NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. NOTE 2: avrete notato che in questa fic nomino, a volte, il CT della squadra Giapponese, ma mai per nome (e chi se lo ricorda!!! -.-;). Insomma, non è che lui non esista, ma tanto non mi ‘serve’ e dunque l’ho lasciato in secondo piano, mea culpa!
La Tigre parte XVIII di Dhely
Ross scosse il capo, seccato e divertito di fronte alla reazione tipo: ‘però, caspita! È venuto fino a qui per *lui*.. non è romantico?!’ che, fortunatamente, Beker evitò di esprimere. Si limitò a un:
“E tu che hai fatto, allora?!”
Il volto di Tom mostrava uno stupore genuino e impossibile da controllare, proprio come s’era mostrato sconvolto non appena gli aveva accennato del piccolo ‘incidente’ occorsogli dopo la conferenza.
“Cosa volevi che facessi? Non potevo buttarlo giù da una scarpata, non lo conoscevo neppure. – un ghigno un po’ amaro – L’ho lasciato giù.”
“Nella hall?!”
“Ma sei matto? No, l’ho fatto lasciare per strada. A venti chilometri dalla città più vicina e .. bhè, una decina, credo, da qui. Su quella fantastica stradina serpeggiante che si intuisce appena dalla statale.”
Tom si fermò nel bel mezzo del corridoio con lo sguardo più incredulo che seppe mettere insieme.
“Cosa? Ma..”
“Bhè, sì, l’ho pensato anche io. Se è uno straniero, e da queste parti non è mai venuto, si sarà perduto in qualche bel boschetto pantanoso. Dopo tutto – e sollevò lo sguardo su Oliver, appena unitosi al loro gruppetto – stava per infastidire uno della squadra. E’ il mio *lavoro* fare in modo che questo non avvenga.”
Tom guardò Holly, che sorrise.
“Sei davvero un genio, Ross!”
“Solo perché sono solitamente educato non vuol dire che non sappia essere un po’ stronzo pure io. E ora – si mise le mani sui fianchi, deciso a venire a capo di tutto quel pasticcio – qualcuno si degnerebbe di spiegarmi che diavolo è successo?” ___
Dal passaggio per la semifinale all’incontro c’erano dieci giorni. Non potevano permettersi di sprecarne neppure uno visto i ritmi imposti alla loro squadra per arrivare lì. Così il mister non aveva potuto negare un giorno di assoluto riposo, seguito da un altro, di libertà, che si poteva, chi avesse voluto, trascorrerlo giù in città.
Un po’ di divertimento e una boccata d’aria fresca non avrebbe che fatto bene a quei ragazzi che davvero avevano dato tutto per essere lì. La semifinale se l’erano conquistata con le unghie e con i denti: era soddisfatto di loro, anzi, molto di più.
Lo avevano stupito.
Non si era aspettato un simile spirito di gruppo, visto che conosceva bene i membri che lo componevano. Il passaggio di Lenders a Hutton, poi, di fronte alla porta, era stato davvero un fulmine a ciel sereno. Quel ragazzo non avrebbe potuto trovare un momento migliore per ricordarsi di essere membro di una squadra.
Il trambusto, invece, che regnava perenne nei corridoi e nelle sale comuni, bhè, quello era normale. Era pure normale che qualcuno di loro avesse dato in escandescenze e se le fossero date. D’accordo, picchiarsi dopo una partita così importante, con tutti i giornalisti nella stanza accanto che si sarebbero ammazzati per riprendere tutto non era una delle cose più sagge che quei ragazzini avrebbero potuto mettersi a fare, ma in fondo se si calcolava la dose enorme di stress e la competizione serrata, anche interna, non si poteva aspettare molto di meno.
Il fatto che quell’attaccabrighe di Lenders fosse stato fuori gioco, poi, aveva migliorato la situazione. Per fortuna che in squadra avevano anche tipi posati e razionali che sapevano cosa andava fatto e cosa no.. ___
Danny fissò Mark con uno sguardo sorridente e rilassato, per quanto potesse. Non l’aveva mai visto zoppicare, figurarsi con un tutore ad una gamba. Il Cap.. Mark non sembrava molto entusiasta della cosa, ma lo poteva capire: lui stesso lo considerava un vero e proprio strumento di tortura, seppur mobile, e Mark doveva trovarlo davvero insopportabile.
L’importante era che lo avessero obbligato ad indossarlo solo per non sforzare troppo il ginocchio ma che, probabilmente, avrebbe potuto riprendere a giocare presto. Il ‘presto’ dei medici di solito non collimava affatto con il ‘presto’ di Lenders, il quale intendeva al massimo ‘domani’ di certo non ‘fra cinque o sei giorni’, ma ora Danny non era lì a dare brutte notizie. Né voleva mettersi a litigare con lui.
“Allora, come stai?”
Una specie di ringhio, basso, trattenuto giù nei polmoni e l’altro si mise in piedi.
“Starei meglio se non avessi bisogno delle stampelle. Ma tu credi che sia proprio necessario?”
