NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. L’unico che appare in questo capitolo che mi appartiene è Alex di cui poi non sono così orgogliosa da andarne a sbandierare in giro la paternità. NOTE 2: non ho niente, per principio, contro i giornalisti!
La Tigre parte XVII di Dhely
Quando la rabbia evaporava, quando la furia aveva morso il freno e l’aveva spezzato, librandosi nell’aria, lasciandolo indietro un guscio vuoto che forse non era più in grado di accogliere tante sensazioni, una forza così devastante di emozioni, cosa rimaneva?
Lui: una scorza senza vita, dentro.
Stanchezza infinita.
Di solito, quando si risvegliava in quella situazione era lucidissimo, ma quella volta il suo cervello non sembrava intenzionato ad obbedirgli. Ricordò nebulosamente Hutton chiedergli qualcosa, a cui aveva annuito e poi.. medici e la sensazione di crollare in un sonno senza sogni. Freddo e distante.
Aveva freddo.
Ma era un freddo interno.
Il suo corpo lo percepiva pesante, immobile e andava bene così perché non doveva andare da nessuna parte. Era giusto, ora, stare lì e.. pensare. Capire.
Non c’era niente da capire. Come non c’era niente da fare.
La stanchezza era una scusa dietro a cui nascondere l’inutilità del suo agire, del suo volere.
Può un cuore, una volontà cambiare il mondo?
No.
Il dolore, sordo, profondo, dentro ora era semplicemente svanito, come se non fosse mai esistito. Ne era rimasto il segno, una cicatrice profonda che gli sfregiava il cuore.
Ora non importava.
Chissà se avrebbe potuto giocare le prossime partite.
Chissà dov’erano gli altri.
Il silenzio era sempre stato qualcosa di strano, per lui. Qualcosa che non aveva mai vissuto appieno. Qualcosa che non gli era mai appartenuto.
Così come.. come non era stato *suo* quel gol.. se l’era fatto sfuggire dai piedi. Ma non poteva fare diversamente, lo sapeva, se voleva che vincessero. E Hutton e Danny gliel’avevano ripetuto fino alla nausea che il calcio non era un gioco da individualisti, ma di squadra, e non era importante chi piazzava la palla in rete, perché la vittoria era di tutti, la vittoria andava costruita, attesa, spartita la gioia e il peso di esse su tutte le loro spalle.
A volte era divertente fare la primadonna. L’imbattibile calciatore che avrebbe pure potuto scendere in campo con ragazzini di tre anni contro tutti i mostri sacri del pallone con la certezza di vincere, ma non andava così. Non andava *mai* così.
Mark non era così stupido da non saperlo.
Danny, a quel discorso, avrebbe iniziato a chiacchierare sul fatto che siamo tutti uniti da qualcosa, a tutti gli altri, viviamo come dentro una ragnatela di collegamenti, e qualunque nostra azione influenza quelle di tutti gli altri, e viceversa.
Danny non era lì.
Per fortuna.
Mark non voleva sentir parlare di ragnatele, destino, responsabilità, dolore. Il dolore era stato se stesso, per un periodo di tempo così lungo che non avrebbe mai creduto possibile.
Ora basta.
Ora era stanco.
Ora aveva scoperto di non voler, di non potersi più piegare, annullarsi, disintegrarsi in un respiro trattenuto, in una carezza. In un qualcosa che non sarebbe mai venuta. In un sentimento che nasceva già avariato, perché era una menzogna, un’illusione.
Mark non poteva vivere nelle illusioni: non l’aveva mai fatto neppure quando era stato dell’età giusta per nutrirsi di esse. Adolescente, non aveva mai creduto che qualcuno, qualcosa, all’infuori di sé avrebbe potuto risolvere i problemi, rendere tutto più semplice. Aveva imparato sulla propria pelle che non esisteva nessuno in grado di proteggerci, di tenere una mano sul proprio capo allontanando così il dolore, al sofferenza, la fatica.
