NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! NOTE 2: di calcio non ne capisco nulla, come si può chiaramente intuire. Se ho scritto stupidate sull’argomento chiedo perdono, spero vi basti la buona intenzione! NOTA PERSONALE: sì, *odio* la squadra della Corea –nord o sud non fa assolutamente differenza dal mio personalissimo punto di vista-. Se qualcuno volesse commentare che solitamente la Corea non è così che gioca (perché io non lo so com’è che giocano ‘sti fetenti!) e informarmi su cosa effettivamente fanno, risponderei ringraziando per la notizia (può sempre venir utile, non si sa mai), ma la fic non perderebbe un filo di senso. Ok, potevo metterci qualunque altra squadra, ma lasciatemi sfogare!
#flashback#
La Tigre parte XII di Dhely
L’indomani ci sarebbe stata una partita.
Ovviamente.
Mark sbuffò appena mentre le porte automatiche dell’ascensore gli si chiusero alle spalle con un sibilo ovattato. Certi tornei erano terribilmente spossanti, e non solo per la tensione psicologica di stare giocando per i Mondiali.
Era il ritmo preteso, era.. era ovvio che fosse così. Quanto lo pagavano per quello che stava facendo? Il minimo era che facesse un po’ di fatica. Di fronte alla porta della sua stanza si appoggiò lentamente allo stipite dell’ingresso, sollevando appena la gamba che gli dava noia.
Odiava quando i medici lo chiamavano nell’ambulatorio della squadra e gli facevano discorsi su discorsi che certe cose erano ‘cure’ e che non poteva far finta di niente, e che non doveva continuare a comportarsi in quel modo, e..
Paura!
Loro credevano che avesse paura, dopo le cose che erano successe, dopo le inchieste della magistratura, dopo quello si era sentito nei telegiornali, nelle rubriche sportive di calciatori imbottiti di chissà che medicinali, che influivano sul rendimento, sugli organi interni, sulle capacità. Erano dei cretini. Lui non aveva paura.
Era solo .. orgoglio.
Lui non aveva bisogno di una dannata iniezione per giocare 90 minuti. Per correre dietro a una palla. Per essere quello che *sapeva* essere. Gli faceva male il ginocchio, e allora? Avrebbe chiesto la presenza di un medico quando.. quando non ce l’avrebbe più fatta da solo, ma prima di allora.. Era lì, era ai campionati Mondiali di calcio, aveva un contratto con una delle più forti squadre europee, *lui*, e da giovane nessuno avrebbe mai scommesso un bottone sul suo futuro. Aveva lottato e costruito attimo per attimo la sua vita, una vita che forse il destino non aveva stabilito ma che lui aveva voluto. E aveva ottenuto.
Ma bisognava giocare pulito, quando si puntava così in alto perché, se no, non sarebbe servito a nulla. Perché, quand’anche fosse caduto, qualcosa potesse rimanere, lì, vivo. Saldo.
Era così che doveva andare, non c’erano scorciatoie valide, non c’erano scusanti adatte al suo ego.
Non era essere famoso di fronte a un branco di spettatori che non capivano un accidente della sua vita, di ciò che era e di ciò che faceva. Ma era essere consapevole di essere forte, un campione. Era guardarsi in uno specchio e *sapere* e sentirsi soddisfatti. Mai appagati del tutto, ma nella sua vita c’era sempre stato solo lui, il suo desiderio, la sua passione. Il resto era nulla. Il resto era..
Non si era accorto di lui, della sua presenza finché non sentì il suo corpo premergli addosso, da dietro. Una mano fra i capelli, l’altra intorno alla vita. Il fiato sulla guancia, accanto all’orecchio.
Mark sentì un brivido che non riuscì a nascondere, i pensieri che si sfaldavano come un castello di polvere sfiorato da un alito di vento.
Benji rise, nella sua solita maniera. Sembrava divertito.
“C’è una mail privata per te, lo sai? – un sussurro appena udibile – Sembra urgente. E poi non dire che non mi preoccupo di te.”