“Se tu fossi uno ligio ai dettami dei dottori e loro si sentissero sicuri dopo che tu hai assicurato che non sforzerai il ginocchio, sicuramente non ti avrebbero bardato così.”
Mark forse fu sul punto di dire qualcosa, ma si morse un labbro, cercando un equilibrio abbastanza stabile.
“Ok, cambiamo discorso. Mi auguro di poter almeno uscire da questo dannato posto. Mi sta venendo la claustrofobia..”
“Ma certo. Oggi è una splendida giornata, in più siamo tutti in riposo, la maggior parte degli altri è andata in città o a fare un giro da qualche parte. Possiamo andare al parco se ti va. O..”
“Mhm, l’idea di essere circondato da qualcosa di verde che non sia un campo da calcio mi sembra molto allettante. Fai strada?”
Era facile passare il proprio tempo con Danny. Così come, probabilmente, per Danny era semplice e gradevole passare del tempo con lui. Sorrideva e parlava: di tutto e di tutti. Sembrava sapere vita morte e miracoli di chiunque, di qualunque cosa avesse avuto anche solo lontanamente a che fare con la squadra.
Gli sponsor, i giudici di gara, le altre squadre, i giornalisti.
E poi andava spesso a casa Lenders, anche ora che sua madre aveva cambiato casa, e che i suoi fratelli non dovevano più correre il rischio di farsi venire l’ulcera per poter studiare e far ciò che volevano. Grazie a Mark si erano comprati una casa dignitosa, con il giardino, e Danny, a Natale, aveva regalato loro un cucciolo che ora doveva essere divenuto un bel cagnoline, sicuramente viziato. I suoi fratelli, pensò Mark, avevano sempre voluto avere un cane.
Mark sorrise lasciandosi scivolare le stampelle di mano per poi coricarsi, soddisfatto, all’ombra di un alto faggio frusciante. Danny gli si sedette accanto continuando a chiacchierare del più e del meno, soprattutto di ogni cosa non importante gli potesse venire in mente.
Era terribilmente gradevole stare lì, a fare null’altro che sentirselo vicino, che intuire la sua sagoma alta e forte tesa al suo fianco. Mark aveva molti pregi, non era uno stupido e sapeva guardare le persone, sapeva intuire molte cose che non venivano dette ma, di certo, non si era mai accorto dell’effetto che faceva sulla gente quando si mostrava in *quel* modo.
Forse lo sapeva e non voleva farci caso.
Forse credeva di sbagliarsi.
O forse non gliene importava niente.
Danny sorrise al pensarlo in imbarazzo di quel pensiero. Non era una cosa incredibile, per lui che lo conosceva così bene: Mark era molto più schivo di quanto si potesse immaginare e non gli piaceva mai parlare di certe cose.
Ma Mark *era* bello. Danny lo trovava bello: forse non come Ross, non possedeva quel qualcosa di lucente e luminoso, elegante, raffinato che spesso era così attraente da non riuscire a staccare gli occhi, no, ma aveva un fascino ruvido e indifferente. No, non era bello. E poi era terribilmente antipatico, però..
Però era un’emozione da non riuscire a dire, sentirselo lì, accanto, sapendolo in ascolto delle proprie parole. A volte Danny si chiedeva se mai si *meritasse* un’attenzione simile da un campione come Mark. Lenders, però, quell’attenzione gliela dedicava sempre, senza una spiegazione, come se alla fine gli fosse semplicemente dovuta.
Da un lato partiva la siepe che si sarebbe alzata presto e che avrebbe costeggiato, poche decine di metri più in là, un lato del campo da calcio. Di solito da quella direzione arrivavano sempre le urla di incitamento, i fischi, oggi invece era tutto silenzioso. C’era solo il frusciare delle foglie, e il pigolio chiacchierato di chissà che uccellini. Era Patrick l’esperto di ornitologia, lui non avrebbe riconosciuto un usignolo da una rondine, temeva, però era certo che a Mark la cosa non potesse importare un accidente.
E, dunque, se andava bene a Mark..
“Daniel Mellow!?”
Uno della reception stava blaterando il suo nome in giro per il parco, forse anche da un po’, e non se ne era ancora accorto. Non l’avrebbe fatto se Mark non avesse sollevato appena una mano scuotendola nell’aria.
“Hey, Danny, hai intenzione di farlo morire a furia di farlo urlare o intendi rispondergli, prima o poi?”
Sembrava seccato, ma sorrideva.
Mark rilassato: era uno spettacolo e Danny non era certo di volerselo perdere però quel richiamo stava diventando sufficientemente noioso per poterlo ignorare.
“Uff, Mark, mi spiace..”
“Vai. Non ho bisogno di qualcuno per godermi un po’ di pace, sai? E poi non credo che andrò da qualche parte. – aprì un occhio su di lui e sorrideva ancora, un ghigno strano – Prometto che non butterò le stampelle nel lago, non farò il tutore a brandelli e non mi metterò a correre come uno scalmanato di fronte alla prima cosa rotonda che si muova come un pallone. Ok?”
