, quello che avrebbe dovuto essere il regolo di Acchan. Non riuscii a sentire bene tutte le parole che si scambiarono, ma capii che il turno del barista sarebbe finito prima del solito, invece la parte che non riuscii ad afferrare aveva fatto arrossire l’altro dalla testa ai piedi. Quando tornò da me, era a dir poco raggiante. - Allora, piccolo Kaede, ho invitato il tuo nuovo amico a cena con noi – spiegò in tutta naturalezza. - A cena con chi? – chiesi spazientito. - Pensavo di approfittare di averti qui, per passare il Natale tutti insieme – sfoggiò un’espressione implorante – Non vorrai rendere triste il tuo povero zio? E poi stasera Sakuragi altrimenti avrebbe lavorato e nemmeno avresti potuto vederlo -. - Sei il solito ricattatore – lo stilettai con freddezza. Allungò le bracciò intorno alle mie spalle e mi strinse a sé, quasi mi soffocò per la sorpresa. - Sei tutto tuo zio, quando aveva la tua età – mormorò e si lasciò sfuggire una risatina ironica. Subito dopo si staccò, anche grazie alla mia costante resistenza, ma non si allontanò, anzi mi riservò uno sguardo serio e profondo. – Senti, in tutta sincerità, lui ti interessa? – chiese piano. Rimasi immobile e in silenzio per un tempo che mi parve eterno, alla fine mi limitai ad annuire con la testa. Non ero così sicuro di volerlo ammettere, non ero così sicuro di volerne affrontare le conseguenze. - Quindi è davvero il tuo ragazzo? – mi incalzò, abbassando il tono. Ecco che mi aveva fregato. Cosa avrei dovuto fare? Fidarmi del suo senso della famiglia e dirgli la verità o tenere in piedi la bugia, nella speranza che Sakuragi avrebbe capito che l’avevo fatto per lui? In fondo l’idea di fingermi il suo ragazzo, mica era partita da me. Ma se Sakuragi avesse appena smentito tutto? Se Edoardo avesse già saputo che era sempre stato innamorato di Haruko e certo non di me? Non era il caso di rischiare pessime figure o peggio disgrazie inutili, la cosa migliore era restare sul vago. - Chiedilo a lui – risposi atono. - Perché dovrei? – domandò perplesso. – Perché mi ha chiesto di venire a salvarlo da te. - Lo zio scoppiò a ridere divertito. Mi prese sottobraccio e mi trascinò verso l’uscita del locale. - L’hai salvato allora, dai, andiamo a bere qualcosa da un’altra parte – disse allegro. Mi lasciai portare fuori e a piedi camminammo fino ad un portone scuro, in una stradina nascosta. Lo stipite era illuminato da una piccola luce gialla, ma non c’era neppure il campanello. Edoardo bussò alla porta, tre colpi precisi e subito questa si aprì. - Ti pare l’ora? – borbottò indisposta una roca voce maschile. Il mio accompagnatore agitò una mano nell’aria come a minimizzare e mi spinse dentro assieme a lui. Un occidentale, alto, abbronzato e biondo stava stravaccato sul divano a guardare una partita di football americano via satellite. Aveva capelli arruffati ed occhi di un azzurro così intenso e luminoso, che se l’avessi visto in foto avrei creduto che fossero stati modificati con Photoshop. Era lui che ci aveva aperto, perché nell’appartamento non c’era nessun altro, eppure non ci badò neppure, come se all’improvviso fossimo diventati invisibili. Edoardo si sfilò il cappotto e lo appese all’attaccapanni nel piccolo ingresso, sfilò le scarpe e indossò delle pantofole. Siccome ero rimasto imbambolato iniziò a fare lo stesso con me, che riuscii a fermarlo in tempo per arrangiarmi almeno a togliere le scarpe. Terminata l’operazione, rimasi fermo sulla soglia. Lui si era già allontanato, lo osservai mentre toglieva la giacca, apriva i primi bottoni della camicia e si metteva un grembiule da cucina, con tanto di torte dipinte su sfondo bianco e decorazioni rosa e verdi. Strinse i lunghi capelli in uno chignon alto, di modo che non scivolassero davanti al volto o sul petto, spalancò il frigo e mi chiese che cosa desiderassi da bere. Non seppi che dire e, stranito, mi guardai attorno. L’appartamento era un bilocale, non molto grande ma confortevole, arredato a tinte chiare. - A me una birra – si intromise l’uomo del divano. - Almeno alzati e presentati – lo rimproverò blandamente Edoardo, ma gli portò quello che aveva chiesto. - Perché? Lui è muto? – replicò seccato il biondo. - E’ mio nipote – spiegò paziente. - Ah, sì? – replicò l’idiota – Allora bamboccio, che fai resti lì? Vieni a presentarti – mi apostrofò. Mi avvicinai e gli lanciai un’occhiata omicida, ma non mi badò, perché era concentrato sullo schermo piatto. Era il terzo tempo di una partita dei Giants. - Chi è questo grosso idiota? – chiesi. Lo zio ridacchiò, mentre poggiava sul tavolino basso dell’acqua, del succo e del vino, tanto perché avessi a disposizione tutto quello che c’era. - Quel grosso idiota è il mio editore – rispose tranquillo e tornò verso la cucina – Non sai che ho lasciato la ditta e ora scrivo? Il Blue Moon mi è stato dato in gestione da tua madre, me l’ha chiesto come favore personale, finché non troverà un compratore -. Lo osservai sorpreso. mentre si metteva ad affettare le verdure su di un grosso tagliere di legno. Capii che cosa intendesse per passare il Natale tutti insieme. Aveva persino intenzione di preparare la cena per noi. Era cambiato enormemente dall’ultima volta in cui avevo avuto modo di parlargli di persona; mamma mi aveva accennato qualcosa a riguardo e in effetti le volte in cui me l’aveva passato per telefono mi era sembrato stranamente affettuoso, ma credevo si trattasse soltanto del rivelarsi delle sue origini mediterranee, perché, pur avendo alcuni tratti orientali, lui era italiano. Insomma, la mia bisnonna si era sposata con un francese, da cui ebbe due figlie, la prima sposò un italiano e ne nacque Edoardo, mentre la seconda diede alla luce mia madre, che invece ha ereditato abbastanza sangue e istruzione giapponesi da avere la stessa elasticità mentale di un bambù. Almeno posso dire di avere un bisnonno francese e un prozio italiano. Fissai la sua schiena ampia e per un attimo mi ricordò l’attore di un qualche film straniero, eppure mi diede una sensazione più forte e familiare. Non saprei spiegarlo, forse fu perché avevo immaginato la distanza continentale che avrebbe potuto separarci, ma di colpo sentii che mi voleva davvero bene. Riportai l’attenzione sull’altro ospite. Se non mi fosse stato detto, non avrei mai pensato che potesse essere un editore, non avrei neppure scommesso che fosse capace di leggere. Quando si accorse che lo stavo fissando parlò. - Michele – disse soltanto, continuando a guardare lo schermo. - Kaede Rukawa - risposi atono, continuando invece a guardarlo storto. Si tirò a sedere meglio e spostò le gambe, mettendo i piedi a terra. Batté la grande mano sul cuscino accanto a sé. Mi sorprese che mi facesse segno di sedermi. - Non è il Superball, ma non è male – disse casuale. Diedi un’occhiata al cuoco, per scoprire che si era voltato a guardarci. Mi sorrise contento. Di riflesso presi posto accanto a Michele; a sorpresa con fare amichevole mi raccontò come fosse andata la partita fino ad allora e mi feci prendere anch’io dal gioco. Quando anche l’ultimo quarto si concluse, Edoardo mi chiese di andare a prendere Sakuragi al locale e mi rispiegò come arrivarci, quindi si mise a preparare la tavola. Il burbero biondo si alzò e senza proferire parola mi accompagnò alla porta. Mi condusse fino alla strada principale. Mi fermai indeciso di fronte all’attraversamento pedonale, tanto che lui mi diede una spinta in avanti, ma subito si voltò e tornò sui suoi passi.
