NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, e ne sono gelosissima sono Antonio e Alex!
La Tigre parte XIV di Dhely
Ricordare, per lui, era far ritornare indietro il mondo, quando tutto era lì, a portata di mano, ma non poteva allungare un braccio e prendere ciò che desiderava. Quando non bastava volere, non bastava chiedere, nel modo giusto, con cortesia, educazione, o facendo anche i capricci.
Ricordare era guardarsi alle spalle e scoprirsi testardo, e solo. Non aveva nulla da perdere e allora aveva messo, sul tavolo da gioco se stesso, per avere qualcosa con cui puntare.
Aveva vinto. Non una volta sola.
Ora allungava la mano e sentiva lì, le cose che aveva ottenuto: Mark Lenders, la tigre, il campione, il calciatore professionista, titolare di una squadra di serie A italiana, titolare della Squadra Nazionale Giapponese. Quello che firmava autografi e contratti. Quello che, ora, non avrebbe più dovuto aver paura ad aprire gli occhi temendo un futuro che non poteva affrontare.
Ora poteva affrontare qualsiasi cosa.
Era stato nulla, ed era diventato un campione.
Era stato distrutto, annientato, ora non poteva tirarsi indietro, come se non fosse in grado di sopportare quello che la vita gli metteva di fronte. *Ora*.
Ora non era niente.
Ora era tutto semplice.
Ora era tutto rose e fiori.
Ora c’era lui, e il suo orgoglio.
Il suo orgoglio era da farlo in frantumi per entrare in quella stanza, per chiedere.. domandare quella *cosa*..
Ma il suo orgoglio era anche la sua parola.
Aveva *detto* che li avrebbe potati alle semifinali.
E Mark Lenders, la tigre, quando diceva, era una promessa.
Era per loro, per la squadra. E per se stesso. Soprattutto per se stesso.
Era dimostrare che ce la faceva. Era sputare una volta di più in faccia alla vita e dirle, ridendo, che lui ce l’avrebbe fatta. Sempre. Che non si sarebbe arreso per così poco, che non sarebbe stato sconfitto. Che Lenders non si piegava, che non accettava di rimanere un signor nessuno nel grigio della mediocrità. Che avrebbe vinto. E se fosse stata l’ultima cosa che avesse fatta, quella, ebbene: sarebbe stata una cosa di cui non voleva potersi pentire.
Non voleva pentirsi di nulla della sua vita perché sapeva che essa era fragile, e poteva scappare via dalle dita all’improvviso, come niente, senza preavviso, senza scusanti o motivazioni: come una macchina che uccideva, tanti anni prima, il padre di una famiglia numerosa, e lo gettava di lato, ai bordi della strada senza neppure rallentare, proprio come aveva gettato la loro famiglia nella disperazione e nel caos.
Lui, da quel caos, aveva tratto un ordine, il *suo* ordine, che era la sua vita, i suoi obiettivi, le sue mete, le sue vittorie. Le sue conquiste.
Non poteva guardarsi indietro e pensare : ‘accidenti, quella volta m’è scappata quella cosa.’.
No. Non lui.
Gli incidenti capitavano, erano normali, ma tutto ciò che era nelle sue possibilità dipendeva da lui. E ciò che dipendeva da lui, doveva andare come *lui* decideva.
Avrebbe giocato e vinto.
Li avrebbe portati alle semifinali. L’aveva promesso ad Hutton e agli altri. A Price. Era la *sua* squadra, dopo tutto.
Non c’era altro che importasse, in quel momento, niente che dipendesse da lui, niente che .. che *riuscisse* a fare.
E poi aveva promesso.
Lui sarebbe stato orgoglioso di se stesso anche se avesse dovuto fare *quello*.
Chiuse gli occhi nel picchiare a pugno chiuso contro la porta serrata su cui faceva bella mostra di sé la targhetta lucida con un nome e un cognome.
“Avanti.”
Era un medico della Federazione. Sapeva cosa faceva. Dopo tutto se erano loro che facevano le leggi, sapevano pure come aggirarle.
“Lenders! –sorrise. E Mark provò forte la tentazione di spaccargli a faccia. Non lo fece, lasciandosi crollare sulla poltroncina di fronte alla scrivania chiara. Tutta la sua determinazione, ora, era concentrata sulla partita, il resto era .. un voragine nera, che doveva dimenticare, che doveva mettere da parte, altrimenti gli avrebbe risucchiato qualunque energia. Non poteva permetterselo. – Ti sei deciso finalmente! Se venivi un po’ più tardi non so se sarei stato in grado di assicurarti..”