Danny rise e si allontanò più leggero. Sembrava tornato in forma, finalmente sembrava tornato il solito Mark.
Quando incrociò Warner sprizzava ancora euforia.
“Mark?”
“Sta bene. E’ laggiù. Vai a fargli un po’ di compagnia?”
‘Compagnia.’
Ed sospirò. Forse non era proprio quello il termine esatto ma non riuscì a dire quello che pensava a Danny: per la prima volta da settimane lo vedeva rilassato, felice, e l’idea di rompere l’anima anche a lui non era un pensiero entusiasmante. Era un ragazzino, ancora un bambino, per lui e per tutti loro anche se alla fine, era ‘grande’, almeno maturo per riuscire a sopportare tutto quello che avrebbe dovuto. Avevano spesso, lui e Mark, fatto lo sbaglio di sottovalutarlo, di crederlo più fragile di quel che era in effetti, e invece più di una volta si era comportata in maniera ben più equilibrata.. bhè, non che uno dovesse essere chissà chi per mostrarsi più ‘equilibrato’ di lui. O di Lenders.
Mark era proprio lì dove Danny gli aveva detto.
E sembrava non avesse alcuna intenzione di muoversi.
“Hey, Lenders.”
Un sorriso appena appena abbozzato.
“Hey, portiere.”
Silenzio.
I convenevoli fra loro non erano mai stato eccessivi, tanto più non potevano esserlo in quel momento quando Warner sentiva il petto chiuso e pesante da troppi pensieri, troppe emozioni violente e Lender era.. Lenders sembrava *davvero* un gattone che si stesse prendendo il sole, nel cortile di casa.
Una tigre?
Forse anche le tigri avevano quell’espressione di placida soddisfazione, e parevano assolutamente indifese quando si rilassavano. Nessuno poteva vivere perennemente in guerra, neppure contro se stesso.
“Ho saputo che stai meglio. In compenso ci hai fatto prendere un bello spavento!”
“Andiamo, non esagerare. – uno sbuffo – Dovreste essere abituati, Hutton si fa *sempre* male a qualcosa nelle partite. Perché lui sì e io no?”
“Perché tu non sei Hutton!”
Rise.
“Questo mi pare assolutamente chiaro.”
Un nuovo silenzio, Warner si strinse le ginocchia nelle braccia, un groppo in gola che stringeva e tagliava il fiato anche se, forse non ce n’era alcun motivo.
“Come stai?”
Il tono poteva cambiare totalmente il senso di una frase, Ed lo sapeva. Mark lo sapeva.
Un sospiro, in risposta, e dell’altro silenzio, come quella risposta fosse difficile, e dura da sputare fuori dai denti. Anzi, non ‘come se’ ma: *era* pesante da dire. Ma mentire non serviva, non ad Ed, per lo meno. Avrebbe capito comunque, era certo che gli bastava guardarlo, per sapere anche tutto quello che non lui stesso non conosceva.
Come potesse non lo sapeva, però era così, da sempre.
“Abbastanza a pezzi. – Mark si strinse nelle spalle, scrollandosi appena. A volte era più difficile trovare le parole adatte che decidersi di dire ciò che andava detto -Ma sono in piedi. Ci metterò un po’, ma non credo che questa cosa basti ad uccidermi.”
Silenzio.
Non pesante e opprimente, come quello che si erge tra coloro che non sanno come parlarsi, ma neppure come quello cristallino e freddo che li accompagnava da una vita, stalattiti di giaccio che svettavano nell’aria, tagliando la luce, rifrangendola e ampliandola, ma modificando la capacità di vedere, confondendo i sensi, creando echi infiniti dalla provenienza ignota.
No: era qualcosa di così chiaro, trasparente e pulito che Ed ebbe quasi paura a tirare un fiato dietro l’altro. Osservò Mark come sforzarsi ed aprire gli occhi: fissare il cielo con attenzione, lentamente a cercare come una risposta a qualcosa che nessuno dei due conosceva.
Non c’era nulla di scritto lassù, nel cielo sopra di loro e Ed si trovò a sorridere amaro.
“E Price?”
Attese.
Attese che Mark si alzasse da dove era coricato per inficcargli quelle stampelle in gola. Per prenderlo per i capelli e farlo affogare in quella pozza artificiale che quelli dell’hotel s’erano piccati a chiamare lago. Per.. bhè, per farlo morire in qualche maniera dolorosa e immediata.
Ma l’attesa si colorò solo di un respiro strano: Ed lo fissò e lo vide sorridere.
C’era qualcosa di estremamente doloroso in quel torcersi di labbra, in quella fronte corrugata, in quel velo, leggero, che gli si era posato sul volto. Ma Mark rispose: non farlo sarebbe stato da vigliacchi e Lenders poteva essere moltissime cose ma aveva orgoglio bastante da divorare il mondo. Non si sarebbe mai tirato indietro, di fronte a nulla.
“Price. – Ed non si aspettava quel tono in risposta. Morbido, quasi sussurrato. Ma era da *Mark*.- Sono stato un bastardo con lui.”