Era normale: gli adulti lo sapevano. E lui l’aveva scoperto quando adulto non lo era ancora, ma lo era dovuto diventare.
Non rimpiangeva nulla, non recriminava per ciò che il destino gli aveva riservato perché da quello era scaturita la sua forza. E lui *era* la sua forza. La sua sicurezza, il suo sentirsi solido e saldo, anche nel guardarsi allo specchio e sentirsi fragile, e sapersi vulnerabile. E vedere il cuore spezzato e soffrire.
La forza nascosta nella debolezza, nella fragilità, nell’essere così vulnerabile ed esposto a ogni avversità, ogni problema: la molla più forte di tutta la sua vita. Era stato quello che lo aveva obbligato a crescere, strappando i veli posti di fronte al mondo reale. La forza di ammettere, *davvero* che, pur nel dolore, una cosa era quella, e non un'altra. Che non bastava volere che il mondo andasse in un altro modo per cambiare il passato, per cambiare ciò che era.
E che non si poteva tornare indietro.
Che lui non *voleva* tornare indietro, a vivere una menzogna, una trappola.
Aveva amato Alex. Era vero.
Era *finita * con Alex. Altrettanto vero.
Era stato indegno di Mark Lenders quel suo volersi aggrappare a qualcosa di sbagliato, come se, dopo aver veduto la verità si potesse davvero voltare la schiena e ritornare a vivere nell’oscurità, Si poteva forse preferire la menzogna, ma solo per vigliaccheria. Non si poteva vivere *consapevolmente* una bugia.
Nonostante tutto Mark aveva ancora troppo orgoglio per mettersi a pregare la vita di avere pietà di lui, di confonderlo di nuovo, e fargli credere ciò che non si poteva più. Mark non lo voleva, non lo avrebbe mai accettato.
E la pietà, poi.. rabbia: essa suscitava rabbia.
Cos’era diventato? Un bambino capriccioso al quale, per essere tenuto buono, si regalavano caramelle e giocattoli al posto di carezze e affetto? Tipico.. ma non da Lenders.
Non *da lui*.
Lui era una tigre.
E le tigri avevano un cuore, fragile come quello di qualunque altra creatura.
Era uno sbaglio, quello? Qualcosa di cui vergognarsi?
No.
Poteva vergognarsi solo del suo comportamento, come se lo stare soffrendo per un abbandono gli avesse dato il permesso di .. crollare in quel modo.
Orgoglio.
L’orgoglio era l’unica cosa che non l’aveva mai abbandonato. Tutto quello che l’aveva tenuto in piedi quando non aveva altro. E non solo quando non aveva altri affetti, o non aveva aiuti, o persone vicine, o stimoli, o chissà che altro. No, per lo meno non solo.
L’orgoglio c’era stato anche quando aveva avuto *fame* e *sonno* e *freddo* e non c’era niente da mangiare, e aveva poco tempo per dormire e solo il movimento avrebbe potuto tenerlo caldo.
E suo padre era morto, e l’aveva *lasciato lì*. Da solo. Obblighi, impegni doveri: ecco quello che aveva tra le mani.
E dolore.
E l’orgoglio, e il correre dietro a una stupida palla, senza pensare al motivo vero per cui lo faceva: per non impazzire da un dolore che non avrebbe saputo affrontare, a quell’età, per non vedere il passato, né il presente che lo circondava, per affogare, in quegli attimi, tutto quello che gli stava addosso, come una maledizione e far finire una palla in rete diventava l’intero scopo dell’universo. Per *creare* qualcosa di nuovo, per lui, qualcosa di suo che nessuno avrebbe potuto rubargli.
Perché esiste solo il futuro in cui gettare se stessi.
Perché appoggiarsi alla vicinanza di un altro per essere felici e protetti era la cosa più stupida che si potesse fare.
Era successo una volta, e lui, stupidamente, aveva fatto in modo che la stessa cosa si ripetesse di nuovo.
