RATING: *AU* yaoi. Angst . Linguaggio volgare (Mark quando si arrabbia tende a non comportarsi come un Lord inglese..). Semi-infermità mentale data da shock e discorsi tenuti in conseguenza della cosa.. NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, e ne sono gelosissima sono Antonio e Alex! NOTE 2: chi ha il numero della neurodeliri?!
La Tigre parte XVI di Dhely
“Fottiti!”
Mark sibilò fra i denti mentre il giovane medico della federazione gli fasciava il ginocchio, consultandosi, ogni tanto, con il medico della Nazionale giapponese e con l’ultimo arrivato, il medico della sua squadra italiana. Tutti lì come maledetti avvoltoi pronti a scagliarsi su qualunque cosa non fosse perfettamente *adeguata* a quello che loro pensavano.
“Scusi?”
Quegli occhi cerchiati di metallo lucido si alzarono su di lui, Lenders ringhiò, infastidito oltre ogni dire.
“Ho detto: andate a farvi fottere tutti! Non ho bisogno di voi! Lasciatemi in pace!”
Il terzetto si fissò l’un l’altro.
“Lenders..”
“M’avete fasciato il ginocchio? Per ora non potete fare altro per cui lasciatemi in pace! Chiamatemi Warner e uscite da qui!”
Silenzio. Poi il medico italiano si mise semplicemente a ridere.
“Antonio mi aveva avvisato che eri davvero impossibile, peggio di quanto sembravi. – una mano mossa nell’aria – Stasera farai le lastre, e un altro paio d’esami, ma per ora vedi di riposarti. Ne hai bisogno.”
“Voglio parlare con Warner!”
Aveva una cosa che gli apparteneva, e ora che poteva permetterselo, ne era curioso.
La lettera di Alex: cosa poteva mai rovinare, ora, quel pezzo di carta? Una concentrazione che non c’era più? Il rendimento di una partita che non avrebbe giocato?
Voleva avercela fra le mani, e leggere quelle parole che non c’erano più, intorno a lui. Perché ciò che era finito, forse lui non l’aveva mai sentito tale, e ora era stanco di destreggiarsi come un acrobata tra situazioni che non poteva gestire.
Lui voleva essere il padrone della sua vita, e ora non lo era.
Era colpa di Alex?
No: era stata colpa *sua*.
Strinse i denti, i pugni, nell’osservare uscire i medici.
I rumori da fuori arrivavano densi, decisi. Gli ultimi minuti di gioco..
Faceva male essere fuori. Era *orribile* stare lì, da parte, abbandonato, inutile. Quasi era meglio stare in panchina, ad osservare come gli altri stavano giocando, a urlare il proprio sostegno, la propria rabbia, piuttosto che quello.
La porta si aprì di nuovo, si trovò di fronte a Ed e, forse, quello non era poi tanto male.
“Mark..”
“Hai qualcosa che mi appartiene.”
Non l’aveva mai visto così teso. Nervoso sì, arrabbiato sempre. Ma *teso* no. Non Mark.
“Mancano cinque minuti alla fine della partita e siamo in vantaggio, non vuoi..”
Ed non terminò la frase, Mark socchiuse gli occhi.
“So per certo che vinceranno. Non possiamo perdere, non ora. Ho dato tutto quel che .. – la voce tremò un poco, ma forse era solo la stanchezza - .. tutto ciò che possedevo. Tutto quello che avevo da dare. Non *possiamo* perdere ora. Siamo alla prima semifinale. Ci *siamo*. E tu mi devi dare una cosa.”
Mark era sempre stato il Capitano per Danny, e anche per lui. Un capitano impossibile, terribile, odioso, ma Ed non avrebbe mai saputo, o potuto, porgli di fronte un secco ‘no’. Anche se quella cosa, forse, gli avrebbe spezzato il cuore per sempre, anche se, forse, non era giusto, anche se, forse, quello avrebbe cambiato ogni cosa, come se dopo aver letto quel pezzo di carta il mondo non potesse essere più lo stesso.
Un pezzo di carta.
Uno schifoso pezzo di carta che in quella giornata, e nella notte precedente, aveva avuto almeno per mille volte la tentazione di fare a brandelli.
Chi fosse Alex gliel’aveva detto Tom, che era andato a parlare con Antonio.
Quel maledetto bastardo aveva.. fissò Mark negli occhi e si scoprì in difficoltà a pensarlo, con lui lì davanti, con quell’espressione risoluta, preoccupata. Con la sofferenza fisica che non era nulla, in quel momento, paragonato alla voragine che doveva avere dentro. Era per quello che aveva fatto il matto incomprensibile durante tutto il ritiro: per Alex. Alex che gli aveva spaccato il cuore e che, probabilmente, ne aveva gettato i brandelli al vento.
