NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! Alex, al contrario degli altri, è un mio personaggio per cui posso strapazzarlo quanto voglio senza rischiare chissà cosa.. o no?!
La Tigre parte X di Dhely
Anche ora, nel sonno, Mark riusciva a vedere la strada.
*Quella* strada.
Aveva, impresso, dentro, ogni metro. Ogni fiocco di neve che scendeva lento da un cielo d’opale, dalla luce talmente chiara da fare male agli occhi, da farli lacrimare. E il vento ghiacciato, l’ultimo dell’inverno, che spazzava quella città troppo carica di neve, e annoiata di quella coltre bianca. Una città che aspettava una sola, singola, inutile scusa perché i boccioli si schiudessero e l’erba ritornasse verde sui prati. E le colline attorno non sembrassero più lo scenario immobile di un eterno presepe ma finalmente la corona che meritava.
Bastava guardare per sapere che quella sarebbe stata l’ultima neve.
Bastava annusare il vento per cogliere il presagio di ciò che stava per succedere: la violenza della primavera sulla terra, lo sbocciare, il fiorire delle piante che s’erano preparate a quella lunga agonia durante le infinite notti invernali.
Mark lo sapeva, ma non aveva tempo.
Antonio aveva guidato come un matto, più del solito, eppure a lui era parso che, se fosse venuto a piedi, avrebbe fatto più in fretta.
A piedi, sì, perché la sua moto non sarebbe neppure riuscito a farla partire.
Ricordava anche ora lo stridio dei freni sull’asfalto ghiacciato del cortile sgombro. L’entrata di vetro pallido che riverberava una sfumatura verdognola, e l’odore, come uno schiaffo fisico, un qualcosa di denso, appiccicoso che si avvinghiava addosso e che pareva non l’avrebbe mai più lasciato.
Mark ricordava i gradini di quella scala antica, di quello che doveva essere stata una struttura vecchia, rimodernata per quanto fosse possibile. Le scale, sì: era una scalinata larga, i gradini bassi.
Li aveva fatti tre a tre.
Ad ogni rampa si apriva un’enorme finestrone, alla sua destra: il Po, le colline innevate. Una visuale amplissima, luminosa, ma che non riusciva ad essere bella. Doveva essere l’odore, quell’odore che rendeva impossibile guardare senza *sapere* dove si era. E i rumori infiniti e minacciosi, lievi, che non sapeva da dove venivano ma che erano sempre lì.
Un ospedale è un animale insonne, che durante la notte forse rallenta appena un po’ il battito del suo cuore. Ma non c’è requie, non c’è tranquillità. Le luci non si spengono mai. I passi non smettono mai di percorrere quei corridoi. E la mente che corre. E i pensieri. Il dolore.
La paura.
La paura che diventa una cosa, viva, palpabile, che sta lì, accanto ad ogni letto, che respira e pulsa. E ci rende consapevoli non tanto di essere mortali, ma di essere soggetti al dolore, alla sofferenza, di essere completamente indifesi di fronte agli attacchi della vita.
Una paura strana, sottile, che non ha bisogno di mostrare i muscoli, o il balenare sinistro di un’orbita vuota di un teschio lucido per ghiacciare i cuori.
Mark ne era atterrito.
Ora, in quella notte tiepida, piena di morbido piacere, Mark vedeva dunque una scala che era diversa da quella che partiva pochi metri più in là dal campo di calcio. Ma era sempre una scala, e c’era sempre la corsa, i suoi muscoli a tendersi e rilasciarsi, disperati quasi. Il risuonare dei suoi passi in un silenzio irreale.
Lì, come a Torino, c’era qualcuno ad attenderlo in cima alle scale. E lì, come a Torino, Mark aveva calcato un preciso gradino e aveva *saputo* che non ce l’avrebbe fatta. Che avrebbe *voluto* non farcela.
Mettere un piede in fallo. Oppure, semplicemente, cedere in tutto il corpo, e rimanere lì, immobile, a metà percorso. A metà salita.
Perché non voleva sapere, non voleva vedere cosa c’era su, ad aspettarlo. Perché non era.. non era *pronto*. Non era abbastanza forte, e quello era un fardello troppo pesante e lui non voleva.. non voleva..
Ma se il suo cuore ogni volta andava i frantumi, se ogni volta era stata la volontà a dominare l’istinto, ogni volta per lui era stato un po’ come morire, per accorgersi che morire non doveva essere così male. Non era peggio che la paura.
E, come su quella scalinata che portava al tempio, anche a Torino era arrivato in fondo alla sua corsa.