Era colpa di Alex?
Di Price?
No.
L’unico colpevole era stata la sua pigrizia, il suo accettare una situazione solo perché comoda, anche se sapeva che non era ‘giusto’. Che entrambi volevano cose diverse. Che lui viveva in un mondo che non era quello di Alex, e che non lo sarebbe mai stato. Che Alex non avrebbe mai potuto dargli ciò di cui lui aveva bisogno.
Ora, che Alex alla fine si fosse comportato come un.. non aveva importanza.
Lenders non era lì per giudicare le persone, era responsabile solo della sua vita, e precisamente di quelle cose che, all’interno della sua vita, dipendevano da *lui*. Ed erano poche, ma erano le uniche che avesse.
Non aveva mai avuto altro, oltre se stesso.
Era un’idea terribile, e faceva male, perché era come essere una tigre in gabbia, che non sarebbe mai potuta uscire da quella prigione che era la vita. Ma la vita non era infrangibile come l’acciaio. La vita si evolveva, si piegava, si poteva, in parte, imprimerle la direzione che più si credeva opportuna: a volte questi miracoli di accanimento e volontà accadevano e si otteneva ciò che si desiderava.
Mark era un campione.
Era lì perché *lui* l’aveva voluto. Perché aveva lavorato e faticato, era lì per il suo orgoglio e per la tristezza che si portava dentro. E perché qualcuno, chissà perché, una volta aveva puntato su di lui, perché era stato visto, e piaciuto.. perché .. viviamo in un universo dai collegamenti infiniti, come un’enorme ragnatela? Davvero i pensieri, i desideri di uno possono toccare molti, e mutare il destino?
Mark chiuse gli occhi: lui non era un filosofo e certe cose non le sapeva, ma..
Ma.
Il suo orgoglio non poteva venire meno. Non poteva continuare a comportarsi come un vigliacco. I dolori si vivono, si sopportano, si superano, oppure, semplicemente, si finisce annientati da loro, senza più forza di fare, senza più desideri, o potere. Non c’era altra strada.
E quelli che dicevano che il dolore purifica, che esso eleva, erano degli idioti! Il dolore è zavorra morta per un falco che voglia volare in alto, il dolore è avere ali di cera quando si vuole sfidare il sole. Il dolore è una gabbia dalle sbarre che non si spezzano.
Era l’orgoglio, la forza che elevava. La forza nascosta anche nelle piccole cose. E in quelle grandi: ammettere l’errore, scoprirsi fragili e accettarlo. Saperlo, e costruirsi dunque più forti, consapevoli che niente avrebbe potuto renderci invulnerabili.
Un respiro profondo e fu come le nebbie indistinte che lo circondavano ritornassero a fuoco, anche se non aveva proprio nulla da guardare.
Un’infermeria bianca, asettica.
Quella brandina scomoda era un letto, dopo tutto, e poteva dormirci. Non aveva bisogno del letto più comodo di tutto il Giappone per farlo, non gli era mai servito.
Era stanco, e avrebbe dormito.
Domani si sarebbe svegliato, e avrebbe ripreso a combattere.
E l’avrebbe fatto come sapeva farlo lui. ___
Ross sorrise alla trecentesima domanda identica che c’era sentito rivolgere durante quella estenuante conferenza stampa.
Dopo quella riguardante l’aspettarsi di arrivare in semifinale con il Brasile.
Dopo quella sullo stato fenomenale in cui i cronisti avevano trovato il giovane Hutton sebbene dopo un incidente così grave e il solito sangue freddo mostrato da uno strepitoso Price che ‘se gli faceva ancora male la spalla non si vedeva per niente’.
Ovviamente: “e Lenders?”
Se avrebbe giocato altre partite, se il suo ginocchio fosse irrimediabilmente perduto, se l’infortunio avrebbe inciso anche sul suo rendimento oltre i mondiali, se fosse o non fosse stato commesso fallo, se poteva rilasciare dichiarazioni lui personalmente.