LEZIONE 7: La Verità è che io sono padrone delle mie scelte e non vittima di ciò che mi accade. - Che cosa ti ha chiesto? E tu che gli hai detto? – domandò trafelato Sakuragi, prima ancora di cambiarsi per uscire. Mi strinsi nelle spalle. – Gli ho detto che mi hai chiesto di venire a salvarti e io ci sono venuto. - Si passò una mano tra i capelli, era visibilmente a disagio. - Certo che tu non ce l’hai proprio il senso dell’umorismo – considerò con un sospiro rassegnato. Lo fissai infastidito. - Potevi pensarci prima di parlare a vanvera. – Incrociai le braccia al petto, mentre accanto al suo armadietto, aspettavo che si cambiasse. Sbucò da dietro la porta di metallo, era senza maglietta. Alla luce degli ultimi sviluppi, ringraziai di essere abituato a vederlo in simili condizioni per via degli allenamenti e mi concentrai sul suo viso. Aveva messo il broncio. Si diresse al lavandino e infilò la testa sotto il rubinetto. Dopo essersi scrollato di dosso l’acqua come un cane, recuperò un asciugamano e ci si buttò di faccia. Dopo esserselo passato sui capelli come uno che vorrebbe strapparseli per il nervosismo, lo ricacciò nel borsone e così com’era sparì nello spogliatoio che recava la scritta DIREZIONE. Rimasi ad aspettarlo davanti all’armadietto. Quando ne uscì, assieme ad una nube di vapore, era più umido e svestito di prima, ma profumava. Immaginai che avesse approfittato della doccia di nascosto. Anche perché sapeva di frutta e yogurt, abbastanza da essere scambiato per un pasticciere. - Era una scusa come un’altra perché facessi un salto al locale, piuttosto che restartene a casa da solo – brontolò, mentre si infilava i pantaloni. Mi sfuggì un mezzo sorriso. Lui impallidì e per prendere la maglia quasi si tuffò dentro l’armadietto. - Com’è che sei diventato così premuroso? – chiesi interessato e mi avvicinai. - A forza di sentire quello che Acchan diceva del ragazzo del parco, non potevo non cambiare opinione su di te – replicò in tutta fretta – Mi fido di lei e se dice che ti vuole bene, allora significa che te lo sei meritato -. Sfiorai con le dita la sciarpa che mi avvolgeva il collo. - Sbagli, non ho fatto nulla, se non essere me stesso – lo corressi a bassa voce – E’ lei che è stata buona con me. – - Oh, insomma, chi sei tu? Che fine ha fatto quello stronzo che conosco? – replicò spazientito. Con un colpo secco richiuse l’armadietto e partì spedito per uscire sul retro. Lo seguii e gli rifilai un calcio sul didietro, facendolo quasi cadere a terra. - Guarda che sei tu che mi hai fatto venire fin qui, idiota – precisai freddo. Strinse i pugni, ma rimase di spalle. - Sai com’è, non pensavo che per essere stato gentile una volta. sarei finito a dover fingere di stare assieme a te ad una cena con tuo zio, che poi è pure il mio capo! – sbottò nervoso. - Gli ho detto di chiederlo a te – risposi serio. - Che cosa?! – domandò esasperato e si voltò di scatto a guardarmi negli occhi. - Edoardo mi ha chiesto se davvero stavamo insieme – spiegai controvoglia. Rimase in silenzio e mi parve che fosse confuso. - Ho pensato fosse meglio, che fossi tu a decidere cosa dirgli – aggiunsi e sbuffai. Per un attimo abbassò lo sguardo a terra, poi lo riportò nel mio. Non era più arrabbiato, anzi sembrava sorpreso, forse persino colpevole. - Tu davvero fingeresti di stare con me davanti a tuo zio? Arriveresti a tanto solo per farmi un favore? – parlò piano, quasi avesse paura di disturbare qualcuno con un’affermazione troppo sfrontata per essere pronunciata. Deglutii a vuoto e sentii il sangue che si raggelava. Una risposta affermativa sarebbe stata quasi una bugia, perché non si poteva dire che il mio comportamento fosse del tutto disinteressato, in realtà mi era parso di fare più un favore a me che a lui, quando avevo detto quelle parole. Tuttavia sentivo che non sarei mai riuscito a spiegargli come fossero andate davvero le cose. - La fai più grande di quello che è – svicolai, cercando di troncare il discorso e gli passai oltre, uscendo in fretta sulla strada principale. Mi inseguì con uno scatto veloce. Il borsone a tracolla gli batteva sul fianco, separandoci. - Ti rendi conto che dovresti mentirgli ogni volta che lo vedi? E non ti importa del suo giudizio? Non ti importa dell’immagine che daresti di te? – chiese a raffica. - Non mi importa di cosa pensano gli altri – replicai indifferente. - E con me come faresti…? – chiese poco convinto. - Mica dobbiamo stare lì a sbaciucchiarci – risposi annoiato. Sospirò, forse di sollievo. - Senti, posso dirgli che era uno scherzo e siamo soltanto amici – propose addolcendosi. - Allora dovrò fingere di essere tuo amico? – risposi ironico. Scoppiò a ridere, rilassandosi. - Oh, no, no! Vai bene così come sei, chissà cosa combineresti altrimenti! – esclamò divertito. Ritornò il silenzio, finché non arrivammo di fronte alla porta dell’appartamento. Stavo per bussare, quando un’idea fastidiosa mi sfiorò e mi bloccai con il braccio a mezz’aria. - Che cosa c’è? – mi chiese Sakuragi, di nuovo un po’ nervoso. - Non vorrei che lui ci provasse ancora – dissi soprappensiero. Sakuragi si grattò la testa. - Te l’ho detto, no? Era soltanto una scusa per farti venire al locale – mi rassicurò, con aria colpevole. - Hn – concessi distratto. - Comunque sei bravo a fingere di fare l’amico – considerò allegro e mi diede una pacca sulla spalla. Quel contatto mi rianimò come una valanga di zuccheri nel sangue, assai meglio dell’alcool. - Ma se mi hai detto di non farlo – lo corressi e lo guardai storto. - Sì, sì, scherzavo volpe… – spiegò divertito, scuotendo la testa – Era uno scherzo, tranquillo! Continua così che vai bene! – accompagnò la voce ai gesti come si fa con chi non capisce la lingua, e poi mi diede un’altra pacca, facendomi bussare per errore. - Idiota – lo rimproverai. Nello stesso istante la porta si aprì e lui sfoggiò un sorriso smagliante. - Il Genio è arrivatooo! – intonò allegro.
LEZIONE 8: La Verità è che io sono quello che sono, la Verità è che tutti siamo quello che siamo. La cena andò meglio del previsto. Eccezion fatta per le continue battute di Michele, per quello che era diventato il nostro divertente scherzetto ai danni dello zio, che a detta sua un debole per gli uomini ce l’aveva sul serio. In compenso ci allietò proprio l’ottima cucina del signor Ti prego non lasciarmi, come l’aveva soprannominato dopo la quinta birra e la storia della loro temporanea separazione. Da quel racconto, persino io avrei concluso che lo zio fosse perdutamente innamorato di Michele, ma l’uomo in questione sembrava non darci assolutamente peso e trattare quella quasi ossessione come la cotta di una bimba dell’asilo per il suo papà. - Non vorrai davvero tornare a casa? – mi chiese Edoardo, mentre uscivo dal kotatsu. - Non dovrei? – chiesi perplesso. - Certo che no! – esclamò partecipe, forse anche per i troppi brindisi – So che sei solo e sono l’unico responsabile per te adesso, perciò dovresti restare qui – spiegò premuroso. - Scherzi? Non lo vedi che non sai badare neanche a te stesso? – lo punzecchiò Michele. Si stava diligentemente occupando di vuotare l’ultima bottiglia di vino, nella sua bocca, come peraltro aveva fatto con tutto il resto, eppure sembrava perfettamente in sé; l’unica differenza rilevabile nei suoi modi era un lieve aumento di tono nella voce. Sfilò una sigaretta dal pacchetto sopra il tavolo e se l’accese. Per un attimo mi parve che fosse proprio una discarica e mi chiesi cosa mai avesse potuto trovarci in un tipo simile il quasi perfetto Edoardo. Come se mi avesse letto nel pensiero, Michele mi piantò addosso uno sguardo indagatore e un mezzo ghigno strafottente gli si disegnò sul volto. - Non devi obbedire agli adulti, piccoletto – disse, soffiandomi il fumo quasi in faccia. - Smetti di provocarlo – lo rimproverò lo zio e con un sorriso vacuo aggiunse – Fa’ come preferisci, piccolo Kaede. – Trattenni l’impulso di picchiare a sangue sia l’uno che l’altro per il modo in cui mi trattavano, cioè come se fossi un bambino, e