Non lo baciò, non lo strinse di più. Lo lasciò andare lentamente, guardandolo e lasciandosi guardare, non aspettando una domanda, una qualche parola che, Benji già sapeva, non sarebbe venuta. Non c’era nulla da dirsi.
Mark sbatté le palpebre. Cercò, quasi senza un vero desiderio, qualcosa di cattivo da tirargli addosso, ma non la trovò. Si strinse nelle spalle ed entrò nella sua stanza. La porta si chiuse da sola, non accompagnata. ___
Danny ovviamente non era in panchina. Non poteva più starci, ormai il suo lavoro, se centrava con la Nazionale, non lo portava di certo ad essere fondamentale a bordo campo. E un procuratore legale, solitamente, preferiva assistere alle partite ben comodo, nelle poltrone vip assegnate ai dirigenti.
Non sentiva più le grida, le parole, i suoni tipici di una partita di calcio. Non sentiva più il rumore sordo del pallone colpito di tacco. O la strana musica che si traeva da esso: che bastava avere un orecchio allenato per capire se il tiro avrebbe avuto una buona angolazione o no, se era stato calciato con precisione o era scivolato via dai piedi.
Aveva perso lo sguardo dei compagni, il respirare profondo di chi rallentava per un attimo la corsa, per riprendere fiato. Il risultato di una partita che, spesso, era già scritto negli occhi di chi la giocava.
Non sentiva più l’odore del campo, l’erba che si piegava sotto i tacchetti, la fatica, il sudore. E non avvertiva più addosso quella scossa che percorreva tutto il gruppo, durante un’azione, come un’ondata invisibile che si abbattesse sulle loro teste.
Aveva perduto tutto questo, ma ora aveva acquisito una nuova visuale: un punto di vista laterale, ma esterno. Non più dentro, sul pallone, ma fuori, *sopra* il campo. Li vedeva tutti, la sua squadra e quella avversaria, vedeva gli schemi, capiva le tattiche. E..
Mark aveva fatto gol.
Mancavano 5 minuti alla fine del primo tempo e, alla ripresa del gioco, era rimasto lì.
Arretrato, quasi a centrocampo.
Fermo.
Danny strinse un po’ gli occhi cercando, anche da quella distanza, di vedergli il viso. Cosa ovviamente impossibile. Non pareva dolorante. Non era rimasto a terra, non era piegato sulla schiena, le mani sulle ginocchia a prendere fiato. Non si era neppure avvicinato alla panchina per bere un sorso d’acqua.
Stava, probabilmente, solo riprendendosi un po’.
Ed era una cosa che Mark non faceva mai. O almeno non..
L’altra squadra, la Corea, era un avversario inaspettato, a dir poco. La Corea, che squadra mai poteva essere?! Eppure, dannazione, erano lì, e giocavano pesante, e sporco.
Mark era stato fermato malamente un paio di volte, ma si era sempre rialzato anche se le entrate erano decisamente fallose, a gamba tesa sulla caviglia. Non l’aveva visto zoppicare. Non l’aveva visto particolarmente furioso, o dolorante.
Ma ora?
I minuti passarono, impassibilmente lenti.
Quando l’arbitro fischiò per la sospensione della partita Mark continuò a rimanere immobile in mezzo al campo. Ed gli si avvicinò chiedendogli qualcosa. Ci fu una risposta secca, forse, forse solo lo scuotersi di un capo. E il portiere corse via mentre Mark seguiva le sue orme molto più lentamente.
Danny si alzò in piedi di scatto. ___
Gli spogliatoi erano stranamente quieti. Silenziosi, sì, ma non tranquilli.
Holly, quando vi si precipitò dentro, si guardò intorno realmente ansioso.
“Dov’è Lenders?”
In fondo era il capitano, lui ed era responsabile dei ragazzi e..
Patrick sollevò una mano indicando le docce.