Lo vide sbuffare, armeggiare con l’armadietto dei medicinali che aveva alle spalle, poi allontanarsi, dietro una porta interna. A cercare qualcosa che, forse, non era legale per un medico tenere sotto mano.
Mark si ritrovò a sorridere: non era *legale* che lui accettasse quello. Lo sapeva. Non era servita la telefonata di Antonio, la sera prima per ricordarglielo.
‘Puoi sempre dire di no, Mark. Puoi farlo. Nessuno ti potrà accusare di niente.’
Ma il mondo sembrava capovolto, le regole riscritte di fresco, e non sapeva perché, ma era come se si sarebbe sentito in colpa, se non avesse fatto di tutto per giocare, e per vincere.
Quella volta, più di tutte le altre volte, la sua presenza avrebbe avuto un peso decisivo. E lui *doveva* esserci sul campo, su quel campo, dove avrebbe dovuto fare quello che sapeva, e forse anche di più. Essere meglio di ciò che era, ecco quello che gli era chiesto, anche se ora non era certo di poter fare ciò che era nella norma aspettarsi da lui.
Chiuse gli occhi e sentiva male, dentro. Ricordava il silenzio lungo, penetrante, durante la telefonata di Antonio. Quel domandare senza parlare, quell’esserci senza dire niente. Quella presenza che sapeva sicura qualunque cosa avesse deciso.
Antonio era figlio di una scuola di calcio cinica e ricca, egoista, abituata a livelli elevati, disposta a tutto pur di avere il bel gioco, e una vittoria. Antonio sapeva bene che a volte bisognava chiudere gli occhi e stringere i denti, e lasciarsi fare quello che non si voleva perché quello era l’unico modo per ottenere ciò a cui si puntava.
Non era giusto, ma nessuno avrebbe mai affermato che quel mondo era *giusto*. La vita non lo era, per lo meno non lo era mai stata con lui.
Le belle parole di Alex sulla correttezza, sugli ‘scandali’, ora, non avevano più senso. Forse ce l’avevano in un mondo che non era il suo, in un mondo migliore, più civile, dove lo sport era giocare con le proprie capacità senza trucchi, senza inventarsi risultati che non si potevano avere. Da un’altra parte, che non era lì. E non era ora.
Soprattutto *non ora* quando tutta la squadra contava su di lui, aveva bisogno di lui, si fidava di lui..
‘Sei sicuro di volerci andare da solo? Se vuoi..’
Era più di quanto potesse pretendere da chiunque. E Antonio..
Socchiuse gli occhi: il computer era acceso al di là della scrivania.
Ricordò Price, un dolore che scava ancora dentro. Vergogna. E altro.
Altro: parole.
Price con le parole sapeva essere più velenoso di un serpente a sonagli e Lenders sapeva bene quanto potessero ferire, delle parole.
Si era alzato e seduto di nuovo quasi senza accorgersene: digitare il suo indirizzo, la password.
Il cuore gli mancò un colpo: come poteva saperlo, Price, di .. di *quello*. Il suo indirizzo privato. E una mail.
Non voleva leggerla.
Non *poteva*, non prima di una partita simile.
Selezionò l’opzione ‘print’ prima di chiudere le finestre. La stampante ronfò un poco per sputare fuori un foglio.
Che Mark non *voleva* leggere.
Lo piegò e lo infilò in tasca della tuta un attimo prima che il dottore facesse il suo ritorno. Una siringa, un ago, un flacone.
“E’ la prima volta che lo fai?”
Mark annuì, e si sentì stanco.
“Allora ti devo avvisare che è molto poco probabile che stanotte dormirai, ma almeno domani non ne saranno rilevate tracce nei controlli. E sarai così carico che te li mangerai gli avversari! – rise. La fiala vuota cadde sul pavimento, infrangendosi in mille schegge. La luce immobile tagliò di sbieco l’ago sottile a contatto con la sua pelle scura. Fuoco, nelle vene, violento e doloroso. Dovette chiudere gli occhi per un attimo, per essere certo che non sarebbe crollato a terra – Andiamo, andrà tutto bene! Sei forte, tu, e poi hai iniziato tardi..”
Non sapeva se era un’accusa, un complimento o chissà cosa. Mark prese un respiro e scoprì che non gli venne.