Non c’era un minimo di dolcezza in lui. Non c’era nulla se non la granitica certezza di quello che aveva detto.
“Sei certo che non se lo meritasse?”
Un piccolo sorriso.
“No. Abbiamo giocato, io e lui: abbiamo giocato l’uno con l’altro e con noi stessi. A volte è gradevole fingere di essere ciò che non siamo. Di essere il centro della vita e dei pensieri di un altro. Quale fosse il *suo* gioco non lo so, so solo che.. – torse appena il busto per guardare Ed negli occhi, come per assicurarsi che fosse davvero lì. - .. dannazione, Warner, di tutte le persone tu sei proprio l’ultimo a cui pensavo che sarei andato a raccontarlo.”
Ed sorrise, che sciocco che era, a volte, Mark! A chi mai poteva dirlo se non a lui?! Lui era.. il suo portiere, il suo amico, ‘l’alta metà della sua metà di campo’ come aveva detto una volta il loro vecchio allenatore.
“Perché me lo dici, allora?”
“Perché sei anche l’unico a cui *posso* dirlo. – dischiuse appena le labbra, un sospiro, intrecciando le braccia dietro la testa, riprendendo a fissare il cielo. Ed pensò che forse avrebbe dovuto sentirsi a disagio, lì in quella situazione, ma si sentiva semplicemente al suo posto. Lui e Mark avevano sempre parlato di tutto. Già, a chi avrebbe potuto dirlo, se non a *lui*.. e, poi, Mark non era mai riuscito a dire menzogne. Non aveva mai *voluto* - Price è stato.. bello. Intenso. Gratificante. Forse anche troppo piacevole. Solo che, accanto a quel ‘gioco’ a un certo punto, è arrivato qualcosa di ben più serio. E io ho fatto come quei bambini che, di fronte a un giocattolo nuovo, dimenticano quello vecchio.”
Warner sbuffò qualcosa mentre, dentro, sentiva la mente e il cuore correre e affannarsi a rincorrersi per capire, ricordare, sentire..
“Stai diventando melodrammatico, Lenders. Mi preoccupo.”
“Fai bene a preoccuparti. Ci sono state cose che.. mi hanno fatto diventare una persona che io stesso non sapevo riconoscere. C’è stato uno che ha fatto diventare me un giocattolo e fino a due giorni fa credevo che fosse tutto normale. Price è .. una storia finita ma non chiusa.”
Ed lo fissò decisamente stupefatto. Mark non mentiva, Mark non esagerava mai. Ma di *sicuro* non amava mostrarsi fragile. E cos’era, ora, se non quello?
Mark, che affrontava sempre tutto senza mai chinare il capo. Mark che non si tirava mai indietro. Mark che non si era mai ritrovato a piangere su ciò che era successo nel suo passato, che considerava i propri errori come un qualcosa da non ripetere mai più e, insieme, da cancellare quasi dalla stessa esistenza.
Mark non lasciava mai porte aperte alle sue spalle.
“Cosa intendi con ‘non chiusa’?
“Me ne sono andato semplicemente.. volandogli le spalle e ci sono cose che non si può abbandonare così.”
“*Tu* credi che ci siano parole che possano spiegare.. cosa vuoi spiegare, poi, Lenders?” non si poteva spiegare un sentimento, non si poteva spiegare il legame che univa due persone. Anche se si voleva farlo, anche se si era in grado di giocare con le parole. Lenders lo sapeva, lo sapeva bene, lo sapeva tanto quanto lui.
“Non lo so. Forse non ho più niente da dirgli. Forse ho già detto anche troppo. Qualunque cosa sia successa fra voi due sappi che sarò sempre dalla tua parte, Ed, ma sii consapevole anche del fatto che sono stato *davvero* uno stronzo con lui.”
“Tu sei sempre uno stronzo con tutti. – un qualcosa di leggero, come per cercare di sdrammatizzare la situazione, per rendere più lieve il peso che entrambi sentivano sul cuore. Perché il dolore che schiacciava un cuore nel rimorso non aveva mai senso, e non serviva. – Ti ricordi? Questo è il tuo *ruolo*, Lenders. Se mi diventi un cuore tenero come si fa?!”
“Vuol dire che sarà la prima e ultima volta in cui mi sentirai chiedere scusa a qualcuno.”
“Avvisami in anticipo che chiamo pure i giornalisti, è una cosa da immortalare a futura memoria.”
Uno sbuffo lievemente divertito, il segno che Mark aveva capito, ed esprimeva la sua gratitudine in quel modo.
“E tu, perché hai litigato con Price?”
“Non ho litigato. Ci ho fatto a cazzotti.”
Mark arcuò elegante un sopraciglio a quella puntualizzazione.
“E il motivo?”
Un silenzio lievemente imbarazzato. Ci sono cose che, a volte, si ha più paura a dire che non a udire.
“Sono convinto che sia in parte colpa sua se .. avevi il cuore a pezzi.”
Un sussulto secco, udibile, come chi è colpito in contropiede. E una voce amarissima.