Idiota! Stupido decerebrato! Aveva Mark, Mark Lenders fra le mani e lui che aveva fatto?
Distolse lo sguardo porgendogli ciò che Mark stava aspettando.
Ciò che Mark stava fremendo per leggere. ___
Cinque minuti.
Cinque minuti per finire quella partita giocata sulla soglia della follia.
Cinque minuti senza Lenders, e anche lì, dalla porta, la sua mancanza sembrava un voragine. Non nella maglia degli schemi, no, ma .. nello spirito. Price sentiva la mancanza della volontà di Mark e, dannazione!, non riusciva a fingere indifferenza, non riusciva a non soffrire per quello.
Era la *loro* partita, quella! Sua e di Mark.
L’aveva sognata, voluta, desiderata con così tanta forza che ora, senza intuire la sua sagoma lì davanti era.. era sbagliato.
Chi poteva aver buttato giù davvero Lenders?
Non era stato un fallo così brutto, forse non era stato neppure un fallo e aveva avuto ragione l’arbitro a non fischiare il calcio di rigore a loro favore, ufficializzando il gol di Hutton avvenuto durante l’azione.
Ma quelle erano sottigliezze degne degli ‘esperti’ che passavano mesi a disquisire sulla posizione di ogni singolo filo d’erba sul campo, a Benji non importava un accidente.
Mark era stato atterrato, e non si era alzato.
*Non* si era alzato.
Benji credeva che una cosa così non l’avrebbe mai vista. Ma sapeva bene che, spesso, il peggior nemico di una persona è se stesso. Forse Mark era solo crollato sotto un peso troppo grande che si portava dentro e a cui non aveva prestato sufficiente attenzione. O che non aveva *potuto* affrontare.
Ci sono cose che non si possono accettare, e insieme, non si possono rifiutare. ‘Cose che non dipendono da noi’ come diceva Mark, ogni tanto.
Price si calò il cappellino basso sugli occhi: per schermarsi dal riverbero e insieme, per nascondere i suoi occhi al resto della squadra. Non aveva nulla da mostrare la mondo, erano cose *private*.
Lui e Lenders.
Loro due erano una cosa che ‘non dipendeva da lui’?
Non lo sapeva.
Ma era certo, certissimo, che quell’attaccante spagnolo non avrebbe spezzato la sua difesa di ferro, che nessuno avrebbe sporcato quello che avevano ottenuto lì, sul campo, giocando lui e Lenders insieme.
Insieme.
La *loro* partita. ___
L’aria immobile fu appena scossa dal rombo delle gradinate che esplosero di nuovo, pareva a seguito del doppio fischio dell’arbitro. La partita era finita.
Nulla, là dentro, si mosse.
Ed era lì, dove doveva stare, cercando quasi di non respirare.
Mark leggeva.
I suoi occhi neri divennero ampi, e profondi correndo sulle righe che si rincorrevano alle righe. Forse uno avrebbe potuto aspettarsi che essi diventassero lucidi, e forse anche Ed si trovò a pensare che, almeno così, sarebbe stato più semplice, per lui.
Consolarlo era più incredibile, ma più fattibile che controllarlo.
Mark non parve commuoversi, non parve tremare dalla malinconia, non parve affogare in un ricordo che doveva essere doloroso.
Ed conosceva quell’espressione di Mark: furia estrema, incontenibile, terribile. Qualcosa che gli aveva sempre fatto paura, che l’aveva portato a credere, a volte, che Mark stesse per impazzire del tutto.
Non era dolore.
Non era rimorso.
Non era bisogno.
Era solo rabbia.
Era solo.. vide la sua mano scura stringersi, convulsa sulla carta. Il frusciare secco del materiale parve destarli entrambi da una specie di trance.
Mark fece per alzarsi. E non sembrava intenzionato ad essere fermato.
“Mark..”
“Taci!”
“Dove vai! Non puoi..”
“Ad ammazzarlo. – un ringhio. *Davvero* un ringhio, spaventoso, terribile. Mark si mise in piedi e sembrava un qualche dio appena uscito dalle spire dell’inferno. – In Irak a farlo fuori quel *maledetto figlio di puttana*!”
Ed rimase sconvolto.
“In ..in Irak?!”
In una frazione di secondo cercò, nelle sue scarse conoscenze geografiche, di sapere dove fosse questo Irak, e perché mai qualcuno poi ci potesse voler andare. Vacanze-sole-mare-divertimento? Mark? Con quella faccia?!
“Mark..”
Ed fu salvato dall’ingresso, in infermeria, da un Hutton radioso, sudato, eccitato.
“Mark! Grazie al tuo passaggio..”
Mark non lo degnò neppure di uno sguardo raggiungendo a grandi passi dolorosi la porta d’uscita e quando lui e Hutton si fronteggiarono, la furibonda rabbia di Lenders e la stupita felicità di Holly fecero scintille, stridendo insieme con un suono quasi fisico.