posai una mano sulla spalla di Sakuragi per avvisarlo che stavamo per andarcene, ma quest’ultimo non ebbe alcuna reazione. Solo allora mi accorsi che si era addormentato sul tavolo e mi sfuggì un’espressione seccata. - Puoi lasciarlo qui, non serve svegliarlo – disse subito Michele. – Tu vai pure. – Edoardo lo rimproverò con lo sguardo. - E smettila – lo contraddisse, ma era comunque bonario, tanto che passatogli un braccio intorno alle spalle, avvicinò le labbra al suo orecchio. – Non ti sei accorto di cosa prova Kaede? – sussurrò. Michele lo guardò perplesso e subito riportò gli occhi nei miei. Scattai in piedi, ma lui non perse il contatto. Mi fissò intensamente, in silenzio, per almeno cinque minuti. Corrugò la fronte e assunse un’espressione grave. - Mah… - disse infine. - Sei proprio un idiota - commentò lo zio con un sospiro. – Povero, piccolo Kaede, speriamo che Sakuragi non sia come te. – L’espressione del biondo si illuminò e si rabbuiò allo stesso tempo; aveva capito l’antifona. - Speriamo piuttosto che il povero, piccolo Kaede non sia come te! – replicò acido e si passò una mano tra i capelli. Edoardo gli rifilò un pizzicotto di una violenza inaudita, ma riscontrò una resistenza invidiabile, infatti sul volto della vittima apparve a malapena un fugace segno di sofferenza. - Allora, sentiamo – disse rivolto a me, e nella voce si distinse una leggera incrinatura, dovuta alla punizione subita. – Sei come lo zietto? Hai intenzione di perseguitare questo malcapitato per il resto della sua vita? – La testa mi pulsava per il nervosismo e mi ero ormai convinto che si fosse ampiamente meritato la rissa che stavo per scatenare. Strinsi il pugno nella mano destra. Sfortunatamente Edoardo mi precedette, schiacciandogli a sorpresa la faccia contro il tavolo. Quindi si avvicinò nuovamente con le labbra al suo orecchio, ma questa volta non c’era nulla di amichevole in lui. - Ora basta, Michele – sibilò perentorio e per un lunghissimo minuto ricadde il silenzio, quindi socchiuse gli strani occhi verdi e sospirò appena. – Loro sono diversi da noi e potrebbero semplicemente stare insieme – aggiunse, recuperato il consueto tono morbido. - Appunto! – convenne il biondo e si alzò in piedi. Prima di andare a buttarsi sul divano, mi puntò un dito contro. - Guarda che io non sono come te! – dichiarò, mentre mi passava accanto. Quel tipo sembrava davvero un idiota, anzi peggio, un idiota insensibile. Dopo averlo seguito con lo sguardo, mi girai verso Edoardo, ma si era già allontanato e stava sistemando la cucina. Il loro dialogo mi aveva confuso, perché non avevo capito bene a cosa si riferissero e dovetti ammettere che in quel momento mi interessava più di qualunque altra cosa, perciò lo raggiunsi. - Zio – lo chiamai, per la prima volta, a quel modo – Tu sei gay? – chiesi piano. - Come spiegartelo? – poggiò sul lavello la pirofila, che aveva usato per cucinare il primo piatto, e si sfilò i guanti. Sospirò e si allungò verso la mensola più in alto, ne prese una scatola, che conteneva una selezione di pregiate miscele di tè, quindi preparò il bollitore e lo mise a scaldare. Dal vano, nascosto dentro il portaincenso decorato, estrasse un bastoncino e lo accese. Un rumore di sottofondo si riversò nella stanza, Michele aveva acceso la tv e per un istante mi aspettai di sentire la telecronaca di una qualche partita o gara, invece riconobbi una melodia di Classica. Mi girai a guardare lo schermo: sullo sfondo un drappeggio rosso, oltre di esso una grande orchestra e infine il direttore. Sorpreso capii che era proprio un concerto e per di più di Karajan. L’essenza sconosciuta ma piacevole mi arrivò alle narici. Spostai lo sguardo su Michele: il divano era vuoto. Lui era seduto a terra nella posizione del loto e ad occhi chiusi dava le spalle alla tv. Era a torso nudo, la felpa abbandonata sul bracciolo, e completamente assorto. Osservai il suo volto disteso e all’improvviso mi parve di una bellezza quasi divina, proprio come una statua millenaria; viva, immortale ed eterna, eppure nello stesso istante già morta e intoccabile. Riuscii a non farmi assorbire dalla sua immagine, così non cercai di ritrovare il movimento del suo respiro e misi da parte il desiderio di unirmi ad esso per conoscere la sua pace. Edoardo mi passò accanto e andò a prendere un libro dalla libreria. Inforcò un paio di occhiali da lettura, rettangolari ma piccoli e dalla montatura leggera e flessibile, sfogliò le pagine e mi si avvicinò. Notai che in realtà era un quaderno, scritto a mano. Passò il dito sotto una frase, più marcata rispetto alle altre: Insegna solo Amore, perché è ciò che sei. Lo guardai perplesso. - Ecco, diciamo che io sono questo – disse con un sorriso candido. Rimasi in silenzio a fissarlo. Ero stupito dalla semplicità di quel concetto e allo stesso tempo meravigliato della sua grandezza. Faticavo ad afferrarne il senso con la logica, eppure qualcosa dentro di me aveva vibrato alla lettura di quelle poche parole e mi era parso che non vi fosse niente di più perfetto per rappresentare ciò che sentivo. Sentivo che quella era la strada giusta. Lo zio mi sorrise, un sorriso che sembrava capace di abbracciarmi, e con la mano libera mi carezzò i capelli. - Anche tu lo sei – disse semplicemente – Tutti lo siamo -. Mi fece segno di aspettare un istante e sparì nella camera. Quando tornò portava con sé un quaderno identico a quello che mi aveva mostrato e me lo mise tra le mani. - Questo è il mio regalo – spiegò – Smetti di avere paura e trova le risposte dentro di te. – Lo sfogliai: era immacolato. Carezzai la copertina di pelle con le dita. - Come? – chiesi. Prese una penna, dimenticata accanto al frigo, e me la diede. - Scrivi a te stesso – rispose tranquillo e mi indicò il tavolo. Tornai a sedermi e squadrai il foglio bianco, finché non decisi di scrivere i miei pensieri, le domande e le risposte che mi si affacciavano alla mente. Mi fermai, soltanto quando gli occhi stavano per chiudersi. Non avevo fatto la chiarezza che mi sarei aspettato e pensai che avrei dovuto rileggere tutto per trarne una qualche conclusione, ma scoprii che Edoardo aveva preparato il divano letto e la tv era già stata spenta. Michele mi passò accanto diretto al frigo. Lo osservai, mentre beveva a canna dalla bottiglia d’acqua, ma non mi sembrò più una discarica. Senza che potessi spiegarmene il perché, la sua immagine era radicalmente mutata. Quando la ripose, lanciò un’occhiata a me e al quaderno aperto, si avvicinò e con la mano grande mi diede due colpetti sulla spalla. - Adesso va’ pure a dormire – disse con un tono molto più morbido del solito. - Hn – risposi atono. Quell’atteggiamento paterno mi aveva messo a disagio, per fortuna lo zio mi diede una maglietta, dei pantaloni e un paio di boxer di ricambio e mi mostrò il bagno, fornendomi una scusa per non dire altro. Non mi sfuggì che il letto nella camera fosse matrimoniale, eppure non mi chiesi neppure come facessero quei due a dormire beatamente insieme, mi parve persino scontato che per loro potesse essere la cosa più naturale del mondo. Mi lavai e mentre mi rivestivo, entrò Michele che nudo e senza alcun pudore si infilò sotto la doccia. Lo zio si scusò al suo posto, affacciandosi oltre la soglia, e aggiunse che lui era fatto così, ma sembrava più divertito che dispiaciuto. Ero abituato agli allenamenti, quindi la cosa non mi imbarazzò, ma, quando il biondo cominciò a cantare sotto la doccia, scoppiai a ridere. Cantava La Traviata di Verdi, perché aveva appena finito di ascoltarla, ma con le stesse doti canore di un’otaria spiaggiata. Si interruppe per lanciarmi un paio di scongiuri e sfidarmi a fare di meglio, così dovetti fuggire di nuovo in salotto, perché altrimenti non sarei riuscito a smettere di ridere. Diedi un’ultima occhiata a Sakuragi, pensando a quanto sarebbe stato bello potersi svegliare ancora una volta l’uno accanto all’altro, e mi infilai sotto le coperte. Non avevo il coraggio o la sicurezza di svegliarlo con una simile proposta.
