NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, e ne sono gelosissima sono Antonio e Alex! NOTE 2: le blatere sulla partita di calcio non hanno alcun fondo di verità, né di aderenza reale con lo sport in sé. Non aspettatevi perciò chissà che spiegazione calcistica!
La Tigre parte XV di Dhely
Una partita.
No, non *una* partita.
In quel momento, lì sul campo, quella era *la* partita: da giocare non solo con tutta la grinta, la rabbia, la passione che aveva sempre messo in qualunque sfida. Era qualcosa di più, di diverso.
Improvvisamente Mark, s’era accorto che, sul campo, quella volta, non c’era più solo lui, la palla e la porta avversaria. Da terribile egocentrico qual’era la cosa lo sconvolgeva, una sorta di panico gli mordeva il cuore. Dall’altro..
Quella partita era anche la mano di Price sul suo avambraccio.
“Non preoccuparti di nulla di quello che capita nella nostra area. Alla difesa ci penso io, non ho bisogno di te. Tu devi stare avanti.”
Il suo sguardo che incrociava il proprio e un piccolo, sottilissimo gesto, la mano che raggiungeva la visiera, due dita a sistemarla.
Quella partita era anche la voce di Ed dalla panchina, che si mischiava alle altre, ma che lui riusciva sempre a sentire. E il ricordo di quel foglio di carta piegato che aveva addosso, la copia di una mail il cui mittente era Alex.
Alex era lontano da lì.
Ma dalle tribune sentiva degli occhi che lo seguivano, ogni passo, puntati su di lui.
Danny.
Lo ‘sentiva’ dentro.
E Antonio. A tre giorni dalla *loro* partita per l’accesso alle semifinali, Antonio era lì.
Per lui.
Mark lo sapeva, gliel’aveva detto un giornalista in una veloce intervista di routine, pre-partita, che il Capitano della sua squadra italiana era lì, per vedere come giocava la loro prima punta, chiese, o per analizzare il gioco di un futuro avversario?
Mark non lo sapeva, e non gli importava: c’erano troppe cose sul campo con lui, in quella partita.
“Mark? Sei concentrato? Mi raccomando..” erano state le uniche parole per lui di Hutton, prima di scendere in campo.
No. Non era concentrato. Non come lo era di solito, almeno.
Non sentiva più le gambe, gli sembravano di gesso tanto erano pesanti e, per quanto si sforzasse, non riusciva ad essere preciso, a giocare di fino.
Era solo stanchezza fisica o davvero un’incapacità mentale di concentrarsi?
Eppure tutto il suo mondo era lì. Non esisteva nulla all’infuori di quello stadio, che avesse una qualche importanza. Tutto il resto del mondo, per lui, non esisteva, o se lo faceva, era solo in funzione di quello stadio.
La palla e la porta.
Il calcio era semplice, terribilmente semplice.
E la sua forza, la fonte della sua stessa anima era lì, con lui. Rabbia. E desiderio infinito di vincere. Bastava quello?
Non lo sapeva.
Alla fine del primo tempo, i 45’ più stancanti, sfinenti di tutta la sua carriera, Mark si lasciò andare sull’erba accanto alla panchina. Non avrebbe sprecato un solo singolo passo per andare negli spogliatoi, perché non c’era nulla che non avrebbe potuto fare comodamente anche lì: riposarsi.
Warner gli si fece vicino: un asciugamano e dell’integratore.
“Sei stato..”
“Chiama il massaggiatore.”
Gli facevano male anche i muscoli della gola, e la fatica a modulare la voce sembrava assurda. Improbabilmente eccessiva.
“Cosa?”
Ingoiò avidamente il liquido, dolciastro e aspro insieme, strappato dalle mani di Ed senza guardarsi intorno, poi appoggiò di nuovo la schiena al prato.
“Ho i crampi, muoviti.”
Gli occhi chiusi: non aveva bisogno di guardare Ed per sapere l’espressione che aveva addosso.
Sentì solo le mani del fisioterapista cercare di sciogliergli al tensione nei muscoli, qualcosa di freddo, gelato, lievemente anestetizzate sul ginocchio e qualsiasi massaggio potesse servire per espellere il più in fretta possibile acido lattico.
Faceva male, ma era un dolore ‘buono’, sopportabile.
“Devi bere di più. Sei disidratato.”
