NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, sono Antonio (^^) e Alex (><.. uomo antipatico e ‘tardissimo!!)
La Tigre parte XX di Dhely
L’aveva aspettato, desiderato, sognato con così tanta forza che ora gli sembrava impossibile.
Ed ora, eccolo. Era lì.
Alex era lì.
Per quanto fosse strano, e incredibile, e quasi.. quasi assurdo.
Alex non era mai centrato niente col calcio. *Mai*.
Il campo, le partite erano sempre state come dei luoghi di rifugio da lui e dall’intossicazione che si portava addosso. Il ritiro, per istinto era.. era un posto dove Alex non avrebbe *mai* messo piede. Non poteva *volerci* mettere piede.
Invece si era sbagliato.
Era lì.
Vederselo davanti era.. strano. Era resuscitare tanti pensieri, tanti ricordi che aveva rivissuto spesso negli ultimi mesi, ma di certo non con quella forza.
Quando gli aveva fatto vedere la moto che gli aveva ‘fornito’ la società per rendergli più agevoli gli spostamenti, dopo che aveva fatto gentilmente notare che una macchina non la voleva, e Alex aveva sorriso e gli aveva detto che era uno scemo perché un’auto sarebbe stato di sicuro più comoda oltre che più elegante.
Quando gli aveva regalato un cellulare e gli aveva detto di tenerlo sempre acceso ‘perché voglio che tu sia sempre raggiungibile’.
Quando lo placcava sulla porta, prima di uscire e lo baciava in quel modo che riusciva a ingarbugliargli i pensieri e i desideri per tutto il pomeriggio.
E le partite che non vedeva mai.
E la sua passione che non si sforzava mai di capire.
E il portarlo a vedere tutto ciò che a lui piaceva, senza mai chiedergli cosa ne pensasse.
Domande: una marea che rischiava di sommergerlo.
Avrebbe voluto sapere come lo vedeva Alex, cosa credeva che fosse, cosa sapeva di lui, cosa aveva scoperto, cosa aveva immaginato, cosa aveva .. sbagliato.
Forse avrebbe voluto pure dirgli che i concerti jazz gli facevano schifo e che quella che lui chiamava ‘arte moderna’ non l’avrebbe voluta avere sotto gli occhi tutti i giorni neppure se l’avessero pagato. Che di quei noiosissimi film muti di registi russi, o giù di lì, non ci capiva niente e preferiva di gran lunga guardarsi Godzilla in dvd piuttosto che l’intera retrospettiva di Luchino Visconti al cineforum chic che era ficcato in un posto introvabile. Che al caviale preferiva patatine fritte col ketchup e che la maggior parte delle parole italiane che sapeva le aveva imparate non ascoltando quei pallosissimi dibattiti televisivi sulla situazione geopolitica del Medio Oriente, ma facendo le parole crociate nell’ultima pagina del giornale, vicino alle strisce umoristiche di Mafalda, e leggendo tutti i libri dei Peanuts che gli aveva prestato Antonio ‘così ti fai due risate quando in tv non c’è proprio niente’.
E Antonio che gli parlava, non solo di calcio, e non lo faceva sentire come se fosse un povero bifolco ignorante ogni volta che apriva bocca, con il quale rideva, e si sentiva a suo agio, e gli diceva cose che non avrebbe mai creduto che avrebbe mai detto a qualcuno conosciuto da così poco tempo. Di Alex. Di Price. Del Giappone. Dei suoi sogni. Delle sue mete.
E Claudio che lo aveva convinto, chissà come, a fare quello stupido scherzo a Dimitri e il Mister che li aveva obbligati a due settimane di allenamenti ‘punitivi’. E Dimitri che stava lì con i pugni sui fianchi e li prendeva in giro, in piedi sulle gradinate di cemento illuminate a giorno dai proiettori accesi mentre il Mister fischiettava quella sua solita, stupida, odiosissima marcetta che gli serviva per scandire la corsa dei calciatori.