LEZIONE 9: La Verità si può raggiungere tramite la comprensione, la consapevolezza si raggiunge tramite il sentire, il sentire è sempre Verità. Quando mi svegliai, il display del videoregistratore segnava a malapena le tre, sentivo un rumore di tastiera provenire dalla stanza accanto e avevo assoluta necessità di andare al bagno. Prima di quel momento non mi aveva neppure sfiorato l’idea che avrei dovuto oltrepassare la camera per arrivarci. Fortunatamente sembrava che qualcuno fosse sveglio e stesse usando il portatile che avevo visto sulla scrivania, immaginai si trattasse di Edoardo, e chiedendo sottovoce il permesso, entrai nella stanza. La luce bianca dello schermo illuminava il volto concentrato di Michele e accanto a lui, appoggiato con un gomito al piano, Sakuragi seguiva attentamente la scrittura. Sembrava che non si fossero accorti di me, ma il biondo allungò un braccio dietro le spalle e mi fece segno di entrare. Subito ridusse la pagina di Word a icona sulla barra del desktop e ne aprì una nuova, su cui scrisse veloce una frase e me la indicò. Stiamo parlando, Ed è abituato al suono dei tasti, così non si sveglia. Assonnato strinsi gli occhi e squadrai le parole una ad una, quindi annuii poco convinto e me ne andai verso il bagno. Non appena mi allontanai, il ticchettio ricominciò e durò almeno per altri dieci minuti, ma mentre oltrepassavo la stanza a ritroso, Michele prese a stiracchiarsi sulla sedia e chiuse pagina e sessione di lavoro. Sakuragi lo guardò perplesso, ma chiuse il computer, si alzò in piedi e prese a spingerlo fuori. Appena ci fu riuscito, socchiuse la porta. - Buonanotte bambini – sussurrò allegro, chiudendola definitivamente. - Bah…- borbottò il mio compagno, accendendo la luce della stanza e finalmente notai che anche lui si era cambiato; portava una t-shirt larga e bianca, con stampata in uno sgargiante multi color la scritta “Love is in the air”, e un paio di boxer mimetici, che paragonati al mio sobrio e stretto nero integrale, provvisto di classico scollo a V, potevano appartenere soltanto a Michele. Lo osservai, mentre rubava una mela dal cesto della frutta e la azzannava. - Strano tipo, l’amico di tuo zio – commentò con sufficienza, ruminando come una mucca. - E non l’hai visto meditare – buttai là poco convinto. Io a dire il vero non lo trovavo più tanto strano, anzi mi dava persino un po’ fastidio che Sakuragi lo giudicasse, proprio come avevo fatto io all’inizio. Ero quasi tentato di troncare il discorso e ributtarmi a letto, anche perché avevo un sonno terribile e correvo il rischio di addormentarmi in piedi. - Sarebbe stato comunque meno strano di quello che mi ha detto – mi corresse sicuro. - Perché? – domandai e mi presi da bere, tanto per giustificare la mia permanenza e tenere gli occhi aperti – Che ti ha detto? –. - Ha detto… – fece un attimo di pausa per aumentare la suspense ed un sorriso ironico gli affiorò alle labbra - …Che ci hanno ospitati qui, perché tu volevi stare con me. - Il succo mi andò di traversò e rischiai di svegliare tutti con l’attacco di tosse che ne derivò. Sakuragi rise piano. Anche se ero perfettamente in grado di gestire la mia faccia di bronzo, aspettai che fosse lui a parlare prima di raddrizzarmi e guardarlo. - Non preoccuparti – mi rassicurò divertito – Gli ho risposto che tu non diresti mai una cosa del genere! - - Hn – confermai atono, l’adrenalina mi aveva svegliato. - E sai lui che mi ha detto? – chiese sul punto di ricominciare a ridere. Scossi la testa. - Il fatto che non lo dica, non significa che non lo voglia – recitò teatrale – Poi ha aggiunto qualcosa riguardo al sentire, ha detto che ciò che non si conosce si può sentire, perché tutte le risposte sono dentro di noi…O giù di lì… - ci ripensò su un attimo - Ma ti pare? – chiese incredulo. Ripensai al quaderno nero che avevo lasciato sopra il tavolo. Quando lo zio mi aveva parlato, io avevo sentito. In quell’attimo ero stato certo di aver compreso una verità assoluta e sull’onda di quell’emozione avevo scritto pagine zeppe di pensieri ispirati. Eppure d’improvviso mi sembrò stupido e fuori luogo, mi sentii nudo di fronte alla folla. Che cos’era quella sensazione? Io avevo paura di essere giudicato? Perché? Credevo di essermi ormai rassegnato, di aver imparato a non badare a ciò che pensava la gente. Quello che avevo davanti però non era la gente: era Sakuragi. Avrei voluto ritrovare quella sensazione di serenità e ordine, perché, anche nell’ignoto, anche dovendo cercare le risposte, era tutta un’altra prospettiva farlo in quel modo. - Cosa vuoi che possa capire un idiota come te – commentai nervoso. Abbandonai il bicchiere sul piano della cucina e me ne andai verso il letto. Sakuragi non rispose alla provocazione, ma rimase immobile poggiato al tavolo. Mi resi conto di aver esagerato ad attaccarlo così e di essermi persino esposto troppo, ma ormai era tardi per rimediare e non sarei certo andato a chiedergli scusa, correndo il rischio di espormi ancora di più. Mi distesi sul materasso e incrociai le braccia dietro al testa. Avrei dovuto portarmi dietro il lettore mp3, ma non ce l’avevo, così cercai di ricordarmi la melodia che cantava Michele, per togliermi dalla testa tutti quei pensieri fastidiosi. Chiusi gli occhi, concentrandomi, ma un pesante respiro mi riportò alla realtà e li riaprii. - Questo è per te – disse, porgendomi il pacchetto che aveva preso nel pomeriggio – Non sono riuscito a dartelo prima. – Lo guardai impassibile. Mi aveva raggelato. - Mi era venuto il dubbio di aver esagerato, ma al locale Edoardo mi ha convinto a non farmi troppi problemi – si spiegò a disagio. Compresi che se c’era un idiota in quella stanza, beh, ero io. Lentamente lo presi e lo scartai. Era la statuina di vetro, che la commessa stringeva tra le braccia: un demone volpe. Guardandolo meglio mi accorsi di quanta fosse la cura con cui era stato plasmato, i particolari erano precisi all’inverosimile, tanto che riusciva a trasmettere qualcosa di vitale. Le linee affusolate quasi taglienti, l’aria fredda e impassibile, la figura dritta e decisa, mi ricordavano me stesso sul campo. - Scusa – mi uscì dalla bocca, appena udibile. Sakuragi sorrise e si sedette sul letto, accanto a me. Lo guardò più da vicino, quasi ammirato. - Quindi ti piace? – chiese sottovoce – Ho pensato che in qualche modo ti somigliasse. - Annuii. Io non avevo nulla con cui ricambiare quel suo gesto, del tutto inaspettato, e mi sentii terribilmente a disagio per aver pensato a giudicare le sue parole, invece che a dimostrargli quanto fosse importante nella mia vita. Mi lasciai andare e feci una cosa che, per quanto semplice, credevo non sarei mai riuscito a fare, soprattutto con lui. Posai la statuina a terra e lo abbracciai. D’istinto si irrigidì, ma poco a poco si sciolse e con un po’ di esitazione ricambiò il mio gesto. Quasi spaventato da una simile apertura, lo strinsi più forte. Nel silenzio prese a carezzarmi i capelli e sentii la serenità avvolgermi. Chiusi gli occhi e posai la fronte sulla sua spalla. - Ai aveva ragione, nonostante l’apparenza, conoscendoti meglio viene voglia di proteggerti… - disse piano. - Io non ho bisogno di nessuno, ma essere soli è triste… - confessai quasi controvoglia. La sua mano scese a carezzarmi la schiena. - Non devi più essere triste – rispose comprensivo. Si scostò e si distese sotto le coperte, proprio nel centro del letto. - Vieni qui – sussurrò, accompagnando le parole ad un gesto del braccio. Mi avvicinai, piegandomi, ma non ebbi il coraggio di distendermi. Sakuragi mi afferrò con il braccio che aveva allungato verso di me e mi attirò al suo petto. Mi strinse a sé e riprese a carezzarmi i capelli. Dopo poco il tremendo disagio che stavo provando si dissolse in una bolla di calore e mi sentii accettato e a casa, nel modo in cui avrei sempre voluto sentirmi, ma che non avevo mai sperimentato nel luogo che così avevo sempre chiamato. Compresi che il sentimento che credevo di provare per lui, quella sensazione che mi aveva dato la sua presenza sul campo e nella mia vita, non valeva nulla, era irreale e pregna del mio egoismo, del mio bisogno di controllo e di stimoli. Compresi che stavo finalmente scoprendo Sakuragi per ciò che era e non per ciò che avrei voluto o deciso che fosse. Compresi che non mi importava di come sarebbe potuto cambiare il nostro rapporto o la mia immagine, perché quello che volevo era conoscerlo e amarlo esattamente per quello che era, non mi serviva nient’altro e non avrei voluto nulla da lui o da me che non fosse naturale e vero. - Grazie… - sussurrai, chiudendo gli occhi. Per la prima volta sentivo davvero il cuore pieno di gratitudine e non era soltanto a lui che mi rivolgevo, ringraziavo soprattutto me stesso, perché finalmente ero riuscito a riconoscermi e accettarmi per ciò che ero e avevo scoperto che non era nient’altro che Amore. Per quanto banale potesse sembrare, per me fu un attimo di un’intensità meravigliosa, nel suo essere vero, puro e luminoso. Quella notte, per la prima volta e senza bisogno di nascondermi, mi addormentai tra le sue braccia.
