NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, sono Antonio (^^) e Alex (><.. uomo antipatico e ‘tardissimo!!) 

 



La Tigre

parte XIX

di Dhely

 

Price non aveva mai creduto ai racconti sul destino, sul fato, sulle coincidenze spettacolari o sotterranee che dovrebbero costellare la vita di ognuno. Non gli erano mai servite e, oltretutto, non gli erano mai capitate.

 

Idee da trogloditi i quali, se si indicavano loro le stelle con un gesto della mano, fissavano le dita e non il cielo. Cose adatte per tenere buona gente così, per renderli tranquilli, forse più soddisfatti. Di certo non era roba per lui.

 

Lui che era un campione. Lui che era ricco e famoso non per un colpo di fortuna ma perché era bravo, e testardo, e perché aveva dato tutto di se stesso per ottenere ciò che aveva desiderato. Lui che col fato, forse, aveva giocato, aveva combattuto, che sul proprio destino aveva puntato tutto. Lui che non *doveva* farlo, lui al quale la fatica non era necessaria per avere una vita degna, a anche più di quello.

 

Lui che poteva avere tutto con il semplice pensarlo, aveva cercato qualcosa che non si poteva ottenere al di fuori di sé, ma solo scavando dentro, solo mettendosi in gioco, sempre, e piazzandosi di fronte al resto del mondo senza essere nascosto dalla difesa che i suoi soldi avrebbero potuto costruirgli intorno.

 

Era sicuro, a saldo, Benji, di ciò che era. Di ciò che aveva bisogno. A ciò a cui poteva credere: i casi del destino non entravano a far parte in quel gruppo.

 

Almeno fino al secondo esatto in cui, furioso nonostante la bella passeggiata, l’ottima giornata e la pace totale in cui era calato, si era accorto, al colmo dell’ira, di avere una scarpa slacciata.

 

Una *cazzo* di scarpa slacciata!

 

Si era fermato, tanto non doveva andare da nessuna parte, e si era chinato.

 

E dietro la siepe aveva sentito.

 

Warner e Lenders.

 

Chiacchieravano come vecchi amici, come se non fosse successo niente, come se.. se Benji chiudeva gli occhi poteva sentire il timbro di quella voce scivolargli sulla pelle, rotolandogli addosso con una sensazione quasi tattile, assolutamente unica. Le vedeva lì davanti, vicine, vicinissime, quelle iridi scure e insieme cangianti, come se il suo spirito di fuoco premesse ogni istante per trovarsi un varco. Ricordava l’odore della sua pelle, e, anche se non voleva, la sua consistenza.

 

Parlavano di lui.

 

Mark stava parlando di *lui*.

 

Price udì il dolore, forse il rimorso e, nonostante credesse di sapere così tante cose di Lenders, rimase di stucco. Non immaginava che lui.. gli mancò il fiato ma non si mosse.

 

Non era quello che stava uscendo dalle sue labbra, ma *come*.

 

Aveva già sentito Mark quietamente soddisfatto, assonnato, stanco, furioso, entusiasta, irritato, anche triste, velatamente triste, una volta, ma non aveva mai sentito *quel* tono.

 

Non stava mentendo: non c’era motivo e poi .. e poi nessuno poteva mentire parlando così. Price si ritrovò davvero incantato. E due volte stupefatto: per quello che sentiva e per il fatto che di Lenders mai qualcuno avrebbe potuto pensare di essere colpito dalle parole. Dalla voce.

 

Dalle cose non dette, ma espresse dal tono, dalla cadenza e dal timbro.

 

Come se Lenders potesse essere una persona sensibile e non il bastardo senza cuore che era!

 

Come se Lenders potesse avere abbastanza sentimenti per sentirsi in colpa!

 

Come se Lenders possedesse un linguaggio, verbale e non verbale in grado di esprimere rammarico!

 

Andiamo! Lenders! Lenders era.. Price sentì stringersi il cuore, diventare piccolo piccolo, come se non avesse nessuna intenzione, quel muscolo idiota, di dar retta alle profonde riflessioni scaturite dal suo cervello. Sentì male, al costato e si accorse che, sì, gli *stava bene* soffrire.