Di notte, con un paio di infermiere che gli sussurrarono astiose che ‘in ospedale non si corre’. Lui era arrivato di fronte a quella stanza perché non s’era dato tempo di fare altro. Se avesse camminato si sarebbe fermato e non avrebbe più mosso un passo, oppure addirittura avrebbe voltato la schiena e se ne sarebbe andato.
Era troppo pesante. Lui non riusciva a reggerlo, quel dolore.
Era lì, e aveva corso. E il fiato gli si tagliava nei polmoni non certo per la fatica: un letto bianco. Una sagoma immobile.
Per un attimo aveva creduto che fosse morto.
Che Alex fosse morto. E che lui stesso fosse morto: il suo cuore gli si era gelato in petto, per un istante aveva smesso di battere, per un istante tutto era stato niente. E il vedere era stato insopportabile e insieme gli si era schiantato addosso il peso della consapevolezza che la volontà non poteva niente contro il mondo. Contro la vita o la morte. Contro il cuore delle altre persone.
E Mark aveva saputo, in quel preciso istante, che se Alex fosse morto, lui non l’avrebbe seguito. Non sarebbe crollato esanime su quel pavimento bianco come dicevano nei film. Avrebbe sofferto. Il suo cuore avrebbe potuto diventare cenere, ma lui non sarebbe morto.
La paura era più forte della morte.
La paura era la regina della vita. La loro tortura eterna. E lui..
Ma Alex non era morto.
Lo vide voltare lentamente il capo in quella semi oscurità violentata appena da una lama di luce chiara, proveniente dal corridoio, che faceva fuggire il chiarore morbido che proveniva dalla finestra accanto a cui era il letto. Lo guardò e lo riconobbe. Mosse appena due dita e Mark si stupì di trovarsi così vicino da poterle toccare.
Le sentiva ancora sulla pelle, addosso, ora. Quella mano grande, più grande della sua, che avvolgeva le sue dita con un sorriso, cercando di strappargliene uno in risposta.
Un sorriso che non venne.
Non venne niente.
Avrebbe voluto, Mark, e lo voleva con forza, mettersi a piangere come un bambino. Ne sentiva il bisogno, come se con le lacrime avrebbe potuto far meno pesante la presa che il dolore aveva sul suo petto. Avrebbe voluto sentire le ginocchia cedere e rimanere lì, a metà fra la coscienza e il deliquio. Non essere più responsabile di sé, se non del proprio sollievo, così forte, così doloroso, che scavava infiniti tunnel nella sua anima.
Non aveva sorriso, e non aveva pianto.
Ora, invece, sentiva le lacrime sfiorargli le guance. E il dolore, dentro, montare come onde infuriate che si abbattevano contro la scogliera costruita dalla sua stessa anima.
Gli mancò il fiato, annaspando.
Una mano sorta dal nulla lo quietò dolcemente.
“Sht, Mark. Stai tranquillo. Sono qui.”
Alex gli aveva detto le stesse parole.
“Non voglio. Non posso.”
La sua stessa risposta di anni prima. E, incredibile, un singhiozzo a spezzare il silenzio di ghiaccio in cui era avvolto.
Braccia forti intorno alle spalle. Un sussurro conosciuto, un altro accompagnato da uno strattone, un abbraccio che poteva far male, se lui non fosse stato Mark, la tigre, a cui nessuno poteva fare del male.. e un’altra voce.
‘Mark.. oh, Mark, dannazione, con tutti gli uomini, proprio *tu*..’
Se era un sogno o solo un ricordo che si sovrapponeva ad un altro, mischiando il passato remoto col presente e con altre mille sensazioni, Mark non lo seppe dire.
Riuscì solo a soffocare, forte, un brivido che gli scosse le spalle, chiudendo con violenza gli occhi al mondo, perché non voleva vedere niente, non voleva sentire, né sapere.
Voleva solo..
“Non posso. Non voglio.”
La disperazione incrinò la voce, visto che al dolore Mark non aveva mai permesso di mostrarsi.
Mostrarsi, poi, a chi? Non c’era mai stato nessuno che si preoccupasse di lui, che .. si lasciò abbracciare. Uno solo, una volta, aveva mostrato di interessarsi a quel qualcosa che viveva sotto l’immagine che dava di se’ al mondo. Uno c’era stato che aveva sbirciato oltre il limite oscuro della sua coscienza. Uno solo: aveva visto e non aveva compreso.