“Togliti dai piedi! E qualcuno chiami un taxi! – determinato, senza più un briciolo di ragione a brillargli in quegli occhi troppo scuri, troppo iniettati di .. – E l’aeroporto! Subito!”
“Sei fuori di testa, Lenders? Non vai proprio da nessuna parte!”
“Non ho chiesto il tuo parere, Warner!”
Ed l’aveva trattenuto per un braccio e, per scrollarselo da dosso, Mark si sbilanciò troppo, con una pressione eccessiva che in quel momento il suo ginocchio non poteva sopportare.
Il livore assurdo sul suo viso si era ghiacciato in una maschera freddissima di ira scatenata.
Hutton si sporse per sorreggerlo, cercando di tenerlo indietro. Con Ed si scambiò sono uno sguardo veloce.
Poi: “Mark cerca di calmarti..”
“Sono *calmissimo*, Hutton! – e sembrava crederci, in quello che diceva – Non ho mai visto così chiaramente la mia situazione da.. da un anno, quasi! E devo andare!”
“Warner! Chiama i medici!”
Come si poteva trattenere una furia scatenata come Lenders? Non si riusciva quasi sul campo, dove delle regole ponevano un freno alla sua energia, ma lì, in un’infermeria Oliver sapeva che sarebbe stato schiacciato dalla superiorità fisica dell’altro. Così arrabbiato non l’aveva mai visto. Non aveva mai neppure pensato che qualcuno..
I medici entrarono, Lenders disse ancora qualcosa, a così alta voce che Ed non poteva non aver udito ma che si rifiutò di comprendere. Ringraziò che la porta si schiantasse sui cardini perché non riusciva a reggere quella vista.
Mark furioso era meglio di un Mark distrutto, col cuore a pezzi, l’orgoglio in frantumi e chissà che altro. Voleva dire che non si era lasciato sconfiggere dal dolore, o dalla vita, significava che aveva ancora voglia di combattere, di imporre se stesso a tutto ciò che gli stava intorno. Era il Mark che conosceva, quello, ma lì dietro c’era nascosto un abisso di sofferenza che non poteva essere detto. Che Ed non credeva si potesse sopportare senza uscirne schiantati.
Danny gli corse al fianco.
“Mark? Che succede?!”
Ma Warner, ora, non ebbe più tempo di pensare a Mark, non ebbe la minima intenzione di prestare attenzione a Danny, o a uno degli altri suoi compagni che, fermi in corridoio, stavano cercando, confusi, di capire cosa potesse esserci da rovinare la loro gioia.
Price che lo fissava, lì, incurante, senza cuore.
Senza cuore.
“Sei stato tu.”
Sibilò.
E Price aveva uno sguardo che poteva uccidere qualcuno, e che non aveva alcun bisogno di essere provocato troppo per esplodere.
“E’ colpa tua, schifoso..”
Altre parole non vennero. Ci fu solo il reciproco attaccarsi, colpirsi, saltarsi alla gola, per fare male, per strappare la pelle dalle ossa, per vedere se dentro quel petto ci fosse, in fondo, da qualche parte, un cuore.
Era stato Benji a .. a dire a Mark che c’era quella dannata lettera! Lui doveva sapere tutto! Anzi, probabilmente lo aveva fatto *apposta* quel.. quel..
Il terzo pugno che riuscirono a sferrare fu bloccato. Tom e gli altri li stavano dividendo, e stavano facendo di tutto per farlo.
“Una rissa in infermeria! Ma che razza di cervello bacato avete, voi due?!”
Urlò Beker, ma nessuno dei due sembrava aver mantenuto abbastanza lucidità per rendersi conto di cosa era stato detto.
Una rissa: quella non era una *rissa*. Quella era una sfida. Quello era .. odiarsi? Price strinse di nuovo i pugni, frustrato dall’immobilità in cui i suoi compagni lo obbligavano.
“Tu non sai niente, Warner! Non capisci niente! Sei uno stupido!”
“Fortuna che dei due sei *tu* quello intelligente, se no a Mark che avresti fatto?! Gli avresti sparato forse?!”
“A..”
Il tonfo della porta che si apriva sul corridoio bastò a far calare tutti nel silenzio più totale.
C’era Holly, lì. E non sorrideva. Era arrabbiato e forse preoccupato, e, di più: non riusciva a controllare se stesso e le reazioni che sentiva dentro di fronte a tutto quel *casino*. La paura, forse, e la tensione.
Arrivò Ross, di corsa.
“Che diavolo succede?!”
Hutton fissò in silenzio prima Price, poi Warner.