LEZIONE 10: La Verità è che passato e futuro non esistono, perché io vivo qui e ora: soltanto il presente è Verità. Quando mi alzai dal divano, ero solo, o almeno così mi parve, ma non mi guardai neppure attorno. Mi trascinai nell’unico bagno e mi buttai sotto la doccia. La sensazione divina della notte appena trascorsa, era scivolata via, eppure mi pareva di poterla ancora sfiorare, come se mi fossi appena svegliato da un bel sogno che non ricordavo bene, inoltre l’acqua che mi scivolava sulla pelle e il vapore aromatico mi diedero un buonissimo risveglio. Mi venne voglia di caffè e di sole, di passeggiare in mezzo alla gente. Sul mobiletto del bagno erano ripiegati due asciugamani e alcuni vestiti e sullo specchio c’era scritto: per gli ospiti. Mi infilai i pantaloni della tuta e la felpa scura e tornai in soggiorno, affamato. - ‘Giorno – mi salutò Michele. Era seduto al tavolo, di fronte ad una tazza piena di caffè e un piatto di brioche appena scaldate. Lo fissai perplesso. - Serviti pure – disse distratto. Teneva un libro nella mano destra e lo stava leggendo con interesse. Mi riempii una tazza di caffè nero, come non ne avevo mai bevuto prima e presi posto all’altro capo del tavolo. Assaggiai la bevanda e mi sfuggì una smorfia; era fortissima, tanto che dovetti piegarmi a metterci un bel po’ di zucchero. - Dove sono gli altri? – chiesi atono. - Sono usciti – rispose con sufficienza l’unico rimasto. Avrei voluto chiedere dove fossero andati, ma di riflesso pensai che me l’avrebbe detto se l’avesse saputo. Mi chiesi cosa potessero avere da fare il ventisei Dicembre e dove. Mi chiesi se Sakuragi non fosse tornato a casa, magari convinto che Acchan sarebbe passata a trovarlo. - Insieme? – chiesi, prendendo una della brioche. Michele sollevò lo sguardo dalla pagina e mi piantò addosso i suoi occhi di ghiaccio. Mi persi a guardarli, perché erano davvero incredibili, trasparenti come il cielo o il mare dei tropici. - Sì - rispose divertito - Perché? Sei geloso? – domandò con un sorriso furbo. Sbuffai contrariato e azzannai la pasta. Non lo ero più, grazie a lui, ma in effetti lo ero stato; uno a zero, palla al centro. Mi prese la tentazione di tirargli un pugno, tanto per far sparire quel ghigno soddisfatto dalla sua faccia. - Non trovi che il tuo amico mi somigli? – chiese provocatorio. In effetti dovevo riconoscere che una qualche somiglianza c’era, più che altro nei modi. - E con ciò? – replicai infastidito. - Beh, io preferisco le ragazze più giovani – considerò casuale, ma il sorriso di sfida persisteva sulla sua bocca. Si strinse nelle spalle e riprese la lettura. Trangugiai tutto il caffè e mi alzai in piedi. - Dove pensi di andare? – mi riprese la sua voce. Non lo badai e andai verso l’attaccapanni per mettermi il giaccone. Mi aveva innervosito e volevo uscire. Con quelle poche parole era riuscito a farmi pensare a loro due, insieme, e a quanto Edoardo potesse essere migliore di me in tutto. - La pazienza è la virtù dei forti – aggiunse grave. Mi bloccai davanti alla porta e lui scoppiò a ridere. Strinsi i pugni, di nuovo preso dalla tentazione di picchiarlo, purché la smettesse di essere così irritante e chiassoso, eppure quel qualcosa di diverso e quasi alieno che avevo intravisto in lui mi tratteneva dal farlo. Aveva molto più di qualcosa in comune con Sakuragi. - Dai, siediti – mi esortò e il tono era paziente e comprensivo. Sbuffai ancor più contrariato, ma tornai sui miei passi e ripresi posto davanti a lui, incrociando le braccia sul tavolo. - Che vuoi ancora? – chiesi tagliente. - Voglio insegnarti qualcosa – rispose con naturalezza. Gli lanciai un’occhiataccia, ma lui sorrise e mi prese una mano. - Se io adesso ti dicessi che ti amo – esordì e il suo sguardo era così intenso, che sembrava dar credito alle sue parole, tanto che mi sfiorò il dubbio che fosse la verità – Tu cosa penseresti? – chiese partecipe. Stavo per sbottare, quando lui girò la mia mano con il palmo verso l’alto e lo baciò. Un brivido piacevole mi corse lungo la schiena e sbiancai per la mia stessa reazione. Contrariamene a ciò che avrei voluto, non riuscii a rispondere nulla e deglutii a vuoto. Dopo un eterno attimo di silenzio, il suo sguardo ritornò nei miei occhi. Con uno scatto improvviso ritrassi la mano e la chiusi a pugno. - Penserei che sei un idiota – dissi con tutta la freddezza di cui ero capace. Anni e anni di indifferenza dovevano pur essere serviti a qualcosa. - Invece lo sei tu – mi corresse imperturbabile – Perché io non voglio nulla da te. – Incrociai le braccia al petto e spinsi indietro la sedia per distendere le gambe e tenerlo a distanza di sicurezza. Mi concentrai per eliminare qualsiasi turbamento dal mio viso e lo fissai statico. Non gli avrei dato la soddisfazione di cedere alle sue provocazioni. Non gli avrei permesso di farmi fare davvero la figura delle stupido. - L’Amore non è prendere, è dare – aggiunse sicuro. – Non dovrebbe importarti di cosa fanno coloro che ami, ma di quello che sono, e non dovrebbe importarti di cosa prendono, ma di cosa tu gli dai. – - E chi ha detto che dovrei amare quell’idiota?! – sbottai. Era inammissibile che quell’uomo potesse dare per scontate cose simili e venire persino a rinfacciarmele per spiegarmi i miei presunti errori. Era una cosa che non avrei ammesso nemmeno di fronte a me stesso, figuriamoci a lui. Michele alzò le mani in aria e scoppiò a ridere, come se gli avessi raccontato una barzelletta. - Io no di certo! – esclamò allegro. Digrignai i denti e mi schioccai le nocche. Questa volta avrei voluto strozzarlo. - Suvvia, smettila di mentire a te stesso, vedrai che ti sentirai più leggero – commentò bonario. Subito dopo mandò giù quello che restava del suo caffè e riprese il libro fra le mani, ma non a leggere, anzi si alzò in piedi e fece il giro del tavolo. Mi afferrò per un braccio, mi trascinò al divano e mi ci spinse sopra. - Che diavolo fai?! – sbottai furente. Come nulla fosse si buttò accanto a me. Stavo per tirarmi su inviperito, ma mi trattenne, schiacciandomi la spalla contro il materasso. - Ascolta – disse tranquillo – Pensa al presente, a quello che puoi fare qui, con me. - Non sarei neppure riuscito a ricordare quando fosse l’ultima volta che mi era successo, ma in quel momento fui assolutamente certo di aver perso il controllo della mia faccia e di avere un’espressione irrimediabilmente sconvolta. - Ah, i giovani d’oggi – commentò divertito e aprì il libro alla prima pagina. Recuperai l’uso della mascella e la chiusi, ma sentii il calore del sangue, che mi affluiva alle orecchie. Cercai invano di resistere all’impulso di controllare la sua reazione e scoprii sul suo volto un sorriso che lo illuminava e lo sguardo aveva di nuovo quell’intensità disarmante. - Di certo non è coinvolgente quanto quello che hai pensato, ma ti andrebbe di ascoltare o di leggere per me? – propose con una nota di tenerezza nella voce roca. Esitai, eppure l’espressione non svaniva dal suo volto e aspettò paziente la mia risposta. Mi vergognai come un ladro per come avevo frainteso le sue parole e persino per averlo considerato un idiota e annuii. - Sai, non conosco bene il giapponese e farmi correggere o ascoltarlo da te, sarebbe una buona e piacevole esperienza – spiegò con un’umiltà di cui non l’avrei neppure creduto capace. Presi il libro dalle sue mani, lo posai sul materasso, in mezzo a noi, e indicai la prima riga. Fortunatamente l’alfabeto era hiragana. Michele lesse con una pronuncia piuttosto fluida, ma si fermò sull’ultima parola e mi chiese che cosa significasse. Disse che i suoni gli riuscivano, perché venivano da dentro, invece il significato siccome era costruito non era così facile da intuire, a meno che non si trattasse di linguaggio parlato, dove almeno la mimica e la pronuncia venivano in aiuto. Gli chiesi quante volte fosse venuto in Giappone e mi spiegò che era la prima; anche se aveva viaggiato molto negli anni addietro, in Europa e in Asia, mi rivelò che prima di conoscere Edoardo non poteva permettersi l’aereo. Ammisi di essere impressionato che non avendo mai fatto un corso di lingua, avesse scelto un libro simile, ma senza scomporsi disse che in questo modo avrebbe trovato qualcuno con cui leggerlo, e così era stato. Tra commenti e traduzioni ne divorammo quasi metà, più di cento pagine. Mi sorprese di essermi appassionato ad una lettura che normalmente avrei trovato inutile e poco stimolante, e che se avessi provato a fare da solo, si sarebbe conclusa nel sonno dopo neanche dieci minuti. - Vedi – mi disse Michele, alludendo alla pazienza che avevo avuto nel ripetergli la stessa traduzione almeno dieci volte – Questo è dare Amore. - - Sei proprio matto – considerai, scuotendo la testa, ma non riuscii a trattenere un sorriso, perché in realtà sentirmi rivolgere quelle parole, mi aveva scaldato il cuore. Quando guardai l’orologio del video (l’unico in tutto l’appartamento), erano quasi le due e finalmente mi tornò alla mente Sakuragi, mi chiesi dove fosse finito e se sarebbe tornato presto, tuttavia scoprii che tanto la gelosia quanto la preoccupazione erano scompare. Compresi che, se non fosse stato per Michele, avrei vissuto male l’attesa, perché i miei dubbi avrebbero alimentato quelle sensazioni negative e per di più non avrebbero portato a nulla di buono. Invece gelosia, rabbia e paura si erano sciolte nel presente, in quel tempo che ero felice di aver condiviso. Il mio vicino chiuse il libro e si alzò, diretto in cucina. - Ho fame – considerò, aprendo il frigo. E in effetti ce l’avevo anch’io, ma non fece in tempo a tirar fuori nulla, che la serratura nella porta d’ingresso scattò.