Mark era grato alla sua fortuna per questo: non era pronto a mostrarsi vulnerabile a chicchessia ed aveva sempre ringraziato che nessuno mai l’avesse trattato come se non potesse sopportare le sentenze che la vita emetteva.
Lui *non* era vulnerabile! Lui *non* era debole! Lui non soffriva, mai. Lui non piangeva. Lui non aveva bisogno di nulla e di nessuno.
Lui .. lui non poteva, e non voleva quel dolore. La volontà poteva infrangere la realtà? Piegare ciò che era stato deciso? Mark non lo sapeva.
Ma al posto di continuare ad arrovellarsi fra il sonno e la veglia, a soccorrerlo ci fu una sensazione tiepida, come di qualcosa di morbido e leggero che gli si posasse addosso. E calore. Protezione quasi.
Fu l’ultima cosa che riuscì a ricordare, poi tutto scolorò divenendo indistinto, in un sonno pesante, desiderato, tiepido e avvolgente come l’abbraccio di un amante che sapeva ascoltare il silenzio e, in silenzio, comprendere. ___
Ed Warner sapeva essere un cocciuto malefico testardo, lo sapevano tutti. In fondo, per aver sopportato per così tanti anni uno come Lenders, non doveva avere un gran bel carattere. Ma quella mattina si mostrò irremovibile, granitico e impossibile al punto che quasi anche Ross perse la pazienza con lui.
Danny si ritrovava a guardarsi intorno con uno sguardo sbigottito oltre ogni dire, mentre gli altri erano certi che lui sapesse.. lui *doveva* sapere, no?! Era amico di Mark da sempre e pure di Ed. Era anche il suo procuratore, cosa poteva esserci che non sapeva?!
Se non fosse stato per l’intervento, inaspettato e risolutorio di Beker, Danny non riusciva a immaginare come sarebbe potuta andata a finire.
“Andiamo Julian! Mister! Se Warner dice che Mark è stanco e non si sente bene non sarà la fine del mondo no?! Cosa sarà una mattina di allenamenti saltati, per uno come lui?”
“Ma Warner ha detto che sta male! E anche io, a dire la verità, ieri sera l’ho visto stanco. Forse dovresti mandargli un medico.”
Ross aveva chinato appena il capo, sbuffando.
Benji si era allontanato, seccato, dal gruppo per ritornare sul campo: anche se era meglio che non si sforzasse, anche se a lui non era richiesto chissà che allenamento, non sarebbe rimasto lì immobile un solo istante di più. Avrebbe voluto uccidere qualcuno.
Quando sollevò gli occhi, incrociò quelli di Warner: ecco, avrebbe voluto uccidere *lui*, lurido, piccolo portierucolo inutile e fastidioso che continuava a stargli fra i piedi e che non sopportava e che *odiava* e detestava con tutte le sue forze, lui e quelle sue pose da grande campione messo in disparte per colpa di chissà che complotto!
Antipatico, stupido, inutile Warner!
Amico di Lenders. Compagno di squadra di Lenders. Compagno di *stanza* di Lenders! Sempre attorno a Lenders come ..una mosca intorno al miele! Adesso si metteva pure a parlare *al posto di* Lenders!
Se Mark stava male, e figurarsi se Mark stava *davvero* male!, sarebbe dovuto venire giù con le sue gambe e dirlo a Ross, non inviare il suo ambasciatore personale mentre lui si riposava rotolandosi nel suo lettuccio caldo, beato e ronfante come un gattone che facesse le fusa! Stupido Lenders! Chi avrebbe mai creduto che lui *stava male*?!
Mark non stava *mai* male. Mark era uno di quelli che, sul campo, potevano cercare di buttarlo giù nel modo più sporco possibile, pure se avessero messo dei cecchini in tribuna non lo avrebbero fatto stare a terra per più di due secondi! Lui lo conosceva, Mark!
Era con *lui* che doveva stare, non con Warner! O con chiunque altro stesse Lenders ora!
Chi era quello là? Il nome non lo ricordava, ma il resto.. un fotoreporter!!! Lenders con uno stupido fotoreporter! Uno così coglione che per *lavoro* andava a ficcarsi in zone di guerra e rischiava di morire ammazzato ogni respiro, o di saltare su di una mina o di venire rapito e torturato e fatto a pezzi.. ah! Solo ed esclusivamente quel coglione di Lenders poteva mollare lui, Benjamin Price, per mettersi con un signor nessuno di professione fotoreporter!
Cosa poteva mai avere un fotoreporter che lui non aveva?!