Le docce: una era aperta, l’acqua vi scorreva rumorosamente, un lieve brusio poi un urlo.
“Fuori! Fuori!”
Danny sbattè la schiena contro il muro bianco e sembrava sconvolto.
“Che sta succ..”
Fu il medico a interrompere qualsiasi altra discussione, entrando, lui, nelle docce, e facendo uscire a forza Warner.
Mark era seduto sotto il getto freddo della doccia. Un’espressione terribile, felina, gli contraeva il viso, quasi nascosto dai capelli che gli si appiccicavano addosso. Ross era lì accanto, guardò il medico della federazione e non disse nulla.
Ross, purtroppo per lui, conosceva bene certe espressioni dipinte sul viso dei calciatori e dei medici. Sapeva quella sensazione di sconfitta, ricordava quel sapersi fragile. Ricordava cosa volesse dire avere di fronte a sé la dimostrazione di essere solo uomini. Che potevano soffrire, che potevano ferirsi, farsi male. Che avrebbero potuto *non* potersi più permettersi di fare ciò che amavano.
Tutto quello a lui aveva insegnato l’umiltà. Mark come avrebbe reagito?
“Qual è?”
“Il sinistro. - Mark non riuscì a sussurrare una sola sillaba, fu Ross a dirlo al posto suo. Poi gli posò una mano su una spalla – Mark, sei sicuro?”
Strinse i pugni.
“Ho un’infiammazione, *posso* fare questa iniezione senza problemi per la partita, no?”
Il medico non si diede neppure il tempo di ascoltarlo. Le sue azioni erano asciutte, movimenti decisi, di chi sapeva benissimo cosa stava facendo, e come farlo. Come se l’avesse già fatto migliaia di volte. Magari l’aveva fatto davvero migliaia di volte: in quel momento non era un vero problema.
“Andiamo, ragazzo. – un sorriso ghignante – Grande e grosso e hai paura di un ago?!”
L’iniezione era dolorosa, a Mark non importava. Non aveva mai fatto paura il dolore fisico. Ma aveva paura di quello che sarebbe arrivato poi..
“Ce la fai?”
Mark annuì. Il medico frugò di nuovo nella borsa.
“Non credo, ne avevamo già parlato, no, Lenders? Dovresti..”
“No.”
Ross aggrottò la fronte.
“Che succede?”
“Niente.”
Il medico si alzò sbuffando.
“Sai dove sono quando avrai bisogno, Lenders.”
Ross sibilò una maledizione.
“Avrà bisogno di cosa?!”
“Non parlavo con lei, mister.”
“E’ un mio giocatore!! Di cosa stavate parlando?”
L’uomo si strinse nelle spalle.
“Non bisogna essere un mago per vedere che non si reggerà in piedi da solo per le prossime partite.”
Mark si sollevò lo sguardo e sembrava furibondo. Forse lo era, lo era davvero. Ma in un modo che Ross non seppe riconoscere: la furia fredda, senza speranza, terribile, mordente, *quella* furia era così poco da Mark che Julian non seppe come interpretarla.
Mark si sollevò in piedi senza neppure tirare un respiro. Prese il medico per una spalla, ringhiando.
“Può andare, ora!”
L’uomo uscì dalle docce, Holly venne avanti, nello specchio della porta e si ritrovò a fronteggiare la loro tigre, terribilmente furiosa anche se fradicia. Terrorizzante anche se sconvolta.
“Che succede?”
“Nulla.”
“Lenders ha bisogno di una maglietta asciutta. – superò Mark e poi Holly, per piantarsi nel bel mezzo dello spogliatoio pieno di ragazzi attoniti che si guardavano intorno cercando di capire se ciò che avevano intuito era davvero quello che era successo oppure no. E poi: no, che non era possibile che Mark avesse un problema, Mark non aveva mai problemi, Mark non aveva mai niente.. Batté le mani con forza – Che succede?! Ma che fate tutti qui?! C’è un altro tempo da giocare, o ve lo siete dimenticati?! Forza! Andiamo!”