LEZIONE 11: La Verità è già dentro di noi, noi siamo la nostra strada. Edoardo rientrò, ma era solo. Morivo dalla curiosità, così, fingendomi il più possibile distaccato, gli chiesi dove fosse Sakuragi. Mi raccontò che si era offerto di accompagnarlo da alcuni conoscenti, con cui aveva appuntamento quella mattina, quindi avevano pranzato insieme, ma subito dopo se n’era andato. Mi allungò un sacchetto di carta e io lo osservai dubbioso. - Vi ho portato qualcosa da mangiare – disse premuroso, indicandolo – Comunque abbiamo appuntamento più tardi. – Trattenni l’impulso di esultare. - Come mai? – chiesi con sufficienza. - Ha detto di voler ricambiare l’ospitalità, perciò mi ha invitato a cena da lui, anche perché la settimana prossima io torno in Europa – rispose candido. Lo guardai di traverso. La gelosia si stava sfacciatamente ripresentando. - Bene, allora anche per stasera siamo sistemati – dichiarò Michele e mi passò un braccio intorno alle spalle. Infilò la mano libera nel sacchetto e ne sfilò un kebab incartocciato. Strappò il lembo superiore con i denti e lo morse privo di alcuna grazia. Edoardo scosse la testa, ma non c’era ombra di rimprovero sul suo viso. Il biondo mi trascinò al divano e accese la tv. Si mise a guardare con interesse una stupida rubrica culturale che seguiva il telegiornale e dimentico della bocca piena, si fece scappare svariati commenti su ciascuno degli argomenti trattati; a partire dalle ultime tendenze dell’alta moda, passando per il problema delle droghe nei locali, fino ad arrivare alle novità tecnologiche abbinate al design nell’arredamento della casa. Superati i primi cinque minuti, in cui l’avevo come al solito considerato un idiota, mi ritrovai sorprendentemente a fare lo stesso. Persino Edoardo, con quel suo aspetto intellettuale e carismatico, prese posto accanto a lui, riservandogli di tanto in tanto qualche commento discordante, nonché molteplici puntualizzazioni riguardo alle errate informazioni trasmesse. Per tutta la durata del programma Michele tenne il braccio sulle mie spalle e quando fu finita e si alzò, mi spettinò i capelli con fare amichevole. - Lo sai? – disse rivolto ad Edoardo, mentre buttava la busta vuota nella spazzatura – Stamattina Kaede mi ha insegnato il giapponese – e sfoggiò un sorriso orgoglioso. Sentir pronunciare il mio nome, così come facevano soltanto i membri della mia famiglia, mi diede una sensazione strana e tuttavia piacevole. - Tu, invece, che hai fatto? – chiese curioso, mentre si preparava la moka. – E Aria come sta? – Si frugò nelle tasche dei pantaloni e ne estrasse uno stropicciato pacchetto di sigarette, quindi se ne accese una sulla fiamma del gas, e lo ricacciò al suo posto. Edoardo tirò fuori un posacenere da uno dei cassetti della cucina e lo posò sul tavolo. - Non ti avevo detto che sarei passato da lei – rispose con un mezzo sorriso. - No, infatti – ammise tranquillo l’altro – Allora come sta? - ripeté e si voltò a guardarlo negli occhi, appoggiandosi al banco della cucina. Per un attimo regnò il silenzio. - Bene – soggiunse lo zio, allargando il sorriso, ma mi parve che nei sui occhi splendesse una luce maligna – Mi ha chiesto di te e si è offesa perché non sei venuto a trovarla. – Michele soffiò fuori il fumo in tutta calma e ridacchiò. - Per quando è fissato il matrimonio? – chiese casuale. - Il venti Marzo – rispose serafico Edoardo. – Allora verrai? Non hai intenzione di farci cambiare idea? – lo punzecchiò. La parola matrimonio aveva cominciato a ripetersi inspiegabilmente nella mia testa, mentre una sorta di paura ancestrale mi invadeva poco a poco. Non mi sarei mai aspettato una notizia simile, era come scoprire di non aver capito nulla. Fino a dieci minuti prima avrei giurato che la situazione fosse diametralmente opposta, invece scoprivo che avrei dovuto riascoltare tutte le conversazioni avute in quei giorni per sapere veramente che cosa significassero. Scoprivo che l’uomo di cui ero geloso, che mi pareva indubbiamente attratto dagli uomini, che credevo innamorato di Michele, stava per sposarsi e colui che credevo lo respingesse avrebbe invece desiderato impedirglielo. Quante cose avevo sbagliato ad interpretare fino a quel momento? E se non avessi capito nulla neppure di Sakuragi? Se fosse stato davvero simile a Michele, come lui stesso aveva insinuato? Che cosa avrei dovuto fare? Se fossi stato al posto di Michele cos’avrei fatto? - E chi lo sa? – considerò l’interessato, stringendosi nelle spalle – Il presente è l’unico tempo su cui io possa esercitare delle scelte, perciò non ho motivo di pensare a che cosa farò, tutt’al più posso dirti perché non lo faccio ora. - Mi resi conto di essere rimasto a bocca aperta soltanto quando Edoardo si voltò a guardarmi. - E perché non lo fai? – chiese, ma i suoi occhi erano fissi nei miei, le labbra piegate in un mezzo sorriso maligno, come se conoscesse già la risposa e la considerasse un insegnamento per me. Michele gli passò le braccia intorno alle spalle, lo strinse a sé, tanto che una striscia di fumo bianco li avvolse seducente, e avvicinò le labbra al suo orecchio. - Perché ti amo – mormorò provocante la voce roca. Per un attimo il sorriso scomparve dal volto dello zio, che impallidì e sembrò sul punto di svenire, persino gli occhi si erano annebbiati. Mi parve che la stretta si facesse più decisa, quasi si aspettasse di doverlo sostenere, ma non fu necessario, perché superato quell’istante Edoardo inaspettatamente scoppiò a ridere. - Quando meno te l’aspetti, eh? – disse con una nota di dolcezza nella voce. Michele sorrise, quel sorriso che gli illuminava il volto e faceva venire voglia di abbracciarlo. - Come promesso – rispose allegro e fece scivolare una mano sul suo petto, sopra al cuore – Ti sento sempre. – Edoardo chiuse gli occhi e sospirò appena. - Anch’io – mormorò e fece un sorriso altrettanto puro. La voce dolce e profonda vibrò dentro di me e mi scaldò il cuore. Non avrei mai creduto di sentirmi partecipe dell’amore altrui, avevo sempre detestato simili dimostrazioni, tra uomini poi era pressoché inconcepibile, era qualcosa che potendo avrei evitato come la peste, eppure quell’amore lo sentivo anch’io, sentivo quanto fosse bello, mi illuminava e riempiva. Non c’era niente di sporco o sbagliato, non c’era alcuna disgregazione in esso era come se quell’accettazione spontanea e assoluta potesse unirci, come potesse unire chiunque, in un’unica grande famiglia. Sentii che nasceva e cresceva dentro di me, che era assolutamente vero e perfetto. Mi venne voglia di mostrarlo a Sakuragi, desiderai di riuscire in qualche modo a trasmetterlo anche a lui, tanto che dovetti trattenere l’entusiasmo, per non correre a cercarlo. In quello stesso momento Michele sciolse l’abbraccio, aspirò l’ultimo tiro dalla sigaretta e andò a spegnere il mozzicone. - Di’, non è che facendogli incontrare Aria hai confuso il ragazzo? – chiese dubbioso. - È possibile – rispose lo zio come nulla fosse. – Dalla sua faccia direi che non si aspettasse che fossi innamorato di lei. - - Ti sarai comportato come al solito da principe azzurro, invece che parlare soltanto della mostra – commentò acido il biondo. – Povero ragazzo, visto che vivi con me e dopo quello che gli hai detto, non poteva certo aspettarsi che tu fossi lì lì per sposarti! – - Che farci? Tu sei troppo spiantato per mettere su casa – replicò ironico. Non so come, ma la mia immagine si sovrappose alla loro, come se mi trovassi io in quella situazione e d’improvviso lo trovai ingiusto e terribile. Non riuscii più a controllarmi, strinsi i pugni e prima di pensare a ciò che