Un’altra bottiglia, finita a tempo di record, e quando sollevò la testa vide Hutton girare fra di loro. Non in tuta, in *divisa*.
Pronto a scendere in campo.
“Sei sicuro di farcela?”
Suonava come una domanda retorica, assolutamente inutile. Mark non poteva rispondere altro che “Certo che sì.”
Ross richiamò l’attenzione di tutti.
“In questo tempo: Patrick, fuori. Mark, più arretrato. Entra Holly.”
Niente proteste, niente domande. Qualcuno sospirò di sollievo come se credesse che Hutton possedesse una specie di potere per il quale, con lui in campo, non avrebbero potuto perdere. A Mark non importava: poteva stare in piedi e avrebbe finito quella partita, a tutti i costi.
Anche se c’erano ancora da giocare altri 45 minuti. Anche se erano ancora sullo zero a zero. Anche se.. ma avevano in campo il portiere più forte del mondo e Holly, anche se non era la massimo della forma, era sempre una marcia in più per la squadra.
Tom gli si inginocchiò accanto, non appena Mark fece un movimento per rimettersi seduto.
“Strepitoso, Mark! Davvero non capisco dove tu trovi quell’energia. Io sono a pezzi.”
Mark riuscì solo a scuotere il capo, ed era un movimento di rabbia.
“Non è servito a molto, mi pare. Siamo al punto di partenza. E loro sono più freschi.”
Più abili. Più tattici. La Spagna, poi, aveva un’enorme esperienza in campo di campionati Mondiali. Non che, per loro, fosse come una passeggiata ma sicuramente pativano meno l’impatto emotivo della squadra giapponese.
Ed gli posò rassicurante una mano su una spalla, e sorrise.
“Non potete perdere, Mark. Non *puoi* perdere. Sei stato strepitoso in questi campionati: non ti sconfiggeranno così.”
Price si mise in piedi, sicuro.
“Andiamo. Non ci faranno gol, non li lascerò fare gol. Con Hutton saremo più creativi, più imprevedibili. Non perderemo.”
La squadra aveva recuperato in entusiasmo, Mark notò, il che era un’ottima cosa.
A centrocampo, un attimo prima del calcio d’inizio, Mark si voltò appena verso chi gli stava al fianco.
“Hutton, riesci a seguire il mio ritmo?”
Il loro capitano aveva sorriso.
“Corri pure, Lenders. Solo perché hai le gambe più lunghe non vuol dire che mi lascerai indietro.” ___
Al 27’ del secondo tempo, lo scorrere del tempo parve corrugarsi.
Mark.
La palla fra i piedi.
E una porta davanti.
Niente altro.
Sentì il cuore contrarsi, il diaframma abbassarsi. Lentamente.
E ancor più lentamente, fermarsi. Tutto.
Fermo immobile, come in attesa di un giudizio, come aspettando qualcosa che, non si sapeva da dove, ma sarebbe venuto. E avrebbe cambiato tutto.
La palla e una porta. I difensori trasparenti, il portiere inesistente: non era Benji, quello. Non era nessuno. Non aveva paura di lui. Nessuno in campo gli dava noia, o pensiero, in quel momento, perché in campo non c’era nessuno oltre lui.
Di fronte alla porta.
Vuota.
Il fuoco si alzò, così ardente che bruciava l’anima, ma muto. Tutto era silenzioso, anche la sua rabbia, anche quello che sentiva dentro che di solito ruggiva deciso, pronto a divorare il mondo in un boccone.
Ogni cosa era muta.
E immobile.
Come se fosse..
Mark non riuscì a capire se intuì il movimento alle sue spalle, se vide qualcosa, qualcuno con la coda dell’occhio, se udì le voci raggiungerlo o fu qualcos’altro, o tutte queste cose insieme.
Lui e una porta.
Il piede destro copiò il sinistro, giù nell’erba, obbligato a non calciare, a non mandarla là davanti, quella palla perché non sarebbe entrata, non quella volta.
No: non quella volta.
Il cuore modulò un battito. Un suono. E come unica eco ci fu il rumore sordo del cuoio gonfiato contro la scarpa.
Il tacco.
Indietro a destra.
Hutton.
Quel gol non era suo.
Un *passaggio*.
Non gli apparteneva.
Mark lo sapeva, lo seppe con certezza forse un attimo prima di effettuare il passaggio, o forse se ne accorse proprio mentre, in maniera sorprendente, lo fece. Ma non era importante.