Se ne andò da quella stanza senza più voltarsi indietro, perché non avrebbe potuto senza sentirsi invadere dal.. dal disgusto. Non era stato abbastanza forte, era crollato prima della fine.. era colpa sua.
Doveva fare di tutto per rimediare..
*Di tutto*.
Poteva fare di più, e *peggio* di così?
Ed lo stava aspettando seduto sul letto, il capo chino, abbattuto tanto quanto lo era lui.
Mark non riuscì neppure a guardarlo: Warner stava fuori solo perché c’era Benji, non perché non ce la faceva, non perché..
“Che hai, Mark? – una voce, al sua, dolente, preoccupata. Sentì le sue dita accanto al suo viso scostargli i capelli cercando di non toccarlo, come se il farlo l’avrebbe mandato in pezzi. Forse, solo, non voleva dargli troppo fastidio.. e Mark si accorse di non averlo neppure sentito avvicinarsi. – Sembri uno che ha appena visto un morto!”
Mark sforzò un sorriso. Si aggrappò a quel foglio stropicciato che gli pungeva le dita dal fondo della tasca dei pantaloni e glielo porse.
“Mi fai un favore, Ed? Me lo tieni?”
Ed lo fissò in silenzio, stranito, prese il foglio liscio, piegato in fretta e scosse un po’ il capo.
“Cos’è? E’ successo qualcosa?”
“No. – Mark mentì. – Ma.. tienilo fino alla fine della partita. Non darmelo prima, neppure se te lo chiedessi. Per favore.”
Il fiato mancò, si ruppe.
Distolse lo sguardo.
“Mark..”
“Per favore, Ed.”
Era una dichiarazione di fiducia. Quasi qualcosa in più, per uno come Lenders. Ed comprese e non chiese più nulla prendendo quel foglio bianco tra le dita. ___
Il frusciare nervoso delle lenzuola, un sospiro d’irritazione appena trattenuto, soffocato.
“Holly?”
Nel buio quella voce suonò morbida, gentile.
“Sì? Non dormi Tom? Domani hai una partita importante.”
“Lo so. – un sospiro – E’ per questo che *tu* sei così nervoso?”
Un silenzio che si protrasse per un tempo insolitamente lungo, poi: “No. – una risposta franca, aperta. Proprio come era lui. – E’ una partita importante, ma mi fido di ognuno di voi. So che darete il meglio anche nella situazione in cui ci siamo trovati.”
Tom si mise a sedere sul letto.
“E allora perché sei nervoso? Non t’ho mai visto così.. preoccupato.”
“Forse perché *sono* preoccupato? – un sorrise che Tom intuì svanire un attimo dopo essere fiorito. Non era da Holly farsi prendere dallo sconforto, anche di fronte a uno scoglio obiettivamente difficile come quello che avevano di fronte e con i ragazzi così stanchi, come erano. Holly possedeva un dono incredibile, che era il suo spirito, oltre all’abilità innata di muoversi con un pallone tra i piedi, ed era proprio quello che l’aveva reso l’incredibile campione che era. La volontà e il coraggio, il suo non arrendersi, il suo sorriso che era sempre lì, anche nella fatica, nel dolore. Nel *tanto* impegno che ci aveva messo, in ogni cosa che faceva, anche nello sforzarsi di capirli, tutti loro, di essere vicino ad ognuno, per lavorare al meglio, per rendere il massimo. Non si era dato requie, da quando era arrivato, per essere sempre presente quando qualcuno potesse aver bisogno di lui e, da quel che aveva intuito Tom, non aveva mai fallito. A parte quando *qualcuno* aveva fatto di tutto per non avercelo tra i piedi. Per non essere aiutato. - Ho rivisto la cassetta dell’ultimo incontro, stasera, con Ross. Mark era a pezzi.”
Appunto.
“Hai sentito, credo come abbiano sentito tutti quelli che erano nel raggio di due chilometri almeno, quando ha urlato che non aveva nessuna intenzione di stare fuori e che ce la poteva fare. Che il suo ginocchio non gli fa così male come sembra.”
“Da lui non mi aspettavo niente di meno! Se così fosse stato, Tom, voleva dire che stava davvero male..”
Almeno doveva essere in coma in un letto d’ospedale.
“Sappiamo tutti com’è Lenders.”
“Già.”
Un nuovo silenzio, prolungato. Tom si chiese cosa sapesse in effetti Holly di tutta quella storia, se magari Mark gli aveva parlato.. li aveva visti un paio di volte a rivolgersi la parola, sul campo. Era stato certo che si stessero scambiando chissà che consiglio, perché l’idea di Lenders in vena di confidenze gli sembrava impossibile, ma magari si era sbagliato..