Se il capitano ufficiale e quello ufficioso avevano qualcosa da dirsi, non lo fecero. Mark aspettò una frase, qualcosa che avrebbe potuto farlo esplodere, ma non venne. Lo sguardo di Oliver, improvvisamente si ammorbidì di una comprensione che era stupore e insieme..
Non chiese se ce la faceva, se stava male, se il ginocchio avrebbe retto. Lo guardò e non disse niente.
Lo sapeva, lui meglio di tanti altri, che *stava* male e che no, forse il ginocchio non avrebbe retto se non fosse stato supportato da una volontà che sapeva sopportare l’umiliazione, oltre che il dolore. Holly sapeva che Mark era davvero una tigre, e non si sarebbe fermato per nulla al mondo. E lui, meglio di tanti altri, sapeva bene cos’era quando il proprio corpo tradiva, quel corpo che tutti loro avevano addestrato, coltivato, piegato ai propri desideri: quando arrivava il momento in cui esso cedeva spesso anche lo spirito crollava, e la fiducia sfumava.
Erano fortunati perché Mark era un malefico cocciuto, e non si sarebbe lasciato abbattere per così poco. Ci avrebbe messo di nuovo tutta la sua rabbia, tutto il suo dolore, e li avrebbe trascinati dove voleva lui.
Holly si sentì profondamente fortunato ad avere in squadra uno come Mark, e se ne accorse in quel preciso istante, quando Mark non era proprio al massimo della forma, quando, per la prima volta dopo tutte le partite che li avevano portati fino a lì, dovevano preoccuparsi per lui. Dovevano *darsi pena* per lui, e non viceversa.
“Hai promesso che avresti giocato solo un’altra partita oltre a questa.”
Mark annuì, Ross ritornò dentro con una maglia asciutta.
“Fra due minuti c’è il fischio d’inizio. Credo che sia meglio che Philip ora giochi più avanzato. E Patrick stia più centrale.”
Mark chiuse gli occhi.
Holly incrociò le braccia.
“E’ da due partite che lo dico, bisogna rallentare il ritmo di gioco. Correte troppo! Non è necessario.”
Mark si ritrovò a sorridere, amaro.
“Comunque sia, vinceremo lo stesso. – un sospiro seccato – E, Ross, avvisa Danny, per favore, che non è necessario fare tutte queste scene.” ___
# Alex era uscito dall’ospedale dopo un paio di settimane. A Mark era parso di poter riprendere a vivere.
Le serate passate seduto su quel divano, con Alex che non riusciva a stare fermo e che non avrebbe mai accettato di farsi accudire come se fosse un bambino.. era felice, entusiasta, nonostante tutto quello che aveva passato: diceva che aveva da lavorare, che doveva assolutamente scrivere quello che sapeva.
E passava ore su ore a pigiare le dita sul suo portatile. Ogni tanto sollevava la fronte, e gli sorrideva.
Ogni tanto sollevava un braccio e tirava Mark a sé, vicino. Gli baciava il viso, gli occhi, le labbra. Lo spingeva facendolo stendere sotto di sé e le labbra, le mani, il corpo, il fiato. Le sue parole addosso. Mark si sentiva sciogliere: era come ritornare ad essere un bambino e non voleva fare altro che piegarsi ai desideri di Alex, e rimanere lì, fra le sue mani, e obbedire senza fiatare, con il timore, sul fondo del cuore, che tutto quello fosse solo un sogno, che quello non esistesse davvero.
Su quel divano spesso Mark apriva gli occhi. Non per guardare Alex, che quella forza non la sentiva ancora, ad osservare quel corpo che portava le ferite di una cosa di cui nessuno dei due aveva ancora dato voce, no, ma per guardare.. il soffitto e un lembo della parete ricoperto di fotografie, collage di frammenti di vita, emozioni, trascorsi, avventure.
La vita di Alex.
I suoi sogni.
Il suo orgoglio.