stavo per dire, li interruppi. - Come ci riuscite? – domandai infastidito – Come riuscite a parlarne con tanta leggerezza?! – sibilai Michele si strinse nelle spalle. - Non è un matrimonio convenzionale, diciamo che è un modo per tutelarla e per festeggiare tutti insieme – mi spiegò Edoardo beato. - Tutelarla? – chiesi nervoso. - Sì, noi siamo una specie di famiglia allargata – precisò, misurando con cura ciascuna parola. Rimasi immobile, in silenzio, atterrito dall’unica conclusione a cui si potesse giungere ascoltando quella frase. All’unica possibilità grazie a cui potesse essere pronunciata con tanta serenità. - Lei sa di voi… - mormorai spaesato. Edoardo annuì e la mia percezione si capovolse ancora una volta. Mi ritrovai a provare pena per una donna che neppure conoscevo, colto dal dubbio che la stessero manipolando. Quei due non erano scesi a nessun compromesso nel loro rapporto e non si facevano soffrire a vicenda come avevo creduto. Eppure c’era qualcosa, qualcosa che mi impediva di sedimentare nella psiche quell’immagine di loro, riuscivo a credere che quell’emozione, sentita poco prima, fosse assolutamente positiva, perciò mi risultava più facile diffidare della mia stessa percezione, tanto che cominciavo a dubitare della mia interpretazione razionale delle cose a cui assistevo. Restai confuso a fissare il vuoto. Finché non mi ritrovai sotto il naso una tazza di caffè e alzando gli occhi incontrai il viso di Michele. Sembrava quasi scocciato, ma i suoi occhi erano sempre limpidi, come il mare delle locandine pubblicitarie. Con un gesto meccanico presi la tazza, senza neppure provare a spezzare il contatto visivo. - Lascia andare – disse deciso – Noi siamo pienamente consapevoli delle nostre scelte. - - Come si fa? – domandai, abbassando la testa. La sua espressione si ammorbidì. - Vivi appieno le esperienze che scegli di fare e dai tutto te stesso in ogni momento. Lascia andare la paura e fidati di ciò che senti, la verità è già dentro di te, perché tu sei la tua strada. – Devo ammettere che allora non compresi appieno tutte le sue parole, anzi quasi mi sembrò che parlasse arabo, tuttavia sentii di nuovo quella sensazione di unione e chiarezza vibrare dentro di me e con essa il desiderio di esternarla. Posai la tazza a terra, proprio accanto ai miei piedi, e lo abbracciai. Ogni dubbio scomparve ed ebbi l’assoluta certezza che lui fosse una bella persona, anzi meravigliosa, che anche Edoardo lo fosse, e io, e Sakuragi, addirittura che non esistesse una sola brutta persona al mondo, perché tutto era così perfetto. Quando mi staccai, lui mi guardava con un sorriso contento. Arrossii, a disagio per aver ricercato un’intimità che evitavo ormai da tantissimi anni, e di riflesso abbassai lo sguardo. - Bravo Kaede – disse e mi posò una mano sulla testa.
LEZIONE 12: La Verità è l’Amore; lasciamo andare la paura e sentiamo soltanto l’Amore che c’è dentro di noi, perché noi siamo la Luce del mondo. Dopo essermi preparato, mentre stavo per uscire dalla camera, attraverso la porta socchiusa mi era arrivata la voce dello zio; stava parlando con Michele. D’impulso mi ero bloccato ad ascoltarli. Edoardo lo stava riprendendo per il suo comportamento del pomeriggio, diceva che era stato un colpo basso dirgli che lo amava proprio allora. L’interessato fece orecchie da mercante e rispose che il dubbio era una cosa naturalissima, perciò l’altro non doveva rimproverarsi per aver dubitato di lui. Non sentendo più nessuno parlare, li spiai dallo spiraglio della porta: erano uno accanto all’altro, di fronte all’ingresso, vestiti di tutto punto per uscire. Edoardo si voltò verso il biondo e lo fissò dritto negli occhi, disse che lui amava Aria e per questo voleva stare con lei, calcò in uno strano modo sui verbi. Michele si avvicinò lentamente al suo viso e sussurrò qualcosa di impercettibile, purtroppo nella penombra non riuscivo a vedere nemmeno la sua espressione. Lo zio rimase immobile, in silenzio, ma il biondo si avvicinò ancora e posò le labbra sulle sue. Subito dopo lo strinse tra le braccia e gli fece posare la testa sulla sua spella. Carezzò e baciò i suoi capelli con una delicatezza quasi protettiva. - Ho trovato qualcuno capace di farmi una simile promessa…Eppure è sempre per te che lei lo fa – disse piano Edoardo, e giurerei che la sua voce sapesse di lacrime. - Io rinuncio alle promesse, perché noi siamo già una cosa sola – lo corresse Michele, tenendolo stretto a sé. Lo disse con un tono talmente sicuro e profondo da far credere che non sarebbe più stato necessario ripeterlo per il resto dell’eternità. Non avrei saputo trovare una risposta più perfetta e indiscutibile. Era libertà eppure Amore allo stesso tempo, e io capii che Michele era proprio quello e che era quello che anch’io avrei voluto essere. Nella distrazione mi appoggiai alla porta che si spalancò. Accorgendosi di me, il biondo mi strizzò l’occhio, estrasse dalla tasca del giaccone un sacchettino stropicciato e lo mise nella mano di Edoardo. Visto che ormai ero stato scoperto mi avvicinai un poco. Mentre veniva aperto, notai che era pieno di anelli di vetro colorato. - Uno per ogni giorno – disse allegro – Almeno finché non si romperanno tutti. - Con la ritrovata malagrazia, ne prese uno a caso nel mucchio e me lo lanciò. Non mi sfuggì l’occhiataccia, che gli lanciò Edoardo, ma lo afferrai al volo, guardandolo sorpreso. - Così puoi ricambiare quello che ricevi – spiegò e senza aspettare risposta, inforcò la maniglia e uscì. Dovemmo seguirlo in tutta fretta, perché in realtà non aveva la più pallida idea di dove abitasse Sakuragi e quasi mi venne da ridere, quando al semaforo nella strada principale Edoardo lo afferrò per il cappuccio dirottandolo nella direzione opposta a quella che aveva preso. La cena se ne andò via liscia come l’olio, tanto che non mi accorsi del tempo che passava. Michele non fece altro che stuzzicare il padrone di casa, mentre lo zio cercava di mediare i loro battibecchi, ridendosela sotto i baffi. Quando però il biondo si buttò sul divano, deciso a guardarsi, birra alla mano, un qualche programma sportivo, lo tirò in piedi e lo spinse fino all’ingresso, ringraziando per l’ospitalità e ricordandomi di passare a salutarli, non appena avessi potuto. Anche se ero convinto che me ne sarei dovuto andare con loro, in men che non si dica mi ritrovai la porta chiusa in faccia e mi parve tanto surreale e in qualche modo premuroso quel gesto, che finalmente scoppiai a ridere di cuore. - Che cosa c’è di tanto divertente? – mi chiese l’unico rimasto, mentre asciugava l’ultimo piatto, prima di riporlo. Agitai una mano in aria, lasciando intendere che fosse una stupidaggine. - Sei diventato proprio un’altra persona, volpe – considerò perplesso. Lo seguii in cucina e recuperato l’anello glielo sventolai sotto il naso. - Questo è per te…Grazie – dissi soltanto. - Un anello di vetro rosso? – borbottò quasi tra sé e sé – Cos’è vuoi chiedermi di sposarti o l’hai trovato per terra? – chiese sarcastico. - Me l’ha dato Michele – risposi divertito, soprattutto dal fatto che avesse notato immediatamente che non fosse il tipo di scelta che avrei fatto io – E di matrimoni ne ho abbastanza per oggi. - Inaspettatamente lo infilò e sollevata la mano guardò corrucciato come gli stava al pollice. - Di’, ti pare una cosa da me?