 

Non aveva capito un accidente. E se anche poteva fregiarsi di abbastanza scusanti per non passare proprio dalla parte del torto, almeno, visto che si vantava così spesso di ‘conoscere’ Mark, avrebbe dovuto..

 

Non lo sapeva neppure lui cosa doveva o non doveva.

 

Per la prima volta, guardò l’idea che Mark aveva della loro storia: un gioco gratificante, bello, piacevole. E si scoprì a poter accettare che, da parte di Lenders ci fosse stato il bisogno di .. di sentirsi importante. I suoi silenzi, i suoi sguardi… come poteva non averli ‘veduti’ prima? Come poteva non essersi fatto venire il dubbio?

 

Mark poteva essere la peggior persona del mondo, ma di una cosa Price era *sempre* stato certo: non era il tipo che si divertiva a giocare coi sentimenti altrui. Se lo faceva, accadeva inconsapevolmente, o perché era così ottenebrato da qualcosa da non accorgersi di quello che stava facendo.

 

E allora, perché ci aveva creduto? Che lo avesse fatto apposta? Che si fosse divertito? Si era comportato come un bastardo ma.. quella voce, quelle parole gli risuonavano dentro e gli facevano male. Affondavano dentro e facevano di tutto per fargli sentire che esse erano lì.

 

Si sentiva di essere stato, per lo meno, ingiusto nei suoi confronti.

 

E anche se non si potevano obiettivamente trovare troppe scusanti per il comportamento da *emerito stronzo* di Lenders, oltretutto ammesso pure da lui stesso, Price si sentì come se fosse stato almeno colpevole quanto lui.

 

L’aveva accusato, dentro di sé, mille e mille volte di non aver capito niente. Di lui, delle cose che avevano diviso. Ora Benji si trovava di fronte al fatto, lampante, che neppure lui aveva capito niente di Lenders. Delle cose che per lui erano importanti. Del significato di certi sguardi che a Benji erano sembrati solo, quasi, degli omaggi silenziosi e che invece, richiudevano dentro tutto un universo che non avrebbe mai creduto.

 

E Warner? Aveva pensato fosse roso dalla gelosia più bieca e volgare, e invece.. era *preoccupato* davvero. Di un amico. Di una persona *importante*.

 

Anche Price avrebbe voluto uccidere chiunque avesse osato fare del male a una persona che occupava un posto importante nel suo cuore, e non era necessario che ci fosse andato a letto.. per esempio, se avesse scoperto che qualcuno avesse fatto soffrire Tom la prima cosa che gli sarebbe venuta in mente di fare era di trovare un modo per piazzargli una bomba sotto la macchina. E il modo lo avrebbe trovato, di certo..

 

Tom era suo amico, e gli voleva bene, davvero, anche se erano stati lontani e lui, ultimamente, non gli aveva prestato troppa attenzione essendo assorbito nella ‘missione Lenders’.

 

Chiuse gli occhi. Probabilmente Warner conosceva quella strana vulnerabilità nascosta di Lenders, proprio come lui conosceva la devastante, gentile timidezza di Beker: perché erano amici.

 

Poteva ora criticare Ed per il suo comportamento?

 

No.

 

Ma, in tutta coscienza, non aveva mai pensato, non aveva mai potuto *credere* che quell’Alex, o qualcun altro essere umano, potesse aver avuto una portata così devastante per Mark. Fosse stato suo amico, oltre che ‘gioco’ per qualche notte al mese, avrebbe potuto.. cosa?

 

Non avrebbe potuto fare niente!

 

Parlare era fuori discussione: Lenders era allergico a qualunque discorso che necessitasse di più di due battute e.. però con Warner parlava! Warner era un suo amico, e lui?

 

Era stato davvero solo un gioco, anche per lui? Era vero che a volte si vivono delle menzogne solo perché si ha bisogno di sentirsi coinvolti di qualcosa? Lui era solo *convinto* di essere stato innamorato di Lenders?

 

Lui aveva solo bisogno di essere innamorato di qualcuno di lontano, per cullarsi nel suo pensiero senza avercelo troppo tra i piedi perché la cosa l’avrebbe distratto e infastidito?

 

Troppe domande, che portavano troppo lontano, e, come unico appiglio solo una voce che non era diretta a lui. Ma che parlava *di* lui.