Cosa centrava, in tutto quello, un giocatore di calcio?
Niente.
Mark lo sapeva.
Niente: Alex era un reporter, girava il mondo seguendo uno stimolo che solo lui avrebbe saputo spiegare, ma che forse non avrebbe potuto, visto che spesso, per le cose importanti, non si trovano parole. Alex era un esperto di politica internazionale. Alex conosceva scrittori, artisti, opinionisti, politici, professori, uomini colti e interessanti che, con lui, dividevano interessi che per Mark non esistevano neppure.
Cosa ci faceva Alex con uno come lui?
Allungava le mani, Mark, e lo stringeva. Lo sentiva sussurrare, e tremare e si impediva di guardarlo negli occhi, chiudendoli. Non voleva guardarlo perché non aveva nulla da vedere.
Sapeva solo che il suo esistere, con Alex, era solo lì, fra le sue braccia, in quel salotto troppo ingombro di giornali, di carte, di libri, e di quello schermo sempre acceso di fronte a loro.
E questo lo faceva sentire piccolo. Vulnerabile. Ma fra le braccia di Alex andava tutto bene, anche sentirsi così, come credeva non avrebbe mai più potuto sentirsi. Andava bene sentirsi ancora un bimbo, lui che non ricordava quasi più come fosse l’abbraccio di un padre, andava bene provare ad avere accanto qualcuno che lo proteggesse, che allungasse una mano per dirgli, solo, che le cose andavano bene, e che il mondo non sarebbe mai cambiato, che ci sarebbe sempre stato qualcuno che avrebbe fatto in modo che nulla crollasse, che nulla, in quel presente vivo, potesse cambiare. Che lui non doveva fare niente, che non doveva preoccuparsi di niente. Che tutto sarebbe finito bene. Che l’avrebbe protetto. Che..
E anche se era una menzogna, quella, Mark sapeva che in quell’appartamento, su quel divano, essa era la verità. Una parentesi che si apriva e si chiudeva separando quello spazio da tutto il resto. Mark ne aveva bisogno. In quegli istanti non importava null’altro.
E, in quel periodo della sua vita, si accorse che era solo il pensiero di quella parentesi, di quell’universo parallelo che lo aspettava tutte le sere, a dargli la forza, la voglia di continuare ad allenarsi, a giocare, a correre, a vivere come aveva sempre vissuto.
‘Distante’. Antonio lo redarguiva spesso, e gli diceva che non si concentrava, gli chiedeva dove diavolo avesse sempre la testa anche se sul campo faceva sempre un gioco ottimo, anche se il loro allenatore non poteva di certo lamentarsi e con la squadra andava tutto benissimo, il Campionato, le Coppe..
Ma Antonio non era ‘la squadra’, Antonio lo guardava e lo vedeva. E, peggio di tutto, capiva. Quello che forse neppure Mark aveva ancora capito bene. Sì, aveva ragione Antonio: troppo spesso pensava ad altro ma non faceva nulla di male, e poi, che diavolo s’impicciava quell’italiano? Che gli importava?
Quando Alex era lì, la sua pelle addosso, le sue mani, le sue labbra, il suo corpo che si muoveva contro il proprio, tutto il resto svaniva. Antonio e le sue storie. Forse svaniva anche la tigre. Svaniva tutto se stesso.
Non avrebbe mai trovato il coraggio di chiedere ad Alex cosa fosse lui, il calciatore, per il grande reporter.
Aveva *paura* di quella risposta e, dunque, semplicemente, non la poneva. Ma sapeva quello che aveva, quello che sentiva. Sapeva di non volerlo perdere, di non *potere* farne a meno.
Chissà se Alex si accorgeva di cosa gli stava facendo? Di come lo stava avvelenando lentamente, gocciolandogli nel sangue, nei muscoli, dentro, fino al cuore?
Mark respirava, si rilassava, diventava morbido come una bambola svuotata di qualsiasi sensazione, di qualsiasi desiderio che non fosse quello di essere lì.