E quella volta che gli era suonato il telefono alle tre di notte perché Antonio era rimasto a piedi ritornando dalla Francia e il pomeriggio dopo avevano una partita e lui che era andato a recuperarlo in moto, e c’era mezzo metro di neve ovunque, e faceva un freddo cane ma alla fine erano arrivati in tempo allo stadio.. dopo sei multe ottenute, fatte pagare al Mister- e una decina di infrazioni che nessuno aveva potuto notare visto che *erano* le tre di notte e si potevano prendere pure i viali contromano correndo come un matto, sorpassando da destra, da sinistra, da qualunque posto ci fosse lo spazio per passare.
E la squadra, le partite, il Mister, il Presidente, la sua moto, le notti passate in posti dove *non* voleva andarci ma ‘andiamo Lenders, piantala di fare l’asociale! Ti prometto che ti divertirai!’..
C’era Alex, ora, lì davanti a lui.
E Alex non sapeva *niente* di lui.
Niente. Di quello che aveva vissuto, di quello che era stato, della sua fatica, del suo lottare, della sua cocciuta ostinazione. Di quello che aveva dovuto fare per essere lì dove era ora. Come se lui fosse stato un bambino viziato a cui era stato regalato un sogno senza che dovesse faticare, senza che avesse dovuto piangere dentro nel silenzio di una stanza già troppo piena di persone per poter aggiungere anche il proprio dolore.
Senza sapere il vuoto che si era portato dentro, per anni, quel sentirsi tradito, abbandonato, da quell’uomo che aveva creduto avrebbe sempre avuto al suo fianco. Quel padre perduto che gli aveva fatto crollare addosso il mondo, il suo mondo di bambino, che lo aveva strappato ad un presente che era normale, senza sofferenza, senza cose insostenibili per lui, perché Mark, all’epoca, non si sentiva solo, non *sapeva* di esserlo.
S’era disperato per la sua morte, non l’aveva creduta possibile. Ne aveva rifiutato l’idea e non ne aveva pianto scomparsa. Non ce ne era alcun bisogno: il suo dolore era stato incontenibile, e terribile. Aveva plasmato la sua vita su quello strappo, su quello sfregio e Alex non aveva intuito, non aveva domandato, non s‘era neppure interessato. Come se ciò che Mark fosse stato prima di incontrare lui non avesse avuto alcuna importanza.
Alex aveva parlato, aveva detto, raccontato, spiegato, ma non aveva mai.. ascoltato.
Alex aveva parlato anche nel suo non esserci: quella lettera.
‘Ciao Mark.
So che quando ci siamo lasciati non ti ho spiegato nulla, ma proprio in quel periodo avevo in ballo una cosa grossa. Se ti è arrivata questa mail, vuol dire che alla fine, per l’Irak sono riuscito a partire, mi hanno dato questo famoso permesso che mi ha fatto sudare sette camicie, e che mi sono cacciato nei guai. Ho scritto questa mail chiedendo al mio caporedattore di inviartela solo se mi fosse successo qualcosa.. sai, non si può mai partire impreparati, quando si fa un lavoro come il mio.
Ma non credo che uno come te possa capire, visto il “lavoro” che fai. Non fraintendermi: credo che sia una fortuna. Per fare il reporter uno dev’essere portato, è un po’ come una missione.. ti ricordi quando te ne parlavo, no?
Bhè, insomma, per farla breve, volevo solo farti sapere che non ti ho mai dimenticato, e che se, forse, da qui non ritornassi più, fossi sicuro che ti ho voluto bene.
Spero inoltre che anche tu mi abbia voluto bene e che quindi, per il rispetto che dovresti portarmi, evitassi di far sapere in giro quello che è successo tra noi. Non che la cosa potrebbe nuocermi, se fossi davvero morto, però se lo venisse a sapere la mia famiglia.. sarebbe una cosa spiacevole, non credi?
Confido nella tua discrezione.
Alessandro.’
Era lì davanti a lui.
Ora.
Mark lo guardava e improvvisamente si accorse che gli era passata la voglia di strozzarlo. Di pestarlo a sangue. Di sguinzagliargli addosso una muta di belve feroci pronte a sbranarlo lì sul posto.
Lo guardava e sentiva il peso che aveva dentro, sul cuore, svanire. Lentamente.
Come aveva potuto?
Come era stato possibile perdere la testa per uno così?
Non aveva mai saputo niente di lui; ad Alex i calciatori non interessavano. Ad Alex non era mai interessato neppure sapere chi fosse la persona dietro a quella divisa.