 

Una voce che conosceva, ma che non aveva mai sentita avvolgersi di sfumature così meste, dolenti. Non credeva che in essa ci potesse mai essere del rimorso.

 

Forse era stupido, ma Price si trovò a sorridere pensando che a Mark *dispiaceva* per quello che era successo, per come era finita, come se una cosa come la loro avesse meritato più di quello che era stato dato come capitolo finale.

 

Lentamente mosse un passo indietro, e un altro, e un altro. Quando fu certo di essere sufficientemente lontano si mise a correre.

 

Doveva.. parlare con qualcuno o sarebbe esploso. Ma lui non era solo come a volte amava atteggiarsi. Lui sapeva, da sempre, di chi fidarsi, proprio come Mark: persone con le quali aveva condiviso così tanti piccoli segreti da non poterli neppure contare, e parti della sua vita e sogni, speranze..

 

Dopo un giro alternativo lungo l’ampio parco si ritrovò nella hall. Price si guardò intorno poi si diresse verso Ross.

 

“Proprio tu, Benji!”

 

“Dopo, Julian. Dov’è Hutton? E Beker? Devo parlare con loro.”

 

Uno sguardo strano, che Price non riuscì a decifrare del tutto.

 

“Vieni. Credo che anche loro abbiano qualcosa da dirti.”

___

 

Cercava di capire cosa lo avesse spinto ad accettare quella cosa assurda, ma per quanto ci pensasse, non riusciva a trovare una risposta degna di tale nome. Forse non c’era assolutamente nessunissima risposta da darsi, ed era solo che era davvero idiota come gli diceva Claudio e che bastava che qualcuno accennava il fatto di ‘fare un favore a Lenders’, o ‘dare una mano a Lenders’ o ‘qualunque cosa centrasse Lenders’ e lui andava in panico.

 

Non era che andasse proprio in panico..

 

Sbuffò guardando la campagna correre ai lati dell’autostrada, tranquilla e luminosa.

 

Claudio canticchiava il motivetto che usciva dalle casse e sembrava perso in chissà che pensiero. Erano tutti stanchi ed, in effetti, non aveva torto il loro Mister quando diceva che avrebbero dovuto concentrarsi solo sulle future partite e non, pure, sui guai delle altre squadre.

 

Dopo tutto, però, lui era il *capitano* di Lenders.. d’accordo, stavano giocando nella Nazionale, ma loro erano giocatori professionisti e anche solo a fare un conto sommario, si poteva paragonare le volte in cui avevano giocato con la loro squadra rispetto a quelle in cui avevano vestito la maglia della Nazionale?

 

E poi, in un certo modo, era *colpa* sua. Se non fosse stato lui a farli conoscere, di certo uno come Mark non avrebbe mai rivolto la parola ad Alex. Figurarsi! Faceva fatica a rivolgere la parola pure ai suoi compagni di squadra!

 

Fortuna che il Mister della Nazionale giapponese gli aveva dato il permesso di andare a trovare Lenders e che quel Ross sembrava al corrente della situazione.

 

Antonio scosse lievemente il capo, obbligandosi a non voltarsi, tenendo gli occhi fissi sul mondo fuori.

 

L’albergo si avvicinava a una velocità decisamente troppo sostenuta per i suoi gusti, ma se quella cosa doveva finire, bhè, il prima possibile sarebbe stato un bene.

 

L’autista scalò le marce entrando nel viale alberato che avrebbe portato all’ingresso di quel posto.

 

“Non *puoi* mettere un piede fuori di qui senza la mia precisa autorizzazione, chiaro?”

 

“Antonio, non mi sembra..”

 

Uno sbuffo trattenuto, Antonio si voltò di scatto e, come tutte le volte che guardava Alex da quando aveva ‘saputo’, fu sul punto di prenderlo a schiaffi. *Almeno* a schiaffi.

 

“Non mi frega cosa ti sembra. Fosse stato per me qui non ci saresti venuto. Sei qui perché qualcuno ti ha invitato. Ma non farai un passo finché io non ti dirò che puoi farlo.”

 

“Non sei il mio capitano.”

 

Sembrava divertito, il *bastardo*.

 

“E tu sarai anche il fottuto premio Pulitzer dell’anno, ma ti giuro che..”

 

“Sembri geloso.”

 

Suadente. Terribile.