“Credi che il suo ginocchio non reggerà?”
“Non è il suo ginocchio che mi da pensiero. E’ lui.”
Allora lo sapeva anche lui! O forse, semplicemente, s’era fatto un’idea abbastanza realistica del disastro emotivo che si stava portando dentro. Non era semplice distinguere, in Lenders, l’orgoglio dalla sofferenza, e l’arroganza dal dolore, ma Tom era certo che non c’era nulla che potesse accadere a uno dei componenti della squadra e di cui Holly non se ne potesse accorgere immediatamente.
“Ne avete parlato?”
“Con Mark? Scherzi? Ho provato ad accennare qualcosa e lui mi ha guardato con una faccia che, credo, se non fosse stato così stanco mi sarebbe saltato alla gola.”
Tom si trovò a sorridere: classico di Lenders, fare finta che le cose indesiderate non esistessero. Per lo meno: le cose gravi. Qualunque altro problema l’avrebbe polverizzato da solo nel giro di mezza giornata al massimo.
“Lo immagino.”
“Tu ne sai qualcosa?”
Tom tentennò. Non era certo di poterne parlare con Holly, in fondo Warner s’era fidato molto di lui e gli aveva domandato al massima discrezione. Però Holly era il loro capitano, ed era loro amico, anche se Lenders non l’avrebbe mai ammesso. Era *suo* amico, soprattutto. E ..
“Ed mi ha accennato ad un problema, in effetti. – un respiro sibilato, sfuggito dai denti – Sono andato a parlare con il suo capitano.”
“Il suo? Di Lenders?”
“Sì. Fra pochi giorni hanno una partita importante anche loro. Però qualche settimana fa sono andato al loro ritiro perché Ed mi aveva chiesto un .. favore.”
Sentì Holly muoversi nervoso.
“E’ grave?”
“A vedere i risultati direi che l’ha presa molto peggio di quanto ci si potesse aspettare.”
“Credi di potermi spiegare?”
La parola che aveva dato a Warner e il senso di colpa, già presente, di stare intromettendosi nella vita privata di uno di loro senza il suo permesso: questo era quello che pesava da una parte. Dall’altra si sentiva impotente. Lui e Warner erano stati ore a fissarsi e a pensare a qualcosa, qualunque cosa che potesse rivelarsi utile in quel frangente, ma non l’avevano trovata. Forse non c’era. Forse dovevano chiedere a qualcun altro. Forse dovevano lasciare che Mark se la cavasse da solo anche perché, se l’avesse anche solo sospettato che stavano ficcando il naso nella sua vita privata li avrebbe mangiati vivi entrambi. Forse..
Fin da subito Tom aveva pensato che avrebbe potuto, *dovuto* chiedere a Holly. Di lui si fidava davvero, e non avrebbe messo in agitazione l’intera squadra e magari, ma solo magari, avrebbe potuto rassicurarlo su quello sguardo che vedeva addosso a Price ogni tanto quando c’era Mark. Anche i muri si erano accorti ormai che i due non si rivolgevano la parola, e che, se appena potevano, non si guardavano neanche. E Benji, che era sempre stato suo amico e anche un confidente equilibrato, pacato e gentile, ora si era rifiutato di dargli spiegazioni a riguardo perché ‘non ci sono spiegazioni, Tom! Non lo sopporto! Non ci siamo mai sopportati, tutto qui. Piantala di fare domande su argomenti che non dovrebbero interessarti!’.
Si morse un labbro.
Holly era Holly.
Era suo amico e.. l’aveva sempre sentito vicino. Vicino al cuore. Era stato, in tutti quegli anni, un punto di riferimento prezioso. Anche lontani si sentivano almeno due volte a settimana via telefono, e poi le mail e.. non poteva non fidarsi di lui, perché sarebbe stato come non fidarsi di se stesso. In più Tom aveva un disperato bisogno di qualcuno che gli dicesse che non aveva fatto una sciocchezza, che non si stava preoccupando per nulla e che.. che..
“Sì. – sussurrò appena – Mi aiuterai, vero?”
“Ma certo! – Tom sprofondò la testa nelle braccia, appoggiando la fronte alle ginocchia. Si ritrovò a sorridere, di nuovo: era Holly. Gli faceva sempre quell’effetto – Come sempre, Tom! Sono qui per te.” |