Non aveva mai *capito* niente, né di lui, né di cosa gli bruciava, gli viveva dentro.
Alex non l’aveva mai ascoltato, non l’aveva mai guardato. Si era solo deliziato della sua stessa immagine riflessa nei suoi occhi.
Ora, Mark, sapeva che non aveva più niente da dirgli.
Lo vedeva, ce l’aveva lì, e comprese che, uno come Alex, non ne valeva la pena. Non valeva la pena perderci il sonno, farsi tagliare il fiato nei polmoni.
Non valeva il peso dei suoi pensieri, i battiti del suo cuore.
Alex era appoggiato all’auto, con la sua solita sigaretta in bocca che, molto spesso, baciarlo era quasi come leccare un posacenere pieno di cicche.. e che cazzo! Quel divano poteva pure *cambiarlo*, non s’era mai accorto di quanto fosse scomodo?!
Alex alzò gli occhi su di lui.
Sembrava stanco, provato quasi: Mark si scoprì a non sentirsi preoccupato.
Sapeva precisamente che stava per parlare, lo sapeva *sempre*: gli bastava guardare quel modo particolare in cui prendeva fiato, la sfumatura lievemente diversa che prendeva il suo sguardo, le labbra che, per una frazione di secondo, assumevano *quella* posa..
Aveva passato un anno e qualche mese a .. berlo, respirarlo, vivere fissandolo, cercandolo disperatamente come se fosse il suo sole, la sua ragione di vita. Come se Alex avesse qualcosa che gli serviva per continuare a vivere. Come se non ci fosse nulla da ‘conquistare’ ma solo da ottenere tramite la benevolenza di qualcuno. Come se Alex potesse essere tutto, potesse divenire un nuovo sole, da porre al centro del suo cielo: perché nessun pianeta può fiorire senza avere accanto una stella luminosa e potente, ardente.
Per un anno e qualche mese si era semplicemente *sbagliato*. Aveva vissuto una vita che non era la sua, che non era mai stata la sua. Lui non era come un pianeta, lui non aveva bisogno di una stella da cui assorbire forza e coraggio, Mark possedeva giù tutto, nel suo cuore, aveva lottato, per una vita, con solo la forza che sentiva crescere dentro e che sapeva che era lì. Era *sua*.
Mark non aveva *bisogno* di Alex.
Alex stava per parlare e avrebbe sicuramente detto qualcosa di profondo, intelligente e interessante. Ma non c’era nessun motivo perché lui stesse lì ad ascoltarlo.
Non *voleva* ascoltarlo.
Inoltre, Mark non aveva neppure nulla da dirgli. Si parla con qualcuno per trasmettergli qualcosa di sé, per comunicare, perché si ritiene importante condividere qualcosa con lui.
Sorrise.
Un brusio conosciuto riempì la sua percezione, annullando la sensazione di essere ancora, come sempre, lui e Alex da soli.
Perché non era vero. Non c’era solo Alex al mondo.
Price che avanzava con ampie falcate dalla hall con Ed al suo fianco che gli diceva qualcosa.
Il pullman della società che aveva portato la squadra in città si fermò a pochi metri da lui facendo scendere una ventina fra giocatori, membri dello staff e accompagnatori vari, che sciamarono, chiacchierando e ridendo.
Mark si voltò appena: un passo alle sue spalle c’era Antonio.
“L’ho visto. Puoi portarlo via.”
Il suo capitano sorrise in risposta. Se aveva preparato chissà che frase ad effetto per suggellare il momento, se la tenne per sé. Sembrava felice.
Mark si sentiva sollevato.
Alex fece per ribattere, Bruce lo bruciò sul tempo.
“Hei Lenders! Ma non dovevi essere moribondo nel letto d’infermeria?! – aveva un assurdo cappello tutto colorato con dei campanellini tintinnanti calcato sulla testa e sembrava essersi divertito un mondo. Mark intravide l’arrivo di Oliver a salutare i compagni, e la voce di Ross che cercava di imporre un po’ di ordine. Bruce indicò Alex con un cenno del capo – Chi è quello? Un tuo amico? Spero sia un po’ più di compagnia di quanto lo sei tu, Lenders!”
Mark schioccò un impossibile, luminosissimo sorriso smagliante a un Bruce stupefatto.