 

Antonio sentì la gola chiudersi. Claudio si voltò, allarmato, a fissarli dal sedile anteriore.

 

“Se mi fai saltare il rendimento della squadra solo perché sei uno *stronzo*, Alex, ti giuro che ti ammazzo.”

 

I freni scivolarono delicatamente sulla ghiaia chiara e il veicolo si fermò.

 

Antonio fece schiantare la portiera con tutta la forza che riuscì a radunare ed evitò abilmente lo sguardo di Claudio.

 

Sapeva perfettamente cosa volesse dirgli, come se non gliel’avesse già detto miriadi di volte! ‘Il rendimento della squadra’.. si chiese da dove gli era uscito.

___

 

Mark aveva passato il pomeriggio fuori, facendo praticamente niente e si stava annoiando a morte. Con uno sbuffo si tirò in piedi. Crogiolarsi nell’autocompatimento, oltre a non essere da lui, era pure terribilmente monotono, soprattutto se continuava a rimuginare dentro di sé cose trite e ritrite. Non era che le cose potessero cambiare stando lì coricati a fissare il cielo.

 

Non aveva mai creduto che, stando seduti sulla riva del fiume, prima o poi si sarebbe visto il cadavere del proprio nemico trasportato dalla corrente. E, ora come ora, non aveva nessun nemico che non fosse lui stesso. Socchiuse gli occhi ringhiando una maledizione mentre cercava di distribuire il peso in maniera decente fra la gamba rimasta sana e le stampelle.

 

Per poco non perse l’equilibrio a sentire una voce che lo chiamava.

 

“Ehi Lenders!”

 

Antonio?! Che ci faceva lì? Avrebbe dovuto essere in un ritiro blindatissimo, fra pochi giorni loro avrebbero avuto la partita di accesso alle semifinali..

 

“Capitano.”

 

L’italiano gli si fermò a pochi passi di distanza guardandosi intorno, poi gli sorrise.

 

“Ciao Tigre. Vedo che non sei combinato male come dicono certi giornalisti.”

 

Non era facile cercare di assumere un’aria grave quando si stava appena in bilico su dei trampolini metallo, e soprattutto quando non si riusciva scacciare di dosso lo stupore di una presenza. Gli avevano detto che era alla partita, lo sapeva e, tutto sommato, poteva anche aspettarselo, ma il suo essere lì, in quel momento cosa significava? Non era certo che la lieve inquietudine che gli era nata dentro a quel pensiero potesse essere del tutto senza senso.

 

La cosa più strana? Il fatto che mai, neppure le prime volte in cui si erano rivolti uno sguardo, Mark s’era sentito così sulle spine, di fronte ad Antonio. In più Mark si sentiva raramente ansioso.

 

Preoccupato magari, arrabbiato, nervoso, ma l’ansia non era una reazione che gli era propria.

 

“Cosa è successo? Che fai qui?”

 

“Sono solo venuto a vedere come stavi!– dannazione, ma riusciva mai a stare senza sorridere per più di dieci secondi? Eppure durante le partite sembrava un tipo così serio.. solitamente *sembrava* un tipo serio e composto, cosa che veniva smentita dopo appena un attimo di conoscenza più approfondita, ma quello era un altro discorso.– Come va?”

 

Mark scosse il capo. Aveva sempre considerato Antonio un amico, ma ora l’idea di avercelo lì non lo faceva troppo felice. Doveva essere.. forse una specie di senso di inferiorità per il fatto di essere infortunato? Non lo sapeva: di quelle cose non ci aveva mai capito molto, però sapeva, al contrario di tanti altri, che Antonio capiva, e capiva fin troppo bene. Mentirgli non sarebbe servito a nulla.

 

Si scoprì ad avere sul viso un sorriso amaro: come se mai mentire, e mentirsi, serviva *mai* a qualcosa..

 

“Va. – si strinse nelle spalle - Voglio giocare. I medici mi hanno dato non so quanti giorni di fermo ma io divento matto se passo un altro giorno così. E poi non mi fa più male.”

 

“Vedi di romperti davvero così poi ti dobbiamo tenere in panchina per tutta la stagione!”

 

Mark mosse un paio di passi zoppicanti, aveva una strana espressione.