“Adesso come adesso credo sarebbe stato molto meglio se fosse stato Price. Vorrei non averlo mai incontrato.”
“Alex?”
“Alex.” Ross scosse il capo, seccato e divertito di fronte alla reazione tipo: ‘però, caspita! È venuto fino a qui per *lui*.. non è romantico?!’ che, fortunatamente, Beker evitò di esprimere. Si limitò a un:
“E tu che hai fatto, allora?!”
Il volto di Tom mostrava uno stupore genuino e impossibile da controllare, proprio come s’era mostrato sconvolto non appena gli aveva accennato del piccolo ‘incidente’ occorsogli dopo la conferenza.
“Cosa volevi che facessi? Non potevo buttarlo giù da una scarpata, non lo conoscevo neppure. – un ghigno un po’ amaro – L’ho lasciato giù.”
“Nella hall?!”
“Ma sei matto? No, l’ho fatto lasciare per strada. A venti chilometri dalla città più vicina e .. bhè, una decina, credo, da qui. Su quella fantastica stradina serpeggiante che si intuisce appena dalla statale.”
Tom si fermò nel bel mezzo del corridoio con lo sguardo più incredulo che seppe mettere insieme.
“Cosa? Ma..”
“Bhè, sì, l’ho pensato anche io. Se è uno straniero, e da queste parti non è mai venuto, si sarà perduto in qualche bel boschetto pantanoso. Dopo tutto – e sollevò lo sguardo su Oliver, appena unitosi al loro gruppetto – stava per infastidire uno della squadra. E’ il mio *lavoro* fare in modo che questo non avvenga.”
Tom guardò Holly, che sorrise.
“Sei davvero un genio, Ross!”
“Solo perché sono solitamente educato non vuol dire che non sappia essere un po’ stronzo pure io. E ora – si mise le mani sui fianchi, deciso a venire a capo di tutto quel pasticcio – qualcuno si degnerebbe di spiegarmi che diavolo è successo?” ___
Dal passaggio per la semifinale all’incontro c’erano dieci giorni. Non potevano permettersi di sprecarne neppure uno visto i ritmi imposti alla loro squadra per arrivare lì. Così il mister non aveva potuto negare un giorno di assoluto riposo, seguito da un altro, di libertà, che si poteva, chi avesse voluto, trascorrerlo giù in città.
Un po’ di divertimento e una boccata d’aria fresca non avrebbe che fatto bene a quei ragazzi che davvero avevano dato tutto per essere lì. La semifinale se l’erano conquistata con le unghie e con i denti: era soddisfatto di loro, anzi, molto di più.
Lo avevano stupito.
Non si era aspettato un simile spirito di gruppo, visto che conosceva bene i membri che lo componevano. Il passaggio di Lenders a Hutton, poi, di fronte alla porta, era stato davvero un fulmine a ciel sereno. Quel ragazzo non avrebbe potuto trovare un momento migliore per ricordarsi di essere membro di una squadra.
Il trambusto, invece, che regnava perenne nei corridoi e nelle sale comuni, bhè, quello era normale. Era pure normale che qualcuno di loro avesse dato in escandescenze e se le fossero date. D’accordo, picchiarsi dopo una partita così importante, con tutti i giornalisti nella stanza accanto che si sarebbero ammazzati per riprendere tutto non era una delle cose più sagge che quei ragazzini avrebbero potuto mettersi a fare, ma in fondo se si calcolava la dose enorme di stress e la competizione serrata, anche interna, non si poteva aspettare molto di meno.
Il fatto che quell’attaccabrighe di Lenders fosse stato fuori gioco, poi, aveva migliorato la situazione. Per fortuna che in squadra avevano anche tipi posati e razionali che sapevano cosa andava fatto e cosa no.. ___
Danny fissò Mark con uno sguardo sorridente e rilassato, per quanto potesse. Non l’aveva mai visto zoppicare, figurarsi con un tutore ad una gamba. Il Cap.. Mark non sembrava molto entusiasta della cosa, ma lo poteva capire: lui stesso lo considerava un vero e proprio strumento di tortura, seppur mobile, e Mark doveva trovarlo davvero insopportabile.
L’importante era che lo avessero obbligato ad indossarlo solo per non sforzare troppo il ginocchio ma che, probabilmente, avrebbe potuto riprendere a giocare presto. Il ‘presto’ dei medici di solito non collimava affatto con il ‘presto’ di Lenders, il quale intendeva al massimo ‘domani’ di certo non ‘fra cinque o sei giorni’, ma ora Danny non era lì a dare brutte notizie. Né voleva mettersi a litigare con lui.
“Allora, come stai?”
Una specie di ringhio, basso, trattenuto giù nei polmoni e l’altro si mise in piedi.
“Starei meglio se non avessi bisogno delle stampelle. Ma tu credi che sia proprio necessario?”
“Se tu fossi uno ligio ai dettami dei dottori e loro si sentissero sicuri dopo che tu hai assicurato che non sforzerai il ginocchio, sicuramente non ti avrebbero bardato così.”