“Quello lì è uno famoso, Harper, cerca di mostrare il dovuto rispetto. Per quel che mi riguarda, sono troppo *discreto* per aggiungere altro.”
Non che con le stampelle e un tutore alla gamba si potesse fare un’uscita grandiosa degna di tale nome.
Tutto si stemperò nel solito chiacchiericcio festoso che Ross continuava a non riuscire a smorzare.
Bruce rise di gusto.
“Tu discreto! Andiamo Lenders! Cosa ti sei fumato?!”
Price era rimasto all’ingresso dell’hotel, pareva semplicemente essere venuto incontro ai compagni. Non fosse stato che Ed lo tratteneva per una spalla.. ma se uno non lo aveva visto piombare lì, avrebbe potuto pensare che quella mano sulla spalla era un semplice gesto amichevole, un qualcosa di nessuna importanza, vuota di qualsiasi significato.
Antonio lo *sentiva* sorridere anche se ce l’aveva dietro la schiena.
Claudio gli si avvicinò dandogli un piccolo buffetto sul gomito, una cosa che solo quello screanzato senza cervello e senza *paura* di Claudio poteva osare fare con quell’espressione pacifica dipinta in faccia.
“Hei, Tigre, vedi di rimetterti in piedi che ci vediamo in finale!”
“Se volete avere almeno una minima possibilità di vincere, sarà meglio che io continui a non essere in forma.”
“Antonio, ma senti cosa dice?! Non gli rispondi niente?!”
“Bruce! Il mio cappello! Dammelo!”
“Hei! Andiamo! Basta fare tutto questo chiasso! Comportatevi come persone civili per una volta!”
“Ross che palle..”
“Oliver, non sai che ti sei perso! Sai chi abbiamo incontrato? C’era..”
“Claudio, su che ci aspettano! *Tu*, sali in macchina. Ciao Lenders!”
“Patrik! Piantala! Che linguaggio..”
Le frasi si mischiavano, senza senso: voci diverse che cantavano canzoni tutte differenti ma che trovavano, sempre, in qualcun altro, un’eco o un contrappunto.
Mark si era voltato e aveva salutato con un cenno della mano. Antonio era come se lo stesse aspettando appoggiato alla macchina, anche lui, proprio nella posizione di Alex .. no, non era proprio nella *stessa* posizione..
Ma lui sorrideva, come sempre, mentre il reporter era seccato, seduto nel sedile posteriore a rimuginare chissà cosa. Lo conosceva: forse stava meditando vendetta, forse si stava domandando come aveva potuto, quel bifolco pezzente, trattarlo in quel modo: lui che era così..
Claudio, nel frattempo, aveva l’aria di uno che si stava divertendo un sacco anche se, probabilmente non aveva capito gran che.
A meno che lo sapesse pure lui.
Mark si chiese chi ancora *non* lo sapesse..
Sospirò appena quando le porte dell’ascensore gli si chiusero alle spalle.
Un attimo dopo si ritrovò Danny fermo di fronte alla sua stanza con una strana espressione sul viso. Quando lo vide arrivare fece per dire qualcosa.
“Danny? No. Qualunque cosa tu debba dirmi, me la dirai domani, ok?!”
Era stato un pomeriggio impegnativo, che almeno Danny lo lasciasse in pace..
“Volevo solo avvisarti degli esiti degli esami.”
Mark scansò l’altro e si fermò di fronte alla sua porta.
Immobile.
Non si era fermato per curiosità o per cercare di aprirla. Né perché aveva qualche dolore, qualche problema.
Non stava pensando a niente.
Anzi, a *qualcosa* stava pensando.
Alla faccia di Alex quando aveva detto a Bruce che lui era ‘discreto’.
Impagabile.
Per quello, e solo per *quello*, forse quell’anno e qualche mese non era stato buttato via del tutto..
Piegò il capo all’indietro e *rise*.
Come un idiota.
Con Danny che lo fissava quasi sconvolto.
Di fronte alla porta chiusa della sua stanza.
Due stampelle e un tutore.
E degli esami dei quali non conosceva l’esito.
A una settimana dalla prima semifinale dei campionati Mondiali di Calcio.
Danny pensò che fosse impazzito per il troppo stress. |