 

“Se mi ‘rompessi’ davvero durante questi Mondiali non credo che a Torino firmerebbero il rinnovo del mio contratto”

 

Antonio lo fissò stupito, come se non l’avesse mai visto. Sembrava.. preoccupato?  Sicuramente stupito.

 

“Non hai firmato prima di partire?!”

 

“No. Non chiedermi per che motivo legale ma dovevo aspettare. Il mio manager è rimasto là per.. per le trattative, credo. Anche se adesso gli sarà rimasto poco da trattare.”

 

Antonio si sentì, inaspettatamente, come.. tradito. Deluso, incredulo. Aveva visto tutte le partite di Lenders. Non se ne era perso neppure cinque minuti: aveva saltato allenamenti, conferenze stampe, ore di riposo, anche, per tenere d’occhio quel giapponese che avevano in squadra col contratto agli sgoccioli. Anche il loro mister l’aveva fatto, e anche l’allenatore che era rimasto a Torino. Sicuramente anche il Presidente: Lenders non era un giocatore che si poteva buttare via così. Era certo che avessero firmato delle clausole di rinnovo ben più strette di così.. invece?

 

Invece pareva di no. O almeno, Lenders parlava di non giocare più a Torino come.. un dato di fato, quasi. Aveva uno strano sguardo, e non gli piaceva quella vista, soprattutto associato a certi discorsi.

 

Dopo due mesi sarebbe ripartito il campionato e Antonio, fino a un secondo prima, sapeva di avere di fronte agli occhi la rosa dei giocatori titolari. E c’era Lenders. Non poteva *non* esserci!

 

Per due anni avevano lavorato su un giocatore di immenso talento ma grezzo e lui s’era lasciato plasmare, aveva imparato qualunque cosa avesse dovuto con una cocciutaggine da fare invidia a un mulo, era entrato nel gioco della squadra, aveva capito quanto fosse differente il calcio in Europa rispetto a quello dell’Asia. Era *certo* si fosse anche trovato bene. Si erano divertiti.

 

Ed era diventato una piccola stella col pallone: era bravo, pure un cieco se ne sarebbe accorto.. e ora se lo lasciavano scappare?! Non era questo che aveva intuito da alcune affermazioni del Presidente. Prima di partire, almeno, l’allenatore la pensava pure lui così, per questo gli aveva chiesto di ‘tenerlo d’occhio’. Di cercare di aguzzare le orecchie e sentire se mai qualche altra squadra si fosse fatta troppo interessata.

 

Cosa era successo?

 

Lenders aveva fatto dei mondiali *strepitosi*.

 

“Non è possibile. Non si lasceranno scappare uno come te, in qualunque stato tu sia.”

 

Mark quasi sorrise.

 

“Andiamo! Se mi saltassero i legamenti crociati *tu* mi terresti?! – aspettò un attimo una risposta che, ovviamente, non venne – Anche se non ci capisco niente di roba economica, non sono così stupido.”

 

Antonio si scosse: sorrise infilandosi le mani in tasca. Non era la società, allora.

 

O almeno era quello che gli veniva da pensare guardandolo, ora, dritto negli occhi. Non era la società, poteva essere *lui*. Poteva dargli torto? Dopo tutto quello che sapeva? Dopo tutto quello che era successo?

 

Se davvero Alex fosse stato la causa di una cosa simile, Antonio giurò che lo avrebbe ammazzato lì con le sue stesse mani. Così in giro per il mondo avrebbero avuto un *motivo* per continuare a dire che gli italiani erano tutti mafiosi..

 

“E’ perché non vuoi più tornare a Torino? E’ per questo?”

 

Mark, che stava per muovere qualche passo dirigendosi verso la hall di fronte alla quale era parcheggiata la macchina nera della società, si fermò di colpo. Guardò Antonio e lo vide, stranamente, arrabbiato.

 

Antonio sembrava non arrabbiarsi mai neppure di fronte ai gol perduti, a quelli non assegnati. Alle sconfitte, alle delusioni. Per due anni Antonio era stato lì, e aveva sorriso quando nessun altro aveva il coraggio di farlo e, con le parole, dissipava la delusione.