- chiese con una smorfia scettica. - No, assolutamente – ridacchiai. Si strinse nelle spalle e lo lasciò lì dov’era. In tutta tranquillità si buttò sul divano e preso il telecomando, abbandonato da Michele, fece zapping alla ricerca di qualcosa di interessante. - Forse dovrei andare a casa – considerai poco convinto. - C’è qualcuno che ti aspetta? – chiese, fissando il venditore di tappeti sullo schermo. - No – ammisi controvoglia. - E allora che ci vai a fare? – concluse e batté la mano sul cuscino accanto a lui. Seguii il consiglio e ricevetti in regalo un bel sorriso, quindi come nulla fosse cominciò a parlarmi dell’uomo in tv e di tutte le particolarità di quelli che guardava di solito, perché, scoprii, era solito guardare le televendite di mobili, gioielli e soprattutto quadri, e in effetti quei tizi erano in qualche modo divertenti. Anche se a dire il vero tendevo a guardare più lui che lo schermo, perché gesticolava e parlava animatamente, ma era spontaneo. La sua naturalezza mi faceva sentire bene e casa. Quando alla fine il suo preferito si congedò e fu sostituito dal telegiornale della notte, spense la tv e si riempì una tazza di latte. - Ne vuoi anche tu? – chiese, accorgendosi che lo fissavo. Annuii appena, mentre mi stiracchiavo sul divano e subito me la portò. - Se vuoi fermarti qui, non fare complimenti – disse rilassato, dopo aver controllato l’ora sull’orologio a muro. – E poi, pensavo…Tra poco è capodanno…Se non hai altro da fare, potresti festeggiarlo con me, Ai, Yohei e gli altri… - buttò là, con un po’ d’incertezza. Stavo per rispondere, ma mi precedette. - Acchan non si farebbe problemi a dire che ha ceduto al tuo fascino e non può stare senza di te – aggiunse con un mezzo ghigno. Scossi la testa e gli lanciai uno sguardo di sfida. - Perché tu te ne faresti? – chiesi provocatorio. Per un attimo la sua espressione si fece seria. - Certo che no, il Genio sa riconoscere i propri errori – ammise in tutta sincerità. Si voltò per posare la tazza vuota nel lavandino e mi diede le spalle. – Tempo fa ti ho sognato, la scena era uno dei nostri soliti litigi, ma tu ad un certo punto diventavi triste e mi chiedevi perché ti odiassi, allora io mi sentivo stupido e colpevole, e non riuscivo a rispondere nulla…Pensandoci ho capito che Haruko non era una scusa valida, perché tu non avevi fatto nulla per portarmela via, e che ero soltanto invidioso, perché tu eri tutto ciò che io avrei voluto essere…Così ho cominciato ad avere paura che tu me lo chiedessi, perché se l’avessi fatto io avrei dovuto ammettere di averti ferito ingiustamente e non volevo assolutamente sentirmi colpevole di una cosa così stupida e meschina…Ho pensato spesso di dirtelo, almeno per scoprire come avresti reagito, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo, perché non volevo correre il rischio di mettermi in ridicolo. – - Pensavi che avrei riso di te? – domandai deluso. - Forse… - mormorò dispiaciuto – Ma poi tu me l’hai chiesto davvero… - la frase rimase sospesa nel silenzio. - Adesso mi odi? – domandai senza inflessioni nel tono. - No! – esclamò e si voltò di scatto a guardarmi. Mi strinsi nelle spalle. – Allora perché dovrebbe importarmene? – chiesi e sorrisi per tranquillizzarlo. Aveva ragione Acchan, nonostante le apparenze, suo cugino era davvero una persona buona, e finalmente riuscii a capire perché si sentisse così in colpa di fronte a lui. Non era per la sua condizione, era per quel suo modo ingenuo e sincero di affrontare il mondo. Senza alzarmi, allungai una mano a mezz’aria. Dopo un attimo di esitazione, Sakuragi si avvicinò e la strinse. - Pace? – chiese incerto. Stringendo la presa, lo tirai verso di me, finché mi cadde addosso e lo abbracciai. - Sai che cos’avresti dovuto rispondermi? – chiesi, guardandolo negli occhi. Scosse la testa, come ipnotizzato. - Ti odio – feci un attimo di silenzio – Perché mi odio – e un altro – Perché ti amo. - Rimase a bocca aperta, completamente sconvolto e mi parve che trattenesse l’impulso di allontanarsi. Deglutì a vuoto, ma non si mosse. - Ma va bene anche così – aggiunsi tranquillo e gli sorrisi, cercando per la prima volta di trasmettergli la dolcezza dell’amore che sentivo dentro. - Scusami – disse piano e mi abbracciò a sua volta – Sono un idiota. – - Lo so – risposi bonario. Mi strinse più forte e le sue lacrime calde mi bagnarono il collo. Sentii che non stava piangendo per me, piangeva per tutte le volte in cui non era riuscito a farlo, per tutte le volte in cui non era riuscito a scusarsi con le persone che era convinto di aver ferito, piangeva per essersi tolto quel peso, per essere stato perdonato e per avercela fatta, almeno questa volta, per tutte le altre. In quell’istante compresi che il nostro incanto si era finalmente spezzato ed eravamo liberi di essere noi stessi. Gli carezzai la schiena, piano e con calma, finché non si riprese. Quando alzò gli occhi era a disagio, ma gli posai una mano sulla testa, spettinandolo come si fa con i cani, e lo spinsi verso il bagno. Sulla porta si fermò e disse che preferiva lo usassi prima io e mi portò un cambio per la notte; la maglietta era una di quelle che gli avevo visto indossare durante gli allenamenti e profumava di pulito. Assecondai la sua richiesta e quando fu il suo turno, in un impeto di sfacciataggine mi infilai sotto le coperte. Mi stavo addormentando, quando lo sentii tornare indietro e capii che stava per ripiegare sul divano. - Vieni qui – mormorai con la voce impastata dal sonno. Quando si distese accanto a me, mi sorprese che avesse esaudito il mio desiderio senza battere ciglio. Eppure mi parve una cosa naturale e bella, perché non pretendevo nulla da lui, desideravo soltanto continuare a trasmettergli ciò che sentivo e per farlo non avevo bisogno di null’altro a parte sentirlo. Riuscii a capire anche le parole di Michele, perché la paura si era dissolta e non avrei rovinato quel momento per nulla al mondo, non mi importava del passato e neppure del futuro, non mi importava delle promesse e neppure delle definizioni. Era qualcosa di eterno, sereno e perfetto. Una vita fatta di simili istanti, sarebbe stata un vita piena di luce. - Volpe…Sono felice di non odiarti… - disse piano. Posò la testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi. All’improvviso era tutto così chiaro e semplice, così tanto che non mi importava più di sbagliare, perché dentro di me c’era soltanto l’Amore. - Vorrei abbracciare Edoardo – dissi sovrappensiero. - Domani potrai farlo… – mormorò assonnato, senza badare all’assurdità delle mie parole. - Chi lo sa, domani è un nuovo inizio – considerai tranquillo. - Allora intanto abbraccia me – biascicò semi incosciente – Buona notte volpe. - Lo baciai sulla fronte e lui si mosse un ultima volta, finché le sue braccia mi avvolsero e si addormentò stretto a me, tenero come un bambino. Avevo ricevuto un’altra sorpresa, era un dono inaspettato scoprirlo così sereno e innocente durante la notte. Sfidando la mia scarsa resistenza, prima di chiudere gli occhi, riuscii a guardare per un po’ il suo viso rilassato.
Insegna solo Amore, perché è ciò che sei. Eccoci alla fine della gita, scendiamo dal pullman e torniamo ognuno a casa propria, (spero) portando con noi un pezzetto di serenità, con l’augurio di farla germogliare in tutto ciò che ci circonda. Poiché tutti siamo maestri e tutti siamo allievi, qualsiasi commento sarà gradito, all’indirizzo e-mail: kamuifumatanto@hotmail.com Oppure sui blog: bahirava.blogspot.com e aelalapar.blogspot.com O ancora su Facebook a Federica Luise. Ringrazio tutti coloro dai quali ho imparato qualcosa e tutti coloro che leggeranno questo scritto. Dopo averlo inviato stapperò una birra che da mesi aspetta la sua occasione e la berrò alla vostra salute. Festeggiamo e impariamo insieme. Pace e Amore a voi.
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