Ross fissava il giornalista di turno e, nel modo più gentile rispondeva: “no.”
Certo che no.
Aveva visto le lastre e non sembrava che ci fosse nulla che necessitasse un intervento chirurgico o anche un’immobilizzazione dell’arto troppo lunga.
Non credeva che Lenders sarebbe stato in grado di ‘non sforzarsi’ per un periodo più lungo di due settimane al massimo e il ‘riposo completo’ non era un’opzione contemplata da nessuna parte, se riguardava Mark.
Il fallo continuava a non sembrare un fallo e né lui né la squadra volevano mettere in croce un arbitro per un giudizio che, in tutta coscienza, sembrava valido anche alla moviola.
E Lenders aveva detto chiaro e tondo che non voleva avere *nulla* a che fare con i giornalisti per almeno un paio di mesi.
Hutton, un po’ sibillino aveva sussurrato che forse era meglio se non avesse *mai più* a che fare con ‘uno di quelli’; Ross, pur non comprendendo il significato di quell’affermazione, non aveva domandato, gli era bastato udire il sospiro mesto di Tom, e vedere Danny impallidire lievemente.
Non era certo di voler sapere cosa ci fosse dietro, e invece, i tizi in microfoni e telecamere di fronte a lui si sarebbero sbranati per mettere le orecchie su notizie così succose. Non che Ross credesse che fosse colpa loro, in fondo stavano solo facendo il loro lavoro però, per quel che lo riguardava, era un lavoro *schifoso*.
Sollevò la mano in una specie di segno di resa dopo quasi due ore di conferenza stampa e lasciò la sala. Lo aspettava un taxi con un paio di suoi collaboratori, il mister in linea sul suo cellulare, per complimentarsi per la sua solita diplomazia ed abilità nel muovesi di fronte alle telecamere e..
Uno sconosciuto sul suo taxi.
Non se n’era accorto subito, in effetti dopo una giornata simile voleva solo farsi una doccia ed andarsene a dormire, e la sola idea che, ritornato all’hotel avrebbe dovuto affrontare la squadra e vedere cosa si potesse ‘sistemare’ dopo lo scontro fra Price e Warner, gli faceva venire i crampi allo stomaco. Di guardarsi intorno non ne aveva né la voglia né, tutto sommato, la pazienza.
Ma c’era quell’estraneo i cui lineamenti si intravedevano poco nel buio dell’abitacolo, segnato, ad intervalli regolari, da schegge bianca di luce, proveniente dai lampioni che fiancheggiavano la strada. Ross aggrottò la fronte fissando uno dei suoi collaboratori ma non fece in tempo a dire nulla.
“Mister Ross? Julian Ross?”
Chiese lo sconosciuto.
In *giapponese*: accentato, fortemente cadenzato, da straniero, ma almeno non era il solito inglese con cui gli si rivolgevano.
“Sì?- si sedette il più comodamente possibile sul sedile mentre l’altro, accomodato davanti, accanto all’autista, si voltava verso di lui. Ed era ovviamente un occidentale. – Sono io. A che devo l’onore?”
“Mi scusi di questa intrusione poco cortese, ma mi ritrovo in una situazione difficile. Speravo che avreste potuto aiutarmi.”
Ross scosse il capo. Da lì dietro riusciva appena ad intuire una sacca ai suoi piedi, qualcosa che vi era stato appallottolato sopra, da cui sfuggivano, ogni tanto, bagliori, come di una stoffa catarifrangente toccata dalla luce, di sbieco.
Un giubbotto.
E quello che sembrava un teleobbiettivo da macchina fotografica. Una di quelle da professionisti, per intenderci.
Non era per niente un buon inizio.
“Presentarsi sarebbe molto gradito, per cominciare. Per il resto vedremo.”
“Mi chiamo Alessandro Orsini. E sono qui per Lenders.” |