“Voglio una spiegazione. Ma non ora. Quando ognuno di voi si sarà lucido e in grado di tenere un discorso civile, allora verrete da me. E *parlerete*. – di fronte alla tentata protesta di Price, Holly si indurì ancor di più – E non mi frega un accidente se sono *questioni personali*! Se arrivate a fare *questo* per qualsiasi motivo, allora tutta la squadra deve sapere! Sono stato chiaro?!”
La figura di Tom che gli si era avvicinato gli diede conforto, e coraggio.
Warner distolse gli occhi.
Price sbuffò ritornando a grandi passi nello spogliatoio.
Nella cacofonia più assurda, che s’era trasformata in silenzio, fu il sussurro preoccupato, genuinamente sincero, di Danny a imporsi.
“E Mark? Come sta Mark?!”
Holly si trovò a sorridere, dolce, e non seppe neppure lui come riuscisse a farlo.
“Sta dormendo. Ha avuto un .. crollo nervoso. –gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla – Dopo tutto è normale: quanto s’è sacrificato per questi mondiali? Ha bisogno di riposare un po’. E’ davvero meglio lasciarlo da solo. Ci sono i medici che si occupano di lui.”
“Ma.. e se si svegliasse e si trovasse solo? Non credi che..”
“Non credo si sveglierà prima di domani pomeriggio. – la voce di Holly era ritornata soffice, gentile – o, almeno, è quello che stanno cercando di fare.”
Se Danny avesse chiesto, preteso chissà cosa Holly sapeva che non avrebbe potuto accontentarlo. Non avrebbe potuto non dare il permesso di sedarlo e quello era l’unico modo che gli era parso ragionevole per *occuparsi di lui*.
Sapeva a grandi linee di cosa era successo, ma non aveva mai creduto che quella ferita potesse essergli arrivata così in profondità. Un po’ di silenzio e vuoto e riposo: forse erano le uniche cose che avrebbero potuto fare bene a Mark.
Hutton lo conosceva da anni: era sempre stato aggressivo e determinato, arrogante e qualunque altra cosa si potesse pensare. Era vero, Lenders era tutto quello e anche di più, però non era un animale violento senza cervello. La sua dignità era sempre stato il manto più prezioso in cui si fosse avvolto, non un orpello di cui rivestirsi per accecare gli ammiratori di passaggio. Holly stimava Lenders, e lo rispettava.
Si rispettavano entrambi, nella maniera tipica di ognuno dei due.
Quando era stato solo con Oliver, Mark s’era calmato. Se avesse davvero voluto, Lenders avrebbe potuto rompergli almeno un paio di ossa senza fare troppa fatica, ma se prima la sua furia era stata cieca, di fronte al capitano aveva mostrato qualcosa.
Rispetto.
E Hutton riconosceva il rispetto quando lo vedeva. Così come riconosceva le lacrime sottili di vergogna e i muscoli cedere, la volontà franare, sorretti solo da un’impossibile senso dell’orgoglio. Improvvisamente Oliver si era accorto che lì era stata la stima reciproca a tenerli in piedi, obbligandoli a non scivolare entrambi in qualcosa che entrambi avrebbero rimpianto, a non cedere a un istinto terribile, che aveva visto rischiare di sommergere Mark.
Ma Mark anche questa volta aveva lottato. E aveva vinto.
Aveva abbassato il capo ma non per la vergogna: per fissare un pezzo di carta appallottolata.
‘Ho creduto. E solo ora mi sono accorto di aver avuto fede nel sogno sbagliato.’
‘Nessun sogno è sbagliato. Non è colpa del sogno se esso non fa per noi.’
‘Lo odio.’
‘Il sogno?’
‘No. Lui. Ha mentito per comodità, e per ipocrisia vorrebbe rimangiarsi tutto. Non posso sopportarlo.’
‘E’ facile perdere la testa di fronte a qualcosa che ci ha coinvolti così in fondo, Mark.’
‘Ma non porterebbe da nessuna parte.’
‘Appunto. Hai faticato tanto per essere qui, per diventare il campione che sei. Non buttare via tutto per un ..’
‘Per un dolore, Hutton. E’ solo un dolore. –un sospiro come per sottolineare l’affermazione, lapidaria, secca - E non voglio buttar via niente di importante per lui. Sono.. sono stanco. Loro – e aveva indicato i medici – possono farmi dormire per un po’?’
Mark avrebbe dormito. Il suo corpo ne aveva un disperato bisogno. Il suo spirito anche.
Danny, se aveva altro da domandare, o qualche preghiera da porgere, non lo fece. Si limitò ad annuire in silenzio.
“Ci sono i giornalisti di là che aspettano. Una dichiarazione ufficiale sarà più che sufficiente. E Mark.. credi che debba essere portato in ospedale? Devo chiamare un’ambulanza?”
Hutton scosse appena il capo, Danny rispose con un pallido sorriso. |