Benji si calcò pesantemente il cappello sulla fronte: una sola cosa. Quel fotoreporter del cazzo *aveva* Mark Lenders. Era fortunato che, sicuramente, ora, era chissà dove a cercare di farsi ammazzare per i fatti suoi, oppure ci avrebbe pensato lui! Con le sue stesse mani!
Digrignò i denti, ignorando lo sguardo preoccupato di Tom.
Se non c’era nulla da fronteggiare Benji, come Mark, si sentiva perso. Ma trovando la possibilità di focalizzare la sua attenzione su di un bersaglio.. socchiuse appena gli occhi.
Aveva bisogno di fare un paio di telefonate. ___
“Ed!”
“Dannazione, Daniel! Piantala di rompere! Domani arriva Hutton, lo sai o no?! Bhè, avrà voluto tenere da parte tutte le sue energie per dargli un caloroso benvenuto!”
“Non essere stupido!”
“E tu non fare domande che non possono avere risposta! Non so cosa abbia Mark, dannazione, non lo so! Devi chiederlo a lui, ma *non* adesso! Lascialo in pace, almeno fino a domani: ti assicuro che so riconoscere quando qualcuno ha bisogno di dormire, anche se non sono un medico.”
“Ma ieri notte.. quando me ne sono andato, non sembrava strano! Non aveva niente!”
Warner si fermò lungo il corridoio per lo spogliatoio con uno sguardo estremamente esasperato. Si passò nervosamente una mano fra i capelli dopo aver lasciato cadere a terra, di malagrazia, i suoi guanti.
“Sei un idiota, Daniel! Lo vuoi lasciare un po’ in pace? Non c’è niente che io o tu possiamo fare. C’è un medico sportivo che lo sta visitando, no? Lui ne sa molto più di tutti noi messi insieme.”
“Mark non aveva *niente*!”
Di fronte all’ennesima, vibrata e sincera protesta di Danny, Ed non seppe che rispondere. Forse non c’era niente da dire: quel ragazzino lo conosceva da una vita ed aveva una tenacia e una testardaggine difficile da fronteggiare, quando si incaponiva davvero su qualcosa. Anche se di solito si mostrava arrendevole e gentile, non significava che Danny non avesse un carattere degno del miglior campione che Ed avesse mai incontrato. Ma in quel momento gli stava dando fastidio, con tutte quelle domande assurde, e con quella sua cazzo di preoccupazione che non serviva a nulla se non a far diventare tutti quanti ancor più nervosi.
Solo Mark riusciva a calmare Danny, quando era così.
Ma ora Mark non c’era.
Mark: c’era un medico che lo stava visitando.
Che cosa idiota.
Il corpo di Mark stava benissimo. Ed ne era certo. Più che certo. Questo, però non voleva dire che in lui non ci fosse qualcosa che non andava, anzi, era qualcosa di così palese e svelato che sembrava.. troppo facile.
Da quando Mark era così.. senza difese? Senza maschere? Da quando si faceva vedere così vulnerabile?
Poteva essere una nuova tecnica imparata da chissà chi. Oppure, e la cosa era spaventosa anche solo a pensarla di sfuggita, stava per crollare. Come le dighe: esiste un limite massimo di riempimento oltre il quale non sono più sicure. Mark era come una diga obbligata a reggere un carico eccessivo di acqua?
Era questo?
E se fosse stato così, cosa avrebbero potuto fare per..
Passi di corsa, all’imboccatura del corridoio. Tom arrivava dal campo, un qualcosa che somigliava a un sorriso sul viso. Rallentò nel vederli e si avvicinò, gentile.
“Ultime notizie: il medico dice che Mark starà benissimo, e può ritornare a giocare entro, al massimo, un paio di giorni!”
“Ma cos’ha?!”
“Niente di grave, forse non ha ammortizzato bene il jet lag o qualcosa del genere. Ha solo bisogno di un po’ di riposo. – batté conciliante una mano sulla spalla di Danny – E Ross mi ha chiesto di te. Ha bisogno di parlarti per non mi ricordo che sponsor, potresti andarci il prima possibile?”
Il ragazzo obbedì con un saluto leggero rivolto ad entrambi.
Solo quando Danny fu abbastanza lontano, Ed parve riprendersi da una sorta di strano torpore. Fissò i suoi guanti, che Tom gli stava porgendo, e sbuffò.
“Balle.”
“Lo sai anche tu.”
La risposta lo prese alla sprovvista, ma non lo stupì. Gli occhi di Tom erano aperti e luminosi, ma penetranti. Non era mai stato uno stupido.