Mark forse fu sul punto di dire qualcosa, ma si morse un labbro, cercando un equilibrio abbastanza stabile.
“Ok, cambiamo discorso. Mi auguro di poter almeno uscire da questo dannato posto. Mi sta venendo la claustrofobia..”
“Ma certo. Oggi è una splendida giornata, in più siamo tutti in riposo, la maggior parte degli altri è andata in città o a fare un giro da qualche parte. Possiamo andare al parco se ti va. O..”
“Mhm, l’idea di essere circondato da qualcosa di verde che non sia un campo da calcio mi sembra molto allettante. Fai strada?”
Era facile passare il proprio tempo con Danny. Così come, probabilmente, per Danny era semplice e gradevole passare del tempo con lui. Sorrideva e parlava: di tutto e di tutti. Sembrava sapere vita morte e miracoli di chiunque, di qualunque cosa avesse avuto anche solo lontanamente a che fare con la squadra.
Gli sponsor, i giudici di gara, le altre squadre, i giornalisti.
E poi andava spesso a casa Lenders, anche ora che sua madre aveva cambiato casa, e che i suoi fratelli non dovevano più correre il rischio di farsi venire l’ulcera per poter studiare e far ciò che volevano. Grazie a Mark si erano comprati una casa dignitosa, con il giardino, e Danny, a Natale, aveva regalato loro un cucciolo che ora doveva essere divenuto un bel cagnoline, sicuramente viziato. I suoi fratelli, pensò Mark, avevano sempre voluto avere un cane.
Mark sorrise lasciandosi scivolare le stampelle di mano per poi coricarsi, soddisfatto, all’ombra di un alto faggio frusciante. Danny gli si sedette accanto continuando a chiacchierare del più e del meno, soprattutto di ogni cosa non importante gli potesse venire in mente.
Era terribilmente gradevole stare lì, a fare null’altro che sentirselo vicino, che intuire la sua sagoma alta e forte tesa al suo fianco. Mark aveva molti pregi, non era uno stupido e sapeva guardare le persone, sapeva intuire molte cose che non venivano dette ma, di certo, non si era mai accorto dell’effetto che faceva sulla gente quando si mostrava in *quel* modo.
Forse lo sapeva e non voleva farci caso.
Forse credeva di sbagliarsi.
O forse non gliene importava niente.
Danny sorrise al pensarlo in imbarazzo di quel pensiero. Non era una cosa incredibile, per lui che lo conosceva così bene: Mark era molto più schivo di quanto si potesse immaginare e non gli piaceva mai parlare di certe cose.
Ma Mark *era* bello. Danny lo trovava bello: forse non come Ross, non possedeva quel qualcosa di lucente e luminoso, elegante, raffinato che spesso era così attraente da non riuscire a staccare gli occhi, no, ma aveva un fascino ruvido e indifferente. No, non era bello. E poi era terribilmente antipatico, però..
Però era un’emozione da non riuscire a dire, sentirselo lì, accanto, sapendolo in ascolto delle proprie parole. A volte Danny si chiedeva se mai si *meritasse* un’attenzione simile da un campione come Mark. Lenders, però, quell’attenzione gliela dedicava sempre, senza una spiegazione, come se alla fine gli fosse semplicemente dovuta.
Da un lato partiva la siepe che si sarebbe alzata presto e che avrebbe costeggiato, poche decine di metri più in là, un lato del campo da calcio. Di solito da quella direzione arrivavano sempre le urla di incitamento, i fischi, oggi invece era tutto silenzioso. C’era solo il frusciare delle foglie, e il pigolio chiacchierato di chissà che uccellini. Era Patrick l’esperto di ornitologia, lui non avrebbe riconosciuto un usignolo da una rondine, temeva, però era certo che a Mark la cosa non potesse importare un accidente.
E, dunque, se andava bene a Mark..
“Daniel Mellow!?”
Uno della reception stava blaterando il suo nome in giro per il parco, forse anche da un po’, e non se ne era ancora accorto. Non l’avrebbe fatto se Mark non avesse sollevato appena una mano scuotendola nell’aria.
“Hey, Danny, hai intenzione di farlo morire a furia di farlo urlare o intendi rispondergli, prima o poi?”
Sembrava seccato, ma sorrideva.
Mark rilassato: era uno spettacolo e Danny non era certo di volerselo perdere però quel richiamo stava diventando sufficientemente noioso per poterlo ignorare.
“Uff, Mark, mi spiace..”
“Vai. Non ho bisogno di qualcuno per godermi un po’ di pace, sai? E poi non credo che andrò da qualche parte. – aprì un occhio su di lui e sorrideva ancora, un ghigno strano – Prometto che non butterò le stampelle nel lago, non farò il tutore a brandelli e non mi metterò a correre come uno scalmanato di fronte alla prima cosa rotonda che si muova come un pallone. Ok?”
Danny rise e si allontanò più leggero. Sembrava tornato in forma, finalmente sembrava tornato il solito Mark.
Quando incrociò Warner sprizzava ancora euforia.