 

‘Analizzare gli errori’, diceva lui. Diceva pure che era una cosa utile, che a volte serviva di più una determinata sconfitta che una vittoria mediocre per fare meglio il punto della situazione, per vedere cosa c’era che non andava, e che a volte la sfortuna arrivava addosso tra capo e collo e che era sbagliato drammatizzare, che era stupido e infantile lasciarsi abbattere da una giornata storta.

 

Che succedeva, ma che erano una squadra, ed erano tutti lì perché le cose si potevano rimettere in piedi, si *doveva* rimetterle in piedi. E l’avrebbero fatto insieme.. perché erano una squadra.

 

Ora Antonio era lì da solo, non c’era nessuna squadra. Per questo osava mostrarsi arrabbiato? Quello che lui considerava una debolezza la pativa solo quando era lui individuo a dover fronteggiare una situazione ‘sbagliata’?

 

Mark abbassò il capo, non era lui l’esperto di certe sottigliezze. Non era compito suo analizzare le reazioni del suo capitano, e, forse, non ci sarebbe mai riuscito. Non gli venne neppure in mente per una frazione di secondo che quello potesse essere un insulto, che Antonio stesse potere pensando che lui avesse paura.

 

Di tornare a Torino.

 

Di affrontare la squadra.

 

Di.. era una cosa a cui avrebbe già dovuto pensare da solo. Forse Antonio s’era semplicemente messo a credere alla cosa più ovvia che avesse trovato in quel frangente.

 

Torino?

 

Torino.. Torino, nella sua testa, rimaneva legata a .. bei ricordi. Nonostante Alex.

 

No, non ci aveva mai davvero pensato: forse avrebbe dovuto cambiare casa, forse avrebbe dovuto andare a stare al residence con il resto della squadra. Forse. Ma non aveva mai *immaginato* di lasciare Torino. La squadra. Antonio. Il mister. E..

 

Era.. sarebbe stato normale farlo, magari seguendo un ingaggio più favorevole, oppure per.. per un qualsiasi motivo.

 

Non *voleva* lasciare Torino.

 

“No. E’ solo che.. è ragionevole se non firmassero, Capitano. Non te ne fai niente di un attaccante da lasciare da panchina.”

 

“Non sono fatti che ci riguardano, questi. Sai che nei contratti non ci metto mai parola: non spetta a me, però..”

 

Era un avvenimento lasciare Antonio senza parole. Mark sorrise.

 

“Andiamo, non vorrai stare qui in piedi ancora per molto, no?”

 

Antonio tacque. Per un lungo, lunghissimo istante si richiese per l’ennesima volta come dirglielo. Avrebbe voluto trovare un modo.. almeno gentile. Non avrebbe voluto sbatterglielo addosso, avrebbe voluto chiedergli se.. se faceva ancora male, e quanto. Avrebbe voluto cercare di capire se era una cosa che poteva dire oppure se era meglio andarsene, lasciando le cose così come stavano.

 

Lui l’avrebbe preferito.

 

Ma non toccava a lui scegliere. Era lì per.. perché glielo avevano chiesto, per una telefonata durata due ore con Ross, perché Alex aveva contattato *lui*, dopo non essere riuscito a raggiungere Mark con i suoi mezzi. Perché era il suo capitano, era suo dovere, e perché era suo amico e perché..

 

“C’è Alex.”

 

Mark divenne impenetrabile come una statua. Come se le sue parole fossero state avvelenate, per renderlo incapace di reagire. Forse anche di pensare. Antonio sperò che potessero servire anche a non fargli sentire dolore, ma non ne era per niente certo.

 

“Qui?”

 

Si aspettava una reazione ben più impulsiva, o forse niente del tutto. Un Mark così controllato era.. Antonio strinse i denti.

 

“Vuoi incontrarlo?”

 

‘Dì di no. Dì di no.’

 

Mark socchiuse appena le labbra. Parve cercare una risposta che era nascosta dentro di sé, e dovesse scavare a fondo per arrivarci, per strapparsela fuori.

 

‘Dì di no..”

 

Antonio seppe la sua risposta prima che Mark la formulasse. L’aveva vista farsi strada nel suo sguardo duro e appuntito come schegge di metallo brunito, l’aveva vista farlo tendersi. Se c’era stato un solo motivo perché lui potesse preferire una soluzione piuttosto che l’altra, ora non aveva più importanza.

 

“Sì.”