Lui voleva essere lì, da nessun’altra parte.
Alex gli dava fiato, e calore, gli dava ciò che gli mancava, da tanto, troppo tempo. Sentiva rinascere dentro qualcosa che credeva morto e sepolto nella sua anima, e tutto era per merito di Alex.
Alex era la sua vita, per un paio d’ore almeno, strappate agli impegni di uno e al lavoro mai finito dell’altro. E il piacere era qualcosa che stava in bilico fra l’estasi e l’ansia che troppi pensieri facevano nascere e rendevano concreti.. ma Alex era lì, lì per lui.
Senza promettere niente, senza offrire niente se non se stesso.
A Mark andava bene così.
Avrebbe voluto che quello continuasse per sempre.
Una routine fatta di lunedì mattina nei quali veniva sempre svegliato da Alex che gli chiedeva come era andata la partita perché lui era stato troppo impegnato per guardarla che aveva un sacco da fare.
Una routine costruita su quel divano che era diventato alcova e luogo di discorsi, di liti, di gelosie fulminanti, come quando Alex l’aveva inchiodato sotto il suo peso con uno sguardo fiammeggiante e aveva osato *schiaffeggiarlo* perché un suo collega gli aveva detto che si era ventilato, tempo prima, che Lenders avesse avuto una storia con un portiere tedesco..
Il divano, mai il letto.. era importante il fatto che Mark non si ricordasse di aver mai visto la stanza da letto di Alex? Ovviamente no.
Gli andava bene tutto. Ogni cosa. Bastava tenere gli occhi chiusi, e sentirlo, avvertirlo addosso. Saperlo lì. Andava bene.
Fin quando Alex, una mattina come tante altre, aveva mandato un messaggio a Mark, sul cellulare. Diceva che dovevano parlarsi.
Mark quasi aveva riso: che idiozia! Si vedevano ogni sera, che bisogno c’era di avvisarlo che si sarebbero parlati? Per lui Alex poteva dirgli tutto quello che voleva..
Quasi.
“Senti, basta. Sono stufo. Tu stai per partire per i mondiali e starai via un paio di mesi e io.. volevo dirtelo da un po’ ma ci divertivamo, no? Bhè, la stai prendendo un po’ troppo seriamente, e non voglio che parti con chissà strana idea in testa. Così, tanto perché le cose siano chiare.. volevo avvisarti..”
Mark non aveva seguito proprio tutto il discorso. Era stato in quel momento che si era accorto di essersi *innamorato*.
E si sentiva stupido, idiota.
Innamorato di uno come Alex? Uno con cui era ovvio che non avrebbe mai potuto costruire niente! Non c’era futuro per loro due, e Alex aveva ragione, era tutto così ragionevole e intelligente.. e .. Il mondo aveva ondeggiato pericolosamente tutt’intorno.
I ricordi gli affiorarono alla mente, tutti insieme, come se stessero facendo ressa per ritornare alla luce. Violenti. Arroganti. Dolorosi.
Non aveva detto di no quando Alex l’aveva spinto giù, di nuovo, sul divano. Non aveva detto di no quando l’aveva spogliato, quando l’aveva baciato, accarezzato, quando l’aveva posseduto, quando l’aveva fatto venire. Non aveva rifiutato quando Alex gli aveva fatto presente che forse, era ora che se ne andasse.
Aveva chiuso la porta del suo appartamento con un tonfo secco e nel silenzio immobile che aveva rincorso i minuti increduli, passati in piedi, la schiena contro il muro a cercare di capire, di afferrare .. in quegli istanti sentì, dall’altra parte del muro un telefono squillare e la voce di Alex rispondere e poi ridere.
Non per lui. Non *con* lui.
Lì si accorse che *cosa* era iniziato, tra lui e Alex. E nello stesso istante si accorse che era *finito*.
Qualcosa gli rimbombò dentro, come una campana che suonasse a morto. Come un gong che spaccasse i timpani.
Poi il silenzio. # |