“Mark?”
“Sta bene. E’ laggiù. Vai a fargli un po’ di compagnia?”
‘Compagnia.’
Ed sospirò. Forse non era proprio quello il termine esatto ma non riuscì a dire quello che pensava a Danny: per la prima volta da settimane lo vedeva rilassato, felice, e l’idea di rompere l’anima anche a lui non era un pensiero entusiasmante. Era un ragazzino, ancora un bambino, per lui e per tutti loro anche se alla fine, era ‘grande’, almeno maturo per riuscire a sopportare tutto quello che avrebbe dovuto. Avevano spesso, lui e Mark, fatto lo sbaglio di sottovalutarlo, di crederlo più fragile di quel che era in effetti, e invece più di una volta si era comportata in maniera ben più equilibrata.. bhè, non che uno dovesse essere chissà chi per mostrarsi più ‘equilibrato’ di lui. O di Lenders.
Mark era proprio lì dove Danny gli aveva detto.
E sembrava non avesse alcuna intenzione di muoversi.
“Hey, Lenders.”
Un sorriso appena appena abbozzato.
“Hey, portiere.”
Silenzio.
I convenevoli fra loro non erano mai stato eccessivi, tanto più non potevano esserlo in quel momento quando Warner sentiva il petto chiuso e pesante da troppi pensieri, troppe emozioni violente e Lender era.. Lenders sembrava *davvero* un gattone che si stesse prendendo il sole, nel cortile di casa.
Una tigre?
Forse anche le tigri avevano quell’espressione di placida soddisfazione, e parevano assolutamente indifese quando si rilassavano. Nessuno poteva vivere perennemente in guerra, neppure contro se stesso.
“Ho saputo che stai meglio. In compenso ci hai fatto prendere un bello spavento!”
“Andiamo, non esagerare. – uno sbuffo – Dovreste essere abituati, Hutton si fa *sempre* male a qualcosa nelle partite. Perché lui sì e io no?”
“Perché tu non sei Hutton!”
Rise.
“Questo mi pare assolutamente chiaro.”
Un nuovo silenzio, Warner si strinse le ginocchia nelle braccia, un groppo in gola che stringeva e tagliava il fiato anche se, forse non ce n’era alcun motivo.
“Come stai?”
Il tono poteva cambiare totalmente il senso di una frase, Ed lo sapeva. Mark lo sapeva.
Un sospiro, in risposta, e dell’altro silenzio, come quella risposta fosse difficile, e dura da sputare fuori dai denti. Anzi, non ‘come se’ ma: *era* pesante da dire. Ma mentire non serviva, non ad Ed, per lo meno. Avrebbe capito comunque, era certo che gli bastava guardarlo, per sapere anche tutto quello che non lui stesso non conosceva.
Come potesse non lo sapeva, però era così, da sempre.
“Abbastanza a pezzi. – Mark si strinse nelle spalle, scrollandosi appena. A volte era più difficile trovare le parole adatte che decidersi di dire ciò che andava detto -Ma sono in piedi. Ci metterò un po’, ma non credo che questa cosa basti ad uccidermi.”
Silenzio.
Non pesante e opprimente, come quello che si erge tra coloro che non sanno come parlarsi, ma neppure come quello cristallino e freddo che li accompagnava da una vita, stalattiti di giaccio che svettavano nell’aria, tagliando la luce, rifrangendola e ampliandola, ma modificando la capacità di vedere, confondendo i sensi, creando echi infiniti dalla provenienza ignota.
No: era qualcosa di così chiaro, trasparente e pulito che Ed ebbe quasi paura a tirare un fiato dietro l’altro. Osservò Mark come sforzarsi ed aprire gli occhi: fissare il cielo con attenzione, lentamente a cercare come una risposta a qualcosa che nessuno dei due conosceva.
Non c’era nulla di scritto lassù, nel cielo sopra di loro e Ed si trovò a sorridere amaro.
“E Price?”
Attese.
Attese che Mark si alzasse da dove era coricato per inficcargli quelle stampelle in gola. Per prenderlo per i capelli e farlo affogare in quella pozza artificiale che quelli dell’hotel s’erano piccati a chiamare lago. Per.. bhè, per farlo morire in qualche maniera dolorosa e immediata.
Ma l’attesa si colorò solo di un respiro strano: Ed lo fissò e lo vide sorridere.
C’era qualcosa di estremamente doloroso in quel torcersi di labbra, in quella fronte corrugata, in quel velo, leggero, che gli si era posato sul volto. Ma Mark rispose: non farlo sarebbe stato da vigliacchi e Lenders poteva essere moltissime cose ma aveva orgoglio bastante da divorare il mondo. Non si sarebbe mai tirato indietro, di fronte a nulla.
“Price. – Ed non si aspettava quel tono in risposta. Morbido, quasi sussurrato. Ma era da *Mark*.- Sono stato un bastardo con lui.”
Non c’era un minimo di dolcezza in lui. Non c’era nulla se non la granitica certezza di quello che aveva detto.
“Sei certo che non se lo meritasse?”