Il passaggio, Mark, non lo vide.
Riuscì appena a percepire la pressione del pallone contro il suo piede e il rumore unico di un avversario che stia cercando di fermarti, in scivolata.
Non vide neppure Holly.
Sentì l’impatto dei tacchetti contro il polpaccio.
Il peso dell’altro, e la sua velocità, sbilanciarlo. E cadere.
Cadere in avanti.
Non vide perché non poté: gli era esplosa una stella bianca di fronte agli occhi anche se, forse, li aveva chiusi. Le schegge appuntite e ghiacciate dell’esplosione gli si conficcarono addosso e i nervi, al contatto, li sentì diventare incandescenti, fremere e ritrarsi, in maniera impossibile, su se stessi per poi spezzare come una cortina vellutata messa tra lui e il dolore, che gli fu riversato addosso in un lampo e che lo inchiodò lì, incapace di vedere, di muoversi.
Il ginocchio fu come trapassato da una lama. Di nuovo in grado di percepire sensazioni, non più come intorpidito da quelle cose che gli avevano ficcato in corpo, urlò modulando l’unico gemito che sapeva fare: come una corda che, troppo tesa, si sfilacci con un schiocco secco.
Mark non vide Hutton.
Non vide il passaggio.
Sentì solo il fischio dell’arbitro e l’ovazione dello stadio: una sensazione quasi fisica che dalle orecchie gli si propagò in tutto il corpo, quasi a farlo ritornare in sé, conscio del peso dell’altro uomo addosso, che stava cercando di alzarsi.
Conscio che lui, probabilmente, *non* sarebbe riuscito ad alzarsi.
Quel gol non era suo, lo aveva saputo da subito.
Quella partita, che invece doveva esserlo era.. finita?
Per lui?
Strinse le palpebre con tutta la forza che seppe trovare. Si impose di concentrarsi solo sul suo corpo, come gli era stato insegnato. Annullare il dolore, riprendere il controllo dei propri muscoli, delle sensazioni, delle emozioni.. che gli sfuggì miseramente dalle dita.
Non ci riuscì.
La tigre ferita non ebbe neppure la forza di ruggire.
In compenso gli arrivarono ancora altri suoni. Le risate che si smorzarono, l’entusiasmo che cangiò consistenza, e gli occhi, addosso.
L’urto della felicità incontenibile fu frenata, in certo modo, e cambiò direzione.
“Lenders!”
La voce del suo capitano, e altre, vicine. Ed? Sembrava Ed, lontano.
Una mano sulla schiena.
“Lenders?!”
Price. Lì. Che aveva abbandonato il suo posto, la porta, per .. per cosa?
Il medico della Nazionale e altre mani addosso. Lo aiutarono a voltarsi, toccandogli la gamba.
Un spray gelato sul ginocchio, arrotolandogli al calza.
L’arbitro che lo guardava dall’alto cercando di capire se ci fosse stato fallo o no. Alcuni spagnoli che parlavano, concitati, Hutton che intervenne e Beker, anche.
Non ce n’era bisogno.
Non era stato un fallo.
Non volontario, almeno. Quell’altro voleva solo fermare la palla, che pensava sarebbe stata calciata in rete. Chi si poteva aspettare che Lenders *passasse* la palla da una posizione così favorevole?
Se gliel’avessero chiesto, Mark l’avrebbe detto. Ma erano tutti troppo impegnati a preoccuparsi di altro, o di lui, per potersi preoccupare anche di quello che aveva da dire. Mark, solitamente, non diceva *niente*.
“Lenders! E’ saltato?”
Un medico, giovane, della Federazione, accanto a quello della sua squadra. Non l’aveva mai visto..
“No.” riuscì appena a sussurrare. Ma non sarebbe riuscito a mettersi in piedi. Il crociato gli sembrava ancora lì, ancora attaccato, però non sembrava minimamente intenzionato a muoversi, limitandosi solo a tormentarlo.
E l’idea non riusciva a mettergli addosso neppure un po’ d’inquietudine.
Si sentì.. stanco.
Si passò una mano sugli occhi. Mille parole gli si riversavano addosso, mille domande a cui non aveva alcuna importanza rispondere.
La piccola folla che gli si era assiepata intorno fu fatta disperdere da ampi gesti secchi dell’uomo vestito di nero.
Mark non uscì dal campo sulle sue gambe. |