“Già. Vorrei capire, però. E non riesco.”
“Se non te ne da la possibilità è difficile, Edward. – Tom piegò appena il capo, abbassando al voce – Ti ricordi? Ho giocato un anno nella vostra squadra. E’ passato tanto tempo ma credo di conoscere un po’ Mark. Poco, è vero, però.. non è semplice capirlo. O guardargli dentro. Ma l’ho visto stanco, al suo arrivo al ritiro. Più che stanco.. – un piccolo respiro, la mano a toccarsi un punto indefinibile, più o meno al centro del petto – spossato.. dentro intendo. Mi dispiace molto vedere uno come lui in questo stato. E tu e Daniel, che gli siete sempre stati così amici, non vi ha detto niente?”
Sembrava davvero preoccupato.
“No.”
Un sospiro.
“Se hai bisogno di qualcosa, Edward, ricordati che puoi sempre contare su di me. E anche.. anche Mark.
Annuì, in silenzio e lo lasciò passare, diretto agli spogliatoi. Ed chiuse gli occhi, quasi aspettando che una risposta, come una illuminazione lo folgorasse lì, sul posto. Non venne nulla, ovviamente.
Di male in peggio: incrociò Price che gli scoccò uno sguardo terribile. Come risposta, Ed finse un’indifferenza glaciale. Non poteva preoccuparsi anche di quel .. cretino, ora. Mai che si rompesse la testa, oltre che altri parti anatomiche utili per la squadra.. ___
Nel clima improvvisamente cupo e opprimente del ritiro, l’arrivo del Capitano della Nazionale parve a tutti un segno di benevolenza divina.
Oliver Hutton, il miglior giocatore che mai il Giappone ricordasse era sempre il solito, sorridente, disponibile ragazzino che Danny aveva imparato a conoscere. Era così nervoso, al suo arrivo, che quasi gli si sarebbe buttato fra le sue braccia, in lacrime, sapendo bene che Holly l’avrebbe ascoltato e l’avrebbe consolato, non dicendogli proprio niente di utile, ma facendolo in una maniera così cordiale, che gli avrebbe di sicuro sollevato il cuore.
Ovviamente Danny aveva troppo amor proprio per fare una cosa simile, per non pensare poi alla reazione che avrebbe avuto Mark a sapere che lui aveva *rivolto la parola* ad Holly per una scemenza simile!
Però, alla fine, Holly era Holly. Lui e il suo pallone. Lui e il suo sorriso sempiterno. Lui e le sue stampelle, o qualche fasciatura qui e là che pareva che se durante ogni partita non rischiasse seriamente la vita non fosse a suo agio. Sprizzò di gioia a vederli tutti lì, ad aspettarlo, come se potessero essere da qualche altra parte, visto che lui era il loro capitano.
Pianse quasi dalla gioia a rincontrare i suoi vecchi compagni. Quasi saltò al collo di Benji. Da Tom faticarono a staccarlo. Pretese il resoconto dettagliato della salute di Ross in cinque secondi netti. Si mostrò palesemente felice di vedere Warner e piacevolmente stupito del sapere della ‘nuova professione’ di Danny.
Poi c’erano da salutare tutti gli altri, dai giocatori, ai massaggiatori, e lui li conosceva *tutti*, uno per uno. E quelli che non conosceva se li faceva presentare. E nel frattempo raccontava del Brasile, di come era stato accolto, di cosa aveva imparato, di come fosse entusiasta, e tutto così meraviglioso, e poi Rio! Il carnevale! Le spiagge! E in Giappone non si facevano feste così! E lui non aveva mai visto uno stadio così pieno e colorato e rumoroso! E tutti che ballavano! E c’era sempre il sole! E faceva sempre caldo! Ed era bellissimo! E giocavano *tutti* a calcio! Ed erano tutti *bravissimi*! E..
Ad un tratto tacque. Si guardò intorno, più preoccupato che stupito.
“Ma dov’è Lenders?”
Silenzio.
Un silenzio di ghiaccio. Tom fece per schiarirsi al voce e spiegare del piccolo incidente senza nessunissima importanza quando fu Benji a precederlo.
Sembrava furioso.
“Ma perché cazzo si deve sempre parlare di quello stronzo di Lenders?!”
Se ne andò dalla sala sbattendo la porta.
Holly si guardò intorno, corrucciato.
“Cosa ho detto? – poi sorrise, stringendosi nelle spalle – Sono davvero tornato a casa. Quei due non si sono mai sopportati.” |