Un piccolo sorriso.
“No. Abbiamo giocato, io e lui: abbiamo giocato l’uno con l’altro e con noi stessi. A volte è gradevole fingere di essere ciò che non siamo. Di essere il centro della vita e dei pensieri di un altro. Quale fosse il *suo* gioco non lo so, so solo che.. – torse appena il busto per guardare Ed negli occhi, come per assicurarsi che fosse davvero lì. - .. dannazione, Warner, di tutte le persone tu sei proprio l’ultimo a cui pensavo che sarei andato a raccontarlo.”
Ed sorrise, che sciocco che era, a volte, Mark! A chi mai poteva dirlo se non a lui?! Lui era.. il suo portiere, il suo amico, ‘l’alta metà della sua metà di campo’ come aveva detto una volta il loro vecchio allenatore.
“Perché me lo dici, allora?”
“Perché sei anche l’unico a cui *posso* dirlo. – dischiuse appena le labbra, un sospiro, intrecciando le braccia dietro la testa, riprendendo a fissare il cielo. Ed pensò che forse avrebbe dovuto sentirsi a disagio, lì in quella situazione, ma si sentiva semplicemente al suo posto. Lui e Mark avevano sempre parlato di tutto. Già, a chi avrebbe potuto dirlo, se non a *lui*.. e, poi, Mark non era mai riuscito a dire menzogne. Non aveva mai *voluto* - Price è stato.. bello. Intenso. Gratificante. Forse anche troppo piacevole. Solo che, accanto a quel ‘gioco’ a un certo punto, è arrivato qualcosa di ben più serio. E io ho fatto come quei bambini che, di fronte a un giocattolo nuovo, dimenticano quello vecchio.”
Warner sbuffò qualcosa mentre, dentro, sentiva la mente e il cuore correre e affannarsi a rincorrersi per capire, ricordare, sentire..
“Stai diventando melodrammatico, Lenders. Mi preoccupo.”
“Fai bene a preoccuparti. Ci sono state cose che.. mi hanno fatto diventare una persona che io stesso non sapevo riconoscere. C’è stato uno che ha fatto diventare me un giocattolo e fino a due giorni fa credevo che fosse tutto normale. Price è .. una storia finita ma non chiusa.”
Ed lo fissò decisamente stupefatto. Mark non mentiva, Mark non esagerava mai. Ma di *sicuro* non amava mostrarsi fragile. E cos’era, ora, se non quello?
Mark, che affrontava sempre tutto senza mai chinare il capo. Mark che non si tirava mai indietro. Mark che non si era mai ritrovato a piangere su ciò che era successo nel suo passato, che considerava i propri errori come un qualcosa da non ripetere mai più e, insieme, da cancellare quasi dalla stessa esistenza.
Mark non lasciava mai porte aperte alle sue spalle.
“Cosa intendi con ‘non chiusa’?
“Me ne sono andato semplicemente.. volandogli le spalle e ci sono cose che non si può abbandonare così.”
“*Tu* credi che ci siano parole che possano spiegare.. cosa vuoi spiegare, poi, Lenders?” non si poteva spiegare un sentimento, non si poteva spiegare il legame che univa due persone. Anche se si voleva farlo, anche se si era in grado di giocare con le parole. Lenders lo sapeva, lo sapeva bene, lo sapeva tanto quanto lui.
“Non lo so. Forse non ho più niente da dirgli. Forse ho già detto anche troppo. Qualunque cosa sia successa fra voi due sappi che sarò sempre dalla tua parte, Ed, ma sii consapevole anche del fatto che sono stato *davvero* uno stronzo con lui.”
“Tu sei sempre uno stronzo con tutti. – un qualcosa di leggero, come per cercare di sdrammatizzare la situazione, per rendere più lieve il peso che entrambi sentivano sul cuore. Perché il dolore che schiacciava un cuore nel rimorso non aveva mai senso, e non serviva. – Ti ricordi? Questo è il tuo *ruolo*, Lenders. Se mi diventi un cuore tenero come si fa?!”
“Vuol dire che sarà la prima e ultima volta in cui mi sentirai chiedere scusa a qualcuno.”
“Avvisami in anticipo che chiamo pure i giornalisti, è una cosa da immortalare a futura memoria.”
Uno sbuffo lievemente divertito, il segno che Mark aveva capito, ed esprimeva la sua gratitudine in quel modo.
“E tu, perché hai litigato con Price?”
“Non ho litigato. Ci ho fatto a cazzotti.”
Mark arcuò elegante un sopraciglio a quella puntualizzazione.
“E il motivo?”
Un silenzio lievemente imbarazzato. Ci sono cose che, a volte, si ha più paura a dire che non a udire.
“Sono convinto che sia in parte colpa sua se .. avevi il cuore a pezzi.”
Un sussulto secco, udibile, come chi è colpito in contropiede. E una voce amarissima.
“Adesso come adesso credo sarebbe stato molto meglio se fosse stato Price. Vorrei non averlo mai incontrato.”
“Alex?”
“Alex.” |